Op. Cit. 171

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ISSN 0030-3305

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maggio 2021

numero 171

Dall’industrial design all’interaction e social design - Il pensiero come corpo. Per una concezione empatica dell’architettura - Soft skills e consapevolezza identitaria. A che cosa serve l’arte? - Teoria e pratica del dissenso in Giovanni Klaus Koenig - Arte Ricerca Scienza: per una visione palindroma della conoscenza - Sezione visibile e réalisation. La materia delle cose (e il loro linguaggio) - Ambientalismo e Design - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

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Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Comitato scientifico Comitato redazionale Domenico De Masi Roberta Amirante Kenneth Frampton Pasquale Belfiore Juan Miguel Hernández León Alessandro Castagnaro Vanni Pasca Imma Forino Franco Purini Francesca Rinaldi Joseph Rykwert Livio Sacchi Vincenzo Trione Alberto Terminio Segretaria di redazione Emma Labruna Website e digitalizzazione Ermes Multimedia digital design per la cultura Concept: Renato Piccirillo Sviluppo: Riccardo Marotta, Valeria Pazzanese Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - fax: +39 081 7705654 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia e 50,00 - Estero e 70,00 Un fascicolo separato: Italia e 18,00 - Estero e 25,00 Un fascicolo arretrato: Italia e 20,00 - Estero e 27,00 Grafica Elettronica

All’indirizzo www.opcit.it è disponibile l’intera collezione della rivista dal numero 1 del settembre 1964 ad oggi


R. Masiero

Dall’industrial design all’interaction e social design 5 P. Gregory Il pensiero come corpo. Per una concezione empatica dell’architettura 25 O. Scotto Di Vettimo Soft skills e consapevolezza identitaria. A che cosa serve l’arte? 39 I. Patti Teoria e pratica del dissenso in Giovanni Klaus Koenig 49 G. Gaeta Arte Ricerca Scienza: per una visione palindroma della conoscenza 65 F. Belloni Sezione visibile e réalisation. La materia delle cose (e il loro linguaggio) 76 M. Manfra Ambientalismo e Design 87 Libri, riviste e mostre 96

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Greta Allegretti, Carola D’Ambros, Cesare de Seta, Francesca Rinaldi.



Dall’industrial design all’interaction e social design ROBERTO MASIERO

«Istituiremo una nuova Bauhaus europea, uno spazio di cocreazione in cui architetti, artisti, studenti, ingegneri e designer potranno lavorare insieme». Così la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen a margine del suo discorso inaugurale sullo stato dell’Unione al Parlamento Europeo. Progetto da sostenere con passione. Ma proprio in nome di questa passione credo vadano fatte una serie di considerazioni per evitare che, alla fine, ci sia una riproposizione di una realtà nobilissima, nata come si sa nel 1919 e dissolta nel 1933 con l’avvento del potere Nazista, senza considerare quali e perché i suoi sogni si sono realizzati solo in parte e come noi, provando a realizzare quei sogni, potremmo risolvere le nostre contraddizioni un secolo dopo. Si tratta di capire l’eredità del Bauhaus, ma anche i nuovi contesti, i nostri, nei quali si può collocare questa eredità. Ciò che allora venne affrontato, in particolare da Gropius, fu il come superare dapprima la contraddizione tra artigianato – con il suo primato del valore d’uso – e industria, fondata sul valore di scambio. Di fatto, si tratta di una contraddizione che mette in scena il necessario che regola il valore d’uso (io faccio una cosa perché mi serve e la scambio per qualcosa che mi serve) e il superfluo che anima il valore di scambio (io faccio una cosa per scambiarla per denaro, così potrò possedere qualcosa, utile o meno), il lavoro libero e il lavoro alienato, l’etica e l’estetica. L’immagine che sembrò allora indicare in metafora il superamento della contrad-

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dizione è l’industria come cattedrale del nuovo tempo. Così come la cattedrale, nel mondo tardo medioevale, era il centro degli stessi processi di valorizzazione e della loro sedimentazione nel sociale – era cioè un prodotto della comunità – così si può supporre possa accadere anche per l’industria, facendo in modo che essa sia alimentata da un lavoro libero e non alienato e quindi da un lavoro artistico. Significativo è il fatto che nella denominazione della scuola sia implicito il riferimento all’uso del termine Bau tipico delle gilde medioevali delle comunità e municipalità che costruirono le cattedrali e che, in modo quasi esplicito, la xilografia di Lyonel Feininger, elaborata per il Programma del Bauhaus nel 1919, si intitoli Cattedrale del futuro e proponga, appunto, l’immagine di una cattedrale in forme gotiche. Dopo la guerra, nella fase in cui il piano di aiuti degli Stati Uniti d’America fa ripartire, anche se in parte, l’industria tedesca in modalità fordista, il problema di fondo diventa accettare, con il primato del valore di scambio, anche la necessaria riunificazione tra le arti creative e l’industria, e affrontare il conflitto tra capitale e lavoro cercando di far in modo che il lavoro non sia solo attività meccanica, logica riproduttiva, mera fase esecutiva, ma valore aggiunto, produttore in sé di qualità estetica. Si tratta comunque di ritrovare il legame, negato dalla standardizzazione, tra lavoro e creatività. In questo, la tecnica diventa non più un mezzo per un fine, ma essa stessa fine, base implicita e fondamentale della stessa estetica industriale. Si abbandona l’illusione di poter riaffermare il primato etico ed estetico del prodotto artigianale. Così il prodotto del processo industriale deve rendere esplicita la potenza della tecnica in una sorta di metatemporalità, come se nelle sue forme si potesse disperdere il legame tra stile e decorazione. Quel legame che aveva caratterizzato sino a qui l’intera storia delle arti. Meglio, si tratta di riunificare tutte le arti in seno all’industria, in una diffusa opera d’arte totale, diffusa come il mercato che stimola, accoglie e regola i valori del lavoro diventato merce. Il ten­tativo, ripeto nobile, di riunificare arti creative e industria è di fatto il tentativo di risolvere una delle più radicali contraddizioni della Contemporaneità o, se vogliamo, del modo di produzione industriale, quello tra arte e scienza, le due sorelle


che nel Contemporaneo vivono come nemiche. A sua volta questa contraddizione fa sì che la tecnica possa apparire come altro dai fini della produzione in generale e diventare essa stessa un fine, ragione autonomamente estetica. Questa autonomia della tecnica esalta e di contro impaurisce, ed è così che la tecnica assume soggettività e può essere pensata come ciò che può salvare, e persino redimere, o, nel contempo, come ciò che può dannarci. Si creeranno allora due opzioni e un formidabile dibattito tra chi era pro e chi contro la tecnica. Dibattito che alimenterà in vario modo anche la riflessione, allora cruciale, sulla presunta crisi del­ l’Occidente, che avrà come fattore scatenante il libro di Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente del 1918. Queste contraddizioni tra arte e scienza, tra arte e tecnica e arte e lavoro sono tutte interne alla breve vita del Bauhaus ed esemplificate dal conflitto tra l’insegnamento, ad esempio, di Itten e quello di MoholyNagy, l’uno con accenti mistici ed evocativi, per alcuni aspetti post-romantici, l’altro rivolto ad interrogare i fenomeni estetici affidandosi all’empiria ed evocando la scienza, indubbiamente modernista. Contraddizioni che ritroveremo lungo tutte le esperienze culturali che da allora ad oggi fanno riferimento all’eredità Bau­haus. Contraddizioni, si badi bene, che sono l’aspetto vitale del Bau­ haus, ciò per cui la sua eredità arriva sino a noi. La tecnica nel Bauhaus prova a riscattarsi dall’essere mero servizio per assumere appunto valenza estetica, valore aggiunto. La tecnica prova un proprio linguaggio, si esprime e si racconta. Con la tecnica, i materiali, le logiche costruttive, i supporti tradizionalmente nascosti sono ora ostentati. Nei prodotti Bauhaus si esaltano le giunture, i fissaggi, gli ancoraggi, ciò che serve tecnicamente; ciò che è fluido si mostra come il risultato di sforzi tecnologici di macchine possenti, potremmo scrivere di divinità macchiniste. I metalli, ad esempio, si presentano con la loro autonoma capacità espressiva: possono essere levigati, ruvidi, sabbiati, saranno sempre ciò che sono – metalli. Il dettato è la verità dei materiali, e l’ostensione del modo in cui la costruzione diviene. Ecco che nell’architettura, il cemento sarà lasciato non solo nella sua consistenza, esito della procedura costruttiva, ma nell’esporlo, saranno lasciate in evidenza, in scena, le sovrapposizioni tra le varie

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fasi di lavorazione, i giunti, le bocchette che hanno permesso la predisposizione dei casseri, e così di seguito. Ciò che andava composto (risolto) in quegli anni è indubbiamente, e non solo da parte del Bauhaus, il conflitto tra società e modo di produzione industriale, visto che questo era diventato totalmente dominante, senza però risolvere i conflitti sociali, anzi, e con una potenza che troverà una forma esplosiva nella prima guerra mondiale. Il tentativo del Bauhaus di ricomposizione sul fronte dell’indotto politico e culturale è stato nel contempo ingenuo ed eroico. Ingenuo perché si sperava che si potesse pervenire a una soluzione nella sintesi tra etica ed estetica. Un’integrazione impossibile visto che l’estetica nasce nella Contemporaneità proprio per rimettere in discussione continuamente i propri stessi statuti, mentre l’etica ha costituzionalmente bisogno di stabilità. Per esemplificare: l’etica non può mai essere una moda mentre l’estetica è quello che è solo se si accettano le dinamiche che definiamo con il termine moda. Tentativo ingenuo anche perché si sognava che il conflitto fra capitale e lavoro si risolvesse nel far sì che il lavoro potesse legittimarsi come capacità intellettuale e creatività, forse immaginando di poter dare in qualche modo una soluzione etica al profitto. Ingenuo perché ci si illudeva che la forma Stato, con le sue politiche, potesse essere immune dal potere economico o “terzo” rispetto alle diverse soggettività del conflitto. Vincerà, come ben sappiamo, la fusione tra politica ed economia. Il lavoro si caratterizzerà come servizio alla patria e l’innovazione si imporrà non sugli esiti sociali del sistema produttivo, ma solo sulla sua efficacia tecnologica. Anche questo fu il Nazismo, e così fu sconfitto il progetto Bauhaus: non si fa politica senza la politica. Ma c’è il lato eroico. Il primo è quello di aver fatto resistenza, il secondo è che, se pur sconfitto dal Moloch del totalitarismo e dello stato etico, il Bauhaus seminerà di sé e delle sue stesse contraddizioni l’intera cultura occidentale – e non solo – sino alla dichiarazione della presidente Ursula van der Leyen, cento anni dopo: quando si semina, qualcosa sempre si raccoglie, anche se i pozzi possono essere avvelenati. Segnalo alcune questioni che forse ci possono permettere di capire meglio l’eredità che il


Bauhaus ci ha lasciato (la sua semina) ma anche la specificità/ diversità del nostro attuale contesto economico, sociale e politico. Una delle parole chiave del Bauhaus, per cercare le difficili sintesi tra i conflitti segnalati, è la parola progetto, cioè design. Se, come è evidente, è con il Bauhaus che nasce l’industrial design (raccogliendo idealmente e materialmente l’eredità del Deut­sche Werkbund e delle Wiener Werkstätte), e se il termine design vale come progettare, l’idea che anima la scuola (ammesso che possa essere chiamata scuola) è che mentre si progettano i prodotti per l’industria, si intende progettare non solo la stessa industria ma anche il suo potenziale sociale. Da questo punto di vista, l’operatore Bauhaus pensa sé stesso non tanto in qualità di artista o architetto, ma come intellettuale che usa la sua competenza, il suo lavoro, in un orizzonte sociale, includendo nelle sue visioni anche una componente sociologica. Il progetto peraltro è inevitabilmente proiettato al futuro, un futuro non come utopia, ma come costante esperimento, come parte della stessa fattualità, cioè della relazione tra la tecnica, i materiali e i bisogni, da ciò che è minimo a ciò che è massimo, come nell’adagio dal cuc­ chiaio alla città. È come se il Bauhaus cercasse una interazione forte tra teoria e prassi. In questo senso anticipa una delle condizioni che stanno alla base di ciò che chiamiamo il digitale. Si consideri la notevole differenza tra il progettare nel modo di produzione artigianale e nel modo di produzione industriale. Il primo è direttamente legato al bisogno e alla necessità con le relative urgenze e si esprime nella immediata capacità di rendersi visibile. Domina il tempo dell’empatia e della simbiosi. Il secondo è di contro costretto a prefigurare un utente altro, a mettere in gioco il futuro non solo di un singolo soggetto, ma di un insieme sempre più allargato di soggetti, il mercato. Per il modo di produzione artigianale, il progetto è implicito nel rapporto fra uomo e mondo, ma è secondario rispetto al possibile, e l’opera tende a fermarsi nel tempo, a risolverlo; nel modo di produzione industriale il progetto è invece cruciale, cioè fonte e motivo di ogni decisione e procedura, ad includere ogni futuro possibile. Un futuro che non appare più come un possibile ma come qualcosa di determinato, meglio di iperdeterminato.

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L’altra parola chiave è industria accettata come modo d’essere caratterizzato da una rottura rispetto al passato e alla tradizione; da una accettazione della frammentazione delle idee tradizionali di luogo e tempo (come peraltro stava proponendo la fisica da Einstein a Heisenberg, e al primo emergere della quantistica); da una idea di storia che non ha più un inizio e una fine – potremmo dire da una storia circolare nel contempo mitica e che ritorna costantemente su se stessa; da un linguaggio non solo come comunicazione e stile, ma come produttore di senso e di mondi possibili quanto reali (si scriveva allora iperreali oggi virtuali). Tutto appare così come se il mondo fosse composto di enti tra loro separati che vanno ricomposti in ragione di volontà umana, per non dire sovrumana: l’universo macchina. Enti separati, autonomi, parti in serie di una catena di montaggio destinati sì a ricomporsi, ad essere assemblati ma in un orizzonte di senso che rinvia ogni volta la possibilità di una qualche unità definitiva escatologica. Si scriveva allora da parte di qualcuno: la perdita del centro. La società nel suo insieme ha perso il suo centro. Ecco: il Bauhaus sognava di ritrovare questo centro. E così, il modernismo sta dovunque nel Novecento senza mai diventare un vero e proprio stile, senza mai poter rappresentare un determinato tempo e un determinato luogo, uno stile, insicuro di sé, ma (forse proprio per questo) insieme diffusivo, onnivoro, potente. Industria come sviluppo e innovazione continua, per alcuni versi come emancipazione e redenzione in atto: da una parte liberatoria e dall’altra angosciosamente alla ricerca di un quid, di una ragione possibilmente definitiva. Questo è in sostanza quel modernismo che percorre allora in lungo e in largo la cultura occidentale e le sue diramazioni, assumendo sempre nuovi volti, impossibilitato a presentarsi come stile ma vissuto come un modo d’essere. Quel modernismo che ha in sé una ragione etica espressa con grande chiarezza da Paul Rand, figura fondamentale della grafica americana e non solo, il quale durante una conferenza nel 1996, poco più di un mese prima della sua morte, presso il museo Cooper Union in occasione di una retrospettiva a lui dedicata, disse: «Significa integrità; significa onestà; significa assenza di sentimentalismo e assenza di nostalgia; significa semplicità; significa chiarezza. Ecco cosa significa per me il modernismo».


In qualche modo questa è una delle eredità Bauhaus, anche se non l’unica. Sin dall’inizio il Bauhaus aveva attirato molta curiosità nello scenario internazionale, in particolare da parte degli ambienti artistici americani. Ad esempio, il giovane Alfred Hamilton Barr Jr. visiterà la scuola per un breve periodo. Rientrato a New York, diventerà nel 1929, giovanissimo, ventisette anni, il primo direttore del MoMA. L’esperienza Bauhaus, anche se non solo quella, lo portò a promuovere una serie di importanti mostre: Modern Architecture. International Exhibition, curata da Philip Johnson, nel 1932; Machine Art, nel 1934, che testimonia un’apertura al nuovo mondo del design; Cubism and Abstract Art, nel 1936. Nel 1938, infine, la mostra dal titolo Bauhaus 1919/1928 che farà conoscere la scuola di Weimar e Dessau al grande pubblico americano. Ma Alfred Hamilton Barr Jr. non intervenne solo proponendo con le mostre nuovi temi di riflessione sull’arte: non strutturò i dipartimenti del MoMa, quindi l’assetto organizzativo, solo sulla pittura, sulla scultura, sulle stampe e sui disegni, secondo la tradizione dei musei ottocenteschi, ma volle dei dipartimenti di arte commerciale, di arte industriale, di design, di cinema e di fotografia. C’è in questo una significativa sintonia con il Bauhaus nel modo di concepire il mondo delle arti. In Russia nasce nel 1920 una scuola di grafica e design, sino al 1927 chiamata Vchutemas e poi Vchuthin sino al 1930 quando viene chiusa. Scuola che fa direttamente riferimento al Bauhaus anche se molto più articolata e con un iter molto più lungo. Gli insegnanti che vi lavorarono furono tutti artisti provenienti dalle fila dei movimenti russi del Costruttivismo o del Cubofuturismo. Tra questi ricordiamo Ladovsky, che cercava di porre alla base della propedeutica alla progettazione dei dati scientifici. Per questo organizzò un laboratorio delle percezioni. Fu il primo in assoluto a inserire un corso di percezione visiva, con esperimenti fatti dal punto di vista scientifico, per indirizzare la progettazione del design. Insegnerà in questa scuola anche El Lissitskj, architetto e grafico che usa in maniera innovativa la fotografia, Rod­ chenko, grafico e progettista di mobili e lo stesso Kandinski, presente come docente anche nel Bauhaus. In Giappone, a Tokyo, nel 1931, Renshichiro Kawakita (amico dei primi tre studenti giapponesi del Bauhaus) fondò il Rese-

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arch Institute for Life Design, per tentare l’ibridazione tra l’approccio di Weimar e l’estetica nipponica, Il messaggio Bauhaus si dimostra così universale. In India il poeta Rabindranath Tagore inaugurerà la scuola d’arte Kala Bhavan vicino a Calcutta, cercando la sintesi tra avanguardie europee, tradizioni orientali e Arts & Crafts. Le analogie erano tali che nel 1922 a Calcutta si tenne la prima mostra della scuola tedesca fuori dalla Germania, incipit della sua mitografia globale. Questa diffusione del messaggio Bauhaus ne conferma il sostanziale cosmopolitismo e un posizionamento comunque chiaro dal punto di vista politico anche se non immediatamente partitico. Negli anni Venti in Germania, e più diffusamente nel centro Europa, era ancora drammaticamente vivo il conflitto nato subito dopo la Rivoluzione francese tra cultura e civilizzazione. La prima ancorata all’idea dell’appartenenza e ad un legame sociale tra il sangue e la terra e quindi portata alla difesa della comunità e, nella sua formulazione più perversa, della razza, atteggiamento che diventerà vincente con il nazismo; la seconda, quella della civilizzazione, di matrice illuminista, che invece propone il primato della società rispetto alla comunità, interpretata come residuo tribale, in una visione cosmopolita ancorata ai diritti universali dell’uomo. Pur nelle contraddizioni che ho cercato di segnalare, il Bauhaus ha indubbiamente privilegiato questo secondo aspetto. La conferma viene dalla sua chiusura voluta dal Nazismo, notoriamente imbevuto di ideologia “sangue e terra”, e, di contro, dalla internazionalizzazione del suo messaggio. La sua ideologia era indubbiamente cosmopolita. Potremmo anche affermare che la sua stessa natura era glocale, cioè contemporaneamente locale e globale, anticipando così uno dei temi di riflessione del nostro tempo. Questo è un altro degli elementi che rende ancora attuale il Bauhaus. Significativo è quello che accade nel secondo dopoguerra del­­l’eredità Bauhaus, con l’intreccio fra internazionalismo del Bauhaus e le tradizioni locali, le culture premoderne ed extraeuropee. Ad esempio Anni e Josef Albers dal loro esilio americano fecero ben 14 viaggi in Messico proprio per capire le relazioni possibili tra l’arte precolombiana e l’astrattismo. La prospettiva non eurocentrica dona un valore sociopolitico più profondo alla


congiunzione tra questi linguaggi e le tendenze moderne. Lo dimostra il lavoro messicano di Hannes Meyer (secondo direttore del Bauhaus) e Lena Bergner, che contribuirono a movimenti attenti alla lotta di classe e agli indigeni. In Marocco, nel 1962 Farid Belkahia prese invece le redini dell’École des Beaux Arts di Casablanca e sostituì l’ideologia coloniale con la freschezza delle tradizioni del Maghreb e il rifiuto (parallelo nel Bauhaus) della gerarchia tra arte alta e arte applicata. Quale il legame tra l’astrazione e le arti folk, locali, primitive? Non era questione di poco conto allora e non lo è anche oggi, visto che solo pochi anni fa la società Benetton ha molto investito in una iniziativa chiamata Fabrica proprio per innestare linguaggi locali, folk, nel circuito della grande moda planetaria. Fuggiti dalla imperante totalizzazione nazista, i componenti del Bauhaus si sono sparsi ovunque dopo il 1932, e così è germinata la disseminazione, ovviamente non senza risolvere le contraddizioni che l’avevano caratterizzata, anzi! Hannes Mayer, direttore del Bauhaus dal 1928 al 1930, nel 1930, tre anni prima che i nazisti andassero al potere, emigrò in Unione Sovietica insieme a molti suoi ex studenti, per insegnare presso l’Istituto superiore per l’architettura e l’ingegneria civile (VASI) di Mosca. Durante i suoi anni in Unione Sovietica, opera in qualità di consulente per i progetti urbani presso il Giprogor (l’Istituto sovietico per lo sviluppo urbano e gli investimenti) e per progetti di riqualificazione di Mosca previsti dal primo piano quinquennale. Nel 1936 rientra in Svizzera a Basilea per poi emigrare di nuovo a Città del Messico, lavorando per il governo messicano come direttore dell’istituto di Urbanistica fino al 1941. Nel 1942 diventa direttore di Estampa Mexicana, la casa editrice del Laboratorio di arti grafiche popolari. C’è tutto lo spirito Bau­ haus: dal cucchiaio alla città; in questo caso dalla città al libro. In Inghilterra, in particolare, con la mostra a Londra sull’arte costruttiva nel 1937 voluta dal gruppo Circle nel quale operavano figure come Naum Gabo, Ben Nicholson e l’architetto Leslie Martin, si registra, nelle opere presentate e nei modi espositivi, una sensibilità Bauhaus confermata dalla presenza nel catalogo di scritti di Gropius e di Moholy Nagy. La presenza a Londra di Gropius, Moholy-Nagy e Breuer dal 1933 al 1937 ha profonda-

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mente segnato l’arte e l’architettura inglese come conferma la mostra del 2019 al RIBA di Londra, Beyond Bauhaus in Britain 1933-66. Questa presenza ha aiutato il radicamento delle estetiche moderniste in Inghilterra e ha liberato molta innovazione estetica. Estetiche moderniste che, peraltro erano state anticipate proprio in Inghilterra sul fronte letterario da due modalità segnalate, il ritorno al passato, e l’apertura al futuro, la ricerca delle radici e il confronto con la tradizione, come in Elliot, o in Pound, che riprendono in vario modo, per esemplificare, Dante o la poesia cinese, e con lo stesso Joyce, che non a caso rielabora, con Ulysses, il poema omerico, o su un versante più di rottura radicale nel teatro dell’assurdo di Beckett. In architettura, significativa è la Penguin pool di Lubetkin del 1934, il Pioneer Health Centre, di Owen Williams del 1935, e gli Isokon Flats, nel nord di Londra di Wells Coates, del 1934. Senza questo innesto, in una cultura peraltro già aperta al modernismo, non avremmo nell’immediato secondo dopoguerra, come vedremo in seguito, la nascita dell’Independent Group e l’emergere della Pop Art e quindi di una cultura non per la massa, ma della massa. Molta parte della docenza del Bauhaus viene poi accolta dal mondo americano. In qualche modo, la strada era stata preparata come segnalato nelle pagine precedenti dall’attività del MoMA. Anni e Josef Albers emigrarono negli Stati Uniti e presero la direzione del Black Mountain College nel North Carolina. Qui, ai giovani studenti venivano offerti corsi di arte, letteratura, musica e teatro. Xanti Schawinsky, un ex membro del teatro Bauhaus, si unì a loro nel 1936 e con lui arrivarono in America il teatro sperimentale e la danza. Le radici di quella che oggi viene chiamata arte performativa si svilupparono lì in un’atmosfera intensa e allo stesso tempo intima. John Cage ha anche insegnato al Black Mountain College e, insieme a Robert Rauschenberg, ha eseguito il pezzo Untitled Event nel 1952. Moholy-Nagy diventa direttore del New Bauhaus a Chicago, nato per volontà di uomini di affari della Association of art and industries, trasformato nel 1939 una scuola di design all’interno di quello che diventerà l’Illinois Institute of Technology. A Chicago si stabilisce anche Mies van der Rohe, che diventa preside


della scuola di architettura dell’allora Chicago’s Armour Institute of Technology, più tardi rinominato, appunto, Illinois Institute of Technology. Per questa prestigiosa istituzione, Mies riprogetta il campus e alcuni edifici come la Crown Hall, la sede dell’istituto, che diventerà un punto di riferimento per tutta l’architettura americana sino all’emergere del Postmodernismo, in parte con Louis Kahn e poi, in modo programmato, con Bob Venturi. L’intreccio che si viene a creare e la dinamica culturale Europa-America è ben raccontata dal seguente esempio. Nel 1957, quattro artisti di Düsseldorf fondarono il gruppo ZERO, i cui carillon di luce, aria e vento facevano esplicitamente riferimento agli oggetti cinetici e agli esperimenti di László Moholy-Nagy. Zero sta per “zona incommensurabile in cui un ex stato passa in uno nuovo e sconosciuto”, come lo ha descritto il co-fondatore Otto Piene. Questo a sua volta ha reso il gruppo stesso un’ispirazione per artisti americani come Dan Flavin o James Turrell, che oggi continua a sperimentare con la luce e i fenomeni naturali. Ecco il rizoma Bauhaus, e le esperienze americane di Moholy-Nagy, che riappaiono qua e là. Nel 1937 Marcel Breuer, che all’interno del Bauhaus aveva progettato e fatto costruire quella che Giulio Carlo Argan definisce “… la prima sintesi operativa e funzionale delle arti, la prima, grande vittoria del ‘disegno industriale’», dopo un periodo passato a Londra si trasferisce ad Harvard nel Massachusetts per insegnare architettura, là dove un anno dopo, nel 1938, Gropius diventerà direttore della scuola di architettura all’interno della Graduate School of Design, ruolo che manterrà sino al 1952, anche lui dopo un periodo di lavoro a Londra in collaborazione con Maxwell Fry. Gropius e Breuer dal 1938 al 1941 gestiranno assieme anche uno studio di architettura. Significativa è la presenza ad Harvard tra il 1938 e il 1939, come docente, di Siegfried Giedion che aveva frequentato nel 1923 il Bauhaus. Qui tenne la serie di lezioni che daranno come risultato uno dei testi fondamentali per l’architettura del Novecento, Spazio tempo e architettura, pubblicato nel 1941. Giedion ritornerà in Europa, al Politecnico Federale di Zurigo, nel 1946 dove rimase fino agli anni ’60, alternando l’insegnamento con i corsi presso il MIT di Boston, probabilmente seminando in questo ambiente germi di mentalità Bau­

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haus che troveranno un terreno fertile nei lavori di John Maeda che fa riferimento a quelli di Paul Rand che a sua volta riflette sulle opere di Moholy-Nagy. Per esemplificare come il rizoma Bauhaus sia arrivato sino ai giorni nostri, si può menzionare un episodio che ha come protagonista un allievo di Gropius, Ieoh Ming Pei, cinese, Premio Pritzker nel 1983, con un dottorato ad Harvard, autore nel 1989 della Piramide del Louvre. Dialogando con Gropius, lo convinse della possibilità di fondere vernacolare e moderno in architettura, senza diventare kitsch. In fondo pur nella diffidenza rispetto al vernacolo da parte del maestro, il percorso del Bauhaus non poteva che cercare una sintesi tra il rigore elitario e la necessità di un dialogo con il soggetto massa e con la sua stessa storia. In fondo l’immagine della piramide è di per sé “nazional popolare” cioè conosciuta e riconoscibile da tutti, ma Pei riesce, usando sapientemente l’immaginario e il rigore tecnologico, ad evitare il kitsch. E in questo il Bauhaus trova la sua ragione più profonda. Ho fatto presente che il progetto Bauhaus viveva all’interno di una contraddizione tra i percorsi verso e dentro quello che in America verrà definito modernismo (quel modernismo, ricordiamolo, che esprimeva, per alcuni aspetti, una vera e propria idolatria della macchina e presupponeva l’assoluta autonomia del­ l’opera d’arte), e la nostalgia di un tempo passato nel quale l’arte informava di sé il mondo e la tecnica, risolvendosi nello spirito della comunità. Due pulsioni con diverse ragioni ideologiche e politiche. Ciò che semina il Bauhaus, disperdendosi dopo l’esilio, non sono certezze o un modello precostituito, ma inevitabilmente le sue stesse contraddizioni e in particolare il conflitto o la volontà di sintesi tra arte e industria, arte e scienza alle volte affrontando anche, o meno, il radicale conflitto politico tra capitale e lavoro. È in questa disseminazione di contraddizioni che noi possiamo ancora oggi considerarci eredi del Bauhaus, cercando di affrontarle sapendo che è cambiato il contesto, dal primato del modo di produzione industriale al primato del modo di produzione digitale, e considerando che queste stesse contraddizioni trovano una articolazione del tutto singolare, e tutta ancora a mio avviso da valutare, in quello che è stato chiamato postmodernismo.


