ISSN 0030-3305
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gennaio 2022
numero 173
L’esperienza della soglia: progetto minore per luoghi-di-non - Roma protorazionalista - Ambientalismo e Design - Oltre il quadrifoglio - Esperienze di coabitazione. Inclusioni spaziali, sociali e di genere alla XVII Biennale di Venezia - Libri, riviste e mostre Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
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Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Comitato scientifico Comitato redazionale Domenico De Masi Roberta Amirante Kenneth Frampton Pasquale Belfiore Juan Miguel Hernández León Alessandro Castagnaro Vanni Pasca Imma Forino Franco Purini Francesca Rinaldi Joseph Rykwert Livio Sacchi Vincenzo Trione Alberto Terminio Segretaria di redazione Emma Labruna Website e digitalizzazione Ermes Multimedia digital design per la cultura Concept: Renato Piccirillo Sviluppo: Riccardo Marotta, Valeria Pazzanese Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - fax: +39 081 7705654 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia e 50,00 - Estero e 70,00 Un fascicolo separato: Italia e 18,00 - Estero e 25,00 Un fascicolo arretrato: Italia e 20,00 - Estero e 27,00 Grafica Elettronica
All’indirizzo www.opcit.it è disponibile l’intera collezione della rivista dal numero 1 del settembre 1964 ad oggi
M. Pone A. Schiavo M. Manfra F. Fiorillo M. Bassanelli
L’esperienza della soglia: progetto minore per luoghi-di-non 5 Roma protorazionalista 19 Ambientalismo e Design 33 Oltre il quadrifoglio 43 Esperienze di coabitazione. Inclusioni spaziali, sociali e di genere alla XVII Biennale di Venezia 51 Libri, riviste e mostre 63
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Greta Allegretti, Pasquale Belfiore, Paola Buccaro, Carola D’Ambros, Chiara Pirozzi, Federico Turelli.
L’esperienza della soglia: progetto minore per luoghi-di-non MARIA PONE
Quella che si propone per questo numero di «Op. Cit.» è una riflessione su un tema di ricerca che sulle pagine di questa rivista ha già trovato espressione in due occasioni, nei saggi Paesaggi dell’Antropocene («Op. Cit.» n. 165) e Sul potenziale della situazione: architettura come infrastruttura («Op. cit.» n. 170). Questo scritto rappresenta una sorta di “terzo vertice” di un ipotetico triangolo, attraverso cui è possibile individuare la cornice che inquadra questa ricerca e il campo di indagine in cui essa si muove: ambedue sono evidentemente aperti e continuano ad arricchirsi, anche grazie all’incontro con visioni e pensieri nuovi, o che vengono a poco a poco “scoperti” e continuamente si aggiornano. La domanda centrale all’origine del ragionamento è la seguente: è possibile che l’architettura, nella città contemporanea e nell’epoca dell’Antropocene, debba essere pensata non più nella sua dimensione di “prodotto” o di “oggetto” ma invece come “nuova infrastruttura per l’abitare”? è possibile quindi che sia utile imparare a concepirla e a valutarla non tanto per “come è” ma per “quello che fa”? La domanda e le argomentazioni esposte nei due contributi sono costruite a partire dall’analisi e dal confronto tra temi, visioni e posizioni che animano già da qualche decennio il dibattito disciplinare ma che emergono anche dal confronto con altri mondi e altre discipline, coerentemente con la convinzione che, per qualsiasi tentativo di avanzamento del pensiero, la costruzione di
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alleanze e di parentele sia oggi del tutto inevitabile. L’operazione critica consiste perciò sostanzialmente nel mettersi in scia a una tradizione disciplinare (che il saggio sul potenziale della situazione rievoca brevemente) che, da più di mezzo secolo, si interroga sul ruolo dell’architettura e mette in discussione alcuni dei suoi caratteri “fondativi”, per trovarle nuovi spazi di azione e di utilità che sappiano confrontarsi con le condizioni di “complessità ed entropia” tipiche della contemporaneità. Per riprendere brevemente il filo del discorso: nei precedenti contributi il ragionamento muove a partire da una lettura dello spazio contemporaneo visto come Unicity, unica grande distesa urbana che, nell’epoca dell’Antropocene, ricopre l’intero globo e che nel perdere progressivamente i propri “confini esterni” vede invece rafforzarsi violentemente i propri, innumerevoli, “confini interni”. Questo perché, come spiega in maniera sintetica ma efficace Bernardo Secchi, la infinitamente estesa metropoli contemporanea è divisa e diversamente abitabile per i “ricchi” e per i “poveri”; la sua struttura e la sua organizzazione sono orientate da due principali forze generatrici che le danno forma: l’ideologia del mercato e la retorica della sicurezza [B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Roma-Bari 2013]. Detto con Alessandro Petti, lo spazio contemporaneo può essere descritto e interpretato attraverso la contrapposizione di due figure: l’arcipelago (lo spazio liscio dei flussi) e l’enclave (lo spazio dell’eccezione). Queste due figure convivono ma la loro convivenza è asimmetrica. Se da un lato vi è un’élite che gestisce lo spazio dei flussi, vivendo in un mondo arcipelago che percepisce come unico e privo di esterno, dall’altro la sospensione delle regole dell’arcipelago produce vuoti giuridici ed economici, che fanno del sistema di enclave un buco nero, una zona d’ombra [A. Petti, Arcipelaghi e enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Mondadori, Milano 2007, p. 22]: isole connesse, per gli interessi del mercato, e isole sconnesse, escluse in nome della sicurezza, in un grande mare che le contiene. A partire da questa lettura. il primo vertice di questo triangolo tratta degli “effetti epocali” che questo modo di concepire e costruire i nostri habitat ha e ha avuto sul pianeta che ci ospita; il secondo mette a fuoco l’ipotesi, contenuta nella domanda citata
in apertura: è possibile pensare a un’architettura/infrastruttura capace, in questi contesti, di trovare uno spazio di utilità attraverso il ripensamento di alcuni dei propri caratteri? Ed è possibile che, pur aspirando a rimanere “opera aperta” [U. Eco (1962), Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano 2016], questa architettura/infrastruttura possa
sfuggire a una deriva rinunciataria di immaterialità e perdita di senso e confermare invece la propria vocazione a modificare la dimensione fisica e materiale degli spazi? Provando a cercare risposte a queste domande, le riflessioni che seguono si concentrano stavolta sulla dimensione che potremmo definire “metodologica” del progetto dello spazio. Una “forma del pensiero progettuale” che, per confrontarsi con questa dimensione epocale di cambiamento, deve probabilmente (come già molti sostengono) mettere in discussione alcuni dei suoi paradigmi fondativi. Ancora una volta, nella logica di prosecuzione di un percorso di ricerca, potremmo accostare alla domanda centrale una nuova domanda più specifica: come deve essere “pensato” il progetto se vuole essere capace di ideare delle architetture/ infrastrutture? Arcipelaghi e enclave, la città dei ricchi e la città dei poveri: due sistemi binomiali che descrivono (in forma sintetica) la struttura dello spazio abitato contemporaneo. È a questa struttura che corrispondono le due forme principali di produzione dello spazio urbano, quelle che oggi disegnano in maniera prevalente i territori abitati: da una parte il sistema che potremmo definire come quello delle “grandi opere” che modificano gli ambienti in modo diretto e indiretto e che costruiscono, implementano e garantiscono il funzionamento della rete globale dei flussi (anche rispetto all’importante ruolo di rappresentanza che in alcuni casi viene loro conferito e al loro potere “suggestivo”); dall’altra il mondo dell’informalità, che è sì quello delle sconfinate favelas, slums e baraccopoli, ma che oggi si mostra anche in una serie di modificazioni che si realizzano nei centri e nelle periferie delle città in giro per il globo, e che si sviluppano per rispondere a necessità e bisogni imprevedibili e ingovernabili, in forme totalmente autonome e indipendenti. In questo quadro, il progetto sembra essere escluso tanto da una dimensione (quella della grande rete globa-
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le) rispetto alla quale viene considerato non più che “braccio operativo” chiamato a formulare risposte tecniche e figurative a logiche e decisioni prese su altri livelli, quanto dall’altra (quella dell’informalità) dalla quale viene sistematicamente escluso in quanto strumento massimo di burocratizzazione della vita e di limitazione delle libertà di movimento. Come sappiamo però, tutti i binomi, in quanto composti da due polarità, formano in realtà dei “campi di forze”; e sono proprio questi “campi” a costruire lo spazio di possibilità in cui ragionare sul progetto in termini diversi, come qualcosa che sappia “uscire dal piano” [G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e Schizofrenia, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 1980] su cui giacciono questi campi aprendo nuovi scenari per pensarsi diverso, costruendo “vie di fuga” capaci però sempre di tenersi in tensione con le conflittualità decisive che tessono la trama del presente, di fessurare quello strato compatto della disciplina che rischia di condannarla a un mortifero isolamento in favore di un atteggiamento politico volto a tessere alleanze. Per parlare di progetto si prenderanno in esame le recenti riflessioni aperte da due autori provenienti (come di consueto) da discipline diverse tra di loro ma che propongono entrambi degli spostamenti che possono, a parere di chi scrive, far scorgere l’imbocco di questa “strada perpendicolare al piano” [ivi] che si potrebbe decidere di andare a esplorare. Progetto minore