Queste contraddizioni si muovono da allora ad oggi su diversi percorsi che sembrano incistarsi nella dissacrazione/decostruzione che anima di fatto ciò che viene chiamato postmoderno con una paradossale discrasia: c’è bisogno di evocare il moderno per essere postmoderni; non ci si libera della modernità, non ci si libera delle contraddizioni se ciò che le anima è ciò che le produce. Il cane si morde la coda. Ci sono due aspetti che vanno considerati per capire i nuovi territori nei quali si muove la disseminazione del Bauhaus per arrivare sino a noi: l’instaurarsi nell’immediato secondo dopoguerra della massa come definitivo soggetto economico e politico, quella massa che si era resa presente politicamente con l’evento germinale della contemporaneità, cioè l’insieme di rivoluzione industriale e rivoluzione francese (fenomeno che verrà raccontato come società dei consumi, totalizzatore di estetica, appunto, società di massa); e, sul fronte di scienza, tecnologia e assetto del sistema produttivo, il diffondersi di una computazione elettronica oltre a quella meccanica, il diffondersi della fisica quantistica, della genetica (con relative biotecnologie) e l’imporsi della teoria dell’informazione e conseguentemente della cibernetica che alimenterà quel flusso epistemologico, tecnologico e industriale che imporrà l’attuale dominio del digitale. Torniamo così alla inseminazione che non va letta, ribadiamolo, come una qualche derivazione estetica. Non si tratta di individuare il diffondersi di uno stile, o di una qualche modalità estetica e nemmeno etica. Ma il diffondersi ovunque della domanda: come risolviamo le contraddizioni del nostro tempo, caso per caso, luogo per luogo? Che società per l’industria? O che società per il postindustriale? E ancora, che società per il digitale e quali contraddizioni emergono ora? E come l’eredità Bauhaus ci può essere utile? Cerchiamo di tracciare velocemente la scena dal secondo dopoguerra ad oggi, partendo dalla consapevolezza che i cambiamenti sono stati radicali: dopo la bomba di Hiroshima e Nagasaki il dominio planetario americano risulta incontrastato; la guerra fredda mantiene semplicemente un equilibrio ma non intacca questo potere se non in piccola parte. Per alcuni aspetti la seconda guerra mondiale continua con un diffondersi incontrollato, o

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controllato sempre con grande fatica, dagli USA e sino ad un certo momento dall’Unione Sovietica. L’Europa si è trovata di fatto marginalizzata al centro della guerra fredda sino al 1989, con la caduta del muro di Berlino che ha segnato una ricomposizione (non ancora oggi risolta) dell’assetto del continente, Russia compresa. Nel frattempo emergevano, con la forza dei numeri e di una loro riorganizzazione politica, la Cina e alcuni paesi chiamati allora emergenti come l’India e il Brasile, anche se poi emarginati dal conflitto (in modalità commerciale) sempre più aspro tra Usa e Cina. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, si verifica il superamento del modo di produzione industriale con il predominio del modo di produzione digitale. Avviene con la diffusione del personal computer dagli anni Sessanta, di internet dagli anni Novanta, dell’Internet of Things e dell’intelligenza artificiale oggi. Non è che il modo di produzione industriale smetta di produrre merci, solo che il suo modo di produzione di valore/valori diventa sempre più controllato dal digitale (produzione asservita, robotizzazione e diffusione di tecnologie cibernetiche con l’utilizzo sempre più diffuso dell’intelligenza artificiale) e similmente il processo di valorizzazione delle merci è sempre meno determinato dalle materie prime, dal capitale fisso, dalle ore di lavoro necessarie, e sempre di più da valori virtuali o immateriali che dir si voglia. E questo cambia anche le dinamiche del mercato. Oggi il dominio del sistema pianeta è sempre più determinato dalla capacità di controllare l’appropriazione e la manipolazione di dati e quindi dalla capacità di calcolo algoritmico. Il digitale è, a dir poco, compiuto soprattutto se si tiene di conto delle attuali performance, non più solo sperimentazioni, sul fronte della elaborazione con computer quantici. Questo l’attuale contesto. Ma ritorniamo alla fase successiva alla seconda guerra mondiale e alle modalità di diffusione dell’eredità del Bauhaus. I legami segnalati nelle pagine precedenti – e inevitabili – tra il mondo inglese e quello americano, per cui risulta persino inutile chiederci se la Pop Art è nata in Inghilterra con l’Independent Group, con Paolozzi e Hamilton, o nella New York, per esemplificare, di Warhol o nel Black Mountain College, di netta derivazione Bauhaus, dove troviamo tra gli altri Rauschenberg. Sta di


fatto che il dettato modernista, che sta comunque nello spirito Bauhaus assume con l’Independent Group, formato da pittori, scultori, architetti, grafici, letterati e critici d’arte, nel 1952 a Londra, una valenza significativa: segnala un radicale passaggio da una economia e un’estetica incentrate sulla produzione alla centralità del consumo. Questo spostamento comportò un riposizionamento della stessa avanguardia del dopoguerra in tutti i suoi successivi percorsi. L’Independent Group, soprattutto con la mostra che ha avuto maggiori ricadute culturali, non solo in Inghilterra, This is Tomorrow, del 1957, mette continuamente in gioco arte, architettura, design, scienza, tecnologie e strategie dell’allestimento, e il conflitto tra arte alta e arte popolare. Maestro di cerimonia era per lo più Reyner Banham che stava riflettendo sul­ l’estetica delle macchine, che chiama alle conferenze del gruppo filosofi del linguaggio come A.J. Ayer, organizza dibattiti sulla teoria dell’informazione, mostre attorno alle ricerche del biologo D’Arcy Thompson, sui rapporti tra la crescita e le forme, mentre Lawrence Alloway, figura significativa dell’Independent Group, e uno dei promotori della mostra This is Tomorrow, e che diventerà in seguito curatore del Museo Guggenheim di New York, studia il simbolismo sociale nei mondi della pubblicità, del cinema, della moda. Non è di certo l’unica traccia della disseminazione e delle metamorfosi del Bauhaus in Europa, dopo la seconda guerra mondiale. Va considerata la fondazione a Ulm da parte di Max Bill, ex allievo Bauhaus, di un istituto di design. La Hochschule für Gestaltung nasce nel 1951, con finanziamenti americani e Max Bill ne reggerà la direzione sino al 1957, con un programma allineato alla tradizione Gropius: unire arte e tecnica. Il successore di Max Bill, Tomàs Maldonado privilegiava percorsi didattici e di ricerca impostati sulla teoria dell’informazione, la semiotica e l’ergonomia. All’interno della scuola di Ulm, e in contrapposizione ad essa, nacque il movimento Bauhaus imaginiste e di seguito l’Internazionale situazionista. Riprenderemo in seguito questo passaggio. Va notata, rispetto al percorso che sto cercando di fare sull’eredità del Bauhaus, la presenza, in vari momenti della Hochschu-

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le di Ulm, di una figura come Max Bense che segna il primo vero snodo tra questa eredità del Bauhaus e la situazione che si stava venendo a configurare, cioè l’emergere in modo dominante della cibernetica e dell’informatica, oggi dominante. Bense nel 1942 entrò a far parte del laboratorio per la tecnologia ad alta frequenza e gli ultrasuoni del Dr. Hans Erich Holl­ mann. Qui si studiavano le possibilità future per la trasmissione di immagini e suoni e qui Bense cominciò i suoi approfondimenti sui temi dell’informazione e della comunicazione. Nel 1947 Bense ha l’opportunità di leggere la sesta edizione di Cybernetics or control and communication in the animal and the machine di Norbert Wiener. Nel 1955 scrive l’introduzione a Louis Couffignal Thinking Machines. Sempre nel 1955 invita in Germania Norbert Wiener e lo presenta a Stoccarda, ma anche agli studenti di Ulm. Bense incomincia allora a sperimentare con i suoi studenti, utilizzando lo Zuse 22 (cioè quello che alcuni considerano il primo vero e proprio computer) procedure di grafica computerizzata. È così che nascerà quella che pochi anni dopo lo stesso Bense definirà arte artificiale e che di seguito diventare la computer art. Penso sia significativo che una certa eredità Bauhaus, arrivi per sentieri tutti da ritrovare al MIT di Boston nei legami a ritroso, ricordati più sopra tra Maeda, Rand e Moholy-Nagy. Come l’Independent Group, anche l’Internazionale situazionista si dà come scopo quello di affrontare il sorgere della società dei consumi. Il primo la considera come fattore potenzialmente positivo, il secondo come da combattere. Il movimento Internazionale situazionista nasce nel 1957 e durerà sino al suo autoscioglimento nel 1972. Nasce dalla fusione dell’Internazionale lettrista, del Movimento internazionale per una Bauhaus imaginiste, del movimento CO.BR.A e del Comitato psicogeografico di Londra. Figura di spicco sarà Guy Debord autore di un testo allora di riferimento: La società dello spettacolo, titolo che coglie la sostanza e che diventerà uno slogan per definire quel tempo. Programma dell’Internazionale situazionista era creare situazioni, definite come momenti di vita concretamente e deliberatamente collettiva in ambienti definiti come unitari nei quali poter registrare il gioco degli eventi. Le situazioni vanno create


attraverso quello che veniva chiamato urbanismo unitario, un nuovo ambiente spaziale di attività dove l’arte integrale ed una nuova architettura possano finalmente realizzarsi. Non si tratta più di progettare dal cucchiaio alla città, ma di attivare, produrre, una vita migliore più sensibile e partecipata per e nella dimensione urbana: non possono più essere gli oggetti a qualificare la vita, ma al contrario la vita, una vita collettiva, a dare senso agli oggetti. Si tratta comunque di movimenti che partendo da valutazioni e da pratiche estetiche e artistiche tendono a risolversi nella critica della stessa vita quotidiana e in azioni politiche in un quadro analitico e del sociale di matrice, con tutte le distinzioni del caso, marxista. Questi movimenti, per molti aspetti, anticiperanno il ’68. Il pittore Asger Jorn, uno dei fondatori dell’Internazionale situazionista, contattato da Max Bill per la fondazione della nuova Bauhaus si rifiutò di dare il suo contributo: non accettava la pedagogia funzionalista proposta da Bill. Pensava che gli artisti sperimentali devono impossessarsi degli strumenti industriali, ma per assoggettarli ai loro fini, non per utilizzarli. La sua idea era sì di riprendere la tradizione Bauhaus, ma con una forte tensione sperimentale e non tecnocratica. Con questo presupposto fondò il Bauhaus imaginiste, come movimento e non come scuola, nel 1954, con l’amico Constant e l’artista italiano Giuseppe Pinot Gallizio. L’Internazionale situazionista rappresentò un rimescolamento delle esperienze conflittuali presenti nelle arti della prima metà del Novecento, Cubismo, Surrealismo, Dada, Bauhaus, Modernismo, Astrattismo, etc. etc. In fondo si tratta di una sorta di provocatorio collage tra i conflitti interni alla storia della ricezione delle tematiche Bauhaus e le pulsioni emerse in ambiente anglosassone con quelle di riferimento degli USA. Inevitabilmente tutto ciò andava a posizionarsi lungo i frastagliati bordi della politica. Il laboratorio situazionista svilupperà una critica della vita quotidiana seguendo le tracce, ad esempio, seminate dal sociologo marxista Henri Lefebvre, o costruendo situazioni per loro stessa natura sovversive, indicate, sempre per esemplificare, da Jean Paul Sartre. In sostanza il laboratorio cercava di sviluppare

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una lettura di classe, nel conflitto capitale lavoro, attraverso quella che chiamavano la battaglia del tempo libero. Mentre l’Independent Group accettò il modernismo come uno strumento per mediare tra l’emergente cultura di massa all’interno della dialettica culturale del capitalismo del XX secolo, l’Internazionale situazionista si scagliò sia contro gli esiti del capitalismo, sia contro i movimenti politici della sinistra ortodossi o che continuavano a far riferimento alla rivoluzione d’Ottobre. Tracciata una veloce Bauhaus graffiti, eccoci all’oggi. Eccoci a riflettere sull’eredità del Bauhaus, sui suoi sogni e sulle nostre contraddizioni. È giusta la proposta di Ursula van der Leyen? Si, certo! In che termini? Perché, così come il Bauhaus ha cercato di affrontare innanzitutto le contraddizioni tra modo di produzione industriale, arte, lavoro, prodotto, mercato, società, così noi dovremmo cercare di affrontare in un luogo di formazione, ma anche di visione del sociale, le contraddizioni che emergono dal modo di produzione digitale, oggi dominante. Così come il Bauhaus si dava l’obiettivo che vari saperi e professionalità si confrontassero per trovare assieme soluzioni, così noi dovremmo non solo aggiungere a questo insieme altri saperi, oltre a quelli segnalati dalla Presidente nel suo discorso inaugurale (architetti, artisti, studenti, ingegneri e designer) ma anche economisti, filosofi, sociologi, etc. etc. Meglio, dovremmo elaborare una concezione diversa dei saperi specialistici elaborando una sorta di sapere dei saperi, o come avrebbero detto gli uomini e le donne del Bauhaus, di un’etica del sapere. Oggi diremmo di una dimensione olistica del sapere. Il Bauhaus si era posto il tema del progetto considerandolo rispetto all’adagio/sintesi “dal cucchiaio alla città”; oggi dovremmo estendere quell’orizzonte, che aveva come oggetto di riferimento le molteplici funzioni che accompagnano la nostra vita quotidiana, in particolare nella sua urbanità, allargando il nostro interesse alla vita stessa e al mondo nella sua complessità e totalità. Con il digitale, come con la genetica, stiamo intervenendo sulla vita. Cambiano gli strumenti, cambiano i fini, cambia l’orizzonte etico. Si tratta di pensare e praticare un design che ripensa i rapporti uomo-macchina e uomo-natura nelle dinamiche del­


l’internet di tutte le cose e dell’intelligenza artificiale, dell’interaction design e del social design. Un design che si muove nell’orizzonte di una sostenibilità che non può più essere considerata come una semplice opzione ma come modalità implicita allo stesso modo di produzione digitale (e ciò non è solo possibile, ma sta nelle logiche stesse del digitale) e si rende capace di una autovalutazione ed eterovalutazione (cioè totalmente sociale) sul proprio sistema produttivo o sui propri prodotti, all’interno di una teoria generale degli indotti. Capace di rispondere alla domanda: cosa produco quando produco? Quali indotti si generano? con quali effetti sociali ed ecosistemici sul breve e sul lungo periodo? Un design degli oggetti ma anche dei processi. Un design che non ha più come oggetto le funzioni e come riferimento le macchine, ma la natura stessa. Un design che sta all’interno di una relazione sempre più stretta tra tecnologia e biologia. Un Bauhaus che intreccia i saperi in un orizzonte olistico, un Bauhaus del problem solving e della stretta interazione tra teoria e prassi, capace di prefigurare e di agire sulla formazione dei valori collettivi in ragione del superamento del rapporto (capitalistico?) tra produzione, prodotti e valori (compresi quelli economici), e che utilizza nel modo più diffusivo possibile il digitale in uno spazio dove non c’è alcuna differenza tra arte e scienza, o se vogliamo tra esperienze e saperi. E tutto questo appoggiato sì alla intelligenza e creatività soggettiva, ma aprendoci all’intelligenza e alla creatività collettiva, vero e singolare patrimonio del digitale. Si tratta di estendere la nostra capacità di comprensione del mondo dalla mimesi delle forme al design dei processi (potremmo dire alla biomimesis) interagendo con la vita stessa nelle sue stesse dinamiche con una considerazione: c’è una coesistenza sia epistemologica che tecnologica tra la genetica e il digitale. Un Bauhaus che sappia comprendere e comandare le dinamiche dell’economia nel digitale: il superamento dell’idea di standard; i cambiamenti nella relazione tra produzione, distribuzione e scambio e quindi anche le modalità dello stesso consumo; il potenziale delle nuove tecnologie applicate, dall’intelligenza artificiale alle stampanti 3D; la trasformazione della funzione lavo-

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ro; le nuove modalità della formazione dei valori economici sociali; la diversa funzione che assume il settore finanziario; l’urgenza dell’economia circolare che struttura ogni possibile strategia per la sostenibilità diffusa e, non ultime, le ricadute sistemiche dell’economia della disruption. Utopia? No! È tutto già nelle cose attuali. Tutto è già in atto nel dominio del digitale. C’è solo e urgentemente bisogno di un nuovo Bauhaus che vorremmo però chiamare: Bauhaus Theater; Theater Bauhaus; Interaction Bauhaus; Bauwelt o Bauen Welt.

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Il pensiero come corpo. Per una concezione empatica dell’architettura PAOLA GREGORY

1. “Just as we design our built environments, so do our built environments reconfigure who we are” [F.H. Mallgrave, From object to experience. The new culture of architectural design, Bloomsbury Publishing, London 2018, p. 49]

Il tema dello spazio affettivo, incardinato sul carattere embodied di ogni processo cognitivo, sembra attraversare da alcuni anni diversi campi di riflessione – dall’antropologia alla filosofia, dalla psicologia cognitiva alla sociologia, dalle neuroscienze all’estetica – indicando anche per l’architettura l’esigenza di dare risposte alle dimensioni profondamente radicate della esperienza umana, prima che alla formalizzazione di oggetti attraverso l’espressione linguistica. Così Harry Francis Mallgrave, ripartendo dal pensiero di John Dewey in Art as experience (1934), traccia nel suo libro From object to experience (2018) un ampio orizzonte interdisciplinare di riferimento per ripensare lo spazio abitato come insieme integrato, un’architettura che risponda ai nostri corpi come alla nostra attitudine empatica e immaginativa, che comprenda l’umano e il naturale come un continuum condiviso [Ivi, S. Robinson, Foreword, p. XII]. Il ruolo dell’architetto è, infatti, quello di configurare il medium ambientale nel quale abita l’organismo umano [Ivi, F.H. Mallgrave, p. 9] e in questo compito che riconsidera l’integralità antropologica precedente alla dicotomia tra corpo e mente, natura e cultura, azioni umane e processi biologici, sociologia ed ecologia, diviene fon-

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damentale la comprensione preriflessiva e precognitiva, oltreché cognitiva, del mondo, al cui centro è l’attività emotiva di un soggetto culturalmente incarnato. Emozioni, sentimenti, stati d’animo, tradizionalmente relegati in un ordine ontologico interiore, acquistano così nuova centralità nel lavoro dell’architetto, promuovendo un rinnovato radicamento nella “conoscenza sensibile” (secondo l’etimologia originaria di aisthesis) necessaria a rivalutare, come suggerisce lo stesso Mallgrave nel suo precedente libro Architecture and embodiment, quanto del nostro pensiero e delle risposte esistenziali ai nostri ambienti sia, di fatto, guidato dal basso e, a differenti livelli, dall’attività emotiva o corporea [F.H. Mallgrave, Architecture and embodiment. The implications of new sciences and humanities for design, Routledge, New York 2013 (trad. it, Empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze, Raffaello Cortina, Milano 2015, p. 144)].

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Fondandosi sugli sviluppi delle scienze cognitive e della teoria della mente e, dagli anni Novanta del secolo scorso, sul­ l’ampia risonanza ottenuta dalle neuroscienze con la scoperta, in particolare, dei neuroni specchio – ambiti che hanno ampiamente dimostrato come la corporeità di ciascun essere umano, con le sue radici propriocettive, sensomotorie e affettive sia fondamentale nel determinare, in un circolo continuamente retroattivo, le modalità dell’azione e dell’ambiente su di lui – lo studioso americano, pioniere nell’applicazione delle neuroscienze alla teoria architettonica, riabilita il corpo-proprio o vissuto di tradizione fenomenologica a fondamento della riflessione contemporanea, riconoscendo che, in quanto esseri umani incarnati, il […] contatto con l’ambiente è [sempre] condizionato dalle risposte emotive [Ivi, p. 149]. Il corpo, dunque, marginalizzato nelle filosofie platonizzanti della conoscenza, sembra rivendicare un nuovo spazio a livello teorico, da cui parte una nuova concezione corpomente che si muove in senso opposto a ogni sterile dua­lismo. Sebbene non nuova nella riflessione estetica e nella stessa concezione dell’architettura, la posizione che Mallgrave condivide con altri critici e teorici del nostro campo disciplinare – fra i quali, in primo piano, Alberto Pérez-Gómez e Juhani Pallasmaa – indica tuttavia un radicale cambio di prospettiva, che ha nel sentire umano il suo fulcro. Un sentire che, nell’esegesi del “cor-


po-vissuto” (Leib), sembra rispecchiare la convergenza fra ambiti disciplinari tradizionalmente disgiunti, quello delle scienze naturali e delle scienze dello spirito che, riflettendo l’eredità di Wilhelm Dilthey [W. Dilthey, Einleitung in die Geisteswissenschaften. Versuch einer Grundlegung für das Studium der Gesellschaft und der Geschichte, Duncker & Humblot, Lepzig, 1883], operano attra-

verso procedimenti opposti: le prime basate sullo spiegare come ricerca di connessioni causali e di leggi universali, secondo un’impostazione nomotetica; le seconde sul comprendere, ovvero sul carattere idiografrico dell’osservazione promosso dalla tradizione ermeneutica, nella quale particolare importanza assume il comprendere empatico, Ein­fül­hung, nelle sue diverse stratificazioni. Torneremo in seguito sull’importanza della dimensione empatica nel lavoro dell’architetto, ma, per capirne a fondo le implicazioni, dobbiamo, seppur rapidamente, attraversare alcuni concetti-chiave che hanno ribaltato stereotipi e acquisizioni tradizionali, fornendo anche alla riflessione architettonica le basi per un vero e proprio cambiamento di paradigma: questi concetti risiedono nello scambio proficuo fra neuroscienze e filosofia fenomenologica, e in particolare fra embodied cognition ed estetica atmosferologica e neofenomenologia. Nelle pieghe di questo nuovo impulso – che potremmo anche indicare come incontro fra doxa ed episteme, secondo la tradizione greca – si sviluppa la ripresa dell’empatia, come dato fondamentale della natura umana e modalità, forse la più precipua, in cui il comprendere si declina nella conoscenza dell’agire umano. 2. “L’errore di Cartesio”: l’embodiment radicale e la riscoperta dell’empatia È sullo sfondo teorico dell’embodied cognition, che si attua a partire dagli anni Ottanta la rivalutazione del corpo e delle sue emozioni nei processi cognitivi e interpersonali. Contrapponendosi all’analogia mente-computer che caratterizza anche la scienza cognitiva classica, imperniata sull’idea della mente come entità astratta e sostanza indipendente dal corpo, le scienze cognitive – soprattutto a partire dall’importante lavoro di Francisco J. Va-

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rela, Evan Thompson ed Eleonor Rosh (rispettivamente un biologo, un filosofo e uno psicologo) The embodied mind [F.J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The embodied mind: cognitive science and human experience, MIT Press, Cambridge (MA), 1991] – operano una

fondamentale rivisitazione della percezione, riconoscendo in essa il vincolo che lega il corpo del soggetto al corpo del mondo. Ciò significa che è il modo in cui un organismo è incarnato a costituire la base per la comprensione della mente, poiché tutti i processi cognitivi sono distribuiti e spesso implementati sullo stesso substrato neurale responsabile della percezione e dell’azione e, in particolare, nell’ottica enacted 1 emergono dal­l’in­te­ra­ zione dinamica tra un agente e l’ambiente in cui questi si muove. Con riferimento a uno dei testi emblematici della recente ricerca neuroscientifica, L’errore di Cartesio (1994) di Antonio Damasio, emerge che sia nell’evoluzione, sia in ogni singolo individuo, le strategie della ragione umana probabilmente non si sono sviluppate senza la forza guida dei meccanismi di regolazione biologica dei quali emozioni e sentimenti sono espressioni notevoli [A. Damasio, Descartes’error: Emotion, reason, and the human brain, Putnam Pub Group, New York 1994 (trad. it. L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995, p. 18)]. Sono le emozioni – intese dal neurobiologo co-

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me il fondamento di una delle molteplici varietà in cui si presentano le sensazioni – e i sentimenti – che, differenziati fra spontanei e provocati, nella loro elaborazione della situazione vengono compresi come esperienze mentali coscienti dell’evento emozionale2 – a consentire, infatti, una migliore valutazione delle condizioni ambientali, contribuendo efficacemente all’orientamento delle nostre scelte e delle nostre aspettative. Il ragionamento astratto, pertanto, governato da regole di inferenza – precisa Damasio – è insufficiente a dar conto delle nostre decisioni e azioni, poiché ciò che ha importanza sono gli stati affettivi associati ai ragionamenti: stati che insorgono sia nell’innesco attuale delle emozioni da stimoli esterni, sia nella simulazione di eventi futuri, dei quali forniscono una cognizione anticipatoria (generalmente più rapida, efficiente e precisa) che consente di scegliere le strategie com­ portamentali (nel dominio personale, quanto in quello sociale) più appropriate alle anticipazioni simulate.


Emozioni e sentimenti, dunque, rivelano istante per istante lo stato (di benessere o malessere) del nostro organismo, ovvero il suo stato qualitativo, alla cui base sono tutti i processi cognitivi: sia quelli di elaborazione del mondo circostante, sia quelli afferenti alla nostra soggettività che, sempre presente, è parte integrante delle nostre esperienze. Si tratta di un’integrazione, sottolinea Damasio, che si amplia anche al mondo circostante nell’interazione con l’ambiente, in cui è l’intero organismo – perciò non solo corpo, né solo cervello – a essere coinvolto. Quali organismi complessi, infatti, non ci limitiamo a generare le risposte esterne – spontanee o reattive – designate in generale come comportamento, ma anche le risposte interne, alcune delle quali diventano immagini (visive, uditive, olfattive, somatosensoriali) che ciascuno di noi avverte come proprie e ordina in un complesso processo neurale di percezione, memoria e ragionamento, chiamato pensiero. In questa prospettiva, potremmo affermare con Damasio che il sé – l’insieme di corpo e cervello, generatore della soggettività – è uno stato neurobiologico continuamente ricreato [A. Damasio, L’errore di Cartesio cit., p. 154] dalla nostra esposizione al mondo, la cui rappresentazione è costantemente mediata da un complesso rapporto di feedback fra esteriorità e interiorità, fra stimoli sensoriali e risposte emotive, in cui è l’intero organismo a partecipare per favorire, innanzitutto, le interazioni necessarie alla propria sopravvivenza. Tuttavia, continua Damasio, per riuscire con successo [l’organismo] deve sentire l’ambiente (odorarlo, gustarlo, toccarlo, udirlo, vederlo) in modo da poter intraprendere le azioni appropriate in reazione a ciò che viene sentito [Ivi, p. 308], mentre simultaneamente o in rapida interpolazione produce uno stato del sé nel processo di cambiamento dovuto alla risposta dell’organismo all’oggetto [Ivi, p. 329] o allo spazio che lo circonda: ciò che propriamente costituisce per il neurobiologo la soggettività. Per Damasio, dunque, al quale abbiamo deciso di riferirci per l’autorevolezza oltreché per l’influenza del suo pensiero, non si può concepire la mente senza che essa sia in qualche modo incarnata, tanto che l’espressione embodied mind appare oggi travalicare qualsiasi ambito disciplinare, per rivalutare i nessi (ontolo-

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gici oltreché biologici e fisiologici) precedenti a qualsiasi dicotomia soggetto-oggetto, corpo-cervello, interno-esterno, organismo-ambiente. In questa diretta interrelazione, che caratterizza nel suo funzionamento anche la dimensione sociale della relazione fra il sé e gli altri, emerge l’importanza dell’empatia (da en = in e pathein = soffrire, patire) come “sentire dall’interno” o “sentire all’unisono” e, nel suo significato più ampio, come una forma di esperienza che ha il suo cardine nella partecipazione emotiva, nella condivisione, ovvero nel superamento della distanza. Non è un caso, perciò, che l’empatia sia tornata centrale nel pensiero attuale, fino ad assumere una valenza neurobiologica specifica a seguito della scoperta nei primi anni Novanta dei neuroni specchio, definiti anche neuroni dell’empatia. Individuati dall’equipe diretta da Giacomo Rizzolatti presso l’Università di Parma nella corteccia premotoria dei macachi e poi nell’essere umano [Cfr. in particolare, G. Rizzolatti - C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006], costituirebbero sul piano neurale – attraverso il

meccanismo di risonanza-rispecchiamento – quella modalità del comprendere che, prima di ogni mediazione concettuale e linguistica, dà forma alla nostra esperienza degli altri [Ivi, p. 182] e in generale dell’alterità, rendendoci emotivamente partecipi delle cose che ci circondano. Rimandando per la complessità del tema a testi specifici, ci basti solo ricordare che l’attivazione del mirror neurons system (a esprimere la complessità nell’uomo dei circuiti neurali condivisi) avviene sia nel compiere un’azione, sia nell’osservarla “come se” la si eseguisse in prima persona, cogliendo peraltro (ed è questo un aspetto essenziale) l’intenzionalità che ne è alla base [L. Fogassi et al., Parietal lobe: from action organization to intention understanding, in “Science”, vol. 308, n. 5722, 2005, pp. 662-667]. In

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questo processo di “simulazione”, che Vittorio Gallese – il neurofisiologo che nell’equipe di Rizzolatti ha maggiormente sviluppato le implicazioni filosofiche ed epistemologiche della scoperta dei neuroni specchio – ha definito “incarnata” (embodied simulation)3, poiché riguarda l’attivazione delle aree motorie e viscero-motorie dell’organismo secondo un meccanismo diretto, automatico, non-predicativo, non-inferenziale di simula-


zione, si spiegherebbe la stretta interrelazione fra percezione e azione, che, attestando un primo livello di soggettività del vivente, consente di comprendere come un soggetto avverta nel proprio movimento corporeo (implicito ed esplicito) l’affinità con l’ambiente percepito. Esposti alle ‘cose’ naturali, così come a spazi o oggetti frutto della creatività umana, sono coinvolto in questa percezione con molto più del mio sistema visivo, [perché] impegno il mio sistema emotivo, il mio sistema tattile, il mio sistema motorio [Dialogo tra Sarah Robinson e Vittorio Gallese cit., p. 82], traducendo nell’espressività e nell’agire concreto il carattere intrinsecamente sinestetico che coinvolge la mia corporeità. Si tratta di una questione già affrontata da Heinrich Wölfflin che nella sua tesi dottorale [H. Wölfflin, Prolegomena zu einer Psychologie der Architektur, Wolf & Sohn, München 1886 (trad. it. Psicologia dell’architettura, et al., Milano 2009)] si interrogava sul perché

gli edifici producessero un determinato stato d’animo nell’osservatore. Pur nella difficoltà di spiegarne le ragioni, lo storico dell’arte aveva compreso che i legami tra le forme che percepiamo e le impressioni che riceviamo sono affetti dovuti al nostro corpo proprio o vissuto, poiché le nostre percezioni “arrivando” alla coscienza vengono direttamente sentite, esperite, vissute, veicolando determinati comportamenti e inibendone altri. Possiamo dunque affermare, con un’espressione divenuta famosa, che “il cervello che agisce è anche un cervello che comprende”, riconoscendo tuttavia che l’operazione di simulazionerispecchiamento che codifica l’esperienza sensoriale direttamente in termini emozionali [G. Rizzolatti - C. Sinigaglia, op. cit., p. 177] costituisce solo la base di ciò che possiamo definire come empatia, rappresentandone piuttosto il suo correlato funzionale [Cfr. V. Gallese, Dai neuroni specchio alla consonanza intenzionale. Meccanismi neurofisiologici dell’intersoggettività, in “Rivista di Psicoanalisi”, n. 1, 2007, pp. 197-208]. Per parlare di relazione

empatica, infatti, dobbiamo muoverci verso una più ampia teoria complessiva che investe il piano fenomenologico del soggetto: una teoria che, già indicata da Varela (1996) con il concetto di “neurofenomenologia” per designare la ricerca di una maniera per sposare la moderna scienza cognitiva con un approccio rigoroso dell’esperienza umana [F.J. Varela, Neurophenomeno-

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logy. A methodological remedy for the hard problem, in “Journal of Consciousness Studies”, 3, n. 4, 1996, pp. 330-349, p. 330], diviene per lo

stesso Gallese fondamentale, poiché, come sottolineato anche da Damasio, nell’incontro transattivo fra organismo e ambiente, rientrano anche immaginazione e memoria. Rientrano cioè i sentimenti che costituiscono una stabilizzazione pur embrionale di complessi simbolicamente significativi e che nella dialettica tensiva con le emozioni (per loro natura preriflessive, prelinguistiche, presimboliche) costituiscono una buona parte della dinamica della vita psichica e mentale, ovvero della nostra complessa soggettività. 3. Atmosfera e neofenomenologia: riflessioni per una nuova concezione dello spazio Se l’empatia è intesa oggi, principalmente, come simulazione e rispecchiamento di ciò che emotivamente ci tocca, non dobbiamo dimenticare che, quando il termine fu coniato in Germania dallo storico dell’arte Robert Vischer (1873) [R. Vischer, Über das optische Formgefühl: Ein Beitrag zur Aesthetik, Hermann Credner, Leipzig 1873], il suo significato fosse, al contrario, legato a un

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principio di auto-attivazione e proiezione. L’Einfühlung fu infatti descritto come un “riversare” i propri sentimenti negli oggetti artistici (come nelle forme naturali) animati attraverso un processo simbolico. Questo principio, che Andrea Pinotti ha definito come travaso “idraulico” [Cfr. A. Pinotti, Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano, Laterza, Roma-Bari 2011], è riscontrabile, sebbene parzialmente secondo noi, anche in Theodor Lipps, lo psicologo che agli inizi del Novecento ha parlato di Einfühlung come “imitazione interna” – una delle fonti grazie alle quali noi conosciamo le cose del mondo – rendendo questa disposizione generale dell’essere umano fondamento non solo dell’estetica, ma anche, seppur in modo non ancora sistematico, della stessa intersoggettività. L’evoluzione del concetto di empatia, di cui non possiamo evidentemente tracciare lo sviluppo in questo breve saggio4, acquista nel tempo significati e sfumature diverse: indicando un insieme di parentele categoriali – fra le quali, l’immedesimazio-


ne, la proiezione immaginativa, la fusione, il rivivere, il simpatizzare – ci pone di fronte a una modalità del sentire che si qualifica per il movimento di unione, talvolta identificazione con il proprio oggetto, costituendosi, in definitiva, come un modo di esistere e comprendere il mondo emotivamente connotato. Per questo assume particolare rilevanza il pensiero fenomenologico, che a partire dal suo fondatore Edmund Husserl ha sempre rivendicato la centralità del mondo-della-vita (Lebens­ welt) in cui è il corpo-proprio o vissuto a guidarci nella conoscenza della realtà e nell’incontro con l’altro. A differenza del corpo fisico, anatomico – il corpo-oggetto (Körper) esteso nello spazio tridimensionale e sezionabile, composto da membra e organi e circoscritto da confini cutanei – che presuppone il dualismo cartesiano e una prospettiva di osservazione tipica della terza persona, il corpo-proprio o vissuto – secondo la terminologia ricorrente nella tradizione fenomenologica, anche per la sua valenza critica rispetto alla ragione strumentale – costituisce il soggetto incarnato, il primo e originario mezzo di comunicazione con il mondo e centro di orientamento spaziale, in cui assume valore strategico la ricchezza della percezione che si dà nell’esperienza vissuta e che, scriveva Maurice Merleau-Ponty, precedendo l’atto di riflessione coglie un senso immanente dentro il sensibile prima di ogni giudizio [M. Merleau-Ponty, Phénomenologie de la perception, Gallimard, Paris 1945 (trad. it., Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 72)]. Si tratta per il filosofo francese di afferrare un prius pre-

categoriale e prelinguistico, orientato ai caratteri fenomenici e alle impressioni che ne scaturiscono: un prius che le recenti ricerche filosofiche ed estetiche hanno riportato in primo piano attraverso l’innovativo concetto di “atmosfera”, definito da Hermann Schmitz quale occupazione sconfinata di uno spazio privo di superfici nell’ambito di ciò di cui si vive la presenza [H. Schmitz, Kurze Einführung in die Neue Phänomenologie, Verlag Karl Alber GmbH, Freiburg/München 2009 (trad. it., Nuova fenomenologia. Un’introduzione, a cura di T. Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, p. 99)], come la gioia [che] è un’atmosfera di eleva-

zione, oppure la solenne gravità [che] si presenta in forma atmosferica specialmente nella forma di un vasto quieto o den-

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so silenzio [Ivi, p. 100]. Interessato a rifondare la fenomenologia per consentire agli uomini di comprendere la loro vita reale, rendendo accessibile a una riflessione coerente l’esperienza vitale involontaria [Ivi, p. 27: “È un’esperienza vitale involontaria tutto ciò che agli uomini capita e che essi non hanno intenzionalmente progettato”], le atmosfere “che sono dei sentimenti” (tanto individuali

che collettivi) liberati dalla limitazione della loro introiezione e spazializzati, vengono inserite da Schmitz nel rivoluzionario concetto di “semi-cosa” – un ibrido fra la cosa di cui manca la sostanzialità, ovvero la persistenza nel tempo, e le qualità della cosa, rispetto alle quali le semi-cose sono superiori per la loro autonomia – rivalutando con forza il primato dell’esperienza affettivo-sensibile, piuttosto che constativo-sperimentale del nostro incontro sensibile con il mondo. Definendo fenomeno per qualcuno in un certo momento uno stato di cose di cui colui che si pone la questione non può seriamente negare che si tratti di un fatto [Ivi, p. 32], la Nuova Fenomenologia riabilita quel senso comune per cui ci sentiamo direttamente coinvolti negli spazi che abitiamo a un livello precategoriale, sinestetico e cinestetico, condividendone, peraltro, largamente l’esperienza con gli altri, poiché – sottolinea Schmitz – lo spazio di libertà della revisione fenomenologica ci consente di non chiudersi nell’angustia della propria ovvia prospettiva [Ibidem (liberamente tratto)]. In tal senso la percezione atmosferica non è un processo interiore di elaborazione di segnali che dall’esterno […] giungono al cervello, [piuttosto] una comunicazione del corpoproprio con impressioni polivalenti, come una sensibilità o un presentimento, una percezione intuitiva delle situazioni [T. Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 20].

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Quando parliamo di atmosfera serena, malinconica, allegra, snervante, soffocante (…) intendiamo, perciò, simultaneamente esprimere informazioni sensoriali, eccitazioni sensorio-motorie, fluttuazioni somatico-viscerali, micro-valutazioni, riverberazioni e risonanze affettive, che agiscono sul nostro corpo vivo, modificando lo spazio proprio-corporeo e peri-corporeo. Ciò significa che il corpo risponde all’ambiente sia attraverso una regolazione omeostatica, sia attraverso un accoppiamento sensomotorio, si-


mulando interiormente alcuni aspetti del contesto fisico – come la direzionalità e la forza, le proporzioni e il ritmo, i materiali, la texture, i colori, la luce e l’ombra, la temperatura, l’umidità, i suoni – ma anche esprimendo alcune caratteristiche di una disposizione soggettiva, che, come sottolineato da Gernot Böhme (uno dei massimi esponenti della “nuova estetica” come teoria generale della percezione), consentono di descrivere le atmosfere secondo categorie più ampie, tipiche dei nostri stati d’animo, come per esempio la serietà, la serenità o la melancolia [Cfr. G. Böhme, Atmospheric architectures. The aesthetics of felt spaces, Bloomsbury, New York 2017], ovvero secondo un’analogia universale fondata

su risonanze esistenziali e proprio-corporee. Appare dunque evidente quanto la dimensione emozionale della percezione sia fondamentale nel complesso attivarsi del mondo soggettivo (e intersoggettivo) e oggettivo, di cui le atmosfere colgono quel prius qualitativo-sentimentale, spazialmente effuso [T. Griffero, Atmosferologia cit., p. 7], antecedente a ogni polarità e distinzione. Ciò significa, conclude Böhme, che le atmosfere non sono, evidentemente, né stati del soggetto, né qualità dell’oggetto. [Piuttosto] sono qualcosa tra soggetto e oggetto. Non sono qualcosa di relazionale, bensì la relazione stessa [G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2010, p. 92].

Se l’atmosfera costituisce il primo stato di cose con cui ci confrontiamo involontariamente, ciò da cui non possiamo prendere le distanze facendone esperienza, si comprende quanto sia importante, soprattutto in architettura, focalizzare l’attenzione sulle affezioni vissute, sui sentimenti avvertiti in sé o con-patiti negli altri, sino a poter configurare, con le parole di Tonino Griffero, una vera e propria estetica patica che ci renda, al limite, più soggetti-a che non soggetti-di, difendendo l’inattualità, e quindi anche l’attualità critica, di un dono […] quello di saper essere veicoli dell’accadere anziché del fare [T. Griffero, Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica, Guerini e Associati, Milano 2016, p. 9]. Tuttavia, essendo proprio del lavoro dell’architetto

tentare di produrre spazi incardinati in prima istanza sul “come ci si sente nel proprio ambiente”, potremmo concludere con

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Böhme che, insieme a un’estetica della ricezione, sia necessario rifondare anche un’estetica della produzione, intendendo con quest’ultima l’abilità creativa che, oggettivando alcuni parametri della conoscenza sensibile, sia in grado di generare specifiche atmosfere. Si tratta per Böhme di educare e sviluppare una particolare sensibilità progettuale capace di attivare, principalmente attraverso messe in scena (come la produzione di uno spazio per la sua apparenza) ed estasi (ciò tramite cui le cose divengono percepibili nella loro presenza [G. Böhme, Atmosfere cit., p. 193]), quella dimensione preriflessiva, multisensoriale, sinestetica, affettiva, propria della nostra esperienza vissuta: un’esperienza che, come più volte sottolineato, non è solo individuale, ma intersoggettiva ed empatica, perché, toccandoci emotivamente, ci mette sempre in contatto con l’ambiente, consentendo di riconoscerlo – sottolinea Pérez-Gómez – quale parte della nostra coscienza; non un altro o una collezione di oggetti, ma una parte del nostro stesso essere [A. Pérez-Gómez, Attunement. Architectural meaning after the crisis of modern science, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2016, p. 228]. È questa apertura all’alterità che, radicando-

si nella nostra dimensione emotiva per sua natura ineffabile e tuttavia patita, ci rende con-partecipi del mondo in una reversibilità riflessiva, ad aver prodotto le massime espressioni artistiche e architettoniche, che nella tensione fra realtà effettuale (ciò che viene sentito e percepito) e realtà fisica (come proprietà delle cose)5, continuano a stupirci e commuoverci, sino talvolta a rapirci. In questa interazione per sua natura inesauribile, ma fondante ogni nostra esperienza, si modificano le chiavi di lettura e l’orientamento degli stessi modi di operare, la cui essenza dovrà radicarsi in un pensiero come corpo capace, a volte, di sorprenderci per attingere alla pienezza possibile dell’esistenza e a quella magia del reale che nelle parole di Peter Zumthor – al quale si deve il riconoscimento esplicito del primato della percezione emotiva e dell’atmosfera quale categoria della bellezza – risiede nella qualità poetica delle cose, ovvero nella loro capacità di toccarmi emotivamente. […] Comprensione immediata: commozione immediata o immediato rifiuto [P. Zumthor, Atmo-

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spheres. Architectural environments. Surroundings objects, Birkhäuser,


Basel 2006 (trad. it., Atmosfere. Ambienti architettonici. Le cose che ci circondano, Electa, Milano 2007, pp. 9-11)]. A questa “prima im-

pressione” che mette in campo l’intera esperienza della soggettività – ovvero tutti quei “modi” che “a loro modo” ci dispongono verso la presenza di oggetti, e che includono, in un’accezione più ampia, il ricordare, l’immaginare, il desiderare – non possiamo sottrarci, perché, come ha ampiamente sottolineato Damasio nella sua articolata disamina sull’affettività umana, immaginazionememoria-riflessione-indagine-discernimento e creatività si fondano e si legano, sebbene con connessioni labirintiche e complesse, ai processi emotivi che illuminano e sostengono ogni nostra attività, costruendo in definitiva il modo stesso – unico per ciascuno di noi – di essere-nel-mondo.

1   In linea con il concetto di affordance di James J. Gibson, che in The Ecological approach to visual perception (Boston 1979) intendeva sottolinea­ re con tale neologismo le opportunità (o i pericoli) che un ambiente offre all’organismo in termini di possibili azioni, l’enacted cognition – che costituisce una delle 4 declinazioni in cui si articola la scienza cognitiva (embodied, enacted, embedded, extended) – evidenzia la circolarità fra azione, percezione e pensiero astratto in vista di uno scopo finale. 2   Alla differenziazione fra emozioni e sentimenti, Damasio rivolge una attenta articolazione del discorso. Oltre a L’errore di Cartesio, cfr. Id., The strange order of things: life, feeling, and the making of cultures, Knopf Doubleday Publishing Group, New York 2018 (trad. it. Lo strano ordine delle cose. La vita, i sentimenti e la creazione della cultura, Adelphi, Milano 2018). 3   Il concetto di simulazione incarnata è proposto da Gallese all’interno di numerosi testi; fra quelli più vicini ai nostri interessi, cfr.: D. Freedberg - V. Gallese, Motion, emotion and empathy in aesthetic experience, in “Trends in cognitive sciences”, vol. 11, n. 5, 2007, pp. 197-203; V. Gallese, Neuroscienze e fenomenologia, in “XXI Secolo”, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma 2009, pp. 171-182; V. Gallese - A. Gattara, Embodied simulation, aesthetics, and architecture: an experimental aesthetic approach, in S. Robinson - J. Pallasmaa (eds), Mind in architecture. Neuroscience, embodiment, and the future of design, MIT Press, Cambridge (MA) 2017, pp. 161-179; Dialogo tra Sarah Robinson e Vittorio Gallese, in “Intertwining”, n. 01, 2018, pp. 79-93 (n. monografico su Unfolding art and science). 4   Fra i testi più recenti pubblicati in lingua italiana, oltre a Pinotti, si rimanda in particolare a: L. Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina, Milano 2006; Id., Empatie. L’esperienza empatica nella società del conflitto, Raffaello Cortina, Milano 2018; A. Doni-

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se, Critica della ragione empatica. Fenomenologia dell’altruismo e della crudeltà, Il Mulino, Bologna 2019; A. Rainone, La riscoperta dell’empatia. Attribuzioni intenzionali e comprensione nella filosofia analitica, Bibliopolis, Napoli 2005. 5   Il riferimento è alla distinzione operata da Josef Albers (1997) e richiamata da G. Böhme in Atmosfere cit., tra factual act, ossia la realtà fisica dell’immagine, e actual fact, ovvero la realtà effettuale dell’immagine: “ciò che l’immagine irradia, la tonalità cromatica e affettiva assunta dallo spazio” (p. 57) che fondamentalmente è qualcosa di immateriale.

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Soft skills e consapevolezza identitaria. A che cosa serve l’arte? OLGA SCOTTO DI VETTIMO

La svolta etnografica nell’arte e nella critica contemporanee, delineata nel 1995 da Hal Foster nel saggio The Artist as Etnographer? [in G.E. Marcus, F.R. Myers (edd.), The Traffic in Culture. Refiguring Art and Anthropology University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London 1995, pp. 302-309], non intende risolversi

nel mero monito a includere nel ragionamento dell’arte l’alterità culturale, ma, piuttosto, mira a osservare l’ormai compiuta assunzione all’interno dell’epistemologia delle scienze sociali di un paradigma interpretativo capace di indagare l’arte e il lavoro dell’artista. La riflessione, che nel 1996 lo studioso inserisce – come contributo più articolato, strutturato in forma di capitolo, nonché privato nel titolo del significativo elemento dubitativo espresso dal punto di domanda (numerose, infatti, sono le riserve dichiarate dall’autore) – all’interno del volume The Return of the Real. The Avant-Gard at the end of the Century [The MIT Press, Cambridge, London 1996, pp. 171-204], pubblicato in Italia nel 2006, corrisponde all’esigenza di problematizzare il sempre più incidente rapporto tra la produzione artistica contemporanea e il contesto della vita quotidiana. Sebbene gli scambi e gli ammiccamenti tra arte e scienze sociali non siano mancati sin dalle origini di quest’ultimo ambito di indagine1, l’emersione nel dibattito artistico degli anni Novanta del secolo scorso di pratiche artistiche partecipative, che prevedevano l’immersione dell’artista nella comunità locale e il coinvolgimento del pubblico, tuttavia, ha determinato una più schiet-

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ta e ineludibile lettura interdisciplinare, necessaria per evidenziare la molteplicità dei contenuti della vita della comunità, legati tanto alla cultura materiale quanto a quella simbolica. Lo studioso statunitense apre il suo saggio dichiarando da subito il riferimento esplicito al titolo di un noto testo di Walter Benjamin, ma proponendo contestualmente uno slittamento di prospettiva, tramite la sostituzione del termine “produttore” con quello di “etnografo”, invero qui usato, indifferentemente, anche in luogo di “antropologo”: Uno degli interventi più importanti sulla relazione tra l’autorità artistica e la politica culturale è “L’autore come produttore” di Walter Benjamin, presentato per la prima volta nell’aprile del 1934 come lezione all’Istituto per gli studi sul fascismo di Parigi. (…) Benjamin chiamò in causa l’artista di sinistra “perché si mettesse dalla parte del proletariato”. Nella Parigi del 1934 questo appello non era radicale; ma l’approccio sì. Benjamin cercava di convincere i migliori artisti ad intervenire, al pari dei lavoratori rivoluzionari, sui mezzi della produzione artistica per cambiare la “tecnica” dei mezzi tradizionali, per trasformare “l’apparato” della cultura borghese. Una corretta “tendenza” non bastava più; bisognava prendere posizione “vicino al proletariato” [H. Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia di fine Novecento, Postmedia Books, Milano 2006 (ed. or. 1996), p. 175]. Rammentando le più note riflessioni novecentesche sul paradigma etnografico nell’arte contemporanea (da Georges Bataille e Michel Leiris a Leopold Sédar Senghor e Aime Césaire), strettamente legate alla fantasia primitivista, al potenziale trasgressivo dell’inconscio e alla radicale alterità dell’altro culturale, Foster osserva che la più recente svolta etnografica è stata determinata da alcuni fattori principali. Innanzitutto l’antropologia (al pari della psicanalisi) viene individuata come la lingua franca della pratica artistica e del discorso critico [Ivi, p. 186], che ha come oggetto la cultura e il lavoro sul campo, aprendo a nuove prospettive di senso le definizioni restrittive di arte, artista e pubblico, in sintonia con la sensibilità postmodern che si nutriva di concetti come nomadismo e relativismo. Il pubblico stesso si va connotando, per identità e per specificità, come una comunità, come soggetto sociale, facendo confluire nell’arte il proprio portato


sociale, economico, politico e includendo già a partire dagli anni Sessanta i temi della multiculturalità, dei diritti civili e di genere. Il campo dell’arte si amplia e si estende alla cultura, rendendo necessarie, pertanto, le competenze disciplinari e metodologiche dell’antropologia. Al produttore (Benjamin) si sostituisce l’etnografo (Foster), le cui categorie interpretative consentono di osservare e comprendere le dinamiche e le pratiche sociali determinate dall’agire partecipato dell’artista connesso alla vita quotidiana. Eppure nel passaggio dal modello produttivista a quello che Foster definisce “quasi-antropologico” alcuni elementi del primo permangano nel nuovo, benché l’Altro non sia più il proletariato a cui si riferiva Benjamin, ma l’oppresso coloniale, il subalterno o subculturale. Inoltre lo studioso statunitense non manca di sottolineare le invidie reciproche tra le discipline, imputando a entrambe l’utilizzo errato di metodi e di strumenti pertinenti ai due diversi ambiti. Tuttavia, critiche severe sono mosse soprattutto agli artisti, che, cercando l’Altro, hanno assecondato pratiche di narcisismo filosofico: i rapporti pseudo etnografici nell’arte sono talvolta diari di viaggio mascherati dal mercato dell’arte. Chi, nell’accademia o nel mondo del­l’arte, non ha mai assistito alle esternazioni di questa nuova figura dell’intellettuale empatico o delle flâneries del nuovo artista nomade? [Ivi, p. 183]. Benché riconosca che la pratica collaborativa che si instaura tra artista e gruppo comunitario locale possa consentire di rioccupare spazi culturali perduti e proporre contromemorie storiche, per contro lo studioso sottolinea come il ruolo quasi-antropologico stabilito per l’artista può promuovere tanto la presunzione quanto la critica dell’autorialità etnografica, tanto l’elusione quanto l’estensione della critica istituzionale [Ivi, p. 198]. In definitiva, del rapporto artista/antropologo, Foster critica i modi in cui l’arte contemporanea ha mutuato dall’antropologia determinate strategie metodologiche e decostruisce in termini etnografici l’interazione “collaborativa” che si attua tra un artista e un gruppo comunitario locale, come evidenzia Miwon Kwon nel 2002 in un contributo seminale per gli studi sul tema del site specificity [M. Kwon, Un luogo dopo l’altro, Arte site-specific e identità localizzativa, Postmedia Books, Milano 2020 (ed. or. 2002), p. 171]. In ogni caso Foster ritiene che la fruizione sia ancora forte-

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mente guidata dall’artista, che conserva la centralità della posizione autoriale, osservando che egli è istintivo al pari di ogni nuovo antropologo riguardo la superiorità del suo progetto etnografico [H. Foster, Il ritorno del reale, cit., p. 191]. La lente offerta dal critico dell’arte statunitense consente di inquadrare il lavoro degli artisti contemporanei nel contesto del­ l’epistemologia etnografica, in sintonia con la trasformazione del­l’arte che in quegli anni è caratterizzata dalle pratiche dell’attivazione del pubblico nella partecipazione nell’opera e dall’immersione dell’artista nella vita della comunità. Negli anni Novanta, d’altra parte, il tema del site-specific, soprattutto attraverso l’attività critica che accompagna alcune mostre internazionali, mostra un ripensamento proprio nell’interpretazione del termine site, sempre più inteso come intreccio di processi sociali e non come contenuto affrontato, pensato e risolto in termini formali. Se già negli anni Sessanta si assiste a un passaggio dalla specificità del sito (museo, galleria, studio) alla specificità del contesto, in quanto il sito non è più concepito in termini di fisicità spaziale, ma di contesto culturale, portando all’interno della tematizzazione artistica la vita quotidiana e legando l’arte sempre più al campo delle pratiche di interesse sociologico, negli anni Novanta quello stesso contesto (site) da realtà autonoma e strutturata, di cui l’artista opera una critica, disvela gli intrecci ed elabora riflessioni, si trasforma in processo sociale: il centro creativo dell’artista è costituito dal luogo e dal dialogo con precise comunità [F. Guersoli, Arte site-specific e identità localizzativa, in M. Kwon, Un luogo dopo l’altro, cit., p. 9], nell’ottica di quella che Suzan Lacy definisce “New Genre Public Art”2. Il passaggio dal paradigma contestuale a quello processuale, nel quale artista e comunità interagiscono, potrebbe suggerire, secondo Claire Doherty, la più chiara sostituzione del termine site con situation (“situazione”), intesa come convergenza di teo­ rizzazioni di sito, non sito, luogo, non luogo, località, spazio pubblico, contesto e tempo come mezzo per ripensare i modi in cui gli artisti contemporanei rispondono, riproducono e destabilizzano luogo e località [C. Doherty (a cura di), Situation, White-

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chapel Art Gallery, Londra 2009, ora in F. Guersoli, Arte site-specific e identità localizzativa, in M. Kwon, Un luogo dopo l’altro, cit., p. 10].


Il sito, dunque, che non è un luogo e che da tempo ha perso la sua vocazione a pensarsi come spazio, diventa flusso di dinamiche e di processi sociali, economici, culturali e politici. Ma ancora: il sito, proprio perché non esiste come a priori, viene generato dall’opera attraverso una prassi artistica collettiva e dall’interazione collaborativa tra artista e comunità locale. Il rischio, tuttavia, evidenziato da Miwon Kwon, è che la rioccupazione di spazi perduti culturalmente connotati e la riappropriazione di controstorie della memoria possano da un lato condurre a una sorta di autoritarismo ‘etnografico’ espresso attraverso lo sguardo dell’artista, dall’altro portino a tradurre queste controstorie in archivi e documenti, trasformati in opere d’arte che vengono immessi nel mercato come prodotti. In tal modo i progetti possono esasperare relazioni di potere squilibrate, rimarginalizzare (o addirittura colonizzare) gruppi già privati ​​dei loro diritti, depoliticizzare e rimitizzare il processo artistico e infine accentuare ulteriormente la separazione tra arte e vita (benché si sostenga l’effetto contrario) [M. Kwon, Un luogo dopo l’altro, cit., p. 28]. Per evitare che si stabiliscano relazioni di potere, Kwon suggerisce di assumere la comunità non come entità preesistente (con cui confrontarsi o da rappresentare), come premessa al processo artistico, ma come comunità che emerge dalla pratica artistica collettiva. Diversamente da quanto afferma Alfred Gell Art and Agency (1998) – il quale considera le opere come agenti secondari, surrogati dell’agire umano, la cui mente è l’origine primaria di tutte le azioni e dei valori sociali –, per la studiosa coreana l’arte comunitaria rende le opere dispositivi per l’agire, attivando inedite connessioni di cui gli artisti diventano mediatori, facilitatori nelle dinamiche del mondo reale. Si costituiscono così laboratori di sperimentazione sui rapporti sociali e la pratica artistica diventa uno strumento di costituzione delle relazioni sociali. L’arte, in definitiva, entra con la concretezza delle azioni nella vita quotidiana, ripensa lo spazio come luogo dei flussi relazionali e stabilisce nuovamente un nesso con l’esperienza. D’altra parte il Novecento ha prodotto una vasta letteratura che sottolinea la centralità del nesso arte-esperienza. Appare qui utile ricordare gli studi del filosofo statunitense John Dewey, che in tempi recenti godono di una particolare attenzione critica, fina-

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lizzati a problematizzare le ragioni della dissoluzione del nesso arte-società, determinatasi in seguito all’affermarsi del sistema di produzione industriale. La compromissione dell’unità totalizzante implicita nel concetto di techne, ha determinato che l’arte, distinta dall’utile e separata dalla vita, abbia assunto definitivamente un carattere contemplativo, stabilendo una divaricazione tra l’esperienza estetica (riferita all’arte) e quella del quotidiano (riferita alla produzione artigianale, poi industriale e di massa). L’arte, in tal modo, sempre più estranea alla vita sociale e agli spazi in cui questa si declina, impossibilitata a esprime il rituale collettivo in cui si identifica e attorno a cui si riunisce una comunità, ha perso la sua funzione di raccordo con la società. Soprattutto nel saggio Arte come esperienza del 1934 il filosofo statunitense ripristina la continuità tra l’arte e l’esperienza ordinaria, considerando esperienza estetica ogni attività che determina un’interazione armonica tra uomo e ambiente naturale e sociale. Tale orientamento comporta la negazione di quella separatezza tra utile e bello, tra estetico e artistico, tra vita quotidiana e arti che ha condotto alla dimensione contemplativa dell’arte, alla perdita della sua connessione sociale e alla definizione di una poetica individualista e autoreferenziale per l’artista. L’arte, infatti, è intesa da Dewey come luogo di sperimentazione dei processi, di ricomposizione del dualismo fra l’esperienza quotidiana e quella estetico-artistica, tra il piano teorico e quello pratico, tra la speculazione intellettuale e il (saper) fare. L’opera d’arte in quanto esperienza, dice qualcosa a coloro che ne fruiscono sulla natura della propria esperienza del mondo [J. Dewey, Arte come esperienza, a cura di G. Matteucci, Aestetica, Palermo 2012 (ed. or. 1934), p. 102]. Offrendo una visione inedita della realtà, della vita

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quotidiana e collettiva, lasciandosi anche contaminare dalle sue banalità, l’arte si presta a essere lo strumento per modificare la realtà esistente e per costruire nuovi possibili scenari futuri. Per Dewey, poiché l’arte rielabora l’esperienza ed esprime una nuova e inedita consapevolezza, svolge, inoltre, una funzione educativa in quanto è un processo volto a fare del mondo un miglior posto per viverci e prevede un momento di protesta e di reazione compensatoria [J. Dewey, Esperienza e natura, Mursia, Milano 1973 (ed. or. 1929), p. 261]. L’esperienza è, in definitiva, arte in germe


[J. Dewey, Arte come esperienza, cit., p. 45], espressione che prelude già alle più radicali poetiche artistiche della seconda metà del ’900, volte alla contaminazione e all’intersezione tra arte e vita, e soprattutto a quelle tendenze che negano il processo di museificazione che confina la fruizione delle opere nello spazio (in luoghi specifici come i musei) e nel tempo (in momenti specifici, separati dalla vita ordinaria). Equiparare l’arte a un frammento dell’esperienza della vita significa ripensare le relazioni esistenti tra artista-opera-pubblico e stabilire un diverso equilibrio all’interno del sistema capitalistico, distaccandosi dal modello primonovecentesco che imponeva all’opera il valore di merce elitaria. La questione, benché riferibile a un modello di società non più esistente, offre ancora oggi significativi spunti di riflessione, perché problematizza un tema da allora mai più scomparso e che nell’attuale società della Rete ha subito fratture e, al tempo stesso, accelerazioni impreviste. L’artista, dunque, smesse le vesti di produttore di oggetti, diventa produttore di situazioni; l’opera viene ripensata come progetto e il pubblico come co-produttore del processo. L’arte partecipativa, valorizzando soprattutto dinamiche di gruppo che indirizzano all’accrescimento della consapevolezza sembrerebbe prestarsi poco, quindi, a una lettura interpretativa che utilizzi le categorie dell’estetica, confermando, pertanto, la svolta “etnografica” individuata con chiarezza da Foster. Tuttavia, proprio in riferimento a una incisiva riflessione sul tema della “spettatorialità”, Claire Bishop, rifiutando l’idea di un’arte non perturbante, collusiva con il pubblico, incapace di suscitare disturbo, inquietudine e turbamento, muove severe critiche alla strumentalizzazione del rapporto etica-arte partecipativa, insito nella svolta sociale dell’arte. Pur ritenendo che in tutte le arti che usano le persone come medium, l’etica non scomparirà mai completamente, la studiosa rimarca la necessità di mettere in relazione questo tema con l’aisthesis [C. Bishop, Inferni artificiali, La politica della spettorialità nell’arte partecipativa, a cura di C. Guida, Luca Sossella Editore, Roma 2020 (ed. or. 2012), p. 65]. La riabilitazione dell’estetica nelle pratiche collaborative

dell’arte partecipativa avviene, secondo la Bishop, attraverso il pensiero del filosofo francese Jacques Rancière3 che, collegando

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l’estetica alla politica, ha liberato la prima dallo schiacciante nesso con il formalismo, la decontestualizzazione e la depoliticizzazione che l’aveva resa sinonimo di mercato e di gerarchia culturale conservatrice [Ivi, p. 38]. Ma oltre alla lettura “quasi antropologica”, etica, estetica o politica, l’arte partecipativa si espone anche ad altre strade interpretative, di cui è ancora la studiosa statunitense a lasciare intravedere alcune possibili direzioni. Prima di concludere il suo ragionamento sulla spettatorialità, la Bishop si sofferma sui progetti pedagogici avviati nei primi anni Duemila da artisti e curatori contemporanei, osservando che questi sono emersi parallelamente allo sviluppo dei dipartimenti educativi nei musei, orientati sempre più a costruire reti di ricerca interdisciplinare e non solo a offrire supporti per la comprensione delle opere, delle mostre e delle collezioni. D’altra parte nel 1969 Joseph Beuys, considerato dalla studiosa punto di riferimento imprescindibile – assieme a letture come Pedagogy of the Oppressed (1968/1971) di Paulo Freire – per indagare l’impegno degli artisti contemporanei nella pedagogia sperimentale, aveva affermato: “essere un insegnante è la mia più grande opera d’arte”. Riferendosi a pratiche artistiche collaborative e al complesso nesso arte/pedagogia, occorrerebbe oggi interrogarsi sulla natura di questo rapporto offrendo anche prospettive di indagine diverse. Afferma la Bishop che l’arte partecipativa tende piuttosto a valorizzare ciò che è invisibile: una dinamica di gruppo, una situazione sociale, una trasformazione di energia, un accrescimento della consapevolezza [Ivi, p. 19]. Sarebbe utile indagare, pertanto, in che modo le pratiche collaborative, attraverso progetti artistici relazionali e partecipativi realizzati su e con un territorio, determinino lo sviluppo della consapevolezza e se non esista, come si crede, un nesso tra accrescimento di consapevolezza e attivazione nella comunità delle cosiddette soft skills, competenze trasversali definite dalla World Health Organization “life skills” ovvero abilities for adaptive and positive behaviour, that enable individuals to deal effectively with the demands and challenges of everyday life (1998), classificabili in competenze emotive, relazionali, cognitive. Qui si cita, a titolo esemplificativo, un recente studio compiuto da


Stefano Maltese su uno specifico progetto artistico, #CUOREDINAPOLI Beyond The Lab4, realizzato nei Quartieri Spagnoli nel 2019 con la comunità locale. Di questa esperienza, sviluppata per alcuni mesi all’interno di un’area urbana definita già in sede di progetto “periferia di senso”, lo studioso evidenzia innanzitutto che è stata, ed è, un’esperienza straordinaria nel senso più letterale del termine, non solo per­ché ha prodotto una serie di eventi artistici, comunicativi e culturali che, nel corso degli ultimi anni, hanno coinvolto e mobilitato artisti, studenti, turisti e abitanti di territori complessi del centro di Napoli, attraverso una grande scultura antropologica relazionale che è andata componendosi all’interno del tracciato cittadino e che si è alimentata delle relazioni tra i vari soggetti che hanno contribuito, costantemente, a sostenerla. È un’esperienza stra-ordinaria anche, e soprattutto, perché parte da un presupposto prospettico fondamentale: entrare nell’ordinario per evidenziarlo, rivitalizzarlo, cambiarne il punto di vista senza stravolgerlo [S. Maltese, #CUOREDINAPOLI: considerazioni pedagogiche su un’esperienza di formazione degli adulti, tra lavoro sul territorio, apprendimento cooperativo e Service Learning, in La formazione in età adulta: processi e strategie, “Epale Journal on Adult Learning and Continuing Education”, n. 5, giugno 2019, p. 34, epale.ec. europa.eu/it/resource-centre/content/epale-journal-n5-giugno-2019-laformazione-eta-adulta-processi-e-strategie].

Maltese sottolinea che l’intero progetto artistico è indirizzato alla costruzione di nuova conoscenza attraverso l’esperienza, il trasferimento orizzontale dei saperi, lo scambio tra la diversità e l’impegno comune a individuare soluzioni ai problemi reali: rete attiva di condivisione e di partecipazione, in grado di generare una commutazione di capacità, competenze e conoscenze, allo scopo di trasformare la coscienza dei soggetti coinvolti [Ivi, p. 34]. Tali azioni, volte a soddisfare il bisogno di costruzione identitaria dell’individuo all’interno della comunità e ad aumentare la consapevolezza di sé proprio attraverso la comprensione della comunità stessa, prevedono un lungo e costante lavoro collaborativo che non distingue tra artista/autore e pubblico/fruitore, coinvolto costantemente nel fare. Il site da luogo dei processi e delle

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relazioni sembrerebbe lasciare, così, il passo alla costruzione di una specificity diversa che non riguarda più l’opera (neppure intesa come processo), ma la sola comunità. L’opera, pertanto, diventa esercizio progettuale people specific finalizzato ad attivare, attraverso dispositivi estetici, competenze trasversali (soft skills), talvolta latenti, e nuova consapevolezza di reti e di processi.