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Un recentissimo e interessante tentativo di interrogare il progetto e le sue possibilità lo dobbiamo a Camillo Boano che scrive, nel 2020, un libro dal titolo Progetto Minore, pubblicato da LetteraVentidue. La necessità di trovare nuove strade per il progetto, di proporre coraggiosamente di abbandonare alcune certezze in cui la disciplina ha sempre trovato conforto e riparo per provare a raccogliere le sfide del presente, spinge l’autore a interrogarsi sulle criticità che costringono il progetto nella sua condizione di inutilità e inefficacia. Il testo, pur muovendo da una domanda precisa “esiste un progetto minore? E se sì, come è fatto?”, non mira a costruire un nuovo statuto chiaro e definitivo per
il progetto, si presenta piuttosto come un appello, un invito a muoversi, un’apertura critica per una “forma del pensiero” che nella condizione contemporanea sembra non trovare spazio per dispiegare la sua potenza. Un appello ad aprire il progetto ad altre scale, ad altri incontri, senza per questo condannarlo all’inazione, senza nichilismi o atteggiamenti rinunciatari; si intravede nelle parole dell’autore un’idea di progetto pensato come ciò che esprime il “sapere dell’architetto”, un sapere complesso che non coincide (o forse meglio, non dovrebbe più coincidere) con una sorta di capacità divinatoria di individuare IL migliore dei futuri pos sibili per un territorio e farne un “render”, riprodurne un’immagine statica (Boano parla di questo argomento con Romeo Farinel la del Dipartimento di Architettura di Ferrara in una recente in tervista https://www.youtube.com/watch?v=3vIcn4ze5EU&ab_ channel=CITERlab), ma che investe piuttosto la capacità di comprendere e tradurre le massime mute dello spazio, utile perché allenato a trovare spazio dove sembra non esserci, o dove si nasconde allo sguardo di altri. Per raccontare in che modo il progetto può spostarsi in questa direzione, Boano sceglie di attribuirgli l’aggettivo “minore”. Minore è un termine che ha una storia lunga e poco lineare: l’autore in particolare propone la trasposizione in ambito architettonico dell’interpretazione che Deleuze e Guattari ne sviluppano negli anni ’70 a partire dalla produzione letteraria di Kafka [G. Deleuze, F. Guattari (1975), Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996]. Gli stessi autori, nello scrivere di “letteratura
minore”, affermano che il portato del termine va ben al di là delle sue implicazioni in campo letterario: di grande, di rivoluzionario non c’è che il minore sostengono, sottolineando come minore non sia semplicemente un attributo qualificativo ma rappresenti una postura, capace di ribaltare le gerarchie dei sistemi in senso più ampio, in senso politico. La “letteratura minore” di Kafka non è letteratura di una lingua minore è invece un uso minore della lingua maggiore che ne sovverte il potere delle costanti e che porta l’autore a essere nella propria lingua come uno straniero [ivi, p. 47]. Minore è dunque un’intensità, una tonalità; e secondo Boano il “tono” del progetto di architettura, nella sua tradizionale con-
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cezione, prendendolo da qualunque parte si voglia, sembra sempre essere maggiore, maggioritario ed arrogante, almeno nella sua filiera moderna-occidentale, nella sua deriva soluzionista, nel suo egoismo dell’azione e della ricerca dell’impatto; il progetto si compie complimentandosi di sé, fissando la realtà, incarnandosi in essa, nel suo linguaggio, nei suoi codici di rappresentazione come nei pensieri che lo hanno generato” [C. Boano, Progetto Minore. Alla ricerca della minorità nel progetto urbanistico e architettonico, LetteraVentidue, Siracusa 2020, pp. 21-22]. Spostare il concetto così come proposto dagli autori
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francesi dall’ambito letterario a quello architettonico significa, per Boano, immaginare una chance per il progetto. Non rinnegarlo, non svilirne le specifiche capacità, ma pensarlo appunto come tonalità di potenza, un’etica che ricodifica, rielabora e sovverte le categorie chiave del progetto (interno/esterno, pubblico/ privato, funzione/uso, ignoranza/conoscenza, presente/futuro, reale/possibile), indeterminandole, non svuotandole ed appiattendole ma creando uno scisma, una cesura nelle ecologie delle pratiche che costituiscono l’urbano, liberandone potenzialità, alternandone le valenze, ricentrando le relazioni con la diversità, con l’indistinto, con il complesso, con il meticcio, esplorando divergenze e aprendo a dissonanze [ivi, p. 10]. Progetto minore è un tentativo di riconsegnare al progetto la sua caratterizzazione politica, la sua implicazione all’interno delle conflittualità degli spazi abitati che ha la capacità di modificare, in risposta al tentativo di “rimozione” che sembra essere stato perpetrato negli ultimi secoli e che tenderebbe a definire la disciplina architettonica come “neutrale e indipendente”, estranea a tutto quello che sta “fuori” dalla sua comfort zone, dal suo ambito limitato agli aspetti compositivi, formali e funzionali. Quello che Boano suggerisce è, viceversa, che il progetto debba imparare a trasformarsi in un “sapere del fuori” perché l’architettura, in quanto “arte tipicamente politica” [J. Ruskin (1849), Le sette lampade dell’architettura, Jaka Book, Milano 1982] è concentrato di conflitti, forze opposte ed eterogenee alla ricerca di spazi di convivenza. Trovare questi spazi di convivenza non vuol dire necessariamente appiattire le forze conflittuali che animano le comunità
contemporanee, normalizzare le espressioni di queste comunità ordinandole e controllandole con le separazioni nette e aperture ben disposte di cui parla Foucault nella sua descrizione del Panopticon [M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Einaudi, Torino 1976, p. 22] mascherando quella “violenza politica” che esercita oscuramente per poi dichiararsi appartenente a quei sistemi neutrali e indipendenti [N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, Derive e Approdi, Roma 2005, p. 51]. Può significare, imparare a leggere e comprendere le propensioni [F. Jullien, Essere o vivere Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano 2017] dei territori e dei paesaggi e delle persone che danno loro
vita; può significare imparare ad assecondare queste propensioni in modo da favorire le trasformazioni che sono necessarie o desiderate; significa, per il progetto, pensare se stesso come un vocabolario più che come un render. In questa logica, progettare non farebbe più riferimento al “gettare avanti” nel tempo, alluderebbe di più al “pensare” la profondità dello spazio; non sarebbe più mezzo in vista di un fine futuro, ma tecnica in grado di attraversare coscientemente e con competenza lo spazio presente. Ragionare in questi termini vuol dire accettare l’invito di Boano a invadere un nuovo terreno comune che apre delle possibilità e dei campi di azione al progetto in quanto portatore sano dell’“arte di costruire” e quindi dell’“arte di abitare” [I. Illich (1992), Nello specchio del passato. Le radici storiche dei moderni concetti di pace, economia, sviluppo, linguaggio, salute, educazione, BE Edizioni, Firenze 2005], un progetto che non è inferiore, incapace di agire,
o di stare nella crisi, o di farsi concreto; ma neanche marginale, esterno, depotenziato. Semplicemente è un’intensità di progetto differente, che non si fa ontologia di un potere disciplinare, geografico, metodologico ma che sa essere destituente, cioè capace di offrire e far emergere una “potenza di non” [C. Boano, cit., pp. 12-13]. Dal Non-Luogo al Luogo-di-non: l’esperienza della soglia Come può … una potenza-di-non passare all’atto? E come possiamo pensare l’atto della potenza-di-non? Poiché l’at-
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to della potenza di suonare il piano è certamente, per il pianista, l’esecuzione di un pezzo al pianoforte; ma quale sarà, per lui, l’atto della sua potenza di non suonare? E che cosa avviene di questa potenza di non suonare nel momento in cui egli comincia a suonare? [G. Agamben, La potenza del pensiero, saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, p. 283]. Ancora una volta Agamben mette l’accento su un paradigma (preso dalla Metafisica di Aristotele) che può essere molto fecondo anche per il ragionamento che si sta qui proponendo. A questo concetto della potenza-di-non si era accostata (nel saggio su «Op. Cit.» n. 170) una delle principali tradizioni del pensiero cinese, raccontato dalla prospettiva (comunque occidentale) di Francois Jullien: il wu-wei, il “non agire” inteso come non agire purché nulla non sia fatto [F. Jullien, cit., p. 47]. Gli echi che questi richiami producono se messi in risonanza con i caratteri del progetto minore raccontato da Boano sembrano segnalare una strada da seguire che può essere implementata dal secondo dei contributi che si vuole chiamare in causa in questo scritto: il percorso narrativo che ci propone il giovane filosofo Emanuele Pelilli nel suo saggio Mantenere libera la soglia. Dalla geografia dei non-luoghi, alla necessità dei luoghi-di-non. Se è vero che nel suo saggio il filosofo non parla mai esplicitamente di “progetto” è pur vero che apre una riflessione sulle attitudini dei luoghi prodotti dal progetto nella città contemporanea proponendo una via di fuga. Lo fa a partire da uno dei più discussi e ormai consolidati neologismi entrati a far parte del dizionario disciplinare degli ultimi decenni: il non-luogo di Marc Augé. Nella definizione originaria il non-luogo si contrappone al luogo antropologico: il luogo antropologico è una costruzione simbolica e allo stesso tempo concreta dello spazio, è un principio di senso per coloro che lo abitano, ed è determinato da tre caratteristiche principali: è identitario, cioè dà forma all’identità dei soggetti che vi abitano; è relazionale, cioè individua i rapporti reciproci tra i soggetti in funzione di una loro comune appartenenza; è storico, nel momento in cui dona appartenenza e identità ai soggetti che in esso abitano attraverso un passato comune [E. Pelilli, Mantenere libera la soglia.