1   Si veda, in particolare, J. Clifford, I frutti puri impazziscono: Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 1999 (ed. or. 1988). Cfr. anche I. Bargna, Gli usi sociali e politici dell’arte contemporanea fra pratiche di partecipazione e di resistenza, in “Annuario di Antropologia”, n. 13, 2011, pp. 75-106; M. Bontempi, Autorialità, critica e partecipazione tra arte contemporanea e teoria sociologica, in “Cambio”, n. 11, giugno 2016, pp. 1-20, 2   Si veda S. Lazy, Mapping The Terrain. New Genre Public Art, Bay Press, Seattle 1995. 3   Si veda J. Rancière, Il disagio dell’estetica, a cura di P. Godani, ETS, Pisa 2009 (ed. or. 2004) e Id., Lo spettatore emancipato, a cura di D. Mansella, DeriveApprodi, Roma 2018 (ed. or. 2008). Il filosofo francese critica Nicolas Bourriaud di Esthétique relationnelle (1998). Di Claire Bishop si veda anche Ead., Antagonism and Relational Aesthetics, in “October”, n. 110, Autumn 2004, pp. 51-79. 4  #CUOREDINAPOLI Beyond The Lab è un progetto di arte relazione e partecipata, realizzato dalla Scuola di Nuove Tecnologie dell’Arte dell’Accademia di Belle Arti di Napoli in collaborazione con Foqus - Fondazione Quartieri Spagnoli Onlus, con il Dipartimento di Studi Umanistici e con il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e con mediaintegrati. Il progetto è vincitore del bando “Prendi Parte! Agire e pensare creativo”, ideato nel 2018 dalla Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane (DGAAP) del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, per promuovere l’inclusione culturale dei giovani nelle aree caratterizzate da situazioni di marginalità economica e sociale. Si veda, in particolare, S. Maltese, #CUOREDINAPOLI Beyond The Lab. Un’analisi pedagogica sull’impatto socio-relazionale del progetto, in O. Scotto di Vettimo (a cura di), Una rivoluzionaria presa di coscienza. 10 anni di NTA, arte’m, Napoli 2020, pp. 241-249.

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Teoria e pratica del dissenso in Giovanni Klaus Koenig ISABELLA PATTI

Mai come in questi ultimi anni la polemica ha subito un discredito concettuale così profondamente ingiusto e decettivo: far polemica rimanda immediatamente a un dialogo aggressivo, possibile solo offendendo l’altro o, peggio, impossibile senza aggredire verbalmente una controparte che spesso non può difendersi. Allo stesso modo, la vis polemica intesa come peculiarità caratteriale, oggi, equivale alla totale incapacità di un individuo di contribuire ad un dibattito ragionevole. Osteggiata nella teoria e nella pratica, la polemica occupa comunque uno spazio pubblico di grande rilevanza attraverso i media che, però, ne sottolineano ostinatamente la sola negatività. Ma la polemica, che in estrema sintesi è il dialogo (nella parte di R. Amossy “dibattito conflittuale”) per eccellenza, continua fortunatamente a mantenere in fieri la sua natura di sistema comunicativo, di attività argomentativa e discorsiva (ciò che è stata per i secoli prima del XX) il cui fine è – ed è sempre stato – preservare il vivere civile poiché, di base, garantisce una voce al reciproco dissenso (dissensus) linfa che è stata – e dovrebbe tornare ad essere – vitale in ogni società realmente democratica1. Forse, per questo continuo discredito, sono sempre meno le menti illuminate che sanno come “costruire”2 una forma positiva di comunicazione basata sulle regole del dissenso e della disputa – sapendo uscire, tra l’altro, anche dalla scia dell’ossessione al consenso e al buonismo tout court che sembra, oggi, essere diventata l’unica strada percorribile nel garantire una forma demo-

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cratica di comunicazione. Vale ricordare, infatti, che la ricerca del consenso come punto centrale – generante e di arrivo – della comunicazione pubblica attuale nasconde insidie ancor più pericolose di quelle che può presentare una argomentazione polemica, ancorché portata ai suoi termini più estremi ed eristici3. La polemica si “costruisce” perché è un sistema complesso con un suo specifico funzionamento che prevede una struttura adeguata dell’oggetto polemico e soprattutto non può prescindere dall’uso intelligente dei mezzi che essa mette a disposizione: lo stesso Schopenhauer, che per primo nel suo trattato L’arte di ottenere ragione ha aperto la strada ad un recupero della dialettica eristica proprio attraverso il conflittuale e la dicotomizzazione, consapevole che la volontà di averla vinta, la brama e l’interesse di ottenere ragione degli uomini non si fermano dinanzi alla menzogna, alla falsificazione e all’ingiuria, conclude il suo saggio invitando a discutere polemicamente solo chi ha abbastanza intelletto, ama la verità e sa ascoltare. Ecco perché restituire alla polemica la sua importante funzione sociale tramite la consapevolezza del suo reale significato e funzionamento, è un passaggio necessario da cui nessuno dovrebbe prescindere soprattutto in un momento in cui sterili polemiche affollano e affogano il nostro vivere quotidiano4. In questa direzione, tra coloro che attraverso la polemica hanno gestito il proprio spessore culturale e intellettuale e i rapporti con gli altri, va ricontestualizzata la figura di Giovanni Klaus Koenig, architetto, storico, critico, progettista, intellettuale poliedrico diversamente gradito al panorama culturale italiano degli anni ’60-’80 proprio a causa di una sua connaturata predisposizione a “una gestione verbale del conflitto secondo le modalità del dissentimento” (R. Amossy, cit. in S. Amadori (a cura di), Apologia della polemica, Milano 2017, p. 20). La vis polemica dello storico fiorentino (Koenig era torinese di nascita ma fiorentino d’adozione) gli ha indubbiamente complicato la vita accademica e, alle volte, anche quella affettiva: di Koenig, infatti, è stato più e più volte ricordata la versatilità dei suoi interessi, l’anticonformismo con cui affrontò in anticipo l’invecchiamento di quell’architettura moderna ancora per molti lontana dall’invecchiare5, e il tono canzonatorio e aneddotico che


l’ha visto professore amatissimo per quasi vent’anni (dal 1967 al 1989) alla Facoltà di Architettura di Firenze. Per contro, però, proprio il suo lato polemico – talmente caustico da sembrare quasi pessimistico, come ricorda di lui Mendini6 – gli ha costruito intorno disagi e imbarazzi, e quindi una distanza dagli altri che ancora oggi ci restituisce il ritratto di un uomo tanto amato e ammirato, ma di uno studioso non sempre sufficientemente accreditato in quel piano nazionale e internazionale in cui fu, invece, molto attivo. 1. Un insopprimibile desiderio di denuncia Sicuramente il carattere provocatorio di Koenig, insieme alla confessione religiosa protestante (era Valdese) e alla sua propensione a dissentire, lo ha reso persona difficile da comprendere nel significato nascosto delle sue iperboliche argomentazioni e facile bersaglio di quella critica che proprio nella polemica irridente spesso riconosce il decadimento dell’argomentazione seria. Negli anni seguiti alla sua morte, infatti, avvenuta nel 1989, la scuola fiorentina di architettura e design e, in generale quel mondo accademico con cui Koenig aveva lungamente collaborato, hanno concordemente ricordato il grande maestro soprattutto per la sua natura battagliera: Aveva una fortissima invettiva verbale e polemica, una semplificazione di tipo popolare del suo pensiero, di facile impatto e straordinaria ricorda Tomás Maldonado; Era un provocatore nato: sempre e per definizione dall’altra parte le parole di Bruno Zevi; Era stimolante nel proporre feroci motivi di critica e autocritica in maniera che ogni scelta, ogni decisione, ogni azione diventasse oltre che un fatto operativo, un fatto culturale ricorda Romano del Nord7. Battagliero, sì, ma dotato anche di un implacabile impegno morale, atteggiamento che Koenig viveva quasi in maniera dicotomica: fu conservatore e insieme anticonformista; contrappuntava alla sua lucida severità morale un’invettiva scanzonata; fu illuminato critico – tra i primi in Italia ad aver gettato uno sguardo sul­l’architettura e sul design dalla nuova angolatura della semiotica – ma allo stesso tempo capace di esprimersi con una aneddotica popolare, alle volte così schietta e colloquiale da sembrare roman-

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zata. L’insopprimibile bisogno di denuncia, per Koenig, nasceva dal dare continuamente voce al suo giudicare contro la ricorrente propensione alle soluzioni compromissorie e intermedie, contro un silenzioso e strisciante decadimento culturale che la storia offriva alle riflessioni del critico con esempi spesso recenti e che lui implacabilmente denunciava proprio nel momento in cui intercettava l’arrivismo dilagante o la mimetizzazione politica. Nel breve saggio L’ammiraglia mediocetale, pubblicato sul­ l’allora maestosa Casabella nel 1969, troviamo un Koenig alle prese con una sua “classica” polemica: l’oggetto, la nuova Fiat 130, presentata come modello di ‘prestigio’ […] salutato da un coro di osanna e mirabilia come nuova ammiraglia della casa automobilistica italiana, per lo storico, invece, non era altro che un modello come un altro, un ottimo tassì, una buona macchina da noleggio per matrimoni, battesimi e funerali, una pratica automobile per i rappresentanti di commercio e le famiglie numerose. Implacabile condanna a cui non risparmia dettagli, ma di cui solo raggiungendo il nucleo del suo intervento si riesce a capirne le vere motivazioni: Forse, in questi tempi balzani, la contestazione dei visoni alla Scala milanese ha avuto buon gioco; o forse anche l’amore, nettamente democristiano, per il vestito grigio ha fatto sentire la sua influenza sul mercato automobilistico. È molto opportuno, per i potenti di oggi, mimetizzarsi; dato che una macchina ministeriale o presidenziale è assai più facile che riceva pomodori piuttosto che applausi. La Fiat 130 non era per Koenig un forfait creativo riferibile all’incapacità dei progettisti della Fiat, bensì il risultato di un agire consciamente nel modo in cui si è agito a causa di una sconcertante operazione di mancanza di coraggio civile che sembra caratterizzare l’Italia di questi anni Sessanta [G.K. Koenig, La macchina mediocetale, in “Casabella”, vol. 33, n. 337: 42-43, 1969]. È questo il dissentire, per niente irragionevole, di Koenig: un attacco diretto, animato da una denuncia di fondo che per lo storico si traduceva nella necessità di un ritorno alla nobiltà progettuale, come un’etica professionale e intellettuale, da far rifiorire con la classicità del kalòs kai agathòs e tramite l’uso dello strumento comunicativo inteso come informatore e formatore della comunità.


Scendendo nel cuore della sua attività di progettista, infatti, Koenig veicolò la sua vis polemica su questo specifico oggetto di conflitto: la necessità di smarcare la cultura architettonica e del design – soprattutto dalla protocollata eredità idealistica crociana – attraverso il linguaggio di un dissenso diretto, con cui restituire alla storia concretezza, realtà e materialità, e con la facilità che aveva nell’esporre fatti complessi in modo semplice e vivace. La “macchina mediocetale” racchiude in sé tutta la forza polemica dello storico che abbracciava i valori democratici e sociali riconoscendo proprio al progetto di per sé l’essere uno strumento di democrazia e cittadinanza attiva. Ancora a riprova di questa sua proverbiale capacità, altri articoli comparsi sul finire degli anni ’60 su Casabella che non rifiutò, per esempio, di pubblicare Lo sbaglio del maestro Amadeo, nel 1968, testo con cui Koenig traduce un suo imbarazzante ricordo di gioventù nella fotografia limpida di una Firenze fascista alla prese con la visita ufficiale del Re, un nano arrabbiato che guardava con sospetto i giovani fascisti indisciplinati, e che lui da istintivo anarchico quale ero e sono aveva irriso sia pure per caso e senza premeditazione8. Con una amara e divertente immagine di fondo di una città indisciplinata e caciarona – la massa vociante […] dall’urlio stridulo e isterico, e con un eloquio tagliente e implacabile, Koenig maschera ogni sua affermazione nell’immagine di un ricordo, scoprendo puntualmente i suoi oggetti polemici che si inanellano l’un l’altro come le tessere di un puzzle, trascinate a ricomporre in una tragica comicità lo spazio pubblico dell’Italia del 1938 a cui il suo attacco polemico voleva ridare voce e dignità: un’Italia violentata, una popolazione confusa ma tenace, un momento della storia così denso di fatti storici di cui ancora paghiamo lo scotto a livello civile e sociale9. 2. Gli strumenti: funzione sociale e spazio pubblico Preme subito puntualizzare alcune regole del metodo polemico alla luce delle quali riportare, poi, il pensiero di Koenig e l’articolo in questione. La polemica non si basa sul consenso ma sul dissensus, straordinario termine latino che non rimanda soltanto al semplice dissentire – cioè ad una profonda differenza di opi-

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nioni tra due o più persone – ma risulta essere proprio il contrario del consensus che, soprattutto nella sua accezione politica, intende un accordo sociale che esprime i desideri della maggioranza. Il dissenso, quindi, e la polemica che nella manifestazione del dissenso è uno degli strumenti comunicativi più efficaci, non significa essere “contro qualcuno” ma “contro una maggioranza”, contro un pensiero manifestato e condiviso da una maggioranza di persone e che, prevede proprio nel diritto, che ci sia sempre una minoranza a bilanciarlo. In questa accezione fondamentalmente sociale e pubblica, alla polemica vanno poi riconosciute due caratteristiche fondamentali da cui non può prescindere: la prima, la sua funzione sociale, garantita dal fatto che è necessario che un discorso polemico si sviluppi attraverso l’interazione con qualcun altro e che, per questo, perde di ogni valore in mancanza di un interlocutore in grado di rispondere agli attacchi polemici (da qui la triste inutilità della polemiche attuali che si riducono soltanto a uno scambio ritmato di insulti, a cui nessuno dà seguito se non con un altro insulto: apoteosi di incapacità a dialogare e paura del confronto). La seconda caratteristica, invece, risiede nello spazio pubblico, talmente necessario che in mancanza di una dimensione pluralista viene a mancare una delle prerogative principali della polemica10. Gli sterili attacchi pubblici cui oggi assistiamo continuamente non sono fare polemica, non è fare polemica aggredire ad personam, a livello personale, soltanto utilizzando un sistema comunicativo pubblico, cioè restando su argomentazioni che di pubblico hanno solo il medium comunicativo su cui queste vengono manifestate. Se è indiscutibile, infatti, che si possa parlare di uso della polemica in ambiti diversi da quello prettamente teologico nel quale si è strutturata – rendendosi autonoma a livello metodologico e linguistico soprattutto a partire dai secoli XVIII e XIX – bisogna anche che [la polemica] riguardi un argomento di pubblico interesse, perché non si tratti semplicemente di una lite, una disputa tra privati [R. Amossy, op. cit., p. 51]. Funzione sociale e spazio pubblico, quindi, restituiscono nel­ l’immediato la sfera democratica entro cui la polemica ha diritto di esistere e di essere riconsiderata come strumento valido al pari di altri sistemi comunicativi: solo in una forma di stato laica è


possibile esprimere liberamente le divergenze di opinione, il dissenso, dando vita a momenti di confronto che siano pensati per essere vissuti sotto gli occhi di tutti e che dimostrino l’utilità degli scambi (anche conflittuali) nelle società democratiche: per questo la sfida delle democrazie attuali consiste nel legittimare il dissenso, non porre fine alla polemica, alla disputa, alla controversia e alla contestazione [R.L. Ivie, Democratic Dissent and the Trick of Rhetorical Critique, in “Cultural Studies - Critical Methodologies”, 5<. 276-293, 2005].

Il pensiero di Koenig non abbandonò mai la dimensione pubblica intesa come oggetto polemico fatto dall’insieme di valori socialmente condivisi, sia a livello di interlocutori che di spazio entro cui dominare un dibattito conflittuale, anche quando partiva, come nel caso dell’articolo del maestro Amadeo, dall’additare pubblicamente un nemico in carne ed ossa o un fatto conclamato. È giusto sottolineare in questa direzione, che proprio come attività argomentativa formalizzata, un discorso polemico può iniziare da questioni di origine personale e/o scegliere un piano più viscerale, ma è necessario – per non scadere nella inutilità delle attuali polemiche che valgono solo a screditare pubblicamente un additato nemico – che da qui si sviluppi un conflitto che abbia risvolti pubblici che chiamano in causa i grandi principi e i gruppi che li sostengono (e che con essi si identificano) (Plantin, 2003, 387). Più questi principi sono radicati nella sola attualità (come, ad esempio, molti dei temi che presenta oggi la politica), meno il dibattito e i ragionamenti che ne conseguiranno saranno capaci di durare nel tempo, restando effimeri, destinati a richiamare soltanto il momento e lo spazio culturale specifico che li ha generati. Nel saggio sul maestro Amadeo, Koenig così dipinge il Re e Mussolini iniziando a smembrare il suo oggetto polemico in piccole immagini di un fumetto noto a tutti: è doveroso ricordare che mentre tutti eravamo abituati a vedere il Romagnolo, sia al cinematografo che sui muri, effigiato in tutte le salse, a torso nudo mentre trebbiava il grano o in pompa magna, a cavallo o in bicicletta, ingrugnito o sorridente, Sua Maestà il Re era per noi più giovani qualcosa di assai più misterioso. Il poverino, si sa, era di fisico così infelice da far bene a mostrarsi rara-

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mente in pubblico; ma era comunque il supremo potere, il re e imperatore, colui che poteva permettersi di dire al Matto: arrivederla cavaliere! (E infatti lo fece, ma ahimè!, troppo tardi)” [G.K. Koenig, Lo sbaglio del maestro Amadeo, 1968, in Casabella, ottobre 1968, vol. 32, n. 329: 61-62]. E così ricorda la sua giovanile intemperanza di studente di ginnasio, forzatamente arruolato nella banda littoria, immagine che rimanda alla gioventù tutta, fiorentina e italiana: quando il maestro Amadeo […] aveva attaccato il ballabile del Rigoletto, alcuni di noi, presi dal fascino del ritmo veloce del ballabile, avevano preso a fare i buffoni, improvvisando minuetti, zampettando sul marciapiede, anche per far ridere le piccole italiane, schierate di fronte, poco più in là, verso Pitti. Cosicché, all’arrivo del Re, taluni sentirono subito l’ordine, scattando sugli attenti, ma altri, invece, lo sentirono – o meglio, lo capirono – in ritardo. E anch’io rimasi nel mio ballo a mezz’aria ed ebbi la sensazione precisa che il Re guardasse proprio me, sbilanciato in così poco marziale atteggiamento. Il racconto dell’episodio di Amadeo – che si conclude con una accorata richiesta che Koenig lancia ai lettori di Casabella per recuperare notizie sul destino del malcapitato maestro – racconta anche di come lo storico sapeva calibrare l’aneddoto con la realtà storica, il proverbio con la riflessione matura, l’ironia con la critica in un percorso che mai era un attacco personale, mai in uno spazio individuale, mai un conflitto su un tema banale. Certo è, che molte delle cose che Koenig ha scritto e ha detto sono ancora oggi al limite di una storia romanzata i cui dettagli, in potenza inventati e ininfluenti in un dibattito polemico, diventano centrali se si affronta il pensiero di Koenig come volontà di storicizzazione dei fatti. Proprio da questo punto critico, le molte insofferenze manifestate dalla cultura ufficiale italiana, coeva e successiva, sulla veridicità del lavoro di storico di Koenig e che troppo spesso sono state portate a motivo della sua quasi totale esclusione da quella cultura critica che pur lo ascoltava, sorridendo, per una indignazione che mascherava, forse, l’imbarazzo davanti a tanta profonda schiettezza. In questo episodio, nel suo racconto aneddotico e divertito, vi è, in realtà, il disvelamento della tragedia storica rappresentata dal fascismo e della incapaci-


tà del popolo italiano di comprendere la natura di un fenomeno che non aveva niente della burla11. Nel L’assassinio delle scuole di design, pubblicato sempre su Casabella nel 1970, la feroce e aperta polemica è lanciata contro il Ministero della Pubblica Istruzione, senza risparmio alcuno di stoccate per i ministri tutti: essi si preoccupano di chiudere le uniche scuole dove si è fatto qualcosa di serio per migliorare la nostra sconquassata società afferma senza timori il nostro in risposta alla Comunicazione del Ministero che dall’anno successivo, le tre grandi scuole di design in Italia – Milano, Firenze e Roma – non potranno accettare le iscrizioni al primo corso; il che significa la morte, nel giro di tre anni, di tutte queste scuole. Altre voci si erano alzate, insieme a quella di Koenig, in difesa della formazione dei designer ma non con la stessa lucida volontà di puntare direttamente ai reali motivi della comunicazione ministeriale: la motivazione è duplice: il progetto di riforma di queste scuole, che si pensa di portare a livello universitario, e la mancata collaborazione economica degli enti locali. Con i governi paralizzati che corrono […] mi domando quando il nostro governo avrà voglia di occuparsi del futuro dei designers […] ad andar svelti, fra dieci anni almeno [G.K. Koenig, L’assassinio delle scuole di design, in “Casabella”, 350-351: 4, 1970]12. Koenig, in questa circostanza, rifiuta l’armamentario tipico della politica universitaria che fugge dagli spazi pubblici e dai conflitti diretti. Svela polemicamente, ma soprattutto pubblicamente, le ragioni di una realtà miope e ne chiede conto. Non ha ovviamente avuto il risultato che chiedeva, ma anche questa è una prova del suo coraggio intellettuale. 3. La terza forza del dibattito: l’interesse pubblico Ma uno degli episodi più polemici della carriera di Koenig, rimasto unico nel suo genere, resta senza dubbio il Processo pubblico all’Altare della Patria a cui partecipò nel 1986. Il fatto è forse poco noto anche se, all’epoca, ebbe una risonanza fortissima in tutto il paese: il 27 gennaio, nella Sala delle Fatiche di Ercole in Palazzo Venezia a Roma, davanti a un nutritissimo pubblico di architetti, urbanisti, giornalisti, curiosi e studenti, si svolse

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un processo semiserio che doveva formalmente stabilire la legittimità, o meno, del mantenimento dell’Altare della patria in quella forma architettonica e in quello spazio pubblico di Roma. Si stava processando, quindi, il monumento nazionale a Vittorio Ema­nuele II e il sacello del Milite Ignoto a cui veniva imputata l’estraneità, la sopraffazione e l’offesa estetica su Roma come causa determinante di danni al patrimonio artistico e ai valori urbanistici, e di pericoli per l’ambiente urbano e lo sviluppo della città [V. Scheiwiller (a cura di), Processo all’altare della Patria, Libri Scheiwiller, Mediocredito del Lazio, Roma 1986, p. 10]; si chiedeva, quindi, di esprimere un parere che fosse o nella direzione di una totale demolizione o di una definitiva assoluzione13. Koenig e Bruno Zevi, in qualità di avvocati dell’accusa, esposero le loro argomentazioni per cui il discusso monumento doveva essere, se non totalmente rimosso, almeno ripensato nell’ottica di una reale integrazione urbanistica e sociale dell’edificio. Le invettive di Koenig furono molte e molto accese: parlò del monumento come stupro della città, di un cavallaccio su cui trionfava un gigantesco zoticone che palpa a due mani le prosperose terga e che propone di sostituire con la statua di Bakunin Borzacchini14, in modo che Il grande nemico degli Altari e delle patrie sarebbe così, sia pure di straforo, egregiamente ricordato [V. Scheiwiller, op. cit., p. 40]. In uno dei tre provvedimenti finali che propone per risolvere il grande danno che il monumento arrecava alla città propose la sua traslazione che deve obbligatoriamente essere effettuata a mano, su un grande carro tirato da apposite funi. Alle suddette funi dovranno alternarsi, come giusto contrappasso, tutti gli attuali deputati e senatori della Repubblica, di sesso maschile, femminile o incerto. La prima e più importante fune sarà riconoscibile perché dorata, e al suo tiro dovranno avvicendarsi tutti i membri viventi dei governi italiani succedutisi dal 1946 a oggi. Si è consci che il loro fisico spesso infelice farà ancor più risaltare l’aspetto erculeo di Bettino Craxi, portando così i voti femminili al PSI, ma non è possibile fare altrimenti [Ibidem]. Difficile ritrovare tanta sfacciata ironia in un’accusa così sapientemente argomentata. Le responsabilità della orribile bruttezza dell’Altare erano, per Koenig, molto chiare e in capo alle titubanze e alla confusio-


ne di due generazioni di progettisti, regnanti e politici. Egli non si sottrae dall’additarle una per una: dalle incertezze di Giuseppe Sacconi, progettista del Vittoriano, che non seppe mai prendersi fino in fondo la responsabilità delle alterazioni che apportò al progetto iniziale15; alle folli fantasie dei Mattoidi che risposero al primo bando del 1881 dimostrando una percezione alterata di ciò che si andava a immaginare in Roma; al gigantismo usato dallo scultore Enrico Chiaradia, autore della statua equestre del re, che realizzò un fuori scala incombente; al confuso slogan del filosofo, poeta e deputato repubblicano Giovanni Bovio che nel 1921 propose – e ottenne – di aggiungere le spoglie del Milite Ignoto all’interno di un monumento funerario dedicato a un re; per finire con Giuseppe Zanardelli al quale Koenig riconosce l’iniziativa clientelare collegata alla scelta del botticino al posto del più tradizionale travertino, non perché materiale migliore per le migliorie del monumento, ma perché proveniente dalla zona bresciana, patria di origine di Zanardelli [G.K. Koenig, Processo all’Altare della patria, in “Processo all’altare della patria. Con i ‘mattoidi’ di Carlo Dossi”, Medusa Ed., Milano 2011, pp. 11-28]. Tutto ciò dimostra

come la polemica, anche un po’ ironica e feroce, non possa essere disgiunta da un’attenta ed estrema conoscenza storica dei fatti. È piuttosto facile immaginare le reazioni a questo tipo di attacchi di Koenig soprattutto se si inserisce il suo discorso nel clima generale degli interventi degli altri noti e notissimi protagonisti del processo: un clima di riflessione dai toni cauti e contenuti, volto a reinserire i demeriti del monumento nella più ampia tematica del bene culturale da preservare e conservare16. Solo Koenig, infatti, affrontò a viso aperto la singolar tenzone non risparmiando nomi, cognomi e nomignoli dei suoi imputati, sottolineando i risvolti delle loro decisioni, scoperchiando quanti più oggetti polemici potesse. Nel chiudere la sua arringa, Koenig, però, “volò più in alto” delle implacabili aperture polemiche, giungendo a un registro del tutto diverso e aprendo il discorso a una riflessione più ampia e democratica, di principio. Sostenendo che il giudizio di merito o demerito di una architettura e/o di un oggetto non risiede nella sua bontà o cattiveria, ma nell’uso che se ne è fatto e se ne fa – non è mai l’oggetto in sé ad avere un simbolo, ma è la storia del suo uso che lo caratterizza [in “Ca-

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sabella”, n. 337), riporta il discorso sul valore del patrimonio cul-

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turale e umano, simbolo di una società corale e del passare del tempo di una forma che l’uso pubblico rende inconsciamente democratica e che cancella qualsiasi turpe scelta architettonica17. Non v’è dubbio che dopo la conclusione dell’acceso intervento, l’attenzione del pubblico sia passata dal tratto scanzonato del Koenig-avvocato a una riflessione più personale, anche amara, ma certamente ricondotta alla condivisione, o meno, dei contenuti presentati dallo storico. Certo, anche in questo caso, molte delle provocazioni di Koenig sono state successivamente ricordate per se stesse e considerate di variabile attendibilità, ma con questo suo fare implacabile egli voleva assolutamente restituire alla storia del monumento la sua concretezza e la sua materialità, anche a costo di edulcorarla, perché sapeva usare il racconto per dipanare i nodi centrali del dibattito conflittuale e, quando questi stavano per farsi umanamente più delicati, riportarli con grande semplicità a mirare i bersagli che stavano più in alto rispetto al circoscritto oggetto della polemica iniziale: il bene pubblico, la conservazione dei beni culturali nei quali anche il Vittoriano viene alla fine catapultato dopo una sequenza implacabile di accuse. Nessun compromesso per Koenig nel fare questo: il suo impeto mirava a considerare il monumento nei suoi confini sociali e culturali, unici responsabili del disastro e, ora, anche della sperata soluzione: Chiedo soltanto – afferma Zevi nella sua arringa, concordando con l’amico-nemico di sempre – che questo processo non si interrompa e cada nel vuoto come i precedenti: che si prolunghi nel tempo e serva a liberare la gente dal torpore mentale e vitale” (V. Scheiwiller, op. cit., p. 56). I due storici vollero, sì, evidenziare il misfatto individuando uno ad uno i colpevoli, ma riposero poi nel pubblico il carico culturale della decisione. Pubblico inteso come la terza forza del dibattito e coinvolto non perché si schierasse a favore o contro una delle due posizioni (la difesa o l’accusa) ma perché l’argomento stesso doveva essere portato all’interesse del pubblico, come di interesse pubblico quale era. Alla fine di queste righe, quello che si è cercato di sottolineare è il valore attuale del mestiere di teorico e di storico di Koenig. Un mestiere con cui ha sempre cercato di uscire dal perime-


tro angusto dell’accademia, sfruttando la polemica per educare i cittadini. Oltre questo aspetto, l’insegnamento di Koenig non è, forse, soltanto il risultato dei suoi studi nei quali è riuscito, tra le altre cose, a ripensare l’architettura e il design attraverso i canoni della semiotica, ma soprattutto un insegnamento nel metodo. Fa pensare che questo metodo sia, forse, antico quanto la scienza e, probabilmente, anche per questo sempre meno utilizzato; e fa pensare, però, che come molte cose di stretta attualità, si possa attraverso di esso vedere la natura delle cose e, soprattutto, farla percepire.

1   Tra i più recenti studi che ripensano alla polemica come “coesistenza del dissenso”, si segnala la traduzione italiana a cura di Sara Amadori di Apologie de la Polémique, testo pubblicato a Parigi nel 2014 da Ruth Amossy, tra le maggiori esponenti del movimento di studi in lingua francese che ha contribuito, a partire danni Settanta e Ottanta, a rinnovare il panorama teorico di questo specifico campo linguistico d’indagine. Sempre dell’autrice francese anche La coexistence dans le dissensus. La polémique dans les forums de discussion del 2011. 2   Si fa riferimento al concetto di uno specifico funzionamento della forma comunicativa della polemica che necessita di una specifica e adeguata costruzione discorsiva per dare forma alla discussione. Per un iniziale approfondimento a questo tema, si riportano i testi inevitabili sull’argomento: C. Mouffle, The Democratic Paradox, NY: Verso, London 2000; C. Perelman - L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, pref. di N. Bobbio, trad. it. di C. Schick - M. Mayer, Einaudi, Torino 1998, [1958, 1° ed. francese]; J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1997. 3   Si veda al riguardo A. Nehamas, Eristic, Antilogic, Sophistic, Dialectic: Plato’s Demarcation of Phylosophy from Sophistry, in “History of Philosophy Quarterly”, 1990, 7: 3-17, che affronta il tema dell’eristica dal punto di vista specifico che a questa riconosce Platone: “L’eristica è l’arte del certame verbale, che non rispetta né gli obblighi formali ai quali si sottomette la vera parola retorica (ogni forma di irregolarità vi è lecita) né gli imperativi della ragione che impongono alle parti di riconoscere gli argomenti validi (ammette, infatti, gli atti di forza ed il ricorso ad argomenti fallaci)”. Amadori, 2017, 27. Si veda volendo: Cass R. Sunstein, #republic, Il Mulino, Bologna 2017, p. 175 e ss. 4  A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi, a cura di F. Volpi, trad. id. N. Curcio, Adelphi, Milano 1991. 5   Si fa riferimento al testo L’invecchiamento dell’architettura moderna scritto da Giovanni Klaus Koenig nel 1967. 6   Si fa riferimento alle parole di Alessandro Mendini durante un’intervista rilasciata nel 1997 (i riferimenti in nota 7) con cui il designer, più che

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considerarle “ludiche”, riconosce nelle battute di Koenig una sorta di forma aneddotica dell’amarezza. 7  Da I maestri dell’architettura e del design - Giovanni Klaus Koenig, video-documento illustrativo a cura di M. Brizzi - A. Di Cintio - R. Segoni - C. Terpolilli (1997) che riporta interviste, esperienze e ricordi di molti di coloro che collaborarono con Koenig dal 1965 in poi come Pierluigi Spadolini, Bruno Zevi, Umberto Eco, Alessandro Mendini, Roberto Segoni, ecc. Il video è disponibile on line su: https://www.youtube.com/watch?v=TW54q5 DvuU0. 8   Per onore di cronaca, nell’articolo si racconta di Amadeo, insegnante elementare di origine napoletana, che dirigeva a Firenze la banda della gioventù littoria chiamata a festeggiare la visita ufficiale del Re nella città toscana. L’increscioso episodio, causato dalla lunga attesa della popolazione fiorentina dell’inizio della parata reale, vide il maestro Amadeo decidere di far suonare alla sua banda – tra i cui elementi compare anche un giovanissimo Koenig – prima una marcetta del Trovatore, poi “il gran ballabile con cui inizia il Rigoletto” al posto della marcia reale piemontese. L’allegria e la leggerezza delle due musiche travolsero i fiorentini che, in pratica, si fecero trovare impreparati all’arrivo del re e, soprattutto, intenti a festeggiare per conto loro. Cfr. G.K. Koenig, Lo sbaglio del maestro Amadeo, 1968, in Casabella, ottobre 1968, vol. 32, n. 329: 61-62. 9   Vale ricordare che la visita fiorentina di Mussolini e Vittorio Emanuele III di cui parla Koenig sembra essere quella del 9 Maggio 1938. Si può rammentare, con timidezza di nota, che fu in quella occasione che il Cardinale Elia Dalla Costa chiuse le finestre dell’Arcivescovado manifestando platealmente il dissenso della Chiesa per le politiche razziali del regime. Il 1938 è anche l’anno in cui viene sciolto per acclamazione il Parlamento e trasformato in Camera dei Fasci e delle Corporazioni: il Parlamento, a ben vedere, può essere considerato come il luogo del dissenso perché si articola naturalmente in una maggioranza e in una pluralità di minoranze; la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, al contrario, può essere considerata solo come un luogo di consenso perché conosce solo di un partito e della sua maggioranza. Questa visita, perciò, rappresenta gran parte dei temi che si trattano nel presente articolo. 10   Sul concetto di spazio pubblico come inteso in queste pagine, si rimanda al testo di Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2006. 11   È la stessa linea di pensiero di Gaetano Salvemini, Le origini del Fascismo in Italia, Feltrinelli, Milano 2015, ma raccontata con un linguaggio diametralmente diverso. 12   Vale ricordare che Koenig, insieme a Angelo Maria Landi, Pierluigi Spadolini e Leonardo Benevolo, aveva fondato nel 1962 a Firenze il Corso Superiore di Disegno Industriale CSDI che arrivava a due anni dall’apertura di quello di Venezia, seguito poi nel 1965 da Roma (con Giulio Carlo Argan e Aldo Calò) e nel 1967 da quello di Parma. L’apertura di queste scuole era stata voluta dal Ministero della Pubblica Istruzione nell’ambito dell’istruzione artistica; i nuovi corsi, però, erano accomunati tutti da una precaria veste normativa – connotati da un “in via sperimentale” – e collocati negli Istituti d’Arte, finanziati dal Ministero assieme ad enti locali e imprese private. Cfr.


A. Pansera, La formazione del designer in Italia. Una storia lunga più di un secolo, Marsilio, Venezia 2015. 13   I partecipanti al processo erano così suddivisi: Francesco Piga (Presidente della Corte), Giovanni Klaus Koenig e Bruno Zevi (avvocati dell’accusa), Claudia Conforti e Paolo Portoghesi (avvocati della difesa), Guido Landi, Guglielmo Bilancioni, Giancarlo Busiri Vici (Consulenti tecnici), Giulio Andreotti, Giulio Carlo Argan, Fulco Pratesi, Giovanni Spadolini (Testimoni), Ludovico Gatto, Adalberto Altamente, Dante Bernini, Michele Cordaro, Carlo Cresti, Vazio de Lucia, Vittorio Emiliani, Gianni Letta, Antonio Lubrano, Roberto Mostacci, Carlo Odoisio (Giuria, il cui Presidente fu scelto in Ludovico Gatto). Cfr. V. Scheiwiller (a cura di), Processo all’Altare della patria: atti del processo al monumento in Roma a Vittorio Emanuele II, 27 gennaio 1986, Libri Scheiwiller, Mediocredito del Lazio, Roma 1986. Si veda volendo il saggio dell’autrice “Giovanni Klaus Koenig e la polemica come metodo esistenziale”, in M.C. Tonelli, Giovanni Klaus Koenig, un fiorentino nel dibattito nazionale su architettura e design. 1924-1989, FUP, Firenze 2020 che affronta in maniera più approfondita l’episodio dell’altare della Patria. 14   Mario Umberto Baconino Borzacchini (1898-1933), pilota automobilistico, vicecampione d’Europa nel 1932 e terzo classificato nel 1931, perse la vita a Monza nel 1933 in una sciagurata gara dove morirono anche i piloti Giuseppe Campari e il polacco Stanislas Czaykowski. Deve il suo nome, Baconino, alla convinzione anarchica dei genitori che si ispirarono alla figura dell’anarchico russo Michail Bakunin, nome che, nel 1930, il pilota decise si sostituire con un più “italiano” Mario Umberto, ovviamente in onore della famiglia reale. Vinse molte gare automobilistiche indossando le maglie dell’Alfa Romeo, della Maserati e della Ferrari. 15   Si fa riferimento all’annoso problema posto dai membri della Commissione Archeologica Municipale contro la distruzione degli “avanzi importantissimi, coevi ai primi anni di Roma, le mura dell’arce capitolina” che si era resa necessaria per erigere il Vittoriano. La questione era molto delicata: gli scavi avevano portato alla luce resti antichi (dalle mura serviane, prima cinta muraria della città risalente al VI secolo a.C., allo scheletro di un mammut) e un contemporaneo programma stabilito dal Presidente del Consiglio, Agostino Depretis, prevedeva anche la demolizione di molti edifici che si trovavano nell’area del cantiere e che risalivano a una disposizione urbanistica medievale. I pesanti abbattimenti passarono tutti al vaglio della Commissione Reale, ma furono preceduti da polemiche e continui scontri tra le amministrazioni capitoline. Sacconi non prese mai decisioni chiare a riguardo e preferì compromessi continui, che poi chiamò “piccoli escamotages”, e che, in realtà, compromisero fortemente la coerenza formale del monumento. Cfr. V. Scheiwille, op. cit., pp. 13-16. 16   Come riporta Eleonora Cavalieri nel suo recente studio sul contributo di Giovanni Urbani alla tematica della tutela dei beni culturali in Italia, durante tutti gli anni Ottanta l’attenzione per il settore dei beni culturali rimase crescente, “come dimostrato dal fiorire degli studi della scienza giuridica, dall’aumento dei finanziamenti pubblici alla cultura, dalla crescita dimensionale delle amministrazioni”. Per approfondire la specificità della riflessione in questi anni, si rimanda direttamente al testo E. Cavalieri, La tutela

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dei beni culturali. Una proposta di Giovanni Urbani, in “De Jure”, fasc. 2: 473, 20112. 17   Ancora su questo argomento: “Uno dei fondamenti del giudizio critico sugli oggetti d’uso, è che non sono in loro stessi buoni o cattivi, ma è l’uso che se ne fa a qualificarli colpevoli o meritevoli”. G.K. Koenig, Pro-

cesso all’Altare della patria, in “Processo all’altare della patria. Con i ‘mattoidi’ di Carlo Dossi”, Medusa Ed., Milano 2011, pp. 11-28, p. 27.

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Arte Ricerca Scienza: per una visione palindroma della conoscenza GIUSEPPE GAETA

Il rapporto tra Arte e Scienza è da sempre un rapporto tanto di reciproca attrazione quanto conflittuale. Tuttavia, la distanza che segna la definizione dei due concetti risulta meno ampia quando si passa dalla teoria alla pratica, entrando nel comune orizzonte della ricerca. I paradigmi che si sono affermati nel corso del tempo hanno prodotto una divaricazione dei percorsi assegnati ai due ambiti di manifestazione dello spirito umano, spingendoli a viaggiare su binari paralleli, seppure non privi di snodi e stimolanti contaminazioni, fino a giungere sostanzialmente a una parziale autonomia degli stessi. Per oltre un secolo la visione di una conoscenza intesa come processo oggettivante e logico ha determinato una presa di distanza del pensiero della scienza da quello delle arti, queste ultime legate, o meglio vincolate, dalla metà del Settecento al problematico destino del Bello, a partire dalla fama che a tale concetto contribuì a dare Charles Batteux, attraverso il titolo della sua opera dedicata alle Arti Belle [C. Batteux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, Durand, Paris 1746]. La fortuna di tale categoria, che riuniva sotto un tetto comune pittura, scultura, musica, poesia, danza, a cui si aggiunsero, per lungo tempo, l’architettura e l’eloquenza, diverrà in breve tempo il recinto di un campo semantico a tenuta stagna. Dopo la metà del XVIII secolo – afferma Wladislaw Tatarkiewicz – non vi sono più dubbi che l’artigianato è artigianato e non è arte e che le scienze sono scienze e non arti, quindi che soltanto le belle arti sono vere

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arti, perché non esistono altre arti [W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 1993, p. 48]. Una visione che segnerà

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progressivamente il percorso delle arti e delle istituzioni formative artistiche, recidendo quel legame che nel comune territorio della pratica della ricerca mantiene una propria riconoscibilità. La contaminazione tra i saperi, infatti, ha continuato a manifestarsi più di frequente nell’ambito delle produzioni che nella dimensione teoretica, più intenta a segnare confini che a costruire ponti, almeno fino all’accelerazione destrutturante di inizio Novecento, allorquando la revisione epistemologica della finalità oggettivante della conoscenza scientifica apre una nuova fase di riflessione critica sull’idea della conoscenza. Come ci ricorda Edgar Morin, emerge la necessità di costruire un approccio complesso alla conoscenza, capace di affrancarsi dal paradigma della semplificazione per pervenire a una nuova e più ampia visione dei fenomeni: Ora la complessità è tornata a noi, nelle scienze, per lo stesso cammino che l’aveva espulsa [E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993, p. 10]. Tuttavia, ancora oggi si sconta il retaggio della visione che da Batteux in poi ha segnato il destino dell’Arte bella1, che, dopo aver perso qualche pezzo sulla scorta delle visioni gentiliane di inizio Novecento (la separazione da Architettura avviene nel 1935), viene gradualmente relegata nel limbo del dorato mondo della creatività “pura”, forgiando così una gabbia sempre meno dorata e dai confini sempre più angusti. In tale contesto, infatti, il tema della ricerca, centrale nella pratica delle arti e della didattica artistica – almeno quanto nelle scienze – e ripetutamente rivendicato quale diritto fondamentale da parte degli operatori del settore formativo, viene frequentemente derubricato in attività implementata nell’agire didattico e non distinguibile da esso. Occorre, tuttavia, distinguere preliminarmente due livelli del ragionamento: il livello delle rappresentazioni collettive e il livello delle pratiche sociali, seppure nella consapevolezza dell’inestricabile legame che li unisce. Per citare una storica dichiarazione di Giulio Carlo Argan: Ogni insegnamento artistico dovrebbe essere un insegnamento della progettazione. Si chiudano, si seppelliscano finalmente le accademie: anche quando sono dirette e gestite da artisti moderni, nella struttura, nel meto-


do, nella finalità sono collegate ad una concezione dell’arte e della sua funzione sociale ormai definitivamente scadute. O crediamo che l’arte è mimesis e rappresentazione, e bisogna sopprimere le scuole di progettazione; o crediamo che è funzione, e bisogna sopprimere le accademie. I due sistemi d’insegnamento potevano coesistere nel passato, quando tra arte e artigianato v’era una continuità operativa, e la funzione era rappresentativa, la rappresentazione funzionale. Ora non più: non si può insegnare contemporaneamente la fisica nucleare e il sistema tolemaico, la chimica e l’alchimia, libero lo studente di scegliere tra la scienza del proprio tempo e quella di tre secoli fa. Ma bisogna anche liberare le scuole d’arte dalla fissazione dell’oggetto: quale che sia il loro livello o grado, lo scopo è sempre uno, la progettazione come proposta di mutazione dell’ambiente, la trasformazione continua dell’ambiente visivo in immaginario [G.C. Argan, Arte, Scuola e Città, in “Metrò”, n. 15, maggio 1969, p. 4]. La dichiarazione di Argan, in apparenza apodittica ma in sostanza molto più temperata e prospettica, assume una valenza paradigmatica ed è certamente fondante del percorso di sperimentazione intrapreso poco dopo con la creazione nel 1973 degli ISIA (Istituti Superiori per l’Industria Artistica). L’idea che emerge dalle parole dello storico dell’arte, tuttavia, non è tanto quella di un abbandono delle strutture fisiche dell’Accademia, quanto piuttosto di una certa “idea” di Accademia, non più in linea con il sentimento del tempo. Questo perché la centralità della riflessione di Argan è rivolta soprattutto alla funzione dell’Arte intesa come progetto, ossia come lui stesso dice, di un “progettare come rigoroso immaginare”, distinta dal modello di pensiero della scienza, ma non subordinata o relegata nell’universo inconoscibile dell’irrazionale puro, bensì esprimente una diversa ratio, quella dell’immaginazione. Ciò che abitualmente viene proposto come un dualismo per Argan diventa una complementarità, un’antesignana forma di pensiero della complessità, antitetico alla rigida strutturazione di una ragione a senso unico, esposta ai rischi di disattenzione selettiva della razionalizzazione, patologica manifestazione del sapere, incarnata in quella che Morin definisce “intelligenza cieca”2. Così Argan, non contrapponendo né

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giustapponendo i concetti di Scienza e di Arte, apre alla possibilità di un reciproco riconoscimento, ponendo entrambe al servizio di un fine più alto: Dalla scienza, processo del puro raziocinio, la tecnologia industriale ha preso la propria razionalità o la propria logica; dall’arte, processo rigoroso dell’immaginazione, può prendere la capacità di rispondere ai bisogni reali della società, che certamente non sono logici ma non debbono essere istintuali come vorrebbero i feticisti del consumo di massa. Debbono essere bisogni dell’immaginazione [G.C. Argan, Arte, Scuola e Città, cit., p. 8]. Ecco emergere nelle parole dello studioso un elemento esiziale dell’idealtipica natura dell’arte (e dell’artista) e della supposta estraneità al mondo della ricerca: Ma l’immaginazione, benché la si tenga per dote rarissima e d’emanazione divina, è la più screditata delle attività del pensiero: non conosce, non fa, non ha legge (o si crede) e può istigare – orrore – al peccato. È così facile dimostrare il contrario, nelle piccole cose e nelle grandi [Ibidem.]. Secondo Argan l’immaginazione è stata colpevolmente ipostatizzata nella dimensione del divino, attribuendole tre evidenti disvalori: “non conosce, non fa, non ha legge (o si crede)”. Del primo ritroviamo preoccupanti conseguenze in autorevoli documenti sulla definizione della ricerca come il Manuale di Frascati - The Measurement of Scientific, Technological and Innovation Activities3, punto di riferimento per la misurazione della qualità della ricerca in ambito europeo, dove si legge: Espressione artistica versus ricerca 2.67 La performance artistica è solitamente esclusa dalla R&S. Le performances artistiche non soddisfano il requisito di novità della R&S nella misura in cui esse ricercano nuove forme di espressione piuttosto che nuova conoscenza. Anche il criterio di riproducibilità risulta disatteso (come trasferire le nuove conoscenze potenzialmente generate). Conseguentemente, in assenza di prove ulteriori non va dato per scontato che le istituzioni di formazione e i dipartimenti universitari artistici possano condurre attività di R&S [Frascati Manual, Guidelines for Collecting and Reporting Data on Research and Experimental Development, OECD, 2015, p. 65]. “Nuove forme di espressione piuttosto che nuova conoscen-


za”, la dichiarazione è foriera di molte perplessità e decisamente in controtendenza sia rispetto alla visione di Argan sia a quella di Morin: Una conoscenza non è uno specchio delle cose o del mondo esterno. Tutte le percezioni sono nel contempo traduzioni e ricostruzioni cerebrali a partire da stimoli o segni captati e codificati attraverso i sensi. Da qui derivano, ben lo sappiamo, gli innumerevoli errori di percezione che ci provengono comunque dal nostro senso più affidabile, quello della visione [E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001, p. 13]. Quello che è in gioco non è la definizione di scienza, ma l’idea stessa della conoscenza e della sua manifestazione storica e fenomenica: la ricerca. Il monito di Morin è netto e non lascia adito a fraintendimenti: il sapere della scienza e la sua forma logica non sono i soli strumenti indispensabili di indagine e di conoscenza della realtà. Lo sviluppo della conoscenza scientifica è un potente mezzo di individuazione degli errori e di lotta contro le illusioni. Tuttavia, i paradigmi che controllano la scienza possono produrre illusioni, e nessuna teoria scientifica è immunizzata per sempre contro l’errore. Inoltre, la conoscenza scientifica non può affrontare da sola i problemi epistemologici, filosofici ed etici [Ivi, p. 14]. Affinché la ragione stessa sfugga al movimento centripeto di autoreferenzialità confermativa, ponendosi nell’orizzonte di una scienza aperta fondata su una visione sistemica e relazionale, devono trovare diritto di riconoscimento e di cittadinanza altre forme di ragione. La centralità dell’umano diviene così il centro di una nuova visione della conoscenza, che ricomprende differenti modelli di sapere, di acquisizione e di organizzazione logica delle informazioni, di costruzione di modelli esplicativi, di negoziazione perpetua della verità, fini ultimi di ogni vera forma di ricerca: La vera razionalità, aperta per natura, dialoga con un rea­le che le resiste. Fa incessantemente la spola fra istanza logica e istanza empirica; è il frutto del dibattito argomentato delle idee, e non già la proprietà di un sistema di idee. Un razionalismo che ignora gli esseri, la soggettività, l’affettività, la vita, è irrazionale. La razionalità deve riconoscere l’importanza dell’affetto, dell’amore, del pentimento. La vera razionalità

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conosce i limiti della logica, del determinismo, del meccanicismo; sa che la mente umana non potrebbe essere onnisciente, che la realtà comporta mistero. Negozia con l’irrazionalizzato, con l’oscuro, con l’irrazionalizzabile. Non solo è critica, ma è autocritica. Si riconosce la vera razionalità dalla capacità di riconoscere le sue insufficienze. La razionalità non è una qualità di cui sono dotate le sole menti scientifiche e tecniche, e di cui le altre sarebbero prive. [Ivi, pp. 16-17]. Pertanto, la scienza cieca non è quella che non è in grado di conoscere, ma quella capace di concepire la conoscenza in una sola prospettiva, dimostrandosi così incapace di riconoscere il proprio limite, rifiutando la possibilità stessa che esista un altro percorso, un’altra chiave interpretativa, accessibile non soltanto per cumulo o sottrazione di dati, ma a partire dalla messa in discussione della natura stessa del dato, che, privato della corazza della presunta oggettività, si mostra in tutta la propria nudità di atto interpretativo. Come scrive la studiosa canadese Danielle Boutet: Per molto tempo conoscere ha significato: avere coscientemente nella propria mente. Ma nel secolo scorso “la conoscenza” è diventata progressivamente sinonimo di conoscenza scientifica e, più specificamente, sinonimo dei prodotti della ricerca scientifica, ossia dei “saperi”; questo è tra l’altro ciò che intendiamo quando parliamo di “società della conoscenza”. Nel pensiero contemporaneo, la conoscenza è il prodotto della ricerca o dello studio, piuttosto che una conoscenza esperienziale; e il paradigma della conoscenza è ormai la conoscenza di tipo scientifico [D. Boutet, Art, connaissance et transdisciplinarité: quelques idées, 2010, www.recitsdartistes.org].

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Il graduale ma inesorabile processo di riduzionismo ha operato pervicacemente per oltre un secolo, con vicendevoli complicità tra i due mondi. Nel caso italiano ciò si è tradotto, ad esempio, nella costituzione di un ambito specifico in cui relegare la cosiddetta istruzione artistica, che è stata più volte sul punto di entrare a pieno titolo nel sistema della formazione terziaria universitaria, ma, per spinte a volte interne più che per volontà esterne, ne è rimasta sempre ai margini, galleggiando in una sorta di no man’s land 4.


A questo punto, merita particolare attenzione il concetto che ha costituito lungamente il correlato della parola Arte, operando “in combinato disposto” con essa, per definirne al tempo stesso motivazioni e fini: la creatività. L’alta valutazione della creatività – afferma Wladislaw Tatarkiewicz – sorse principalmente sul terreno dell’arte. E ciò è comprensibile, perché le altre attività umane adempiono ad altri compiti: la scienza serve alla conoscenza del mondo, la tecnica all’organizzare e rendere più facile la vita, mentre l’arte adempie a tali compiti in forma non abbastanza soddisfacente perché essi possano costituire la sua ragion d’essere [W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, cit., p. 267]. Questo campo esclusivo è stato e viene tuttora coltivato all’interno di molte istituzioni formative quale idealtipo del procedimento artistico, assumendo in molti casi la forma di modello morale e didattico. Compito dell’artista sembra essere quello di coltivare la crea­ tività, che, col venire meno di riferimenti etici e politici, si traduce nel coltivare la “propria” creatività, all’interno di un orizzonte chiuso, dove si tende a operare, secondo la nota definizione di Thomas K. Kuhn, in un paradigma di “scienza normale”, accompagnato da un processo di istituzionalizzazione del sapere. Tale processo, imputato da Edgar Morin al sapere delle istituzioni della scienza, risulta altrettanto riconoscibile nelle istituzioni artistiche, in particolare quelle formative, dove il “diritto” istituzionalizzato al riconoscimento della “creatività” appare simmetrico al diritto al riconoscimento della “scientificità” che potremmo trovare in un dipartimento universitario di hard sciences. Tuttavia, l’istituzionalizzazione del sapere può anche rappresentare la fine della ricerca, se non viene tenuta viva e pulsante la necessità di costante revisione del quadro delle conoscenze, da operare in chiave sistemica e relazionale, superando quegli steccati che impediscono alla visione di espandersi al di là del limite imposto da un paradigma dominante. Qui non si tratta più di aprire porte tra mondi diversi, si tratta di uscire da quei mondi per entrare in uno spazio comune e relazionale dove la ragione di una parte sia terreno fertile per il fiorire del pensiero e dell’esperienzialità dell’altra, in una reciprocità strutturata e strutturante. Secondo Danielle Boutet: Il problema non è tanto che tale cono-

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scenza oggettivata esista. (…) Il problema è piuttosto che questa epistemologia è diventata il paradigma, la reale definizione della conoscenza stessa. Nelle arti abbiamo lo stesso tipo di separazione tra l’oggetto d’arte e il contesto della sua realizzazione, tra l’opera d’arte e l’esperienza del suo creatore. Ciò rende possibile un fiorente mercato dell’arte e la stragrande maggioranza dei libri di storia dell’arte sono infatti la storia delle opere d’arte. In conclusione, la visione paradigmatica è che l’arte equivale alla collezione di opere d’arte disponibili in tutto il mondo, e che la conoscenza è la somma totale delle informazioni disponibili attraverso biblioteche e siti web – non l’illuminazione nella mente delle persone, non la qualità, l’ampiezza e la complessità della loro comprensione [D. Boutet, Vision and Experience: The Contribution of Art to Transdisciplinary Knowledge, in “Transdisciplinary Journal in Engineering & Science”, vol. 4, December 2013, The Academy of Transdisciplinary Learning and Advanced Studies, p. 108].

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Anche nel citato Manuale di Frascati, riemergono i due concetti di progetto e di creatività, interrelati con il problema del riconoscimento e della misurazione/valutazione della ricerca. Con particolare riferimento al settore del design, ad esempio, il documento specifica: R&S e progettazione 2.62 Le attività di progettazione e di R&S sono difficili da separare. Alcune attività di progettazione sono parte integrante di progetti di R&S e l’attività di R&S può contribuire a nuove iniziative di progettazione. Vi sono somiglianze e collegamenti. Tuttavia, non tutti i progetti soddisfano i test di novità funzionale e di incertezza previsti dai cinque criteri fondamentali di questo capitolo in materia di ricerca e sviluppo. (…) La differenza principale con la ricerca e lo sviluppo è che non vi è alcuna incertezza quando si chiede a progettisti qualificati di contribuire a un progetto di innovazione. Ciò porta a ritenere che il disegno o modello non sia ricerca e sviluppo e che debba essere tenuto distinto dalla ricerca e sviluppo per qualsiasi scopo statistico [Frascati Manual, cit., p. 63]. Su questo tema, nel dialogo tra l’economista Paolo Ricci e il designer Francesco Trabucco, si rinviene una visione propositiva


del rapporto tra innovazione, R&S e Design/Arte: Non si potrà più fare a meno dell’idea – dichiara Ricci – che la mission, la vision dell’azienda, sia costruita da chi mette capitali ma anche da chi mette l’idea, da chi dà gusto alle cose. Noi siamo fortemente condizionati dall’esistente, da quello che esiste già, che ci circonda, che riempie la nostra giornata, dalle forme che conosciamo, e, per alcuni versi, anche da come le abbiamo assimilate, facendole diventare nostre. Eppure se ci limitassimo a questo, a immaginare il mondo e le cose che lo compongono esattamente come si manifestano, così come sono state immaginate fino a ora, non innoveremmo, ripeteremmo. Bisogna produrre un qualcosa che risponda a una funzione, quindi rispondere a una domanda, a un bisogno, e che sia anche bella. Ma supponiamo di rovesciare il mondo, di dover ideare una cosa bella e che poi sia funzionale. Ho letto di recente un saggio in cui si ricordava che la bellezza è un canone della moralità, senza immaginare che sia altro: dove per moralità si intende non solo la risposta dei costumi, ma il mettere insieme i sistemi valoriali. (…) È eticamente sostenibile un agire che sia in grado di tenere assieme più sistemi valoriali” [F. Trabucco - P. Ricci, Design vs Economia, Franco Angeli, Milano 2017, p. 76]. Quanto dichiarato da Paolo Ricci sembra rispondere alle preoccupazioni riscontrabili nel manuale di Frascati: 2.63 Mentre un progetto di ricerca e sviluppo comporta incertezza sul fatto che un risultato atteso sarà raggiunto entro un termine concordato, l’incertezza di un progetto di progettazione sarà direttamente influenzata dalla chiarezza e dalla fattibilità dei suoi obiettivi originari. (…) Per far fronte all’incertezza può essere necessaria un’attività di R&S che integri l’uso degli strumenti di progettazione esistenti [Frascati Manual, cit., p. 64]. Ora, se è vero, come ci ricorda Tatarkiewicz, che la creatività non è creatio ex nihilo ma ricombinazione originale di elementi noti (cfr. strumenti di progettazione esistenti), solo la creatività sembrerebbe in grado di contrastare l’incertezza, sostituendo al programma la strategia5, ossia un modus operandi capace di riadattarsi al variare delle condizioni, rimodulando la propria visione. Progettazione e creatività, concetti peculiari dell’identità del fare artistico così come del procedimento scientifico, forse loro

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stessa ragion d’essere, sembrano, dunque, elementi ineludibili e fondanti sia dell’individuazione e del superamento delle criticità sia del processo di riconoscimento e di valutazione della qualità. Tuttavia, affinché diventino strumenti operativi e non soltanto categorie astratte, ne vanno costantemente riconosciuti, e non sottaciuti, limiti e potenzialità, distinguendo e valorizzando i fattori di innovazione rispetto a quelli di resistenza autoconservativa. Si dovrebbe concepire, come dice Edgar Morin, un’autonomia del­ l’agire intesa nei termini di auto-eco-organizzazione, fondata sul valore etico del riconoscimento della complessità come orizzonte di civiltà. Tradotto nel linguaggio dell’assicurazione della qualità, ci si dovrebbe porre in un orizzonte di una cultura dell’autovalutazione in grado di diventare il vero benchmarking della razionalità. Come suggerisce Mita Marra nel suo testo Valutare la valutazione: Pensare valutativo significa mettere in questione gli obiettivi, le procedure e le routines delle organizzazioni. Significa porre e porsi domande di questo tipo: – abbiamo raggiunto l’obiettivo? (salienza); – perché è rilevante l’obiettivo raggiunto (o meno)? (natura, scala e passo del cambiamento); – per chi è rilevante l’obiettivo? (equità e giustizia sociale); – come è stato raggiunto l’obiettivo? (qualità/efficienza/ efficacia) [M. Marra, Valutare la valutazione, Il Mulino, Bologna 2017, pp. 131-132]. Domande pragmatiche, certamente, ma anche etiche, orientate a costruire quell’equilibrio tra visioni che Paolo Ricci definisce orizzonte valoriale ma anche strumento della sostenibilità. In questo percorso l’arte, o meglio, le arti potrebbero non essere isolate perché anche le scienze combattono da tempo contro il riduzionismo oggettivante, in una prospettiva sempre più “politica” invece che accademica, orientata dal bisogno urgente di costruire un luogo e un tempo in cui i saperi tornino a essere al servizio del­l’umanità e non mero strumento di controllo degli uomini, un luogo e un tempo di pratiche transdisciplinari dove sia possibile vedere e progettare l’oltre. Forse, come suggerisce Argan il luogo dove si combatterà la


battaglia più importante sarà ancora la Polis, che, nel frattempo, come Cariddi, continua a divorare ciò che la lambisce, inglobandolo in un corpo apparentemente unico, ma in realtà articolato e poliforme. Una Polis glocale e multidimensionale dove visioni del mondo differenti abbiano diritto di cittadinanza. Chi altri mai, se non gli artisti, – ma non da soli, aggiungeremmo noi – potrebbe trasformare la mostruosa Megalopoli industriale in una moderna polis a dimensione umana, cioè a misura d’immaginazione? Se un giorno mai questa utopia dovesse avverarsi, i critici non avranno più da disputare se l’artista oggi sia Faber o Ludens: né Faber né Ludens, amici, ma ancora e sempre più consapevolmente politicus” [G.C. Argan, Arte, Scuola e Città, cit., p. 12].

1  L. Caramel - F. Poli, L’arte bella. La questione delle accademie di belle arti in Italia, Feltrinelli, Milano 1979. 2   In riferimento ai concetti di disattenzione selettiva e intelligenza cieca, cfr. E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993. 3   Come dichiarato nella premessa del testo “Il Manuale di Frascati è uno standard internazionale da oltre cinquant’anni ed è oggi uno standard mondiale. L’uso delle statistiche di ricerca e sviluppo sperimentale (R&S), basate sulle indicazioni del manuale, ha acquisito influenza e le statistiche vengono utilizzate in una vasta gamma di settori politici e in molti paesi al di fuori dell’OCSE. Il manuale fornisce la base per un linguaggio comune per parlare di R&S e dei suoi risultati”. 4  L. Caramel - F. Poli, op. cit. 5   “L’azione è strategia. La parola strategia non indica un programma predeterminato che è sufficiente applicare ne varietur nel tempo. La strategia consente, muovendo da una decisione iniziale, di ipotizzare un certo numero di scenari per l’azione, scenari che potranno essere modificati secondo le informazioni che arriveranno nel corso dell’azione e secondo le alee che sopraggiungeranno e perturberanno l’azione”. E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, cit., p. 79.