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Dalla geografia dei non-loghi, alla necessità dei luoghi-di-non, in «Il
cannocchiale», n. 1, 2016]; al contrario il non-luogo è quello in cui
è impossibile trovare relazione tra “urbs e civitas”, è spazio senza identità, di passaggio, di spaesamento, di globalizzazione e mercificazione. Si tratta di luoghi in cui e con cui è impossibile intessere relazioni se non accidentali e transitorie e mediate dalla merce. È diventata però quasi subito evidente l’impossibilità di individuare specifici spazi della metropoli contemporanea come nonluoghi; anche i più stereotipati esempi di non-luogo infatti (gli aeroporti, i centri commerciali, ecc.) possono facilmente ribaltarsi in spazi identitari, di cui si appropriano inattese e ingovernabili forme di relazione. Verrebbe da chiedersi perché comitive di giovani sempre più spesso scelgano i centri commerciali come luoghi per la loro socialità (altro che non-luoghi!), a prescindere dalla necessità di acquistare o dalla volontà di utilizzare i servizi a disposizione; è come se fosse proprio il tipo di spazio, la sua struttura – definita ancora e comunque intorno alla merce – a renderlo più appropriato ad accogliere quegli usi e quelle relazioni di quanto non lo siano gli spazi pubblici che abbiamo costruito negli ultimi decenni. Sarebbe forse più sensato ipotizzare che sia la metropoli stessa a oscillare tra la dimensione straniante e dissociativa del nonluogo e quella definita, irregimentata, machista e coloniale dello spazio identitario, in un rapporto simile a quello descritto da Deleuze e Guattari tra “spazio liscio e spazio striato”; questi, più che alternarsi geograficamente, si sostituiscono l’un l’altro ritmicamente nel tempo in un susseguirsi continuo tra territorializzazione, deterritorializzazione, riterritorializzazione [J. Deleuze, F. Guattari 1980, cit.]. Con la metropoli danza, in questo ballo perverso, il progetto. Nel suo saggio/narrazione Pelilli parte dalla descrizione del concetto di non-luogo e dalle argomentazioni che ruotano attorno alla sua problematizzazione per approdare a un altro paradigma che pure è stato, ed è, molto discusso in ambito disciplinare: quello dei Passages benjaminiani. Secondo Pelilli infatti i Passages rappresenterebbero la struttura in miniatura secondo la quale si mostrerebbe agli occhi di Benjamin il mondo contemporaneo, e questa struttura avrebbe qualcosa in comune con
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quello che a più di cinquant’anni di distanza sarebbe diventato il paradigma del non-luogo; infatti similmente al non-luogo di Augé, il Passage parigino condivide le peculiarità di essere un luogo di transito senza una propria identità, di non creare relazioni stabili al suo interno, e di essere a-storico: in più, come ogni autentico non-luogo … non è vuoto, ma riempito della presenza sradicante e omogeneizzante della merce [E. Pelilli, cit.]. Il Passage pur essendo, in questa prospettiva, paradigma di questa dicotomia tra non-luogo e spazio identitario, non coincide con nessuno dei due termini, in quanto materializzazione e “localizzazione” (secondo l’interpretazione di Benjamin che propone Pelilli) dell’“esperienza della soglia”: Questa è una zona di indistinzione e di indecidibilità tra interno ed esterno, tra strada e casa, tra viali e negozi, e non una linea netta di separazione tra due fenomeni spaziali – calcolabile e cartografica – come appunto il confine [ivi]. Il Passage è un luogo “topologicamente complesso”, a metà tra strada e casa, luogo di breve riparo, di attraversamento non indifferente ma tutto riferito all’esposizione del prodotto di consumo; soglia, in quanto punto di contatto e di compresenza, anche per quelle che Boano definisce “categorie chiave” (dentro/fuori, pubblico/privato, chiuso/aperto, ecc.). Il Passage è dunque una soglia, e come tale può essere vista come antidoto alla ragione cartografica, come scacco alla logica del pensiero identificante che non riesce a pensare la zona di indistinzione come un non-qualcosa, come un passaggio, ma che non vuole necessariamente ripartire gli spazi in un dentro ed un fuori, ed in questo modo identificarli, concettualizzarli, e imbrigliarli in precisi ordinamenti [ivi]. Se dunque il Passage rappresenta per Benjamin il “negativo” in quanto tempio del capitalismo, in quanto massima espressione della mercificazione delle vite, incarna allo stesso tempo il “positivo” in quanto paradigma spaziale dell’esperienza della soglia, luogo sospeso che mantiene sempre viva la sua sospensione. Ed è proprio nell’idea di soglia che sta la proposta centrale di Pelilli: una soglia che non può che restare tale è un dispositivo che non può essere identificato da parametri prestabiliti precisi né può essere usato come strumento per definire e “cartografare” gli spa-
zi con cui entra in relazione; tornando alle indicazioni panottiche di Foucault la soglia è sia “separazione” che “apertura”, ma non può mai essere “netta” e non è in alcun modo rilevante che sia “ben disposta”. L’idea di Passages liberati dalla schiavitù della merce e pensati come soglie liberate e mantenute infinitamente utilizzabili, e allo stesso tempo eternamente inappropriabili [ivi], è quella su cui chiude il testo di Pelilli e riecheggia fortemente con l’idea di progetto minore: ribaltare i non-luoghi in luoghi-di-non, pensare spazi in pura potenza, o meglio ancora spazi per “far emergere una potenza-di-non” [C. Boano, cit.]. Progetto come via di fuga Come deve essere il progetto se vuole essere capace di ideare delle architetture/infrastrutture? ci si chiedeva all’inizio di questo scritto. Le proposte degli autori presi in considerazione sembrano suggerire che il progetto possa trasformarsi in capacità critica di conoscenza dei luoghi, in strumento di interpretazione delle loro propensioni e, a partire dalla consapevolezza che i contesti contemporanei non sono mai “statici”, assecondare, accompagnare queste propensioni mutevoli attraverso la fuga dalla dicotomia non-luoghi/spazi identitari e la loro trasformazione in “soglie liberate”, in luoghi-di-non. Evidentemente mettere in connessione tra loro queste suggestioni non è sufficiente a costruire una risposta conclusa e precisa alla domanda; è più un tentativo di scorgere un orizzonte possibile per coloro che sono interessati a imboccare questo percorso deviante, per coloro che cercano possibilità per quel “sapere complesso”, perché convinti profondamente che possa ancora essere utile, ma con una prospettiva etica che si confronta con le contraddizioni di una disciplina che tende a essere sempre (più o meno volontariamente) violenta, impositiva, autoritaria e, proprio per questo, inadatta alle condizioni del presente. Non si tratta dunque della necessità di rinunciare al progetto e nemmeno di pensarlo privo della sua tensione a modificare la forma degli spazi, si tratta forse di cambiare sguardo su questi
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spazi e sulla relazione tra spazio e progetto. Un cambiamento che può poggiare su altri cambiamenti, per esempio su quello proposto da Jullien a proposito della nozione di paesaggio: non più la parte di paese che la natura presenta a un osservatore, secondo la tradizionale definizione occidentale ma invece, come pensano in Oriente, una “situazione” ovvero un fascio di implicazioni illimitate nel quale ognuno originariamente si coglie, la cui configurazione si delinea per diverse modalità di tensione, da cui ci si può affrancare soltanto per astrazione [F. Jullien, cit., pp. 21-22] In questa diversa versione cambia il ruolo del soggetto che interpreta: il paesaggio non è più accostato a partire dall’iniziativa del soggetto, così come la istituisce il famoso esordio cartesiano, ma è concepito come un investimento di capacità reciprocamente all’opera [ivi]. La “capacità critica di conoscenza dei luoghi” a cui abbiamo fatto riferimento, a partire da questa visione dagli echi latouriani, cambia registro perché il paesaggio non è più qualcosa di fronte a cui siamo e che possiamo plasmare a nostro piacimento, ma qualcosa dentro cui siamo inscindibilmente implicati, così la situazione non sarà più […] quel dato restio e resistente a cui devo imporre il piano che ho elaborato in precedenza, ma sarà una miniera di cui esplorerò le vene, un campo di risorse di cui seguirò i solchi, come si segue una rete di diverse opportunità sulle quali ‘surfare’ [ivi, p. 23]. Esplorare le vene, seguire una rete di opportunità, surfare. Possono essere buoni suggerimenti per pensare un progetto che è in continua implicazione con lo spazio, come un divenire, disposto a ogni passo a negare se stesso, a ri-progettarsi; per pensare un progetto capace di trasformarsi da “produttore di belle immagini” a “costruttore di immaginari” mutevoli, cangianti, mobili, sorprendenti, come sono gli scenari che offrono gli habitat contemporanei. Good architecture is open – open to life, open to enhance the freedom of anyone, where anyone can do what they need to do […] It should not be demonstrative or imposing, but it must be something familiar, useful and beautiful, with the ability to quietly support the life that will take place within it: è la frase con cui Lacaton e Vassal celebrano la vittoria del Pritzker di quest’anno (evento che per altri versi attesta il ri-
conoscimento verso una ricerca che muove in queste direzioni); la ricerca di un progetto aperto, libero dal suo carattere “dimostrativo” e “impositivo” per la costruzione di spazi che stimolino un abitare “creativo” perché, dicono gli architetti francesi: Difendere il piacere di abitare ci sembra, oggi, un atto decisamente politico: è una necessità, un problema che va affrontato allo stesso livello di una priorità ambientale […] Per ogni progetto, teniamo presente l’idea di una via di fuga. Creare vie di fuga significa anche fabbricare possibilità, progetti all’interno del progetto (A. Lacaton, J.P. Vassal, Lacaton e Vassal: ‘Il piacere di abitare’, in Domus Web [online]). Disponibile al: https://www. domusweb.it/it/architettura/gallery/2021/03/19/il-piacere-di-abitare.html. E forse, per difendere il piacere di abitare, per innescare processi immaginativi (ivi) che implichino il progetto nelle situazioni di trasformazione, bisogna imparare a fare e favorire esperienze della soglia, progetti minori per luoghi-di-non.
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Roma protorazionalista ANTONIO SCHIAVO
Antefatti L’Esposizione Universale tenutasi a Roma nel 1911 per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, manifestò il trionfo dell’eclettismo dilagante, espressione ultima del neoclassicismo degli stati borghesi europei. Una tendenza storicista e un fenomeno accademico che si identificò in una ricerca, a tratti velleitaria, volta a conferire un carattere ufficiale all’architettura della Nazione. Un’esigenza di autorappresentazione che innesta le proprie radici nella nobile tradizione cinque-seicentesca romana, dialogando inoltre con lo spirito di talune evocazioni piranesiane [G. Muratore, Guglielmo Calderini. Un architetto per l’Italia in costruzione, in F. Boco, T. Kirk, G. Muratore (a cura di), Guglielmo Calderini dai disegni dell’Accademia di Belle Arti di Perugia, Guerra Edizioni, Perugia 1995]. Emblemi
dell’evento e specchio della coeva cultura architettonica italiana sono l’effimero Palazzo delle Feste1 di Marcello Piacentini e il tutt’ora esistente Palazzo delle Belle Arti2 di Cesare Bazzani. Due sono invece le realizzazioni da potersi ritenere effettivamente ‘moderne’ nella Roma del 1911: il Ponte del Risorgimento a una sola arcata in calcestruzzo armato, progettato dall’ingegner Porcheddu con brevetto Hennebique, e il padiglione austriaco di Josef Hoffmann3. Proprio quest’ultima opera gettò simbolicamente il seme per la nascita e lo sviluppo di un rinnovamento dell’architettura ro-
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mana tra gli anni Dieci e Venti, palesandosi come uno dei primi segni, di un dialogo teorico che divenne progressivamente concreto, tra la Capitale italiana e gli architetti europei operanti nei primi lustri del Novecento, ascrivibili alla tendenza del protorazionalismo. Questioni semantiche Il primo a parlare di protorazionalismo, in Italia, fu Edoardo Persico4 nel 1935, seguito da Bruno Zevi5 [Storia dell’architettura moderna, Einaudi, Torino 1950] nel 1950, Renato De Fusco [L’idea di architettura. Storia della critica da Viollet-le-Duc a Persico, Franco Angeli, Milano 2003; Storia dell’architettura contemporanea, Laterza, Bari 1975] a partire dal 1964, e Giorgio Grassi [La costruzione logica dell’architettura, Marsilio, Padova] nel 1967.
Va dato poi il merito a Gabriella D’Amato di averne delineato i caratteri fondanti in una pubblicazione dedicata del 1987 [L’architettura del protorazionalismo, cit.], sette anni prima che Paolo Portoghesi [La cultura architettonica in Europa durante il primo dopoguerra e l’idea di “ritorno all’ordine” tra neoclassicismo e protorazionalismo, in AA.VV., Muzio. L’architettura di Giovanni Muzio, Abitare, Segesta, Milano 1994] tornasse a usare il termine asso-
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ciandolo all’architettura del ‘ritorno all’ordine’ di Giovanni Muzio6. Se dunque, considerando quanto scritto dai sopracitati autori, si può parlare anche di continuità del protorazionalismo, diviene possibile ascrivervi, secondo un processo di associazione critica, anche una determinata architettura romana. Una serie di opere dai confini stilistici sottili e labili, dai contorni estetici sfumati, la cui categorizzazione è spesso ambigua. Una tendenza nella tendenza che si invera nella sintesi sottrattiva di tre linguaggi primari: variazioni di grigio sospese tra l’assolutezza stilistica dei ‘neismi’, la saturazione decorativa di stampo eclettico, la colta ironia di matrice nostalgica del ‘barocchetto’. La Roma protorazionalista si delinea così concettualmente dal 1911 fino al 1928, anno della prima Esposizione italiana di architettura razionale, da cui si svilupperà di fatto una nuova estetica che costituirà sia un’evoluzione ideale e progressiva del
protorazionalismo, sia un superamento netto dello stesso, con picchi più ‘avanguardistici’. Grand Tour à l’envers Un primo tentativo di legare l’architettura dell’Urbe ai principali fautori del protorazionalismo europeo è il tema dello scambio culturale architettonico, continuo e biunivoco. Roma, la cui particolarità è quella di essere una città architettonicamente – e quindi civilmente – viva, ininterrottamente dal 753 a.C., si affaccia in maniera tardiva nell’era moderna. Tuttavia, grazie anche a questa sua caratteristica e alla sua unicità, vivrà sempre in un mondo per certi versi parallelo rispetto alle altre capitali europee, coltivando una propria via al moderno, segnata da compromessi con la storia ingombrante, invenzioni originali, e sintesi atipiche di diverse culture che differentemente con la sua storia si sono rapportate. Come tutte le strade consolari dell’Impero, ci sono sempre stati, e sempre ci saranno, dei fili rossi che dall’Urbe partono per giungere negli angoli più nascosti del continente, per poi tornare sensibilmente mutati, e mutando così anche la loro origine. Un dialogo continuo e inesorabile; Grand Tour e poi Grand Tour à l’envers, e Roma appare così sempre viva e mutevole, specchio di culture e civiltà eterogenee che originalmente con essa si confrontano, contribuendo alla sua immortalità. Qui giungono architetti come Gottfried Semper, Hendrik Petrus Berlage e J.J.P. Oud; Joseph Maria Olbrich, che vinse il Premio Roma e si recò in Italia e in Nord Africa dal 1893 al ’94 per poi tornare a Vienna presso lo studio di Otto Wagner; Hoffmann, grazie alla sua tesi vinse il prestigioso premio Roma, una borsa di studio per un soggiorno in Italia (tornò a Vienna nel 1897); Tony Garnier, vincitore del Prix de Rome nel 1899, visse a Roma sino al 1904 e nel 1901 presentò il progetto per la Cité Industrielle. Al contempo sono gli stessi progettisti operanti nella Capitale a viaggiare per l’Europa, e ad essere ispirati da quei medesimi architetti che a loro volta da Roma furono inesorabilmente segnati. Marcello Piacentini [M. Piacentini, Il momento architettonico all’estero, in «Architettura e arti decorative», i, 1, maggio-giugno 1921]
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nel 1910 si recò prima a Parigi e a Bruxelles, e successivamente in Germania (1913)7 e negli Stati Uniti (1915) [C. Beese, Grand Tour in Reverse: Marcello Piacentini’s Tour of Germany in 1930 and 1931, «Architectural Histories», 4 (1), 2016].
Giorgio Wenter Marini8, si formò tra Vienna e Monaco, prima di collaborare con lo studio Piacentini. Gaetano Minnucci9 si recò in Olanda nel 1921 (precisamente all’Aja), per poi farvi ritorno numerose volte tra il ’23 e il ’26, conoscendo di persona W.M. Dudok e J.J.P. Oud. Guido Fiorini invece, sempre nel corso degli anni Venti, soggiornò spesso a Parigi, intessendo inoltre legami professionali con Le Corbusier. Invarianti e declinazioni Un’altra caratteristica fondante la Roma protorazionalista è la quasi totale condivisione di invarianti e parametri con la corrente europea, a cui faranno eccezione alcuni connotati propri e originali, con modulazioni locali e personali. Una delle principali invarianti di questa tendenza è la componente classicistica: volutamente antiaccademica da un lato, segnatamente non antistoricista dall’altro. Forte e costante, mai ingombrante, appare la presenza del passato, che tuttavia non deve essere confusa con approcci né revivalisti, né celebrativi10. Emerge quindi il codice classicistico degli impianti a blocco chiuso, delle simmetrie bilaterali, delle stereometrie elementari [R. De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, Laterza, Bari 1975, p. 147], che vanno a legarsi con un diffuso processo di semplificazione e astrazione dell’apparato decorativo il quale, nel panorama romano, fatica ad eclissarsi del tutto. Una coesistenza apparentemente ambigua di atteggiamenti allo stesso tempo ‘moderni’ e ‘antimoderni’ [cfr. ivi]. Altre invarianti imprescindibili per la nostra tesi sono: l’artisticità diffusa a scapito dell’arte emergente; il carattere più prosastico (ma non prosaico) che poetico; la riduzione alla geometria scaturita sia dalle teorizzazioni di Worringer [Abstraktion und Einfühlung. Ein Beitrag zur Stilpsychologie, R, Piper & Co. Verlag. München 1908, trad. it., Astrazione e empatia, Einaudi, Torino 2008] e
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del purovisibilismo, sia dalla nuova estetica standardizzata della
macchina; l’acuirsi della tecnologia architettonica e la riduzione decorativa. Tutti elementi orientati verso principi semplificatori e di massima economia, che si risolvono talora nella rappresentanza di uno stile in negativo, in una sintesi espressiva fatta più di riduzioni che addizioni [R. De Fusco, cit., pp. 143-147]. In ultimo, l’elusiva definizione di ‘assenza di genio’ che nel caso romano, più marcatamente piacentiniano, si evolve in ‘antiindividualismo’: simultaneamente categoria estetica e morale, che produce architetture di ‘valore estrinseco e relativo’, attente ai valori ambientali, capaci di concorrere alla costruzione di urbanità [M. Lupano, Stile impersonale, in G. Ciucci, S. Lux, F. Purini (a cura di), Marcello Piacentini architetto 1881-1960, p. 33]11. La natura antindividuale del protorazionalismo romano deriva in buona parte anche dalle teorie sull’ambientalismo, spartite con la coeva temperie milanese12, le cui opere più rappresentative vennero esposte nell’ambito della i Biennale romana nel 192113. Per quanto riguarda il rapporto con le arti, se la tendenza europea risulta per così dire estranea alle influenze delle coeve avanguardie figurative, al contrario quella romana – vista anche la sua posteriorità – si sviluppò parallelamente ad una certa sensibilizzazione del relativo humus culturale in campo artistico. Degne di nota sono la fondazione della Secessione romana (1912-1917), i cui ambienti vennero frequentati anche da Piacentini; la prima esposizione di pittura futurista e la mostra d’arte della Secessione viennese (1913); la fondazione della rivista Valori Plastici (1918-21). A Roma, inoltre, il programma riduzionistico applicato in Europa è meno accentuato; anzi qui, come ha notato Muratore, la pratica dell’ornamento e della decorazione si rinnovano e si semplificano, in sintonia con le coeve correnti artistiche da un lato, e con la tradizione locale dall’altro, mantenendo viva la ‘cultura del cantiere’ in particolare con l’uso finale dello stucco alla romana fuggendo a tratti la frettolosa ‘semplicità’ del moderno [Architetture e Arti Decorative a Roma intorno al Trenta, in B. Di Gaddo, Roma anni Trenta. Gli elementi dell’architettura, Officina, Roma 2001, p. 9].
Un decoro elementare ma dignitoso, repertorio di fenomeni e di simboli architettonici della penultima modernità [ivi, p.
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10], in cui spadroneggiano i valori della modanatura, che tanto verranno decantati da Luigi Moretti su Spazio [Valori della modanatura, in «Spazio», a. iii, n. 6, dicembre 1951-aprile 1952]. Un gusto, dunque, non ancora affrancato dalla tradizione, che tendeva faticosamente a farsi moderno, impantanato in una temperie costantemente premoderna – e proprio per questo di originale interesse – su cui l’innesto razionalistico sarà più che mai travagliato. Già dalla seconda metà degli anni Venti, infatti, si concretizzarono le più riuscite sperimentazioni che denotarono un tentativo di convergenza tra Scuola romana e panorama europeo, attraverso una serie di dialoghi impostati su percorsi di rinnovamento critico.