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Sezione visibile e réalisation. La materia delle cose (e il loro linguaggio) FRANCESCA BELLONI

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Considerando la geometria descrittiva e le sue specifiche tecniche di proiezione che, dalla codificazione del metodo di Monge in avanti, hanno influito sulla figurazione architettonica e, di conseguenza, sull’architettura stessa, pare di un certo interesse riflettere sulla ragion d’essere della sezione visibile, locuzione con cui ci si riferisce alla sezione atmosferico-materica, sovente associata a piante e prospetti realizzati con analoghe tecniche impressionistiche. La constatazione che, tra le diverse pratiche del disegno, tale elaborato stia vivendo una nuova fortuna apre il campo a possibili considerazioni, legate anzitutto alla sua progressiva riscoperta dopo l’esperienza del Movimento Moderno, stagione in cui, rispetto ai secoli precedenti, si assiste alla riduzione dei dati atmosferici a favore di quelli oggettivi, privilegiando modalità di rappresentazione considerate più appropriate per interpretare il rinnovamento linguistico che l’architettura stava vivendo. Non serve sottolineare come – da Gropius a van Doesburg, da Le Corbusier a Sartoris – le avanguardie del Novecento e gli esponenti della cosiddetta architettura razionale privilegino la pianta e ancor più l’assonometria per la capacità di restituire l’articolazione volumetrica e spaziale, garantendo la restituzione metrica degli elementi senza deformazione alcuna. Al contrario, negli ultimi anni si sta assistendo a una inversione di tendenza, testimoniata dalla diffusione della cosiddetta sezione atmosferico-materica, capace di tradurre in immagini la


poetica del progetto e mostrare il non immediatamente visibile. La relazione tra disegno e architettura (costruita o costruenda) si proietta sul piano fisico; lo spazio architettonico – nella sintesi astratta delle due dimensioni – si definisce a partire dall’essenza delle cose, dal loro essere elementi eminentemente materici. La natura euristica di tale disegno – mezzo di ostensione del progetto e, al contempo, strumento della sua elaborazione – presuppone due considerazioni tangenti e per certi versi correlate: la prima relativa al concetto di arte come procedimento, secondo il quale l’arte è pensiero che si attua per mezzo di immagini [V. Šklovskij, L’arte come procedimento, in I formalisti russi, Tzvetan Todorov (a cura di), Einaudi, Torino 1965, p. 75], che spiegano ciò che

è ignoto mediante ciò che è noto; la seconda legata al tema della ripresentazione del prodotto artistico, in questo caso architettonico, attraverso una materialità mediata (dal disegno), alla ricerca dell’aura. Tenendo sullo sfondo la prima questione e assumendo il discorso di Benjamin in merito all’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in relazione a quanto qui si vuole trattare, pare di un certo rilievo il tema dell’apparizione e il conseguente carattere d’apparizione [Cfr. G. Di Giacomo, La questione dell’aura tra Benjamin e Adorno, in “Rivista di estetica”, n. 52, 2013, pp. 235-256], cioè il meccanismo stesso dell’apparire dello spazio

architettonico attraverso la sua connotazione visibile. Se ammettiamo infatti che in generale la sezione sia un’operazione formale di spiegazione, in questo caso particolare tale spiegazione ha a che fare con il dispiegamento – finanche svelamento – dello spazio e delle sue disposizioni. In tal senso le ragioni dell’impiego della sezione atmosferico-materica risiedono nella capacità di mostrare il carattere dell’edificio e di rivelarne il valore architettonico, la spazialità e le ragioni costruttive o, per dirla con Frampton, ricomporre la triade topologia, tipologia, tettonica e restituire per mezzo dell’arte l’unità [V. Gregotti, Introduzione, in Kenneth Frampton, Tettonica e architettura, Skira, Milano, 1999, p. 9]. In molti hanno indagato tali questioni alla ricerca dell’aura, per definirne il carattere e metterlo in forma, ben sapendo che i possibili campi di tale ricerca possono essere di natura differente e assumere sfumature e accezioni in qualche caso divergenti. La ricerca rossiana, per esempio, costruendosi attorno alla

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relazione tra progetto e memoria, fa eco allo sguardo visionario di tipo spaziale del Piranesi delle Carceri: Guardiamole queste Carceri […] una delle opere più segrete che ci abbia lasciato in eredità un uomo del XVIII secolo. Innanzitutto, si tratta di un sogno. […] la negazione del tempo, lo sfalsamento dello spazio, la levitazione suggerita, l’ebbrezza dell’impossibile raggiunto o superato […] e infine la fatale e inevitabile bellezza. […] l’eroe del dramma delle Carceri è lo Spazio. […] La nostra vertigine davanti al mondo irrazionale delle Carceri è provocata non da una mancanza di misure (poiché mai Piranesi fu più geometra), ma dalla molteplicità di calcoli che si sanno esatti e che conducono a proporzioni che si sanno sbagliate [M. Yourcenar, La mente nera di Piranesi, in Id., Con beneficio d’inventario, Bompiani, Milano 1985, p. 126 e 128-129]. Come nelle tavole piranesiane, in cui la ricerca dell’irrazionale è condotta attraverso precisione geometrica e perfezione tecnica, le lunghe e articolate sezioni rossiane attraverso le sale Apollinee del Teatro La Fenice, disegnano un pensiero che si dispiega nello spazio, lo svela con accenti pittorici e chiaroscurali e ne racconta la futura memoria, interpretando in termini visibilistici e tattili la materialità del progetto. In maniera assai simile al Piranesi delle Carceri e ancor prima delle Antichità romane, per il Rossi de La Fenice la gestualità dell’atto compositivo si ripresenta in forma per certi versi onirica nell’esibizione del procedimento che le sezioni o i prospetti di piatto mettono in opera. Senza alcuna rinuncia alla progettualità e alla chiarezza del rapporto tra le parti che questa comporta, la rappresentazione è essa stessa punto di vista, riflessione sul passato, sulla materialità dell’architettura e sulla vita che in essa si svolge. Una sezione temporale compiuta su un oggetto spaziale: La Fenice […] è “un ritratto di famiglia con interno”, secondo il titolo viscontiano, e ancora il teatro di Senso, con le divise bianche degli ufficiali austriaci, il tricolore e attorno un torbido mondo di relazioni. […] Anche se questo progetto si attiene fedelmente al bando non può ricreare quel ritratto di famiglia che solo l’architettura del tempo – e un’impronta personale – possono dare. […] Noi abbiamo introdotto poche note: ad esempio una “sala nuova”, che ha per fondo un frammento della basilica palla-


diana, non solo perché è bella ma anche perché riproduce quell’interno del mondo veneto, quasi il tentativo di ricomporre nell’edificio un mondo veneziano tra storia e invenzione […] [A. Rossi, Progetto di concorso a inviti per la Ricostruzione del Teatro La Fenice, Venezia, in “Zodiac”, n. 19, 1998, p. 58]. Seppur con intenzioni dissimili, è il medesimo sguardo che spazia lungo le sezioni urbane del progetto di Grassi per Marburg, attraverso le quali si costruisce e al contempo si registra il significato dell’intervento urbano: una promenade architecturale armonica e ordinata [e] – in senso più generale – […] una “Introduzione alla città antica” [G. Grassi, I progetti, le opere e gli scritti, Electa, Milano 1996, p. 204]. A Sagunto la medesima operazione si compie alla scala dell’edificio: la sequenza delle sezioni longitudinali, che presentano l’idea stessa del teatro romano, e di quelle trasversali, che ne specificano la struttura, la spazialità e il funzionamento, mostrano i principi su cui si basa la ricostruzione, intesa come ricomposizione filologica dello spazio architettonico del teatro e ricollocazione topologica dei suoi elementi. La successione delle piante restituisce fedelmente il ruolo della rovina, alludendo a una costruzione per addizione di strati orizzontali. In tutto ciò la grana vibrante dei grandi disegni a pantone assume un valore predittivo e l’elevato grado di astrazione che li caratterizza traduce l’intenzione del progetto in sostanza espressiva: Considero il disegno anzitutto come mezzo adeguato rispetto alla costruzione. Rendere visibile, misurabile, in qualche modo verificabile il progetto nelle sue diverse fasi, anticiparne le soluzioni, per così dire con spirito di verità: questa e non altra credo sia la funzione specifica del disegno, di qualsiasi tecnica o mezzo di rappresentazione ci si avvalga [G. Grassi, Un parere sul disegno (1967), in Id., L’architettura come mestiere e altri scritti, Franco Angeli, Milano 21995, p. 194].

Su un piano ulteriormente divergente, seppur altrettanto eloquente, l’architecture parlante di Ledoux e Lequeu impiega un complesso sistema simbolico per giocare sull’evocazione. L’espressione architettura parlante, introdotta da Léon Vaudoyer alla metà del XIX secolo a proposito di Ledoux [L. Vaudoyer, Études d’architecture en France, in “Magasin Pittoresque”, vol. 20, libro 49, 1852, p. 388] e probabilmente già in uso come sinonimo di

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architecture à caractère, si riferisce esplicitamente a un sistema simbolico di elementi che parla agli occhi, un’architettura dalla forte carica semantica. Questo, per quanto qui interessa, non solo in relazione alle componenti evocative ed allusive così chiaramente espresse da Ledoux in alcuni dei suoi più noti progetti – dalla Maison des Directeurs de la Loue alla Maison de Plaisir –, ma soprattutto per la specifica concezione spaziale che tale maniera di pensare l’architettura rivela e di cui le sezioni insieme ai prospetti sono testimoni: materializzazioni di un’idea di spazio che assegna alla “visione da lontano” un vero e proprio primato e che attraverso il disegno chiarisce le ragioni compositive dell’architettura. Se infatti si concorda nell’ammettere che la percezione a distanza di un edificio presuppone il fatto che il vuoto faccia parte del progetto quanto il disegno del pieno e a questo principio Ledoux subordin[i] l’uso privilegiato dell’ordine gigante [M. Pogacnik, Sulla nozione di spazio in Claude-Nicolas Ledoux. La colonna, la luce e la sostruzione, in “Annali di architettura. Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza”, n. 16, 2004, p. 139 e 140], la proiezione all’infinito,

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risultato dell’operazione ottenuta secando un manufatto con un piano verticale, implica di fatto tale spazio e presuppone la sua percezione come gioco di luci e ombre. L’ordine gigante, associato all’impiego di volumi e geometrie elementari, va in tal senso inteso come strumento compositivo dalla duplice valenza semantica e spaziale. La sezione e il prospetto della Maison du Directeur di Arc-et-Senans ne sono una evidente dimostrazione per la capacità predittiva ed espressiva di nuovi equilibri formali, frutto della composizione coordinata di elementi formalmente e dimensionalmente dissonanti, in grado di esaltare, proprio attraverso la dissonanza, tale concezione spaziale. Di genere differente è l’esaltazione formale cercata da Boul­ lée, per il quale, sebbene si tratti sempre di architecture parlante, pare più appropriato – come la critica ha messo in luce – riferirsi al carattere piuttosto che all’evocazione: quella di Boullée è una autentica meditazione sulle forme persistenti in architettura rispetto alla quale la questione del carattere e del tema [è] decisiva1 [A. Rossi, Introduzione a Boullée, in Etienne Louis Boullée, Architettura. Saggio sull’arte (1799), Einaudi, Torino 1967, p. XXVII]. Secondo


Boullée il carattere non sarebbe altro che la profonda adesione alle qualità dell’oggetto, al suo essere esclusivamente ciò che è: Rivolgiamo il nostro sguardo a un oggetto! Il primo sentimento che proviamo deriva evidentemente dal modo in cui l’oggetto ci colpisce. E io lo definisco carattere, l’effetto che risulta da questo oggetto e causa in noi una qualsiasi impressione. Mettere del carattere in un’opera, è impiegare correttamente tutti i mezzi atti a non farci provare altre sensazioni che quelle che devono derivare dal soggetto [E.L. Boullée, Architettura. Saggio sull’arte, op. cit., p. 29]. In questo senso, se la precisazione del carattere e l’esaltazione della forma sono per Boullée la via per accedere all’architettura in quanto “creazione dello spirito”, la riduzione a corpi regolari e immagini archetipiche è lo strumento attraverso cui si produce la “forma dell’immagine” alla base del progetto. La sezione notturna con effetto diurno all’interno del Cenotafio di Newton, associata a quella diurna con effetto notturno, ne è certamente l’esempio più alto: in esse l’architettura, unico mezzo di tale costruzione spaziale, svanisce per lasciar posto all’immensa cavità interna, capace di generare nell’osservatore sensazioni comparabili, per potenza, alla grandiosità dell’universo. Ritornando ai nostri giorni, i termini con cui tale processo si articola nella contemporaneità sono di vario genere. Per individuarne alcuni, senza nessuna pretesa di completezza, e per chiarire in che modi le sezioni (verticali e orizzontali) visibili rappresentino sovente una specifica forma di pensiero, una sorta di teoria della progettazione, codificata ed espressa nel disegno, servirebbe domandarsi quali siano le ragioni che spingono certi architetti a lavorare sulla “forma dell’immagine”. La risposta pare darla Carlo Carrà, pittore ‘costruttore’ che, riferendosi ai pittori “costruttori” e “primitivi” del Quattrocento, come Giotto, Paolo Uccello e Masaccio, non è alla ricerca [di] realtà plastiche allo stato iniziale, ma [del]l’immagine della forma che ha lumi così fieri da arrestare la realtà stessa. Senza cotesto imperativo costruttivo, la libertà spirituale non si ritrova, la nostra indipendenza dal mondo fisico non è che una parola vana e pretenziosa. Per il che occorre che il pittore tenga di continuo la mente rivolta alle essenze, che è mezzo per giungere alla vera austerità architetturale [C. Carrà, Pittura metafisica, Il Balcone, Milano 1945, p. 206].

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Se supponiamo che anche l’architetto sia alla ricerca dell’immagine della forma, attraverso un processo di conoscenza del­ l’immagine (in sé sintetica) che passa attraverso la forma stessa (per sua natura analitica), è proprio nelle sezioni visibili – o anche potremmo dire caratteriali, riferendosi al carattere secondo l’accezione di Boullée – che si esplicita la “legge di realizzazione”, per cui, secondo Carrà, vi è creazione dunque e non imitazione fenomenica [Ibidem, p. 35]. Osserviamo per esempio i disegni diagrammatici ed enigmatici di Valerio Olgiati. La specifica modalità di ripresentazione dei progetti con sezioni verticali e orizzontali a campiture uniformi ruvidamente texturizzate pare tendere – con mezzi ed esiti formali di tutt’altro genere rispetto agli architetti illuministi – a una sorta di reificazione dell’architettura, non tanto in senso semantico quanto spaziale, come fatto al contempo materiale e immateriale. Passando per una certa esaltazione del dato formale, Olgiati si allontana dal carattere per approdare a una sorta di riduzione concettuale dello spazio, tutta compresa nella composizione di quella che lui stesso chiama architettura “non-referenziale”. Escludendo qualsiasi connotazione atmosferica, per introdurne tuttavia molte di genere strettamente spaziale, ogni disegno è assolutamente statico, quasi ieratico, per certi versi surreale e articola sul piano bidimensionale i timbri marcati di ciò che l’architetto concepisce nelle tre dimensioni. La sottile e ricercata promiscuità tra sezioni orizzontali e verticali, elementi sezionati e spazi, disegno e sfondo è ottenuta eliminando le linee a favore delle campiture e accentuando la controllata astrazione dell’immagine con l’uso di toni tra loro simili sapientemente coordinati. Se si guardano la pianta e la sezione dell’installazione Experience of Space per la Biennale di Venezia del 2018 e le si comparano con l’esperienza fisica si intuiscono i termini per cui, nelle intenzioni di Olgiati, l’esperienza dello spazio è la base per dar forma all’architettura. Infatti l’installazione veneziana consiste di colonne posizionate [ndr. tra colonne] come oggetti il cui scopo è creare un’esperienza spaziale più intensa. Se da lontano è percepita come un oggetto architettonico senza un ordine ben definito, con il ridursi della distanza si trasforma in un’esperienza spaziale che oscilla costantemente tra due letture


dello spazio: una emotiva, l’altra intellettuale [V. Olgiati, in “L’Accademia di architettura di Mendrisio a Venezia”, Biennale Architettura 2018, USI, Pregassona 2018, p. 30].

Il carattere entra a pieno titolo nell’ideazione del progetto e nella sua ripresentazione a contraddistinguere l’impatto fisico, non tanto retinico o percettivamente allusivo, quanto piuttosto spaziale. Anche i fratelli Mateus o Chipperfield e certamente Zumthor sviluppano il discorso architettonico intorno a tali temi. Nel caso dei Mateus, l’architettura, ottenuta per sottrazione di materia, emerge dalle sezioni a caratterizzare lo spazio cavo che si ricompone nel bianco del disegno – nel Weiss-Plan, parafrasando una modalità di rappresentazione planimetrica, quella dello Schwarzplan, che dall’eredità francese del plan poché estrae figura e sfondo per descrive la natura e le relazioni tra gli oggetti. Non è dunque un caso che i Mateus incidano allo stesso modo piani orizzontali e verticali, lavorando per scavi e incavi; se anche l’architettura non è ipogea, il disegno ne mostra la concezione massiva, omette l’accidentale e fornisce una rappresentazione tangibile del vuoto, dell’essere l’architettura materia plasmata dal vuoto. Viceversa, le tavole di grande formato esposte da Chipperfield alla Basilica palladiana nel maggio del 2018 costruiscono l’immagine a partire dai piani che compongono l’oggetto architettonico. Superfici monocrome di grandi dimensioni si producono nello spazio bidimensionale della rappresentazione; l’uso di campiture piatte, i colori tenui e gli accordi cromatici trasformano prospetti e sezioni in vere e proprie pitture ottenute – risalendo all’oggetto che rappresentano – per inserzioni, successioni, giustapposizioni e, come nelle opere pittoriche, mediante un accurato studio dell’inquadratura. Proprio perché tutti i disegni originali dei progetti in mostra sono stati rielaborati per l’occasione pare che in essi lo spazio architettonico, la tridimensionalità degli elementi e il loro spessore svaniscano e siano demandati alla fisica matericità dei modelli esposti accanto alle tavole: oggetti astratti in cui la superficie dei disegni riconquista spessore, sculture di porzioni isolate, in alcuni casi lacerti, che mostrano la sostanza materiale dello spazio architettonico e la sua caratterizzazione fisica2. Alla luce di ciò, se si ammette che la ricerca del carattere sia processo figurativo e al contempo norma di trasmissione (lingui-

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stica), ne discende che come tale essa influenza direttamente il progetto e le modalità del suo svolgersi. Non solo: all’interno del processo progettuale, si traduce nella base affettiva della conoscenza [Cfr. M. Steinmann, Stimmung ou la base affective de la connaissance, conferenza tenutasi il 20 novembre 2003 presso l’EPFL di Losanna], se, secondo quanto sostenuto da Peter Zumthor, [si]

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costrui[sce] non tanto volendo provocare le emozioni, quanto ammettendo le emozioni. Ciò significa restare saldamente ancorati alla cosa stessa, vicini all’essenza dell’oggetto che devo creare, e confidare nella forza propria che la costruzione, se concepita in modo sufficientemente preciso per il suo luogo e la sua funzione, è in grado di sviluppare, senza aver bisogno di alcun complemento artistico [P. Zumthor, Il nocciolo duro della bellezza (1991), in Pensare architettura, Lars Müller, Baden 1998, p. 27]. Questa forza della costruzione, per certi versi analoga all’arte come procedimento invocata da Šklovskij, consente che l’atmosfera (delle cose che ci circondano) si sostanzi nella consonanza tra le cose stesse e nella misurata precisione del dettaglio, di cui le sezioni materico-atmosferiche (verticali e orizzontali) sono soggetti d’azione formale. La pratica del sezionamento, dell’atto del tagliare per conoscere la struttura, ma anche per concepire e comporre lo spazio, coincide con la definizione dell’atmosfera architettonica e prende forma tangibile nelle sezioni con cui Zumthor dematerializza la costruzione per indurre l’idea di spazio e di luce che sta cercando. Non stupisce che tale processo sia operato negli schizzi di studio impiegando il carboncino e nei disegni definitivi introducendo ombreggiature, semplici tratti e campiture in bianco e nero, che traducono nel disegno densità e atmosfere uniche, che commisurano la vaghezza con precisione: Ecco dunque cosa richiede da noi Leopardi per farci gustare la bellezza dell’indeterminato e del vago! È una attenzione estremamente precisa e meticolosa che egli esige nella composizione d’ogni immagine, nella definizione minuziosa dei dettagli, nella scelta degli oggetti, dell’illuminazione, dell’atmosfera, per raggiungere la vaghezza desiderata. […] Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione, che sa cogliere la sensazione più sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri [I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il


prossimo millennio, Mondadori, Milano 1993, p. 69, citato da P. Zumthor, in Pensare architettura, p. 28].

Se poi si risale dal termine atmosfera a quello tedesco di Stimmung e lo si intende secondo il significato di accordare – come appunto si accorda uno strumento3 – per produrre un qualche tipo di consonanza o un’atmosfera appunto, per disporre in maniera equilibrata un determinato spazio per un certo uso in un certo tempo, è chiaro come per Zumthor – lungo il solco tracciato da Mies – il disegno a carboncino possa essere tecnica e al contempo dispositivo conoscitivo, capace di tradurre in termini materiali la virtualità dell’intenzione, di individuare e dunque registrare l’identità architettonica. La sfocatura del carboncino dematerializza la precisione del disegno a favore della fenomenologia tattile dello spazio architettonico [S. Berselli - M. Brunner - D. Mondini, «Le jeu savant». Luce e oscurità nell’architettura del XX secolo, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2014, p. 9], ne

mostra il limen e le qualità chiaroscurali, esplicitando la consistenza intangibile del progetto. Queste brevi riflessioni e i pochi esempi considerati paiono riportare il discorso architettonico all’interno di un ragionamento che dal macellaio di Platone4 ai violini del consigliere Krespel di Hoffmann5 finanche ai contro-spazi di Foucault, si interroga sulla pratica filosofica, letteraria e artistica del “taglio” e del “sezionamento”, principio compositivo e conoscitivo, che in ambito architettonico trova la sua primitiva ed essenziale realizzazione. Tutto questo impiegando un unico disegno, la sezione visibile atmosferico-materica che, pur con declinazioni e accezioni differenti in base alla mano che taglia e all’occhio che seziona, mette al centro del discorso architettonico la réalisation, nell’accezione che secondo Rilke ebbe per Cézanne, come il farsi cosa, la realtà spinta attraverso la sua propria esperienza6 – tecnica e lirica al contempo.

1   È lo stesso Rossi a precisare poco più avanti: «Il procedimento logico di B. è applicato sistematicamente in ogni opera. Possiamo distinguere; un nucleo emozionale di riferimento, la costruzione di una immagine complessiva, l’analisi tecnica, la restituzione dell’opera», p. XXXII. 2   Non è un caso che negli stessi giorni venisse inaugurato, all’interno

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della cava Arcari, uno spazio scenico progettato dallo stesso Chipperfield, una sorta di sezione atmosferica realizzata, ottenuta per inversione di senso dello spazio originario della cava e della sua materia viva. Cfr. F. Dal Co, David Chipperfield, Cava Arcari, Zovencedo, Vicenza, in “Casabella”, n. 886, 2018, pp. 6-15. 3   Stimmung fa riferimento a Stimme, voce, ma anche al verbo stimmen, utilizzato nel senso di accordare gli strumenti musicali. Afferma Zumthor: «La lingua tedesca ha un vocabolo molto adatto a descrivere tutto ciò: die Stimmung, l’atmosfera, lo stato d’animo. Si dice etwas stimmt per indicare qualcosa di perfettamente adatto, che si accorda con l’ambiente, ma anche Instrumente werden gestimmt, gli strumenti vengono accordati». B. Stec, Conversazioni con Peter Zumthor, in “Casabella”, n. 719, febbraio 2004, p. 9. 4   La questione filosofica del “taglio”, legata alla credibilità o meno di una metafisica antirealista o, viceversa, all’affermazione dell’esistenza di una struttura riconoscibile dell’universo, è tema centrale del dibattito filosofico e si rifà al passo del Fedro nel quale Platone fa dire a Socrate che bisogna smembrare l’essere «seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte come un cattivo macellaio». Cfr. L. Franklin-Hall, Il macellaio di Platone, in “Rivista di Estetica”, n. 41, 2009, pp. 11-37; A.C. Varzi, Del fuoco che non brucia: risposte, riflessioni, ringraziamenti, in Mettere a fuoco il mondo. Conversazioni sulla filosofia di Achille Varzi, E. Casetta - V. Giardino (a cura di), “Isonomia - Epistemologica”, n. 4, 2014, pp. 111-153. 5   «Questo violino, – mi disse Krespel quando lo ebbi interrogato in proposito, – è un pezzo notevolissimo […] meraviglioso […] opera d’un maestro sconosciuto, probabilmente contemporaneo di Tartini. Sono convinto che nella sua struttura interiore ci sia qualcosa di specialissimo, e che se lo aprissi, scoprirei un segreto al quale sto dando la caccia da molto tempo […] Rida pure di me quanto vuole: ma questo oggetto morto, al quale io soltanto do voce e vita, mi parla spesso in modo soprannaturale […] Quando lo suonai per la prima volta mi parve di essere il magnetizzatore che induce la sonnambula a tradurre in parole le proprie visioni interiori […]». E.T.A. Hoffmann, Rat Krespel (1816); ed. it. Il consigliere Krespel, in I confratelli di san Serapione, in Romanzi e Racconti, Einaudi, Torino 1961, vol. II, p. 33. 6   «[…] oggi volevo raccontarti un po’ di Cézanne. Per quanto riguarda il lavoro, egli affermava di aver vissuto fino ai quarant’anni una vita da bohémien. Che solo a partire dalla conoscenza con Pissarro sarebbe emerso in lui il gusto del lavoro. Ma così grande allora che per tutti gli ultimi tren­ t’anni della sua vita non ha fatto nient’altro che lavorare. Senza vera gioia, come pare, con una rabbia senza tregua, in dissidio con ognuno dei suoi lavori, dei quali nessuno gli pareva raggiungere quello che lui riteneva la cosa più indispensabile. Questa, che lui chiamava la réalisation, egli la trovava nei veneziani, che aveva visti precocemente al Louvre, e poi rivisti sempre di nuovo e che aveva riconosciuto incondizionatamente. Il convincente, il farsi cosa, la realtà spinta attraverso la sua propria esperienza dell’oggetto fino all’indistruttibilità, questo gli sembrava la prospettiva del suo lavoro più intimo». Rainer Maria Rilke, Lettera a Clara Rilke, Paris, 9 ottobre 1907, in R.M. Rilke, Verso l’estremo: lettere su Cézanne e sull’arte come destino, Pendragon, Bologna 1997, pp. 50-51.


Ambientalismo e Design MARCO MANFRA

Introduzione Nella storia del rapporto triadico tra uomo, natura e mondo delle cose, il XX secolo inaugura un tempo nuovo all’interno del quale si manifestano fenomeni socioeconomici, culturali e ambientali mai osservati prima. Con l’avvento dell’era nucleare, ad esempio, si è assistito all’alterazione più invisibile e minacciosa per gli ecosistemi che sia stata mai prodotta dall’uomo e, per la prima volta nella storia, attraverso la corsa al riarmo atomico e le successive implicazioni civili, si sono causati danni gravi, a volte irreparabili, alla vita sulla Terra. Oppure si pensi all’incremento del consumo dissipativo delle risorse, causato dal rafforzamento del sistema capitalistico-industriale orientato a perseguire una crescita esponenziale, rapida e incontrollata. Anche processi già noti nell’Ottocento, come la contaminazione degli ecosistemi indotti dall’inquinamento antropico, acquistano maggiore visibilità assumendo una dimensione globale e un mutamento delle proprie qualità. Quelli che per secoli erano stati fenomeni locali di alterazione ambientale di natura organica, esacerbati dal cambiamento climatico e da più profondi aspetti socioculturali, nel Novecento diventano universali e di natura inorganica. L’espansione dell’industria chimica, siderurgica e automobilistica, accompagnata dalla pressione demografica e dalla moltiplicazione su vasta scala delle metropoli, ha generato rifiuti tossici e inedite forme di contaminazione di terra, aria e acqua. In risposta a tutto

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ciò, si è formata, soprattutto a partire dagli anni Sessanta e Settanta, con un decisivo rafforzamento negli ultimi decenni del secolo, una coscienza civile attenta ai problemi ambientali e in grado di innescare accordi internazionali e provvedimenti normativi a tutela del pianeta. In questo contributo, osservando soprattutto un movimento di idee e un’articolazione di formulazioni teoriche nate dagli anni Trenta del Novecento a partire dal contesto statunitense, si vuole mettere in risalto la lunga marcia che ha portato all’attivazione di tale coscienza nella cultura progettuale contemporanea. I precursori di una nuova coscienza ambientale e il ruolo della tecnologia

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La prospettiva ambientale, intesa come consapevolezza della simbiosi tra natura e uomo per la salvaguardia reciproca [T. O’Riordan, Environmentalism, Pion Ltd., London 1976, pp. 3-11], che influenza oggi scelte politiche e progettuali pur essendo ancora lontana dal divenire una consuetudine, è la risultante di una lenta rivoluzione culturale. Proprio a partire dal sistema economico americano, per antonomasia fondato su un’espansione produttiva illimitata, tale mutamento è avviato da figure isolate di studiosi di varia formazione disciplinare, allarmati dai primi esiti negativi di uno sviluppo industriale incontrollato. Tra i suoi precursori, è l’ecologo statunitense Aldo Leopold, oggi riconosciuto come il padre fondatore dell’etica ambientale, a denunciare già nei primi anni Trenta le logiche utilitaristiche e consumistiche dell’economia industriale. Riferendosi al cittadino medio americano e alle istituzioni che lo avevano plasmato, egli scrive: Vent’anni di “progresso” hanno regalato al cittadino medio il diritto al voto, l’inno nazionale, la Ford, il conto in banca, e un’alta opinione di sé stesso, ma non la capacità di vivere intensamente senza insudiciare e spogliare l’ambiente, né la convinzione che tale capacità, e non l’intensità, è il vero termometro della sua civiltà [A. Leopold, Game Management, Charles Scribner’s Sons, New York 1933, pp. 422-423]. Con queste parole Leopold lancia un atto di accusa al potere strumentale dell’uomo nei confronti dell’ambiente, sotteso anzi-


tempo nella citazione baconiana scientia et potentia humana in unum coincidunt. In tale visione meccanicista, la natura è stata sempre meno interpretata come una totalità, come un sistema vivente tenuto insieme da relazioni emergenti e necessarie, mentre è stata sempre più letta in modo parcellizzato. Così, ancora oggi, è largamente usata per fini economici e, come afferma il filosofo Mario Alcaro, subisce il trionfo del soggetto e diviene suo docile strumento [M. Alcaro cit. in P. Bevilacqua, La terra è finita. Breve storia dell’ambiente, Laterza, Roma 2006, p. 5]. Procedendo nel Novecento per giungere agli anni Sessanta, è la biologa marina statunitense Rachel Carson, a concentrarsi sull’uso massivo dei pesticidi, dei diserbanti e dei concimi chimici in agricoltura, capaci di massimizzare produzione e profitto ma al costo di negative ricadute socio-ambientali di vasta e durevole portata. La scienziata accusa la politica e la scienza di aver imboccato una strada che conduce inevitabilmente alla distruzione della vita. Confermative ed emblematiche in proposito sono le sue affermazioni contenute nel saggio Silent Spring, manifesto del movimento ambientalista pubblicato non senza polemiche nel 1962, dove ella dichiara ad esempio: Il controllo della natura è una frase concepita nell’arroganza, nata dall’età di Neanderthal della biologia e della filosofia, quando si credeva che la natura esistesse per l’utilità degli esseri umani. […] È per noi una sfortuna allarmante che una scienza ancora così primitiva si sia dotata delle più moderne e terribili armi e che nel rivolgerle contro gli insetti le ha rivolte anche contro la terra [R. Carson, Silent Spring, Houghton Mifflin, Boston 1962, p. 297]. Attraverso Silent Spring, riformulando i diritti di cittadinanza in termini ambientali, la Carson mette in crisi le ideologie riduzioniste dell’epoca risvegliando l’opinione pubblica e inducendo un fondato senso di preoccupazione. Nonostante le evidenze, la biologa – anche in quanto donna che viene, nella satira del tempo, accostata a una strega – resta spesso vittima di reazioni estremamente violente da parte della lobby dell’industria chimica e degli scienziati ad essa collegati. La visione olistica di Rachel Carson ha contribuito a rafforzare il principio ecologico dell’interconnessione, ovvero l’imprescindibilità delle catene trofiche, per cui le sostanze nocive assorbite dagli organismi viventi vengono tra-

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sferite da un organismo all’altro diffondendosi nella biosfera, anche in maniera pervasiva e danneggiando le generazioni future. Parallelamente alla Carson, è Barry Commoner, anch’egli bio­logo, a convincersi di una realtà sistemica che connette insieme territorio ed esseri viventi che lo popolano e vi operano. Specie nel suo celebre libro The Closing Circle, pubblicato nel 1971, Commoner addita l’economia e la tecnologia capitalistica come le principali cause scatenanti l’alterazione della biodiversità. Cominciano così a delinearsi con sempre maggiore chiarezza le responsabilità di un modello produttivo e consumistico che non tiene conto della realtà limitata del pianeta e delle sue risorse, nodo problematico che negli stessi anni è analizzato peraltro da scienziati del Massachusetts Institute of Technology come Donella e Dennis Meadows, Jørgen Randers e William Behrens [D.H Meadows - D.L. Meadows - J. Randers - W.W. Behrens III, The Limits to Growth. A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of mankind, Universe Books, New York 1972]. Non solo