Architetti protagonisti e architetture paradigmatiche
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Piacentini è la chiave di volta di questo processo. Rappresenta il collante tra la più moderna tradizione romana e i contemporanei sperimentalismi europei. Parallelamente allievo e poi maestro per tutta una serie di architetti che forgeranno di fatto la generazione successiva alla sua, ma che già debuttarono proprio nella stagione romana del protorazionalismo. Egli14, così attento alla declinazione romana della lezione viennese di Hoffmann e di Olbrich, è autore di una serie di villini in chiave ‘Post-secessionista’ [G. Muratore, Architetture e Arti Decorative a Roma intorno al Trenta, cit. pp. 8, 11], non trascurando le coeve ricerche milanesi, soprattutto nella lezione di Muzio15. La sua opera emblematica è rappresentata dal cinema Corso (1915-17), in particolare dalla versione originaria della facciata. La rottura rispetto alle opere di inizio anni Dieci è totale. Il fronte su piazza S. Lorenzo in Lucina sfoggia i primi segni di una chiara e voluta influenza austriaca, assimilando il riduzionismo geometrico post-secessionista: un prospetto liscio, pulito, scandito nella parte superiore da quattro aperture, legate tra loro da una cornice molto semplificata e da una serie di motivi decorativi particolari, realizzati da Alfredo Biagini. Ogni apertura presenta degli infissi, anch’essi decorati, che rimandano a quelli usati da
Loos nell’edificio della Michaelerplatz, e che dialogano inoltre con i due bow-window laterali. Decisiva la collaborazione di Wenter-Marini, rappresentante di un legame diretto con la cultura della Secessione viennese [M. Pisani (a cura di), Marcello Piacentini. Architettura moderna, Marsilio, Venezia 1996, p. 11], soprattutto nella composizione della facciata16, che maschera una struttura realizzata interamente in calcestruzzo armato. Oltre a Marcello Piacentini vi sono altri architetti – molti dei quali gravitanti intorno al suo studio – che, in alcune opere e per alcuni periodi, presentano forti punti di tangenza con la corrente del protorazionalismo. Angiolo Mazzoni – che frequentò lo studio Piacentini tra il 1920 e il ’21 – realizzò tra il 1925 e il ’29 la Sede dell’Associazione Ferrovieri. Specialmente i due volumi laterali del prospetto principale su via Bari risentono di un linguaggio unitario di chiara derivazione viennese [B. Di Gaddo, Roma anni Trenta. Gli elementi dell’architettura, cit., p. 142]. Il geometrismo puro delle bugne a diamante e delle modanature della sommità, la metrica delle aperture scarnite da ogni cornice, l’astrazione e la semplificazione dei pochi elementi classici, inseriti a mo’ di citazione, testimoniano anche uno sperimentalismo dal sapore Déco. Una soluzione non lontana da quella presentata da Pietro Aschieri per la palazzina Vergili in via Secchi, terminata tra il 1929 e il ’30, rappresentante di un’ideale premessa alla palazzina de’ Salvi. Entrambe le opere marcano un primo risultato concreto derivante da una serie di sperimentazioni tentate con i progetti per le palazzine Aquila Romana e Federici (1929). Benché cronologicamente posteriori alla prima Mostra di architettura razionale, le opere di Aschieri ne risultano aliene: esse, infatti, sono frutto di una ricerca progressiva personale, testimoniata da una presa di posizione dai toni contrastanti nei confronti del razionalismo17, che ne consente una sicura ascrizione alla linea romana del protorazionalismo. Anche Angelo Di Castro prima dell’inizio della sua carriera in proprio si forma nello studio Piacentini, una realtà con una visione di ampio respiro europeo. Non sappiamo quanto decisivo fu questo dettaglio nella progettazione della palazzina Carbone
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(1927), nella quale appaiono originali e distinguibili sia i bowwindow, sia le particolari cornici, in cui echeggiano chiaramente citazioni hoffmanniane. Già nella palazzina di via Catania, dell’anno seguente, Di Castro nega i seppur scarni arricchimenti decorativi sopracitati: i bow-window divengono circolari e turriformi e sono spostati ai lati del prospetto, il quale risulta libero di sfoggiare la sua asciutta impaginazione pre-razionalista. Tra gli accademici più illuminati troviamo Vittorio Morpurgo alle prese con un processo di depauperamento degli etimi derivanti dal barocco minore. Egli progetta nel 1925 la Casa della Telefonica Tirrena: un’opera che si pone in posizione baricentrica, in una dimensione difficilmente etichettabile, in cui il rinnovamento linguistico passa anche attraverso un nuovo approccio verso la citazione delle vestigia romane, in questo caso le vicine Mura Aureliane. Ciò affiora chiaramente dalla presenza di arcate e dal rivestimento binario dei prospetti, in cui, nelle superfici più arretrate, appare il mattone disposto a opus spicatum. Il fronte su via Corfinio, meno coinvolto nell’ingombrante dialogo con le mura, offre una composizione più semplificata, maggiormente associabile alla poetica protorazionalista. Enrico Del Debbio che andava riproponendo, pur aderendo alle nuove tematiche europee, soprattutto olandesi e scandinave, una rilettura autoironica delle antiche tecniche dei marmorari carraresi [G. Muratore, cit., p. 8], nella casa per la cooperativa nuova Prati (1925-28) si lascia definitivamente alle spalle tutta una serie di soluzioni di matrice ancora eccessivamente accademica, per approdare definitivamente, nell’Accademia di Educazione Fisica al Foro Mussolini (1927-32), ad un linguaggio maturo e personale, dove gli elementi classici appaiono svecchiati e rivisti secondo una volontà semplificatrice; non più accademica ma non ancora razionale, in cui la romanità richiesta è diluita con citazioni nordeuropee. Contrappunto ideale del complesso di Del Debbio, rispetto all’asse del Foro, è il Palazzo delle Terme di Costantino Costantini: qui risulta ancor più marcata la riduzione, e in alcuni casi l’azzeramento, delle aggettivazioni linguistiche, lasciando spazio a un’esibizione di forme geometriche pure segnate da semplici
elementi in travertino. Uno degli ultimi esempi di protorazionalismo a Roma prima della decisiva influenza della già citata Mostra di architettura razionale e della successiva istituzione del più canonico stile littorio. Tra la generazione più matura ricordiamo anche Mario De Renzi. La sua opera più paradigmatica è la Casa modello Icp alla Garbatella, realizzata in occasione del XII Congresso dell’International Federation for Housing and Town Planning nel 1929. Anche De Renzi si distingue per un progressivo abbandono degli etimi del ‘barocchetto’, approdando a un linguaggio ibrido, a metà strada tra Roma e la Mitteleuropa, in cui gli elementi classici sopravvissuti – vedasi le colonne lisce con i capitelli leggermente svasati – si relazionano con oggetti moderni di derivazione navale, come le ringhiere tubolari orizzontali e gli oblò (presenti però nelle sole case su via Berri). Il timpano, dalla geometria sensibilmente semplificata, si posa su tutta la lunghezza del fronte principale, includendo al suo interno una semplice lunetta. Ringhiere tubolari e oblò fanno bella mostra di sé anche nella palazzina di via Lima di Achille Petrignani e Carlo Roccatelli [B. Di Gaddo, Roma anni Trenta. Gli elementi dell’architettura, cit.] del 1926. La cornice, reinterpretata, diventa continua, ripiegandosi ad angolo retto e disegnando tutto il prospetto. Interessanti sono le strombature delle aperture che vengono esaltate dal chiaroscuro, e alcuni timidi accenni di finestre a nastro. La declinazione locale del protorazionalismo passa anche attraverso una sintesi formale tra gli esercizi plastici derivanti dal barocco romano e la volontà semplificatrice tesa alla riduzione espressiva degli elementi decorativi, che però non inficia la loro carica comunicativa e simbolica. La palazzina Nebbiosi (1926-29) di Giuseppe Capponi18 ne è un esempio principe. Qui la fantasia barocca viene quasi schematizzata in una volumetria dalla simmetria bilaterale, con i quattro spigoli retti angolari e le superfici concave scavate al centro di ogni fronte. Diversa è invece la reinterpretazione barocca di Alfio Susini che plasma le due facciate delle palazzine gemelle su via Oxilia con un sottile equilibrio tra superfici concave e convesse, creando una teatralità urbana dalla forte presenza scenica: probabilmente
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una libera traduzione in chiave moderna di piazza S. Ignazio. Il confronto tra le due palazzine offre inoltre un chiaro esempio del progressivo cambiamento del gusto che si stava attuando intorno al ’30. Originale è, infine, l’idea neobarocca di Innocenzo Sabbatini, in cui la lezione borrominiana viene filtrata anche dalle coeve ricerche di von Eberhard Hempel. Nell’albergo suburbano a piazza Biffi (1926-28) la lezione di Tessenow sembra voler essere adattata alla realtà della Garbatella. Le cornici e il timpano vengono proiettati sul prospetto concavo, divenendo quasi immagine di sé stessi. Il colonnato d’ingresso, convesso, emerge dalla volumetria generale con i suoi pilastri scarni, in cui l’ordine architettonico è definitivamente scomparso. La metrica delle aperture rimanda alle sopracitate opere di Mazzoni e Aschieri, e quindi alle soluzioni di poco precedenti in area nordeuropea. Anche gli alberghi di Sabbatini vennero esposti alla mostra del ’28, assumendo un ruolo importante nella promozione del razionalismo, ma di fatto ad esso antecedenti. Ancora alla Garbatella, con gli edifici del lotto 51 (1928), Giuseppe Nicolosi è al centro di un percorso di affrancamento da un linguaggio legato sia all’accademia sia al barocco minore; la sua architettura assume i toni di una sintesi gradualmente sottrattiva, che lo condurrà verso una più marcata modernità già nel lotto 27 (1930). Luigi Moretti – accomunato a Nicolosi nella, seppur breve, appartenenza al r.a.m.i. – nella realizzazione, rigorosamente trilitica e schematica, del villino Vallini a via Bruxelles, si lascia definitivamente alle spalle la stagione accademica delle palazzine degli anni Venti, dirigendosi verso l’orizzonte di una personale via al moderno, coraggiosamente esibita nei progetti della prima metà dei Trenta. Il passo successivo, che segnala l’imminente nascita della Roma razionalista, è segnato dalle due architetture di Minnucci e Luigi Piccinato, rispettivamente la casa unifamiliare in via Carini (1926) e Casa Guerra in via Salvini (1930). Se nell’opera di Minnucci possono essere rintracciati etimi del modernismo olandese, nell’opera di Piccinato è visibile una delle prime applicazioni pratiche risultanti dall’Esposizione del ’28; tuttavia, l’im-
portante presenza massiva delle pareti perimetrali, la fredda simmetria e una certa pulizia linguistica di derivazione probabilmente loosiana, ne fanno uno degli ultimi esempi di protorazionalismo romano. Sarà proprio Minnucci, insieme ad Adalberto Libera, a organizzare la Mostra presso il Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale sottolineando una certa continuità tra il razionalismo italiano e il protorazionalismo romano. Illuminanti furono le parole del Gruppo 7 in cui si espresse una sincera gratitudine verso chi li aveva preceduti, riconoscendo a Muzio e Piacentini di essere stati i primi a rompere con il cattivo gusto, rimproverando tuttavia a quest’ultimo di aver erroneamente creduto di rinnovare l’architettura italiana trapiantandovi maniere tedesche, nobilissime certo, ma disambientate tra noi [Gruppo 7, Architettura, in “rassegna italiana”, iv, dicembre 1926]. Rare saranno tuttavia le occasioni di creare una Roma propriamente razionalista. Opportunità che si assottigliarono ulteriormente prima con lo scioglimento del m.i.a.r., a seguito delle polemiche scaturite dalla seconda Esposizione, e successivamente, a partire dal 1936, quando affiorò un nuovo linguaggio, frutto da un lato delle celebrazioni del regime, ora maggiormente in chiave neo-imperiale, dall’altro di un necessario superamento del modernismo internazionale: un post modern ante litteram in chiave non solo romana ma anche greca. Ciò originò un neoclassico modernizzato [Intervista a Giulio Pediconi in, V. Quilici, E42 EUR. Un centro per la metropoli, Olmo, Roma 1996, p. 75] con ambigui caratteri di atemporalità, ma non
privo di pregevoli rimandi nordeuropei, incarnando concretamente una delle diramazioni del protorazionalismo romano.
1 Connotato da un «romanissimo senso monumentale», cfr. U. Ojetti, Per un’architettura italiana, in «Il Corriere della Sera», 8 agosto 1911. 2 In cui «i partiti architettonici condensano elementi classicheggianti e liberty, oltre che simboli massonici», G. Muratore, Roma. Guida all’Architettura, L’Erma di Bretschneider, Roma 2007, pp. 82-83. 3 Hoffmann che, come afferma Sandra Muntoni, «ha già abbandonato la Secession per inoltrarsi in un originale esercizio di scomposizione e ricomposizione degli elementi dell’architettura nel segno della classicità», S.