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a seguito di formulazioni teoriche, ma anche di valutazioni sempre più sperimentali, è ormai evidente quindi che nella rincorsa ai proventi le industrie accelerano i processi di produzione, depauperando l’ambiente senza rispettare quella che viene definita come “capacità di carico” del pianeta e, di pari passo, incentivano l’utilizzo di prodotti inquinanti completamente estranei alla natura. Mentre i cicli naturali, termodinamicamente aperti ma operazionalmente chiusi [F. Capra - P.L. Luisi, Vita e natura. Una visione sistemica, Aboca, Sansepolcro 2014, p. 174], riutilizzano circolarmente i rifiuti rimettendoli nel biosistema attraverso gas e sali utili per la vita di altri vegetali e animali, i processi industriali rilasciano nell’ambiente scarti non biodegradabili alterando il ciclo naturale degli eventi, operano cioè secondo cicli aperti. In aperta opposizione rispetto alle dinamiche produttive descritte e iniziando a delineare con pragmatismo scelte operative ben precise, Commoner afferma: Se vogliamo sopravvivere, tanto economicamente oltre che biologicamente, l’industria, l’agricoltura o i trasporti dovranno soddisfare le ineluttabili esigenze dell’ecosistema. Ciò comporterà lo sviluppo di nuovi importanti tecnologie che comprenderanno: i sistemi di restituzione diretta al terreno dei liquami; la sostituzione di molte


sostanze sintetiche con quelle naturali; […] la sostituzione dei pesticidi sintetici con mezzi di controllo biologici; un’azione di scoraggiamento verso le industrie che consumano energia; […] un riciclo sostanzialmente completo di tutti i prodotti riutilizzabili come metalli, vetro e carta; una pianificazione ecologicamente sana nell’amministrazione del terreno, comprese le aree urbane [B. Commoner, The closing circle. Nature, man and technology, Alfred Knopf, New York 1971, p. 263]. Il ruolo giocato dalla tecnologia nell’ambito di questa riformulazione dello sviluppo appare importante. L’utilizzo della tecnologia non deve contribuire al degrado, o semplicemente a mitigarne gli effetti, ma deve tendere alla risoluzione delle cause. Per “chiudere il cerchio” della progettualità dell’uomo, occorre formulare un orientamento radicalmente diverso delle nuove tecnologie modificandone presupposti e obiettivi. Rivalutare a monte i modelli dominanti di consumo, ripianificare i processi produttivi e ridisegnare i singoli prodotti con logiche di circolarità, adattive e resilienti diventano dunque per Commoner questioni imprescindibili e non più rinviabili. Dall’ambientalismo al design Negli anni Settanta, a sviluppare il tema di una tecnologia “a dimensione d’uomo”, compatibile con le leggi dell’ecologia, è Ernst Friedrich Schumacher nel suo libro Small is Beautiful. A Study of Economics as if People Mattered. Nella sua ricerca di “sistemi tecnologici intermedi” rispettosi dell’ambiente e dei fragili equilibri socioculturali mondiali, l’economista giunge a un compromesso tra tecnica tradizionale, quella che Commoner aveva definito meno inquinante, e tecnica avanzata. Ecco allora che Schumacher, criticando ancora una volta l’approccio tecnologico capitalistico, scrive: La tecnologia di produzione di massa è intimamente violenta, ecologicamente dannosa, si distrugge da sé perché consuma risorse non rinnovabili, ed è degradante per la persona umana. La tecnologia per la produzione da parte delle masse, facendo uso del meglio della conoscenza e dell’esperienza moderna, conduce al decentramento, è compatibile con le leggi dell’ecologia, attenta nell’u-

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so di risorse scarse e progettata per servire la persona umana invece di renderla serva delle macchine [Blond & Briggs, London 1973, p. 124]. La chiarificazione delle ricadute negative di una cultura tecnologica avulsa dall’ecologia, e le prime proposte di modelli alternativi in proposito, costituiscono la base di avvio di una riflessione sulle responsabilità del progettista attivata in maniera esemplare da Victor Papanek, pioniere nell’applicazione dei concetti di inclusione, riciclo e riuso nel disegno industriale. Il progettista americano di origini austriache apre alla critica sul “fare design” e individua linee guida da tramutare in azioni tangibili per una progettazione ambientalmente e socialmente preferibile. Nel suo libro Design for the Real World. Human Ecology and Social Change pubblicato nel 1971 emerge una visione progettuale innovativa: La cosa più bella e più semplice che gli architetti, i disegnatori industriali, gli urbanisti, […], potrebbero fare in un ambiente che si presenta alterato a livello visuale, fisico e chimico, sarebbe di smettere di lavorare. I progettisti sono coinvolti almeno parzialmente in ogni tipo di inquinamento. Tuttavia, io opto per una soluzione più positiva: ritengo cioè che si possa andare oltre il semplice rifiuto del lavoro e lavorare per qualcosa di concreto. Il progetto può e deve diventare un mezzo col quale i giovani possono partecipare alla trasformazione della società [V. Papanek, Progettare per il mondo reale. Il design: come è e come potrebbe essere, Mondadori Editore, Milano 1973, p. 12].

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Secondo l’autore, contro i prodotti di sterili operazioni di styling e di processi di obsolescenza programmata, per tutelare l’ambiente e migliorare la società, occorre attuare una progettazione sensibile e interdisciplinare, volta al contempo a rispondere alle reali esigenze dell’uomo e della natura. Questo nuovo processo creativo, definito dallo stesso Papanek come progettazione integrale, si orienta verso la ricerca di soluzioni a bassa tecnologia nel rispetto del “complesso funzionale”, chiarendo i legami tra il valore estetico e la funzione dell’oggetto, mettendo in relazione necessità funzionali primarie di metodo, uso, esigenze reali, estetica, aspetti associativi e concetto telesico, al fine di ricomprendere la complessità nella semplicità.


Parallelamente, visioni analoghe cominciano a strutturarsi anche in Europa: ne La Speranza progettuale, uno dei primi testi italiani a trattare la questione ecologica nel design, è Tomás Maldonado a evidenziare l’interconnessione globale dei problemi, sostenendo che non può esistere un miglioramento ambientale indipendente dal miglioramento della qualità della vita dell’uomo e, per estensione, dei suoi luoghi abitativi, delle condizioni di lavoro e dei trasporti [T. Maldonado, La speranza progettuale. Ambiente e società, Einaudi, Torino 1970]. In questo scenario, in cui si inizia a sperimentare e a sviluppare una progettazione responsabile, il fotografo e scrittore Stewart Brand, ancora una volta negli Stati Uniti, fonda e inaugura dal 1968 il periodico per corrispondenza Whole Earth Catalog. Si tratta di un inconsueto catalogo, privo di pubblicità e a basso costo, che mira ad offrire la visione di una nuova società ambientalmente sostenibile attraverso la promozione di buone pratiche, prodotti e competenze che aiutino gli individui a vivere in maniera autosufficiente e, al contempo, in una prospettiva di condivisione. L’attenzione editoriale è rivolta principalmente ai temi dell’autosostentamento, dell’ecologia e delle soluzioni “fai da te” (Do It Yourself) e, contemporaneamente, vengono illustrati e recensiti sia sistemi di oggetti tradizionali, come stufe a legna o kit di tessitura, sia strumenti e prodotti ad alta tecnologia come calcolatori. Privo di qualsiasi struttura narrativa, il Whole Earth Catalog comprende pertanto sette differenti sezioni ma tutte accomunate dal tema della sostenibilità: “Understanding Whole Systems”, “Shelter and Land use”, “Industry and Craft”, “Communications”, “Community”, “Nomadics” e infine “Learning”. È proprio quest’ultima sezione a proporre e recensire con continui­ tà, fino al 1985, numerosi saggi che spaziano dalla cibernetica di Norbert Wiener fino agli esperimenti di design non convenzionale di Richard Buckminster Fuller. Il periodico di Brand diviene così un potente canale di divulgazione della cosiddetta “tecnologia appropriata” che, accettando senza pregiudizi soluzioni di “bassa” o “alta” tecnologia, mostra particolare attenzione per il contesto senza trascurare aspetti etici, culturali, economici e ambientali delle comunità verso le quali è indirizzata. Questa particolare forma d’innovazione pre-

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vede soluzioni a basso costo utilizzando tecniche e manodopera locali, e finalmente ha una presa consistente sulla società. Come è stato rilevato infatti dalla critica la rivista è un fenomeno culturale di grande impatto che induce ricadute reali in diversi ambiti, promuovendo l’idea apparentemente paradossale di ritornare a uno stile di vita più semplice e attento all’ambiente senza però il disprezzo della tecnologia e, più in generale, della progettazione [C. Maniaque-Benton, French Encounters with the American Coun­ terculture 1960-1980, Ashgate, Farnham 2011, p. 96]. Ulteriore caratteristica del periodico è l’evocativa copertina che di frequente raffigura la “Blue Marble”, fotografia del globo terracqueo immortalata il 7 dicembre 1972 dall’equipaggio dell’Apollo 17 mentre abbandona l’orbita terrestre in direzione della Luna. Questa immagine a colori, di proprietà della NASA ma resa libera dai diritti di riproduzione grazie all’intervento dello stesso Brand, diventa presto l’icona di una nuova visione ecologica: è la prima volta, infatti, che il grande pubblico ha modo di osservare la Terra immersa nell’oscurità dello Spazio e di coglierne la bellezza unitamente alla misura della sua limitatezza e fragilità. Una coscienza ambientale, quella della limitatezza del pianeta, ben presente anche nelle teorie economiche di Kenneth Ewart Boulding, il quale paragona metaforicamente l’economia moderna alla figura del cow-boy, che ritiene di avere di fronte a sé orizzonti infiniti, e l’economia del futuro alla figura dell’astronauta, che sulla navicella deve, per sopravvivere, risparmiare ogni singola risorsa limitata e ragionare con logiche circolari. A riguardo, egli formula una chiara sintesi: […] chiamerò “economia del cow-boy” l’economia aperta; il cow-boy è il simbolo delle pianure sterminate, del comportamento instancabile, romantico, violento e di rapina che è caratteristico delle società aperte. L’economia chiusa del futuro dovrà rassomigliare invece all’economia “dell’astronauta”; la Terra va considerata una navicella spaziale, nella quale la disponibilità di qualsiasi cosa ha un limite, per quanto riguarda sia la possibilità di uso, sia la capacità di accogliere i rifiuti, e nella quale perciò bisogna comportarsi come in un sistema ecologico chiuso capace di rigenerare continuamente i materiali, usando soltanto un ap-


porto esterno di energia [K. Boulding, The economics of the coming Spaceship Earth, in H. Jarrett (a cura di), Environmental quality in a growing economy, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1966, pp. 3-14].

Riflessioni conclusive Il lungo percorso delineato ha prodotto ricadute virtuose che, soprattutto negli ultimi vent’anni, si sono progressivamente concretizzate in processi progettuali e buone pratiche orientati in senso ecologico. È il caso, ad esempio, della biomimetica di Janine Benyus finalizzata a progetti di strutture e processi ispirati alla natura, ma anche della sempre più diffusa messa in atto di sistemi circolari sostenibili, dove artefatti e scarti sono percepiti e trattati come risorse fruttifere, attraverso l’intera filiera progettuale, produttiva, di riuso o riciclo [G. Pauli, The blue economy. 10 years, 100 innovations, 100 million jobs: report to the Club of Rome, Paradigm, Taos 2010].

Gli individui e le comunità hanno acquisito, e stanno sempre più maturando, una consapevolezza ambientale mentre una parte della cultura progettuale contemporanea ha da tempo compreso l’importanza di un “ecodesign” ormai imprescindibile, che sappia agire in maniera sempre più multiscalare e trasversale mutando definitivamente l’ottica antropocentrica in una nuova prospettiva olistica ecocentrica [W. McDonough - M. Braungart, Cradle to Cradle. Remaking The Way We Make Things, North Point Press, New York 2002]. Progettare in questi contesti d’azione richiede un

cambiamento radicale nel pensiero e nell’atteggiamento del designer, il quale, riflettendo sui caratteri e le dinamiche della natura, deve offrire un contributo sempre più sensibile e convinto per mutare logiche insostenibili ancora in buona parte ricorrenti. Quanto messo in luce e in sequenza nel corso della trattazione, si offre oggi alla maturazione di un’etica per un design contemporaneo ormai necessariamente e costantemente orientato alla sostenibilità.

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Libri, riviste e mostre

A. Castagnaro - F. Castiglione, Giuseppe e Ugo Mannajuolo. Ingegneri e architetti tra neoeclettismo e razional-funzionalismo, Paparo Editori, Napoli 2020.

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Rara occasione quella in cui il piacere della lettura e la ricchezza documentaria si coniugano deli­ neando il quadro di un’epoca intera attraverso la storia di uomini che ne hanno interpretato gli slanci e le contraddizioni. Accade stavolta nel curatissimo volume dedicato alle figure napoletane di Giuseppe e Ugo Mannajuolo a firma di Alessandro Castagnaro e Florian Castiglione, nella bella impaginazione delle Edizioni Paparo. Un capitolo quasi del tutto ignorato dalla storiografia nella nostra area geografica nonostante il ruolo che queste opere hanno assunto nel panorama nazionale soprattutto per i nuovi linguaggi architettonici adottati che abbandonano quel neo-eclettismo in voga al tempo, talvolta anacronistico sia pure rivisitato, per caratterizzare una produzione architettonica di carattere finalmente nazionale. Forte della sua penna notoriamente scorrevole e di una pluride-

cennale esperienza di ricerca in materia storico-architettonica, Alessandro Castagnaro traccia in questo studio il profilo di due figure talvolta sfuggenti, avvalendosi dei contributi corposi ed analiticamente originali di Florian Castiglione (a cui si deve anche lo straripante materiale fotografico, di qualità notevole). La chiave del testo sta tutta nella costante dicotomia lingua/techné che in questo caso anima i progetti di due stagioni architettoniche contigue: una tensione che trova nella biografia di Giuseppe e Ugo Mannajuolo un doppio esempio di ingegneria-architettura non ancora pienamente toccata dal modernismo razionalista, illustrata attraverso l’enorme mole di materiali recuperati negli archivi privati della famiglia dai quali le doti progettuali emergono al pari delle lungimiranti qualità intellettive nel tessere le più utili reti di rapporti sociali a favore di future opportunità lavorative. Fotografie, grafici, atti giuridici, epistolari, schizzi di progetto costruiscono il ritratto di due uomini vissuti in una transizione storica, animati dagli entusiasmi di inizio Novecento e al contempo radicati


nel recente passato del gusto tardoottocentesco. Giuseppe Mannajuolo prende corpo come personaggio pronto a rivisitare il suo ruolo abbandonando l’attività imprenditoriale in occasione di alterne vicende legate anche alla Grande Guerra e caratterizzando la sua professionalità nell’immediato primo do­­poguerra. In questo senso, la mo­ nografia dimostra con la forza del suo apparato documentario puntiglioso che, se i progetti di carattere concorsuale vanno letti nell’ottica di una ricerca stilistica inquieta, ambivalente, sospesa tra semplificazione razionalista ed eclettismo storicista, tutti i disegni relativi alle residenze private raccontano invece una parabola intessuta di richiami liberty, fascinazioni ornamentali e tradizioni ambientiste. I molteplici e tipici aspetti della società locale, nel retorico quadro della belle époque, nei primi anni del Novecento si intrecciarono con spunti fecondi e innovativi con le nuove realtà sociali e con le crescenti potenzialità tecnologiche offerte dalla nascente industrializzazione, nonché con brillanti fermenti culturali in tutti i campi delle arti applicate. Di questo retaggio è testimonianza straordinaria l’interno del celebre Palazzo Mannajuolo in via Filangieri nel quale il nostro interviene personalmente affiancando Arata come progettista nelle distribuzioni interne e nella direzione delle fasi di realizzazione, confermando le sue doti, già manifestate precedentemente di imprenditore e di progettista. Ma quando alla committenza privata – per la quale il progetto può indulgere a personali simpatie stilistiche anche in controtendenza rispetto allo Zeitgeist – subentrano i concorsi pubblici gli obiettivi cambiano radicalmente imponendo al

Mannajuolo di interpretare orientamenti e fornire risposte tecniche meno inerenti alle velleità del puro gusto borghese fin de siècle. È così che, nel clima post-unitario di grandi fermenti culturali e produttivi, governato da profonde mutazioni dal punto di vista politico e sociale, merita speciale considerazione il progetto presentato al concorso del 1897 per la costruzione di una nuova aula parlamentare presso l’edificio di Montecitorio, elaborato in collaborazione con Edoardo Talamo e vinto infine da Ernesto Basile. L’eccezionalità del caso sta nel fatto che, al valore del progetto in sé qui deve aggiungersi lo scoop di aver rintracciato e pubblicato per la prima volta tavole che dimostrano senza equivoco l’altissimo grado di competenza tecnica dispiegato in un complesso di spazi dai requisiti che definiremmo quantomeno critici. In questa occasione, infatti, sulla scorta di osservazioni dal vivo registrate nei palazzi del potere di altre capitali europee (Vienna, Budapest e Berlino), Giuseppe Mannajuolo propone soluzioni particolarmente avanzate di carattere ingegneristico mentre sotto l’aspetto puramente plastico e figurativo è ancora legato a una cultura eclettica nella quale si è formata la sua esperienza di imprenditore e progettista nel panorama del Mezzogiorno post-unitario. Coerentemente con i principi ornamentali di stampo accademico, il progetto previde colonne e pilastri di ordine ionico, soffitto piano a cassettoni ornato a bassorilievi e pavimento in marmo. Per ottimizzare l’acustica, la forma dell’aula venne progettata ad andamento curvilineo, composta da quattro archi di cerchio, mentre il soffitto fu pensato piano, ma raccordato con

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curve alle pareti. La copertura era formata da tre grandi capriate di tipo Polonceau, ovvero con capriate in acciaio a doppio puntone con interasse, in questo caso, di otto metri. In una seconda versione del progetto, al di là delle modifiche nell’impianto distributivo d’insieme, tra i correttivi funzionali e strutturali richiesti dalla Commissione giudicante, colpisce la sostituzione del soffitto piano dell’aula con una ariosa cupola a sesto molto ribassato che scaricava il proprio peso sui pilastri dell’aula tramite dei costoloni. Florian Castiglione osserva puntuale come per l’acustica delle gradinate furono applicate le teorie di Scott Russel mentre nel calcolo della superficie illuminante delle finestre fu adottato il procedimento ideato da Rudolf Mehmke. A bilanciare un simile tecnicismo interviene in controcampo il rapporto tra l’edificio preesistente e la nuova costruzione che, per Mannajuolo e Talamo, avrebbe invece dovuto attestarsi su una armonizzazione in grado di dissimulare la loro a-sincronia: si tratta chiaramente di un approccio mimetico, ben lontano dai moderni interventi di restauro che evidenziano il palinsesto e sottolineano le stratificazioni avvenute nel tempo. La posizione degli Autori, ancora una volta, sembra essere dunque quella di rimarcare la tensione continua tra la spinta spiccatamente moderna della formazione ingegneristica (si vedano l’avveniristica proposta per una specola panoramica sulla cupola della Galleria Umberto I, l’ambizioso studio per una revisione globale del sistema viario indeformabile della città, un sistema di smaltimento rifiuti a tre circuiti con relativi centri di raccolta e bruciatura) e le resistenze estetiche della cultura accademica

corrente, quell’eclettismo storicistico che segnava ancora il gusto di maggiore diffusione per sicurezza e stabilità legati alla tradizione conservando consensi. Una ambivalenza ribadita nelle residenze private disseminate tra la via del Parco Grifeo, il Corso Vittorio Emanuele e via del Parco Margherita in cui, se da una parte le piccole fabbriche si adeguano armonicamente all’orografia del territorio, dal­l’altra riescono a introdurre innovazioni tipologiche fortemente legate alle condizioni locali del suolo allontanandosi, nella loro Stimmung, dalla villa di carattere ottocentesco. La svolta decisiva nella vita di Giuseppe Mannajuolo avviene in conseguenza delle tormentate vicende legate al Palazzo di Giustizia romano: conclusasi tra enormi difficoltà l’esecuzione del­l’edificio, al termine di sofferte vertenze giudiziarie l’impresa Ricciardi, Borrelli e Mannajuolo viene messa in liquidazione nel 1918 e nell’immediato dopoguerra Giuseppe Mannajuolo rientra a Napoli con la necessità di rivedere il suo ruolo all’interno del nuovo contesto locale ritornando alla sua vocazione originaria di ingegnere progettista. Sono gli anni in cui il ‘movimento di ordine fascista’ si afferma come promessa di progresso e, quando non raccoglie consensi spontanei, rende coercitive alcune scelte consentendo a ben pochi di fare diversamente, non senza scontarne le conseguenze. Mannajuolo finisce con l’integrarsi consapevolmente nell’ambiente allineato all’amministrazione napoletana (percorso coronato dalla prestigiosa nomina, nel 1929, a capo ufficio tecnico federale del PNF) e, forte di rapporti personali stretti con la classe dirigente locale, consolida per sé e i suoi figli una posizione di


rilievo negli incarichi per le nuove opere di infrastrutturazione urbana e architettura sociale. Tutti temi su cui lavorano nello stesso decennio grandi nomi di respiro nazionale come Terragni, Samonà, Vaccaro e Gardella e che offrono terreno al dibattito quanto mai acceso sul rapporto tra la classicità retorica degli apparati esterni e la funzionalità distributiva degli spazi interni. Là dove la propaganda fascista cerca legittimazione nella storia e nella grammatica dell’architettura (in particolare, sulla tipologia della Casa del Fascio) le risposte si uniformano ad un carattere architettonico unico: rigoroso, semplice, rappresentativo e moderno – in cui – fulcro di ogni edificio era la torre littoria, elemento di forte richiamo visivo e simbolico mentre l’asciutta stereometria veniva consentita dall’uso del calcestruzzo armato e di materiali come i mattoni o il travertino. Come dirigente dell’Ufficio Tecnico dei Fasci di Combattimento, Mannajuolo si confronta adesso con le grandi opere di utilità pubblica: stazioni ferroviarie, strade, strutture ospedaliere, sventramenti, recupero di frammenti urbani e conversione di edifici preesistenti a nuove funzioni collettive diventano banchi di prova per armonizzare con libertà ed audacia l’ambiente con l’uomo, rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito. Con entusiasmo da visionario è al lavoro sulle colonie marine di Arco Felice, Baia e Lucrino e, soprattutto, sulle principali sedi littorie cittadine per le quali adatta il palazzo FondiGenzano di via Medina e progetta i nuovi edifici alla Torretta e in via De Pretis. È in queste sfide che il suo linguaggio architettonico matura scelte definibili co­me senz’altro attuali: sono costruzioni aliene all’im-

postazione classica delle case del Fascio, […] depurate dall’intero, enfatico apparato decorativo, […] in grado di integrarsi nel contesto storico e di definire un valore architettonico che oggi merita di essere adeguatamente rimesso in discussione per consentire una maggiore riconoscibilità agli occhi degli esperti e del grande pubblico. Nella stessa ottica di sensibilità al collettivo è da intendersi un progetto di rinnovamento a scala urbana del 1925 che interessa i quartieri più significativi della città [borgo Santa Lucia], oggetto di notevoli studi e di ampia trattazione da parte non solo di tecnici ma anche di intellettuali e letterati, sin dall’epidemia di colera del 1883: i disegni (raccolti in un album voluminoso) dimostrano ancora una volta la natura poliedrica di un uomo in cui si coniugano ingegno, spirito imprenditoriale, abilità relazionali e lungimiranza politica. A questa proposta fanno seguito altre opere su committenza pubblica tra le quali spicca il progetto per il Mausoleo dedicato ad Armando Diaz, improntato ad una monumentalità urbana paragonabile a quanto si era compiuto a Firenze con Piazzale Michelangelo. Nella corposa rassegna critica del volume gioca un ruolo centrale lo scritto di Benedetto Gravagnuolo sulle logiche dell’espansione urbana nel quartiere Chiaja in cui motivazioni di carattere ideologico hanno avuto la meglio su quelle di una revisione organica del disegno urbano. La sua riflessione sulla genesi e gli sviluppi del ‘lotto Zero’ di via Filangieri culmina nella lettura innamorata dello stesso Palazzo Mannajuolo, ideato come il fondale scenico dell’asse percettivo di via dei Mille, uno spettacolare bâtiment d’angle coronato da quella

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singolare finta cupola a base poligonale deliberatamente monca e vuota sul retro, alla maniera delle più ingegnose scenografie urbane così congeniali alla penna di Arata e alla sua euritmia espressiva che si rivela in un approccio emozionale alla progettazione architettonica: l’e­­mozione maggiore dell’avvincente narrazione plastica è annidata nello spazio interno della vertiginosa scala ellittica [dove] la sensuale seduzione delle linee curvilinee delle rampe si coniuga al­ l’avanzatissima invenzione strutturale […] dei gradini monolitici a sbalzo dalla parete. La seconda sezione del testo è interamente dedicata alla figura e all’opera di Ugo Mannajuolo. Florian Castiglione esplora la mole straordinaria dei disegni d’archivio privato rivelando l’ingegnosità inattesa di proposte razionali e poetiche ad un tempo: la Casa del Fascio ‘Enrico Toti’, con la sua interessante soluzione d’angolo; la sala del Cinema Adriano a Napoli con l’attenta articolazione interna che ottimizza la visuale dello schermo; il progetto analogo (mai realizzato) per il Cinema Sirio a Roma con la sua esile loggia in calcestruzzo e le audaci soluzioni di ingegneria ed acustica; gli edifici residenziali tra Roma e Napoli; le stazioni ferroviarie della Circumvesuviana del 1939 con l’alta qualità architettonica della pensilina a sbalzo sulla banchina; la ricostruzione dell’Ospedale degli Incurabili a Caponapoli con la coraggiosa demolizione dei corpi danneggiati e i due nuovi edifici di ampio respiro per le moderne esigenze ospedaliere; l’impianto razionale e simmetrico del nuovo Loreto Mare; i complessi industriali a San Giovanni a Teduccio. Tra tutti gli interventi registrati spiccano però per la qualità

della loro piccola scala i progetti delle ville capresi: tre esempi di architettura moderna in cui la collaborazione con Edwin Cerio, fortemente contrario all’eclettismo architettonico, innesca un’apertura allo spirito del paesaggio in­dirizzando l’approccio di Ugo Mannajuolo verso un ambientismo che tiene conto dei caratteri della casa caprese tradizionale: la volta estradossata, la scala esterna, il pergolato, la prevalenza dei pieni sui vuoti. È evidente: siamo di fronte ad un’indagine che si potrebbe ragionevolmente definire monumentale per strumentazione storiografica e per qualità di lettura critica che, pur focalizzando sui meriti di una esperienza progettuale imponente, non sconfina mai nell’apologia rinunciando intenzionalmente alle fumosità di una riflessione teorica sullo stile del moderno per guadagnare piuttosto una panoramica esaustiva ed eterogenea sul contesto, le tecnologie, le dinamiche costruttive e le logiche imprenditoriali nell’Italia del cambio di secolo. Chiude la monografia un ricordo intenso di Gabriella D’Amato rivolto all’amico Roberto Mannajuolo che, nell’aura della sua personalità travolgente […] continua a vivere come animula vagula blandula del premio che la Fondazione Mannajuolo gli ha intitolato. F. R. R. Gargiani, Razionalismo retorico per il regime fascista. Eretici italiani dell’architettura razionalista, 1914-1944, Skira, Milano. Id., Razionalismo emozionale per l’identità democratica nazionale. Eretici italiani dell’architettura razionalista, 1945-1966, Skira, Milano 2020.


Id., Razionalismi esaltati nostalgici radicali. Eretici italiani del­l’ar­ chitettura razionalista, 19671973, Skira, Milano 2020. In questa opera di oltre mille pagine che non ha equivalenti nella pur ricca storiografia sull’architettura del Novecento, Roberto Gargiani, professore di Storia dell’architettura all’École Polytechnique di Losanna, parte dal 1914: una data storica nel secolo che segna l’inizio della Grande guerra. Ma all’autore non interessa questo evento drammatico, parte dalle nuove Officine Fiat: il Lingotto 1914-28, opera di Giacomo Mattè Trucco, un funzionario dell’azienda, che è “il prologo alla mistica del­l’ossatura”, come titola il primo capitolo del primo tomo a cui segue “la materia intelligibile” di Edoardo Persico. Un incipit classico e significativo: una grande opera di ingegneria e il più geniale critico di quella stagione che muore a soli trentasei anni nel 1936 e che fu il primo lettore acuto di quell’opera quando scrisse un articolo su “Motor Italia”: una rivistina dell’azienda dove faceva lavori di pulizia. Ma il Lingotto, grande nave di cemento proiettata verso il futuro, già aveva affascinato il giovane Piero Gobetti a cui Persico era molto legato e poi Antonio Gramsci. Naturalmente Le Corbusier si fece una passeggiata in auto sulla futuristica pista sopraelevata sul tetto del Lingotto. Non a caso ho detto futuristica perché ebbe il movimento un suo architetto di geniale talento come Antonio San­ t’Elia, morto al fronte: i suoi disegni sulla Città Nuova presentati alla mostra di “Nuove Tendenze” 1914 non sono progetti in senso proprio, non hanno una scala o una pianta, sono una prefigurazione della città ideale della modernità: grattacieli di

cemento e cristallo, protesi su stazioni ferroviarie, ma anche colossali cattedrali che strizzano l’occhio alla Secessione viennese. Furono quei disegni il segno dell’onnipotenza di Filippo Tommaso Marinetti e del suo movimento futurista per il quale l’architetto comasco scrisse il Manifesto per l’architettura. Assai più creativo quello scritto da Umberto Boccioni – morto per una caduta da cavallo quando era al fronte. La Città che sale è un dipinto che prefigura lo spazio di una tumultuosa metropoli. Ma Boccioni, per non interferire con il testo dell’amico Antonio, se lo tenne in tasca il suo manifesto per l’architettura e venne alla luce per caso tra le sue carte assai dopo la morte di entrambi nel 1916. Nella compagine futurista il luganese Mario Chiattone progettò case per abitazioni con piante e sezioni, ma senza l’ardore visionario di San­ t’Elia ai cui disegni a piene mani attinse Le Corbusier che mai lo citò. Virgilio Marchi, in ambiente romano, disegnò e dipinse città e architetture vivaci ma le sue erano solo scenografie. Gargiani con passo da maratoneta segue ogni tappa di questi eventi: il Novecento di Giovanni Muzio e altri con la Ca’ Brütta 1919-22, primo condominio milanese a scala urbana, la piccola Casa della Meridiana 1924-25 di Giuseppe De Finetti che non guarda alla Secessione ma all’alter ego Adolf Loos che aveva conosciuto. Il paradigma dell’ossatura e del cemento armato è un doppio filo conduttore, una sorta di binario lungo il quale troviamo ponti e viadotti costruiti per il Paese. Fino all’acme dello Stadio Berta a Firenze 1930-33 di Pier Luigi Nervi, sul quale di recente incombevano minacce di una selvaggia ristrutturazione, per fortuna sventata: “inge-