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Muntoni, Marcello Piacentini e l’Europa, in G. Ciucci, S. Lux, F. Purini (a cura di), Marcello Piacentini architetto 1881-1960, Gangemi, Roma 2010, p. 57. 4 Nel 1935, in tre diversi articoli su «Casabella», Persico parla del protorazionalismo in corrispondenza di tre opere rispettivamente di: Brinkman e Van der Vlught, Hoffmann, Berlage; cfr. G. D’Amato, L’architettura del protorazionalismo, Laterza, Roma-Bari 1987. 5 Nella prima edizione della Storia dell’architettura moderna, Zevi parla di protorazionalismo in Europa dal 1900 al 1914, associandolo ad architetti quali Wagner, Loos, Perret e Behrens. 6 Portoghesi parla di un «esempio evidente di ordine antieroico, alimentato dall’ironia e dal dubbio», 7 Nello stesso anno pubblica un articolo su Olbrich: M. Piacentini, L’edilizia moderna: l’opera di Joseph Olbrich, in «Emporium», 227, novembre 1913. 8 Nasce a Rovereto per poi concludere la propria formazione tra Vienna e Monaco. Lavora presso lo studio di Piacentini tra il 1916 e il 19 [Treccani]. 9 Considerato da Giorgio Muratore il «prolungamento dudokiano del braccio di Marcello Piacentini […]», G. Muratore, Piacentini professionista, in G. Ciucci, S. Lux, F. Purini (a cura di), Marcello Piacentini architetto 1881-1960, cit., p. 141; Minnucci, che sposò un’olandese, pubblicò nel 1926 L’abitazione moderna popolare nell’architettura contemporanea olandese. 10 Come la «classicizzazione dell’architettura di stato», cfr. G. D’Amato, cit. 11 Nel caso più specificatamente piacentiniano Mario Lupano parla di «stile impersonale», andando anche oltre il lasso temporale da noi preso in esame. 12 «Basti pensare agli ambienti milanesi conformati dalle architetture di Muzio, De Finetti, Ponti, Lancia, Alpago Novello ecc., che, con l’uso inconfondibile di bow-windows, di rarefatti elementi neoclassici e col più generale rispetto per le valenze ambientali, rappresentano più quest’area, per così, dire della “terza forza” che non l’Architettura di Stato», G. D’Amato, L’architettura del protorazionalismo, cit. 13 Presso la quale si ricorda l’esposizione di alcune opere di Giovanni Muzio, Gio Ponti, Alberto Alpago e Ottavio Cabiati. 14 Così Piacentini descrisse Palazzo Stoclet: «scomparse le cornici inutili, la nuova costruzione è una semplice combinazione e sovrapposizione di parallelepipedi e l’arte è tutta nelle proporzioni di queste masse schematiche, pure forme geometriche, nella scelta cromatica dei materiali, nella indescrivibile raffinatezza dei particolari decorativi», in M. Piacentini, Il momento architettonico all’estero, in «Architettura e arti decorative», i, 1, maggiogiugno 1921, pp. 32-76. 15 Lo stesso Muzio scrive: «a noi sembra necessaria una reazione alla confusione ed all’esasperato individualismo dell’architettura odierna, ed il ristabilimento del principio di ordine […]», in G. Muzio, L’architettura a Milano intorno all’Ottocento, in «Emporium», 317, maggio 1921, pp. 241-258. 16 Visto il cambio del progetto rispetto a quello presentato originaria-
mente, e i chiari riferimenti di derivazione austriaca, all’epoca in guerra contro il Regno d’Italia, Piacentini, a sue spese, fu costretto a riadattare la facciata. 17 Aschieri e Del Debbio si erano pronunciati contro l’architettura razionale in occasione del Congresso degli studi romani sull’architettura delle città nuove, cfr. V. Fraticelli, Roma 1914-1929. La città e gli architetti tra la guerra e il fascismo, Roma 1982. 18 Giuseppe Capponi parteciperà nel 1928 e nel ’31 alle due Esposizioni di architettura razionale, cfr. P. Ostilio Rossi, Roma. Guida all’architettura moderna 1909-2011, Laterza, Roma-Bari 2012.
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Ambientalismo e Design MARCO MANFRA
Nella storia del rapporto triadico tra uomo, natura e mondo delle cose, il XX secolo inaugura un tempo nuovo all’interno del quale si manifestano fenomeni socioeconomici, culturali e ambientali mai osservati prima. Con l’avvento dell’era nucleare, ad esempio, si è assistito all’alterazione più invisibile e minacciosa per gli ecosistemi che sia stata mai prodotta dall’uomo e, per la prima volta nella storia, attraverso la corsa al riarmo atomico e le successive implicazioni civili, si sono causati danni gravi, a volte irreparabili, alla vita sulla Terra. Oppure si pensi all’incremento del consumo dissipativo delle risorse, causato dal rafforzamento del sistema capitalistico-industriale orientato a perseguire una crescita esponenziale, rapida e incontrollata. Anche processi già noti nell’Ottocento, come la contaminazione degli ecosistemi indotti dall’inquinamento antropico, acquistano maggiore visibilità assumendo una dimensione globale e un mutamento delle proprie qualità. Quelli che per secoli erano stati fenomeni locali di alterazione ambientale di natura organica, esacerbati dal cambiamento climatico e da più profondi aspetti socioculturali, nel Novecento diventano universali e di natura inorganica. L’espansione dell’industria chimica, siderurgica e automobilistica, accompagnata dalla pressione demografica e dalla moltiplicazione su vasta scala delle metropoli, ha generato rifiuti tossici e inedite forme di contaminazione di terra, aria e acqua. In risposta a tutto ciò, si è formata, soprattutto a partire dagli
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anni Sessanta e Settanta, con un decisivo rafforzamento negli ultimi decenni del secolo, una coscienza civile attenta ai problemi ambientali e in grado di innescare accordi internazionali e provvedimenti normativi a tutela del pianeta. In questo contributo, osservando soprattutto un movimento di idee e un’articolazione di formulazioni teoriche nate dagli anni Trenta del Novecento a partire dal contesto statunitense, si vuole mettere in risalto la lunga marcia che ha portato all’attivazione di tale coscienza nella cultura progettuale contemporanea. I precursori di una nuova coscienza ambientale e il ruolo della tecnologia
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La prospettiva ambientale, intesa come consapevolezza della simbiosi tra natura e uomo per la salvaguardia reciproca [T. O’Riordan, Environmentalism, Pion Ltd., London 1976, pp. 3-11], che influenza oggi scelte politiche e progettuali pur essendo ancora lontana dal divenire una consuetudine, è la risultante di una lenta rivoluzione culturale. Proprio a partire dal sistema economico americano, per antonomasia fondato su un’espansione produttiva illimitata, tale mutamento è avviato da figure isolate di studiosi di varia formazione disciplinare, allarmati dai primi esiti negativi di uno sviluppo industriale incontrollato. Tra i suoi precursori, è l’ecologo statunitense Aldo Leopold, oggi riconosciuto come il padre fondatore dell’etica ambientale, a denunciare già nei primi anni Trenta le logiche utilitaristiche e consumistiche dell’economia industriale. Riferendosi al cittadino medio americano e alle istituzioni che lo avevano plasmato, egli scrive: Vent’anni di “progresso” hanno regalato al cittadino medio il diritto al voto, l’inno nazionale, la Ford, il conto in banca, e un’alta opinione di sé stesso, ma non la capacità di vivere intensamente senza insudiciare e spogliare l’ambiente, né la convinzione che tale capacità, e non l’intensità, è il vero termometro della sua civiltà [A. Leopold, Game Management, Charles Scribner’s Sons, New York 1933, pp. 422-423]. Con queste parole Leopold lancia un atto di accusa al potere strumentale dell’uomo nei confronti dell’ambiente, sotteso anzitempo nella citazione baconiana scientia et potentia humana in
unum coincidunt. In tale visione meccanicista, la natura è stata sempre meno interpretata come una totalità, come un sistema vivente tenuto insieme da relazioni emergenti e necessarie, mentre è stata sempre più letta in modo parcellizzato. Così, ancora oggi, è largamente usata per fini economici e, come afferma il filosofo Mario Alcaro, subisce il trionfo del soggetto e diviene suo docile strumento [D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, The Limits to Growth. A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of mankind, Universe Books, New York 1972].