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gneria bruta” definì lo stadio Giuseppe Pagano su “Casabella”, rivista che tanto posto ha con il suo direttore in questa storia. Per avere una risposta linguistica in senso proprio bisogna giungere al Gruppo 7, Luigi Figini, Gino Pollini, al comasco Giuseppe Terragni che con il Novocomum, la Casa del Fascio, ancor più con l’Asilo Sant’Elia e la Mostra del Decennale della Rivoluzione Fascista diviene il vero erede della breve ventata futurista che fu nondimeno l’unica porta aperta in Italia verso la modernità. L’ossatura della Casa del Fascio fino al progetto del Danteum sono il segno più alto del Razionalismo retorico per il regime fascista. Ma Argan scrisse che quella casa del fascio può essere benissimo letta come una Casa del popolo e aveva mille ragioni. Giovanni Michelucci e il suo gruppo costruì la Stazione di Firenze di Santa Maria Novella 1933-35, una delle più belle stazioni del secolo, dopo un concorso che fu causa di una querelle che giunse in Parlamento: la risolse con il suo sostegno Marcello Piacentini. I giovani razionalisti sperarono che fosse venuto il loro momento, ma fu un’illusione: l’Accademico d’Italia divenne il campione della più bieca retorica fascista. Il paradigma di griglie, reticoli, ossature trova in Edoardo Persico, Marcello Nizzoli, Luciano Baldessari, Terragni, BBPR, Figini e Pollini, Pagano, Nervi i suoi interpreti. L’Università Bocconi 1937-41 di Pagano è tra le prove più alte di questa stagione. Dal 1934 al 1940 a Figini e Pollini Adriano Olivetti commissionò la sua nuova fabbrica a Ivrea, il piano per un quartiere residenziale e lo splendido asilo-nido. Conviene dire che Olivetti, morto a soli sessantadue anni, proseguì nel dopoguerra il suo ruolo di commit-

tente illuminato e nel suo giro si trovano se non tutti, quasi tutti i maggiori architetti italiani. La sua figura si staglia nel secolo come un mecenate a tutto campo che non ha equivalenti nella storia del Novecento: la sua è un’Italia a tutto tondo che giunse a Pozzuoli con la sua fabbrica aperta sul golfo che progettò in modo magistrale Luigi Cosenza 1951-55 con Porcinai per i giardini e sostenne un piano per il recupero dei Sassi di Matera. In un mio libro che aprì le porte all’architettura in Italia tra le due guerre, 1972, dunque non fascista tout court – ora rivisto e accresciuto La civiltà architettonica in Italia 1900-1944, Clean – feci riemergere Luciano Baldessari che era un architetto “sommerso”: aveva costruito solo magnifici padiglioni per fiere, se ne avvide subito Raffaello Giolli: un critico di punta da associare ai suoi amici Persico e Pagano. Perché? Perché Baldessari era tra i pochi non iscritto al Fascio, come Persico e De Finetti che poté costruire solo una bella villa sul Ticino per la famiglia Crespi. Lo spirito anarchico di Baldessari l’indusse nel 1939 a emigrare negli Sati Uniti; quando rientrò in Italia ebbe la stessa sorte: solo splendidi padiglioni per fiere e allestimenti di mostre con Lucio Fontana. L’unico edificio per abitazioni lo costruì a Berlino su invito del suo amico Walter Gropius. Qui conviene aprire una parentesi: ho sempre sostenuto che tra architettura e arti visive c’è stata nella prima metà del Novecento una stretta relazione: del Futurismo s’è detto, ma le mute città dipinte da Giorgio de Chirico influenzarono profondamente la compagine di Novecento; così come le drammatiche periferie di Mario Sironi restano lo specchio più inquietante di una società malata. Terragni fu molto vici-


no al gruppo degli astrattisti comaschi quali Rho e Radice, ma anche a Sironi “pittore in camicia nera” che fu un frescante per imponenti opere pubbliche: la sua vita merita un romanzo. Nel dopoguerra divenne comunista (come tanti) ma rimase un emarginato. La sua vicenda è speculare a quella di Terragni: architetto fascista, con il padre federale di Como, fece la campagna di Russia e al rientro era come impazzito per quanto aveva vissuto. Racconta Giolli, in un articolo di commiato alla sua morte su “Casabella”, che andava a chiedere scusa casa per casa. Aveva capito cosa fosse il fascismo, ma non poté divenire comunista come il suo amico Sironi. C’è una continuità tra regime fascista e Italia repubblicana: il caso esemplare fu Marcello Piacentini che disseminò la penisola di edifici “retorici” nel senso peggiore e di piani regolatori, fino al Palazzo dello sport per le Olimpiadi del 1960 che rivestì con una bolsa corona di vetro la spettacolosa struttura di Pier Luigi Nervi. Più della metà del primo tomo è dedicato a questi architetti che hanno segnato il volto delle città italiane. Ma la continuità si riconosce anche nei razionalisti: tan­t’è che il primo numero di “Casabella” nel dopoguerra curato da Franco Albini, è un numero monografico dedicato a Giuseppe Pagano fascista, antifascista e martire morto a Gusen: il primo direttore di “Casabella” fu Ernesto N. Rogers ebreo fuggito in Svizzera, che non a caso aggiunse un trattino e la parola continuità alla testata. In quegli anni erano emersi molti architetti che andavano per una linea linguistica ispirata al Bauhaus, a Le Corbusier, al modernismo olandese di De Stijl: Franco Albini in sintonia con Pagano, Gardella, Figini e Pollini, BBPR, Mollino, sul fronte set-

tentrionale, il talento di Mario Ridofi con il tedesco Wolfgang Frankl con una vena espressionista, Mario De Renzi, Vincenzo Sabbatini, Luigi Moretti a Roma, l’isolato Luigi Cosenza a Napoli. Tutti costoro avranno il loro ruolo centrale nell’architettura “per l’identità democratica nazionale 1945-66”. Il primo paragrafo del secondo tomo è dedicato a Pier Luigi Nervi e come pendant all’opera d’ingegneria di Riccardo Morandi, Cestelli Guidi, Giuseppe Rinaldi e Silvano Zorzi che costruirono non solo in Italia, ma in tutto il mondo dighe e ponti. Gargiani fa anche storia della storiografia e un lungo capitolo dedica a quanti hanno scritto di Morandi e Nervi: da Argan a Brandi a Zevi. Nel dopoguerra le figure asimmetriche di Giovanni Michelucci e Ludovico Quaroni con le loro chiese così diverse. La simpatetica architettura per abitazioni, banche nel centro di Firenze o di Pistoia, città michelucciana per antonomasia: fino al travolgente “a solo” della Chiesa San Giovanni Battista 1960-64 sull’Autostrada del Sole, segno di una svolta linguistica radicale. Si è rotta la schiacciante egemonia di Milano, ma qui un romano fascista non reo confesso come Luigi Moretti riparte con la Casa-Albergo 194653, poi rivede a Roma il modello della palazzina, fino alla Villa La Saracena a Santa Marinella che è il segno di una frequentazione con l’ar­ chitettura organica e Frank Lloyd Wright giunti in Italia sulle ali di Bruno Zevi. Figura centrale con i suoi testi: la Storia dell’architettura moderna 1950 e la rivista “Architettura-cronache e storia”, dà il là a un organicismo senza grandi frutti a prescindere da Marcello D’Olivo; poi il controcanto della Storia, 1960, di Leonardo Benevolo. Nella storia

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della storiografia di Gargiani non mi pare abbiano il posto che meritano. In ambiente romano tornano Ridolfi e Frankl per edifici Ina-Casa a Cerignola, a Roma Viale Etiopia, a Terni. Gli edifici residenziali di Mario Fiorentino sono sulla stessa strada. Un capitolo è dedicato alle torri moderne nella città storica: il grattacielo Pirelli con struttura di Nervi di Gio Ponti, figura di grande professionista a tutto campo a partire dal Palazzo della Montecatini 1935-38 “totem del capitalismo industriale”, dice Gargiani. Al Pirellone fa da controcanto la Torre Velasca dei BBPR, interpretazione geniale delle antiche torri medievali. Anche Michelucci costruisce un grattacielo a Livorno ma è un’altra lingua. L’Italia vive il suo miracolo economico e il nord-est è la punta di diamante e Gino Valle ne diviene il maggiore interprete: la Fabbrica Zanussi a Pordenone 1957-61 ne è il manifesto. Con le forme del béton brut e il movimento analogo coniato da Reyner Banham con Vittoriano Viganò e il Marchiondi a Milano, Luigi Carlo Daneri con le sue abitazioni a Genova, le tante fabbriche di Marco Zanuso anche fuori d’Italia che peraltro fu uno straordinario designer: incipit del trionfo dell’Italian Style in tutto il mondo. Gargiani il tema design lo tratta di striscio. Il talento originalissimo di Carlo Scarpa, architetto, designer e restauratore del Castelvecchio di Verona spic­ ca. Il suo nome apre una parentesi sul ruolo che ebbero Albini a Genova con il Tesoro di San Lorenzo, Palazzo Bianco e Rosso, Gardella con la Galleria d’arte moderna, i BBPR al Castello sforzesco a Milano, Michelucci a Firenze: tutti grandi allestitori e restauratori di monumenti antichi. Perché le nostre città sono antiche e disseminate di opere stra-

ordinarie cariche di secoli e la loro tutela diviene programma architettonico di primaria rilevanza. Gli architetti italiani in questo ambito sono dei maestri incontrastati nel mondo. Con il Piano regolatore di Assisi il torinese Giovanni Astengo pone le basi di una grammatica fondativa per l’urbanistica, Leonardo Benevolo allestisce piani e progetti di restauro urbanistico con progetti pioneristici per Bologna, Venezia e Roma. Dal suo canto Saverio Muratori a Roma pone le basi di una metodologia che ebbe il suo credito nella scuole d’architettura. E parlando di scuole un ruolo fondamentale ebbe Giuseppe Samonà, non solo come architetto e urbanista, ma sopratutto come Rettore dell’Istituto universitario di architettura di Venezia, acronimo IUAV. Samonà chiamò in laguna alcuni tra i maggiori architetti italiani che non avevano trovato posto al Politecnico di Milano e alla Facoltà di architettura di Roma, dove continuavano a far da padroni vecchi arnesi del ventennio fascista. Farne l’elenco sarebbe tedioso. Ma del siciliano Samonà architetto vale ricordare la Centrale elettrica di Termini Imerese e il suo ruolo di alter-ego di Carlo Scarpa a Venezia: entrambi maestri di tanti architetti che fecero strada. Alcuni li troveremo nel terzo volume con un titolo criptico: razionalismi esaltati, nostalgici radicali. Tra i primi in grande evidenza Giorgio Grassi e Aldo Rossi a cui va la spiccata simpatia dell’autore. Rossi è un caso molto particolare: fu autore di alcune architetture a partire dal Cimitero di Modena con Braghieri, alcune residenze a Berlino: opere di contenuta proprietà linguistica di razionalista “esaltato”, ma il Gallaratese a Milano è un’icona razionalista dal punto di vista edilizio assai deluden-


te. Il ruolo di Rossi s’esalta nella sua grammatica dell’architettura che ebbe un successo internazionale come di rado è accaduto per un architetto italiano se non si vuol risalire a Sant’Elia. Fu il primo italiano a cui fu assegnato il Premio Pritzker – una sorta di Nobel per l’architettura – nel 1990, secondo Renzo Piano nel 1998: c’è da stropicciarsi gli occhi! Rossi diede forse il meglio di sé nella grafica. La stagione 1967-73 è ricca di nomi nuovi e di straordinari tramonti: è il caso di Giovanni Michelucci con la chiesa di Longarone 1961-67, di Gino Pollini con Vittorio Gregotti per il dipartimento di Scienze a Palermo, di Luigi Moretti sempre sulla breccia con il progetto della Chiesa del Concilio in un quartiere periferico di Roma: un’autentica rivoluzione del suo linguaggio razionalista. Nelle ultime pagine l’autore tira le fila di questa cavalcata plurisecolare con una scrittura di cui si apprezza la sobrietà e la chiarezza, con rimandi bibliografici senza risparmio. Roberto Gargiani ha scritto un’opera magistrale con il doppio sguardo dell’Angelus Novus di Walter Benjamin: volto verso un futuro che guarda al passato. Fare una recensione di un’opera di oltre mille pagine esigerebbe una memoria come quella di Pico della Mirandola e il genio di Benjamin: chi scrive, senza pudore lo confessa all’Autore e ai lettori non ha queste doti. C. d.S. L. Porqueddu, Urbs Urbis. Una spontanea e inevitabile alleanza tra idea e realtà, Quodlibet, Macerata 2020. Il volume di Luca Porqueddu si propone di trattare un tema allo stes-

so tempo di ampio raggio e di precisissimo focus, occupandosi di una questione sempre presente – pur con modalità e pesi differenti – nelle diverse fasi del pensiero architettonico (e filosofico) universale: il confronto tra ideale e reale. Più nel dettaglio, Urbs Urbis analizza tale rapporto dialettico relativamente alle considerazioni e agli studi sulle città ideali e sulle città costruite, nell’ottica non di una ulteriore scissione semantica, ma piuttosto di una aperta dichiarazione di quella che nel sottotitolo dell’opera prende il nome di «una spontanea e inevitabile al­leanza tra idea e realtà». Messaggio sotteso al libro sembra essere infatti quello di porre ammenda alla separazione instauratasi tra le coordinate di ideale e reale, ponendo l’attenzione principalmente sul tema progettuale. Come punto di partenza per la trattazione si delinea la consapevolezza che il primo di questi termini – ovvero l’ideale – sia un potente strumento per il progetto ogni qual volta esso debba confrontarsi con il secondo – il reale – e cioè con le condizioni tangibili e contestuali del mondo che ci circonda. In questa direzione, la città reale-ideale […] rappresenta una proposta dialogica che invita l’architettura a confrontarsi costruttivamente con l’imprevedibile, con l’irrazionale, così come con l’immagine di paesaggi e visioni; rilevando come in ognuna di queste occasioni esista una naturale compresenza di sovversione e di adattamento. Pur dedicandosi alle città dalla prima all’ultima pagina, il volume non prende una piega profondamente urbanistica ma si dispone nell’ambito delle riflessioni teoriche e ontologiche individuando come principale oggetto di studio l’ambito re-

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lazionale esistente tra la città prefigurata e la città quale fatto costruito. Per sviluppare e approfondire il riavvicinamento tra idea e realtà, l’autore seleziona cinque momenti – esodo, città, ideale, reale e attesa – riconosciuti come punti fondamentali per l’approfondimento dello scambio reciproco e delle condizioni di coesistenza tra queste due entità. Ognuno di questi momenti, a cui è dedicata una specifica sezione del libro, viene filtrato da uno sguardo incrociato (dall’idea alla realtà, dalla realtà all’idea), il cui intento non è tanto quello di definire, quanto di sfocare, ambiti problematici resi sterili dalla separatezza. L’argomentazione prosegue quindi in una sequenza di suggestioni e riflessioni scandite, a seconda della sezione, da documenti testuali o iconografici, da immagini puramente evocative a citazioni di opere dal passato, più o meno lontano; dalle rappresentazioni più emblematiche delle forme di città ideale, fino alle foto satellitari di tessuti urbani esistenti. Le prime due sezioni sembrano ricostruire, una dopo l’altra, alcuni passaggi figurativi e mentali che nel loro insieme riescono a definire le possibili modificazioni del territorio per la progressiva costituzione della città. Al centro della prima sezione dal titolo Esodo: Ricerca delle necessità urbane troviamo la figura dell’esodato, descritto in balia di due pulsioni itineranti: da un lato i programmi, i desideri, le necessità umane, dall’altro l’ambiente, alternativamente limite e risorsa. Come diretta conseguenza, egli è portato a costruire la «sua città» introducendo nell’ambiente alcuni «segni reagenti», identificati come l’aspetto più embrionale e basilare della definizione del nu-

cleo abitato, in quanto ciascuno di essi descrive un primo atto di intervento e mutazione sul territorio. Il testo non si articola in una precisa e scientifica disamina, ma piuttosto si configura come una rapida enfilade di suggestioni – quasi dei flash – a cui coerentemente sono affiancate immagini evocative prodotte dall’autore stesso e che si pongono figurativamente al limite tra la fotografia sovraesposta e lo stampaggio per gomma bicromata. Tali concetti vengono richiamati e approfonditi nella sezione successiva, Città: Princìpi urbani primari-persistenti, nella quale i segni reagenti si presentano non più solo come singole azioni di modifica, ma come operazioni di organizzazione e strutturazione del territorio che prendono forma nella città. Infatti, per consentire a un insieme variabile di individui di attivare e consolidare relazioni sociali finalizzate alla proliferazione delle opportunità […] la città propone un’alleanza solidale con il luogo, sostituendo il peregrinare geografico con la costruzione di risposte artificiali saldamente ancorate allo spazio. La potenza del gesto profondamente umano della fondazione della città (e della programmazione delle sue relazioni e tensioni) viene rappresentata dall’autore proponendo una sequenza di immagini di grande forza figurativa e di ampia riconoscibilità. Le incisioni di Giovan Battista Piranesi si succedono alle raffigurazioni di Athanasius Kircher e di Francesco di Giorgio Martini; la pianta del Palazzo di Cnosso precede di poche pagine quella dell’Acropoli di Atene, così come quella di Palmanova e di Versailles; sono immagini note, qui elette a simbolo di quei «princìpi urbani primari-persisten-


ti» quali sono indicati, per citarne alcuni, la Nave e il Palazzo, l’Acropoli e la Costellazione, l’Uomo e il Sole. Nella terza e quarta sezione si passa a un’analisi più diretta e oggettiva delle città – prima di quelle ideali, poi delle reali – anche grazie all’uso di una documentazione di matrice più scientifica rispetto alla precedente. Le immagini evocative e simboliche delle prime due sezioni, infatti, vengono qui sostituite da materiali, scritti e iconografici, in grado di descrivere più direttamente la città, sia quella utopica, sia quella esistente. La terza sezione, Ideale: Trascrizione di un quadro ideologico-pragmatico, riporta la descrizione di città ideali attraverso alcuni estratti di opere incentrate sul tema. Il testo si compone quindi di una successione di citazioni tratte da quella «narrazione parallela alla “storia”», resa possibile dal riconoscimento che da sempre «l’ideale accompagna la storia della città come risposta alle aspirazioni umane». È in questa sezione che si inizia a intuire il ruolo fondamentale della descrizione dell’ideale per l’uomo e per il suo vivere collettivo, introducendo un tema che verrà ulteriormente approfondito nelle ultime parti del volume. La scelta di rifarsi direttamente alle opere scritte – che spaziano dal contesto atemporale della Genesi fino al 1900, attraversando non solo secoli ed epoche, ma anche paesi e continenti –, da un lato sembra essere l’unico approccio autentico al tema, dall’altro ne dimostra la presenza costante nell’evoluzione dell’uomo. La successione delle città idea­li trascrive la storia umana, saturando come un calco lo spazio potenziale trascurato dalla realtà. La loro forma testimonia la necessità di evasione

che ogni cultura e ogni tempo maturano nei confronti della propria condizione. All’interno della quarta sezione, Reale: Modello e testo nella città costruita, l’autore riporta l’attenzione sulla dimensione più concreta dell’abitare il territorio con una proposta di viste satellitari di città esistenti, presentate in ordine alfabetico; anche in questo caso, la sequenza trascende i confini geografici e culturali e presenta forme urbane appartenenti a contesti tra i più diversi e lontani. Da Baghdad a Barcellona, da Nuova Delhi a Roma, strutture urbane, isolati abitati, spazi verdi assumono configurazioni simili e dissimili, componendosi di volta in volta in tessuti più o meno densi, più o meno stratificati. L’osservazione delle trame di città esistenti, unitamente alle riflessioni precedenti, rende effettivamente riconoscibile come l’ideale si insinua nella metrica urbana, organizza le proporzioni di corpi regolari, la tessitura ortogonale e prospettica degli elementi e delle parti. Quando l’ideale si radica profondamente nella città diviene esso stesso ulteriore «reale» […]. Un livello, comune a tutte le città, generatore al tempo stesso di immaginari meccanici e biologici, concilianti la purezza della norma e l’incoerenza dell’applicazione. Ciò che viene fatto emergere da Porqueddu è la persistenza del pensiero umano nel gesto sul territorio con le sue costanti e variazioni e della sua riconoscibilità nella forma della città; dimostrazione garantita e resa efficace all’interno di queste pagine tramite il confronto inconfutabile con il dato reale, oggettivo e scientifico, imposto dalla selezione di immagini satellitari. L’ultima parte del volume, Atte-

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sa: Alleanza dialogica per l’evoluzione urbana, è interamente dedicata a tracciare le effettive possibilità dell’ipotizzato e ricercato rapporto dialogico tra ideale e reale. Con la consapevolezza che per molto tempo la relazione tra idea e realtà ha affidato al primo termine il compito di indirizzare il dispiegarsi del secondo, misurando la distanza fra le due condizioni, lo scenario delineato dall’autore è caratterizzato da una dissoluzione di questo rapporto che rimane, pertanto, in uno stato di attesa. Se l’ideale da sempre spinge al superamento del limite definito dal reale, appare evidente che questo non sia eliminabile dal pensiero umano, così come non cesserà di produrre utopie che, dichiaratamente estranee al reale, si rifugiano nel sogno e nel viaggio. Tuttavia tale condizione di allontanamento e scollamento sembra essere solo apparente e non in grado di annullare la forza generatrice dell’ideale poiché da sempre, e per sempre, la realtà è attratta dall’idea riposta nel­­l’utopia. La città contemporanea non può, allora, che mostrare perplessità e incapacità di orientamenti, dalle quali scaturiscono difficoltà nell’elaborare proiezioni trasformative alternative e realmente complementari all’esistente. Tuttavia, ciò non impedisce, all’occhio più attento, di percepire i numerosi spazi che le attuali logiche insediative aprono al confronto di idea e realtà. Lo scenario tratteggiato è quindi sospeso tra accettazione del­­ l’esistente e alternativa della prefigurazione, due condizioni che sembrano poter raggiungere una sintesi unicamente attraverso la costruzione di una città ideale-reale, mai tanto attesa. G. A.

O.H. Ulrich, F. Giacomelli, Enzo Mari curated by Hans Ulrich Obrist with Francesca Giacomelli, Electa-Triennale Milano, Milano 2020. Enzo Mari, protagonista indiscusso dell’arte e della cultura italiana e internazionale e recentemente scomparso, definito da Marco Sammicheli, una personalità introversa, solitaria, autonoma nella radicalità del suo pensiero, spettatore di una rivoluzione ma mai incastonabile in un’idea di movimento, distante e partecipe al tempo stesso, ci dona il suo ultimo colpo di scena prima di far calare il sipario. Un sipario che dovrà assorbire la patina di quaranta polverosi anni prima di concedere nuova luce ai nuovi occhi di una generazione non degradata di giovani che reagiscono e che prendono in mano il significato profondo delle cose, capaci finalmente di osservare e comprendere. La retrospettiva che la Triennale di Milano (17 ottobre 2020-18 ottobre 2021) dedica a Mari coincide infatti con la donazione di quest’ultimo alla città meneghina di un bagaglio di opere e di sapere lungo più di sessant’anni, la sua Wunderkammer intellettuale. Curata da Hans Ulrich Obrist e Francesca Giacomelli, la mostra monografica, inaugurata il 17 ottobre 2020, è costretta a chiudere nel­ l’arco di sole due settimane a causa di un nuovo lockdown imposto dal­ l’emergenza sanitaria. L’esposizione apre perciò le sue porte virtuali e trova voce attraverso una serie di eventi collaterali accessibili su canali e piattaforme digitali e soprattutto mediante l’eloquente catalogo. Il testo del catalogo che la accompagna immerge immediatamente il lettore nella dimensione culturale e


storica del designer piemontese attraverso le stesse parole di Mari. Le interviste che in un excursus lungo un ventennio il curatore, Obrist, rivolge all’artista sono esse stesse sufficienti per comprendere, come Lorenza Baroncelli sostiene, la forza visionaria e la contemporaneità di questo straordinario Maestro del design (e non solo). Si manifesta come una dichiarazione politica, filosofica, metodologica e operativa ma che, con il trascorrere del tempo, assume i connotati di un percorso di coscienza critica e autocritica dello stesso designer nei confronti del proprio operato. Motivo ispiratore della mostra sono i numerosi allestimenti che Mari ha progettato, in molti dei quali Obrist ha avuto l’opportunità di sostenere con lui tali fruttuose conversazioni. Sono scambi salienti che aprono prospettive ideologiche: dal­ l’orientamento politico, apertamente di sinistra, che conduce Mari a creare modelli di oggetti comuni […], non soltanto creare oggetti banalmente utili ma anche costrui­ re un modello di lavoro non alienato, per una società diversa, ai discorsi sulla qualità della forma, che lo portano a stabilire un criterio motivazionale del progetto: guarda fuori dalla finestra e se ciò che vedi ti piace, allora non c’è ragione di fare nuovi progetti. Se invece ci sono cose che ti riempiono di orrore […], allora esistono buone ragioni per un progetto. Ma la qualità non può prescindere dalla quantità e a quel punto si scopre che il progetto deve diventare violentemente rivoluzionario. La filosofia che guida il designer è basata sull’idea di generare modelli per un nuovo modo di produrre e di vivere, in maniera libera ma al tempo stesso comunicabile e accessibile. La sua ri-

voluzione sta nel perseguire i suoi obiettivi prescindendo dalle regole e dai ricatti del mercato, mantenendo come punti di riferimento l’arte e il suo diretto interlocutore, la società. Dallo sguardo interno ottenuto attraverso gli occhi di Mari nelle interviste, il testo conduce il lettore ad assumere una distanza critica attraverso un approccio contemporaneo guidato da Francesca Giacomelli. È evidente il parallelo con l’impostazione della mostra: se il primo percorso espositivo, che definisce il limite dello spazio dell’allestimento ed è incentrato sulla mostra antologica Enzo Mari. L’arte del design ­(tenutasi alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino nel 2008-2009), segue il criterio cronologico come accade per le interviste, il secondo itinerario, che a tratti affianca a tratti compenetra il primo, utilizza una chiave di lettura tematica che introduce le principali Piattaforme di Ricerca di Mari, così come accade nel catalogo. Attraverso le parole della curatrice, che può avvalersi dell’onore di aver collaborato con Mari per più di dieci anni, vengono sviscerati i noccioli della ricerca quali coordinate fondamentali per poter indagare e comprendere le implicazioni progettuali comuni ad altre opere. Tali assi tematici sono nella loro totalità diciannove e tracciano una sorta di cronistoria della vita progettuale di Mari. Come nella mostra si intrecciano i due percorsi espositivi, nel catalogo ogni piattaforma di ricerca è introdotta da un testo di Giacomelli e da un commento di Mari, che donano al lettore una visione esterna e più oggettiva fusa a una prospettiva interna e soggettiva: dalle prime indagini sulla percezione dello spazio e sui rapporti fra colore e volume (1952-1968) a quelle sulle

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produzioni sperimentali, che mirano a dimostrare l’impiego delle macchine utensili e dei semilavorati industriali nella realtà della produzione artigianale e dalle quali nasce Putrella (1959), definita da Mari oggetto di sintesi di tutto il design perché cerca di qualificare esteticamente un prodotto industriale; dalle ricerche per l’ideazione di giochi per bambini (19571958) che pensano all’infanzia come momento della vita dell’uomo in cui la capacità di capire la realtà è all’apice» e che intendono quindi alimentare le potenzialità creative [del bambino], alle Proposte per un’autoprogettazione (1971), che sostengono invece l’esercizio critico del progetto come epifania della socializzazione del progetto stesso; dagli studi sulle strutture modulari e sulla produzione in serie (1964-1970) a quelli sui multipli d’artista (2009); dai progetti per copertine (1965) a quelli di allestimenti; dalle istigazioni filosofiche tramite le Allegorie (1979-1986) alle provocazioni progettuali mediante il progetto Per un nuovo Museo del design (2009) o per il suo Potenziale Archivio (2010). Ognuna di queste sezioni non è legata solamente da un fattore temporale: esse delineano in maniera netta e evidente l’impegno politico di Mari quale filo conduttore di tutte le sue ricerche. Egli, guidato dall’idea di verità incontaminata dalle formule mercificanti di un gruppo elitario, assume le vesti di un’instancabile partigiano della democratizzazione e socializzazione dell’arte e del design e del­ l’accessibilità del prodotto, non solo economica, ma sopratutto comunicativa nei confronti di ogni ceto sociale. A questo dettagliato inquadramento segue il regesto delle opere.

Un ricco corpus iconografico disposto in ordine cronologico e identificabile in tre macrogruppi: opere e progetti nati dall’esigenza dell’autore di indagare la forma oppure di contestare la realtà; altri nati dalla richiesta e dalla contrattazione con le imprese di produzione e altri enti; infine altri ancora ai quali è dedicata una piattaforma di ricerca. L’acuta presentazione fatta precedentemente lascia ampio spazio all’eloquenza delle immagini e degli schizzi, che vengono semplicemente accompagnati da una breve didascalia, così come accade nella successiva rassegna di manifesti e pubblicazioni di e su Mari. La scelta dei curatori è a questo punto quella di allontanare nuovamente lo sguardo del lettore/visitatore concedendo maggior spazio a una reinterpretazione critica delle opere del designer piemontese e a un punto di vista più distaccato sulla sua personalità da parte di architetti e artisti sia coevi che contemporanei. Tale cambio di prospettiva parte da una consapevolezza che ben esprime Paola Antonelli quando sostiene che Mari è una figura non solo internazionale e adattabile a tantissime altre culture materiali, ma anche intergenerazionale, in quanto in lui, ciò che colpisce, sono il mito dell’originalità, dell’autenticità e dell’essenzialità – caratteristiche oggi più che mai ricercate in un mondo di apparenza e illusione. Risuonano perciò attuali, consolatorie e veritiere le parole di Mari quando afferma: Con i miei lavori ho sempre cercato di parlare ai giovani, di dare loro una risposta, e per questo non ho mai voluto fare dei progetti utopici. Ogni mio progetto è diventato piuttosto un prototipo. Il mio primo maestro si chiama Platone, parlava di etica, di un


progetto fatto non per l’interesse di una persona ma per tutti. Ecco: questo per me è sempre stato fondamentale. Il panorama rotante attorno alla figura di Mari si chiude con una serie di apparati suddivisi, come da sua volontà, in libri e scritti, cataloghi di mostre, esposizioni, premi e insegnamento. Una sorta di sunto oggettivo e «programmato» di ogni sfaccettatura dell’artista, dalla figura di teorico e critico a quella di filosofo e politico, da quella di progettista e designer a quella di insegnante. La struttura del catalogo appare quindi essa stessa come un’applicazione delle ricerche percettive di

Mari e dei suoi studi sui rapporti tra contenuto e contenitore. È una costruzione di ambienti virtuali come gusci sferici sovrapposti, all’interno dei quali l’osservatore è posto al centro. In essi sono continuamente proposte svariate prospettive di immagini dell’artista e delle sue opere, modificando non solo la profondità dello sguardo, ma anche l’assunzione del punto vista: una retrospettiva che si tramuta, nei fatti, in un ultimo grande progetto a trecentosessanta gradi dove il risultato non è tanto l’oggetto realizzato ma il processo del progettare nel suo divenire. C. D’A.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N. 161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopo-


guerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma - Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre N. 162. Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contemporaneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented - Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre N. 163. L’architettura è (ancora) un’arte? - Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la post-verità - La Biennale d’architettura 2018 - Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità - La teoria in scena: Adolphe Appia - Libri, riviste e mostre N. 165. Organic and mechanical - Paesaggi dell’Antropocene - Carlo Ludovico Ragghianti “architetto”. Dal dibattito al museo - Oltre il biomorfismo: l’approccio bioispirato - Libri, riviste e mostre N. 166. Linguistica, semiotica e architettura - Il museo nell’era del web - La poesia scenica di Gordon Craig - Fare, pensare e progettare nel tempo della app economy - Essere designer: ruoli e dinamiche al confine con l’arte - Libri, riviste e mostre N. 167. Smart Cities - Fenomenologia della nostalgia - Olivetti in Messico: 1949-2002 - Donne e architettura: il Woman’s Pavilion di Chicago - L’opera, l’immagine digitale e il Digital Storytelling 2.0 - Sulle tracce dell’opera d’arte. Video-recording e XXI secolo - Incoming/Outgoing. Flussi trans e mul­ticulturali nel design contemporaneo - Libri, riviste e mostre N. 168. Napoli: architettura internazionale anni ’70 - Telelavoro - Design quotidiano al tempo della vulnerabilità diffusa - L’Opificio Bertozzi & Casoni: estetica, concetto e sapienza fabbrile - Tra il sacro e l’espositivo - Cucinare e consumare: la cucina-casa - Quando i Giganti cadono. Fenomenologia della Memoria - Libri, riviste e mostre N. 169. Chi parla inventa e chi ascolta indovina - Insegnare a distanza: il “progetto della didattica” - La prospettiva anarchica di Giancarlo De Carlo - Contro il parametricismo - Oltre il biomorfismo: il bioispirato e i materiali per lo sviluppo di prodotti resilienti e sostenibili - Antinomie del progetto Moderno - Soglie critiche. Sulla trasformazione come perdita e recupero Tra tradizione e innovazione: gli artisti contemporanei e la ceramica - Libri, riviste e mostre N. 170. L’analogia: l’euristica dell’architettura e del design - La città in quanto software - Sul potenziale della situazione: architettura come infrastruttura - New Media (e) Public Art. Arte oltre l’emergenza - Riflessioni sulla HfG di Ulm, per una storia delle scuole di Design - Pratiche d’immaginazione per decodificare la realtà. Alcuni artisti e opere - Due idee di vuoto: Dino Buzzati e Yves Klein - Il lato buono degli Scandinavi - Bisogni e desideri - Libri, riviste e mostre


Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli



ISSN 0030-3305

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