Procedendo nel Novecento per giungere agli anni Sessanta, è la biologa marina statunitense Rachel Carson, a concentrarsi sull’uso massivo dei pesticidi, dei diserbanti e dei concimi chimici in agricoltura, capaci di massimizzare produzione e profitto ma al costo di negative ricadute socio-ambientali di vasta e durevole portata. La scienziata accusa la politica e la scienza di aver imboccato una strada che conduce inevitabilmente alla distruzione della vita. Confermative ed emblematiche in proposito sono le sue affermazioni contenute nel saggio Silent Spring, manifesto del movimento ambientalista pubblicato non senza polemiche nel 1962, dove ella dichiara ad esempio: Il controllo della natura è una frase concepita nell’arroganza, nata dall’età di Neanderthal della biologia e della filosofia, quando si credeva che la natura esistesse per l’utilità degli esseri umani. […] È per noi una sfortuna allarmante che una scienza ancora così primitiva si sia dotata delle più moderne e terribili armi e che nel rivolgerle contro gli insetti le ha rivolte anche contro la terra [R. Carson, Silent Spring, Houghton Mifflin, Boston 1962, p. 297]. Attraverso Silent Spring, riformulando i diritti di cittadinanza in termini ambientali, la Carson mette in crisi le ideologie riduzioniste dell’epoca risvegliando l’opinione pubblica e inducendo un fondato senso di preoccupazione. Nonostante le evidenze, la biologa – anche in quanto donna che viene, nella satira del tempo, accostata a una strega – resta spesso vittima di reazioni estremamente violente da parte della lobby dell’industria chimica e degli scienziati ad essa collegati. La visione olistica di Rachel Carson ha contribuito a rafforzare il principio ecologico dell’interconnessione, ovvero l’imprescindibilità delle catene trofiche, per cui le sostanze nocive assorbite dagli organismi viventi ven-
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gono trasferite da un organismo all’altro diffondendosi nella biosfera, anche in maniera pervasiva e danneggiando le generazioni future. Parallelamente alla Carson, è Barry Commoner, anch’egli biologo, a convincersi di una realtà sistemica che connette insieme territorio ed esseri viventi che lo popolano e vi operano. Specie nel suo celebre libro The Closing Circle, pubblicato nel 1971, Commoner addita l’economia e la tecnologia capitalistica come le principali cause scatenanti l’alterazione della biodiversità. Cominciano così a delinearsi con sempre maggiore chiarezza le responsabilità di un modello produttivo e consumistico che non tiene conto della realtà limitata del pianeta e delle sue risorse, nodo problematico che negli stessi anni è analizzato peraltro da scienziati del Massachusetts Institute of Technology come Donella e Dennis Meadows, Jørgen Randers e William Behrens [Cfr. D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, The Limits to Growth. A Report for the Club of Rome’s Project on the Predicament of mankind, Universe Books, New York 1972]. Non solo a se-
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guito di formulazioni teoriche, ma anche di valutazioni viepiù sperimentali, è ormai evidente quindi che nella rincorsa ai proventi le industrie accelerano i processi di produzione, depauperando l’ambiente senza rispettare quella che viene definita come “capacità di carico” del pianeta e, di pari passo, incentivano l’utilizzo di prodotti inquinanti completamente estranei alla natura. Mentre i cicli naturali, termodinamicamente aperti ma operazionalmente chiusi [F. Capra, P.L. Luisi, Vita e natura. Una visione sistemica, Aboca, Sansepolcro 2014, p. 174], riutilizzano circolarmente i rifiuti rimettendoli nel biosistema attraverso gas e sali utili per la vita di altri vegetali e animali, i processi industriali rilasciano nell’ambiente scarti non biodegradabili alterando il ciclo naturale degli eventi, operano cioè secondo cicli aperti. In aperta opposizione rispetto alle dinamiche produttive descritte e iniziando a delineare con pragmatismo scelte operative ben precise, Commoner afferma: Se vogliamo sopravvivere, tanto economicamente oltre che biologicamente, l’industria, l’agricoltura o i trasporti dovranno soddisfare le ineluttabili esigenze dell’ecosistema. Ciò comporterà lo sviluppo di nuovi importanti tecnologie che comprenderanno: i sistemi di resti-
tuzione diretta al terreno dei liquami; la sostituzione di molte sostanze sintetiche con quelle naturali; […] la sostituzione dei pesticidi sintetici con mezzi di controllo biologici; un’azione di scoraggiamento verso le industrie che consumano energia; […] un riciclo sostanzialmente completo di tutti i prodotti riutilizzabili come metalli, vetro e carta; una pianificazione ecologicamente sana nell’amministrazione del terreno, comprese le aree urbane [B. Commoner, The closing circle. Nature, man and technology, Alfred Knopf, New York 1971, p. 263]. Il ruolo giocato dalla tecnologia nell’ambito di questa riformulazione dello sviluppo appare importante. L’utilizzo della tecnologia non deve contribuire al degrado, o semplicemente a mitigarne gli effetti, ma deve tendere alla risoluzione delle cause. Per “chiudere il cerchio” della progettualità dell’uomo, occorre formulare un orientamento radicalmente diverso delle nuove tecnologie modificandone presupposti e obiettivi. Rivalutare a monte i modelli dominanti di consumo, ripianificare i processi produttivi e ridisegnare i singoli prodotti con logiche di circolarità, adattive e resilienti diventano dunque per Commoner questioni imprescindibili e non più rinviabili. Dall’ambientalismo al design Negli anni Settanta, a sviluppare il tema di una tecnologia “a dimensione d’uomo”, compatibile con le leggi dell’ecologia, è Ernst Friedrich Schumacher nel suo libro Small is Beautiful. A Study of Economics as if People Mattered. Nella sua ricerca di “sistemi tecnologici intermedi” rispettosi dell’ambiente e dei fragili equilibri socioculturali mondiali, l’economista giunge a un compromesso tra tecnica tradizionale, quella che Commoner aveva definito meno inquinante, e tecnica avanzata. Ecco allora che Schumacher, criticando ancora una volta l’approccio tecnologico capitalistico, scrive: La tecnologia di produzione di massa è intimamente violenta, ecologicamente dannosa, si distrugge da sé perché consuma risorse non rinnovabili, ed è degradante per la persona umana. La tecnologia per la produzione da parte delle masse, facendo uso del meglio della conoscenza e dell’esperienza moderna, conduce al decentra-
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mento, è compatibile con le leggi dell’ecologia, attenta nell’uso di risorse scarse e progettata per servire la persona umana invece di renderla serva delle macchine [E.F. Schumacher, Small is Beautiful. A Study of Economics as if People Mattered, Blond & Briggs, London 1973, p. 124].
La chiarificazione delle ricadute negative di una cultura tecnologica avulsa dall’ecologia, e le prime proposte di modelli alternativi in proposito, costituiscono la base di avvio di una riflessione sulle responsabilità del progettista attivata in maniera esemplare da Victor Papanek, pioniere nell’applicazione dei concetti di inclusione, riciclo e riuso nel disegno industriale. Il progettista americano di origini austriache apre alla critica sul “fare design” e individua linee guida da tramutare in azioni tangibili per una progettazione ambientalmente e socialmente preferibile. Nel suo libro Design for the Real World. Human Ecology and Social Change pubblicato nel 1971, emerge una visione progettuale innovativa: La cosa più bella e più semplice che gli architetti, i disegnatori industriali, gli urbanisti, […], potrebbero fare in un ambiente che si presenta alterato a livello visuale, fisico e chimico, sarebbe di smettere di lavorare. I progettisti sono coinvolti almeno parzialmente in ogni tipo di inquinamento. Tuttavia, io opto per una soluzione più positiva: ritengo cioè che si possa andare oltre il semplice rifiuto del lavoro e lavorare per qualcosa di concreto. Il progetto può e deve diventare un mezzo col quale i giovani possono partecipare alla trasformazione della società [V. Papanek, Progettare per il mondo reale. Il design: come è e come potrebbe essere, Mondadori Editore, Milano 1973, p. 12].
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Secondo l’autore, contro i prodotti di sterili operazioni di styling e di processi di obsolescenza programmata, per tutelare l’ambiente e migliorare la società, occorre attuare una progettazione sensibile e interdisciplinare, volta al contempo a rispondere alle reali esigenze dell’uomo e della natura. Questo nuovo processo creativo, definito dallo stesso Papanek come progettazione integrale, si orienta verso la ricerca di soluzioni a bassa tecnologia nel rispetto del “complesso funzionale”, chiarendo i legami tra il valore estetico e la funzione dell’oggetto, mettendo in relazione necessità funzionali primarie di metodo, uso, esigenze rea-
li, estetica, aspetti associativi e concetto telesico, al fine di ricomprendere la complessità nella semplicità [V. Papanek, cit.]. Parallelamente, visioni analoghe cominciano a strutturarsi anche in Europa: nel La Speranza progettuale, uno dei primi testi italiani a trattare la questione ecologica nel design, è Tomás Maldonado a evidenziare l’interconnessione globale dei problemi, sostenendo che non può coesistere un miglioramento ambientale indipendente dal miglioramento della qualità della vita dell’uomo e, per estensione, dei suoi luoghi abitativi, delle condizioni di lavoro e dei trasporti [T. Maldonado, La speranza progettuale. Ambiente e società, Einaudi, Torino 1970]. In questo scenario, in cui si inizia a sperimentare e a sviluppare una progettazione responsabile, il fotografo e scrittore Stewart Brand, ancora una volta negli Stati Uniti, fonda e inaugura dal 1968 il periodico per corrispondenza Whole Earth Catalog. Si tratta di un inconsueto catalogo, privo di pubblicità e a basso costo, che mira a offrire la visione di una nuova società ambientalmente sostenibile attraverso la promozione di buone pratiche, prodotti e competenze che aiutino gli individui a vivere in maniera autosufficiente e, al contempo, in una prospettiva di condivisione. L’attenzione editoriale è rivolta principalmente ai temi dell’autosostentamento, dell’ecologia e delle soluzioni “fai da te” (Do It Yourself) e, contemporaneamente, vengono illustrati e recensiti sia sistemi di oggetti tradizionali, come stufe a legna o kit di tessitura, sia strumenti e prodotti ad alta tecnologia come calcolatori. Privo di qualsiasi struttura narrativa, il Whole Earth Catalog comprende pertanto sette differenti sezioni ma tutte accomunate dal tema della sostenibilità: “Understanding Whole Systems”, “Shelter and Land use”, “Industry and Craft”, “Communications”, “Community”, “Nomadics” e infine “Learning”. È proprio quest’ultima sezione a proporre e recensire con continuità, fino al 1985, numerosi saggi che spaziano dalla cibernetica di Norbert Wiener fino agli esperimenti di design non convenzionale di Richard Buckminster Fuller. Il periodico di Brand diviene così un potente canale di divulgazione della cosiddetta “tecnologia appropriata” che, accettando senza pregiudizi soluzioni di “bassa” o “alta” tecnologia, mostra particolare attenzione per il contesto senza trascurare aspetti
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etici, culturali, economici e ambientali delle comunità verso le quali è indirizzata. Questa particolare forma d’innovazione prevede soluzioni a basso costo utilizzando tecniche e manodopera locali, e finalmente ha una presa consistente sulla società. Come è stato rilevato infatti dalla critica la rivista è un fenomeno culturale di grande impatto che induce ricadute reali in diversi ambiti, promuovendo l’idea apparentemente paradossale di ritornare a uno stile di vita più semplice e attento all’ambiente senza però il disprezzo della tecnologia e, più in generale, della progettazione [C. Maniaque-Benton, French Encounters with the American Coun terculture 1960-1980, Ashgate, Farnham 2011]. Ulteriore caratteristica del periodico è l’evocativa copertina che di frequente raffigura la “Blue Marble”, fotografia del globo terracqueo immortalata il 7 dicembre 1972 dall’equipaggio del l’Apollo 17 mentre abbandona l’orbita terrestre in direzione della Luna. Questa immagine a colori, di proprietà della NASA ma resa libera dai diritti di riproduzione grazie all’intervento dello stesso Brand, diventa presto l’icona di una nuova visione ecologica: è la prima volta, infatti, che il grande pubblico ha modo di osservare la Terra immersa nell’oscurità dello Spazio e di coglierne la bellezza unitamente alla misura della sua limitatezza e fragilità. Una coscienza ambientale, quella della limitatezza del pianeta, ben presente anche nelle teorie economiche di Kenneth Ewart Boulding, il quale paragona metaforicamente l’economia moderna alla figura del cow-boy, che ritiene di avere di fronte a sé orizzonti infiniti, e l’economia del futuro alla figura dell’astronauta, che sulla navicella deve, per sopravvivere, risparmiare ogni singola risorsa limitata e ragionare con logiche circolari. A riguardo, egli formula una chiara sintesi: […] chiamerò “economia del cow-boy” l’economia aperta; il cow-boy è il simbolo delle pianure sterminate, del comportamento instancabile, romantico, violento e di rapina che è caratteristico delle società aperte. L’economia chiusa del futuro dovrà rassomigliare invece all’economia “dell’astronauta”; la Terra va considerata una navicella spaziale, nella quale la disponibilità di qualsiasi cosa ha un limite, per quanto riguarda sia la possibilità di uso, sia la capacità di accogliere i rifiuti, e nella quale perciò bisogna comportar-
si come in un sistema ecologico chiuso capace di rigenerare continuamente i materiali, usando soltanto un apporto esterno di energia [K. Boulding, The economics of the coming Spaceship Earth, in H. Jarrett (a cura di), Environmental quality in a growing economy, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1966, pp. 3-14].
Riflessioni conclusive Il lungo percorso delineato ha prodotto ricadute virtuose che, soprattutto negli ultimi vent’anni, si sono progressivamente concretizzate in processi progettuali e buone pratiche orientati in senso ecologico. È il caso, ad esempio, della biomimetica di Janine Benyus finalizzata a progetti di strutture e processi ispirati alla natura, ma anche della sempre più diffusa messa in atto di sistemi circolari sostenibili, dove artefatti e scarti sono percepiti e trattati come risorse fruttifere, attraverso l’intera filiera progettuale, produttiva, di riuso o riciclo [Cfr. G. Pauli, The blue economy. 10 years, 100 innovations, 100 million jobs: report to the Club of Rome, Paradigm, Taos 2010].
Gli individui e le comunità hanno acquisito, e stanno sempre più maturando, una consapevolezza ambientale mentre una parte della cultura progettuale contemporanea ha da tempo compreso l’importanza di un “ecodesign” ormai imprescindibile, che sappia agire in maniera sempre più multiscalare e trasversale mutando definitivamente l’ottica antropocentrica in una nuova prospettiva olistica ecocentrica [W. Mcdonough, M. Braungart, Cradle to Cradle. Remaking The Way We Make Things, North Point Press, New York 2002]. Progettare in questi contesti d’azione richiede un
cambiamento radicale nel pensiero e nell’atteggiamento del designer, il quale, riflettendo sui caratteri e le dinamiche della natura, deve offrire un contributo sempre più sensibile e convinto per mutare logiche insostenibili ancora in buona parte ricorrenti. Quanto messo in luce e in sequenza nel corso della trattazione, si offre oggi alla maturazione di un’etica per un design contemporaneo ormai necessariamente e costantemente orientato alla sostenibilità.
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Oltre il quadrifoglio FEDERICA FIORILLO
La teoria del design, elaborata nel 1985, veniva strutturata sulla nozione di «quadrifoglio» e divisa appunto in quattro parti: il progetto, la produzione, la vendita e il consumo, ognuna delle quali connessa a tutte le altre con un singolare, duplice legame. Infatti, ciascuna parte, da un lato, si associa alle altre e dall’altro le contiene tutte; così la componente «progetto» contiene il progetto del progetto (l’iniziale intuizione), il progetto della produzione (il modo di costruire il prodotto), il progetto della vendita (il come commercializzarlo) e il progetto del consumo (che va dal come utilizzarlo al come – tema attualissimo – ridurlo a rifiuto non dannoso). Ma quello che diciamo a proposito del fattore «progetto», e che svilupperemo di seguito, può valere anche per ciascuno degli altri tre termini, determinando ulteriori, interessanti intrecci indispensabili per capire la fenomenologia del design. Il progetto del progetto Il primo fattore del quadrifoglio è il progetto, erroneamente inteso come il momento più inventivo del processo ideativo. Questo inizia la sequenza quadripartita e deve contenere informazioni inedite altrimenti non è un progetto bensì la ripetizione del già noto. Esso contiene una buona dose di sperimentazione, che a sua volta, si realizza secondo un quadrifoglio. Infatti si sperimenta utilizzando conoscenze già note (per esempio uso dei
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materiali, loro caratteristiche, loro duttilità) utili a realizzare almeno una prioritaria immagine di quello che sarà l’oggetto definitivo. Tale immagine è detta prototipo. Si usa tale termine per denotare una lavorazione tipicamente industriale e seriale che differenzia il progetto del design da quello dell’artigianato. Come scrive Argan, nel processo produttivo industriale, il progetto è una specie di idea platonica, ne varietur: si sa che la macchina non potrà che stamparlo in migliaia di esemplari, senza che nessuna modificazione o adattamento possano aver luogo nel corso della lavorazione. Il progetto deve quindi comprendere in sé, nel suo tracciato, la coscienza di tutte le condizioni tecniche inerenti alla sua realizzazione; deve implicare la corrispondenza dell’oggetto a tutte le pratiche esigenze cui deve servire, e non solo alle esigenze di questo o quell’individuo o gruppo sociale, ma alla media delle esigenze collettive, e porsi come uno standard; deve prevedere e risolvere anche tutte le condizioni inerenti alla materia, perché nessuna distinzione, nessun distacco possono più sussistere tra il mondo ideale, o dello spirito, e il mondo pratico, della materia. Ed è appena il caso di rammentare che l’oggetto prodotto dall’industria non è mai prodotto in una materia ‘naturale: la materia naturale si presta al naturalismo dell’artigianato, mentre l’industria forma le proprie materie nell’istante stesso in cui determina le proprie forme, esige materie ‘sintetiche’ per le sue forme ‘sintetiche’ [G.C. Argan, Il disegno industriale, in Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 137]. Il progetto della produzione
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Questo, contrariamente al primo fattore suddetto, non può essere del tutto inedito perché basato su una tecnologia in gran parte nota presso gli operatori, il che non esclude l’invenzione di una nuova tecnologia. In questa fase si manifesta un netto legame tra materia e forma. Inoltre nel realizzare tale legame la produzione deve inventare un’apposita tecnica costruttiva. Emblematico caso di un prodotto fondato sul binomio materia e forma è quello di Thonet. Infatti, affinché la materia si pieghi alla forma
è necessario, come è noto, manipolare la materia legno avvalendosi al tempo stesso di una cassaforma. Quanto diciamo non è una tautologia ovvero uno stesso processo detto con diverse parole, bensì proprio quell’intreccio che unisce i termini del quadrifoglio. Tra le tecnologie più significative vi è quella della catena di montaggio. Essa – scrive Giedion – collega fra loro le fasi della lavorazione. Il suo scopo è quello di fondere l’industria in un unico organismo nel quale vengono coordinati i diversi stadi di produzione delle singole macchine. Questo frazionamento della produzione in procedimenti parziali e la loro integrazione senza attrito è la chiave della produzione contemporanea di massa. Il fattore tempo ha una parte importante perché la celerità delle macchine deve essere sincronizzata [S. Giedion, L’era della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1967, p. 82]. Tralasciando in questa sede gli aspetti tecnici della linea di montaggio (l’uso di convettori quali il nastro continuo, l’elevatore a catena, la vite di Archimede, la gru mobile su rotaie, ecc.), notiamo i princìpi basilari dei sistemi lavorativi americani. Questi possono riassumersi nel vecchio criterio della divisione del lavoro, in quello della linea di montaggio – già attuata nella sua sostanza con un lavoro di gruppo (team work) artigianale, prima cioè che la tecnologia fosse in grado di tradurla in un’operazione meccanica –, in quelli relativi agli studi sui tempi di lavorazione affrontati da Taylor. Detti princìpi sarebbero restati meramente teorici e tecnici se non fosse intervenuta una politica indispensabile all’incremento della produttività. In tal senso si può dire che in USA furono sostanzialmente adottate due vie. La prima, quella seguita da Taylor, era incentrata sulla migliore organizzazione della produzione, la seconda, quella fatta proprio da Henry Ford, consisteva nel concentrare molti sforzi produttivi nella costruzione di un nuovo manufatto, ipotizzato come fortemente richiesto dal pubblico: vale a dire l’automobile. Come si vede, a differenza della prima linea di condotta che resta «scientifica» e con tutta l’ambiguità di facilitare lo sforzo lavorativo o di sfruttare al massimo la forzalavoro, la seconda mira a risolvere i problemi della produzione innestandoli direttamente con quelli della vendita.
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Il progetto della vendita
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Quanto alla componente «vendita» di ciò che si produsse nell’azienda-nazione tedesca nel periodo a cavallo del secolo, vanno ricordati altri significativi aspetti. Il vecchio slogan liberistico, «tutto va bene purché si venda», subisce le prime correzioni. La ristrutturazione del commercio specializzato – è stato notato – venne favorita dalla crescente importanza assunta dai grandi magazzini come insieme di negozi specializzati e dall’organizzazione degli interessi economico-politici delle categorie professionali, degli operai, degli impiegati, dei funzionari, degli imprenditori. Si costituirono grandi cooperative d’acquisto all’ingrosso, che liberarono definitivamente gli acquirenti, ma anche i rivenditori, dall’acquisto presso il produttore ed assunsero il ruolo di mediatore per mezzo di fiere specializzate, soprattutto la Fiera di Lipsia, riviste tecniche e acquisto all’ingrosso. Nel settore degli utensili casalinghi il commerciante di Norimberga Theodor Wieseler ha il merito di aver creato con il ‘Niirnberg Bund’ nel 1901 una rappresentanza politico-industriale delle piccole e medie aziende e di aver sostituito la politica della concorrenza con l’idea dell’acquisto all’ingrosso come mezzo di razionalizzazione economica [T. Buddensieg, Zig-Zag, strisce e sagome, in «Rassegna», n. 14, 1983]. Oltre a queste forme più moderne di vendita, tutto il commercio tedesco veniva interessato dalle stesse associazioni artistico-produttive quali il Dürerbund e il Werkbund, che finirono con la loro sezione commerciale col formare delle vere e proprie organizzazioni di vendita. Significativa a tal riguardo è la vicenda dell’associazione Dürerbund-Werkbund-Genossenschaft. Nel 1912 il Dürerbund inaugurava a Hellerau presso Dresda un suo punto di vendita e pubblicava un catalogo illustrato, dal titolo Oggetti di qualità per la casa. In esso si dichiarava: La creazione di un punto di vendita collettivo ha, per il Dürerbund, tre obiettivi: si intende offrire ai compratori prodotti buoni e a prezzo conveniente, si vuole stimolare gli imprenditori a produrre, ci si prefigge di mettere a completa disposizione di iniziative di comune utilità l’eventuale guadagno derivante dall’intermediazione. A questo programma ade-
rirono alcune ditte commerciali dando vita ad una seconda associazione la Dürergenossenschaft che poi, con l’adesione del Werkbund, divenne la Dürerbund-Werkbund-Genossenschaft, ovvero l’unione di due organizzazioni culturali e di una commerciale. Nel 1916, l’attività di questo ufficio di vendita per il «lavoro di qualità» viene documentata in un importante catalogo, nella cui introduzione Ferdinando Avenarius, l’artefice principale dell’istituzione, scrive: Con questo Deutsches Warenbuch, offriamo al nostro popolo ciò che ancora esso non possedeva ma che nessun altro popolo ancora possiede: un inventario riccamente illustrato delle merci migliori in ogni settore della produzione. Ciò intende favorire la diffusione della qualità: è un programma sostenuto da più di 150 imprese commerciali, ma che rimane tuttavia espressione dell’opera di commissioni esaminatrici completamente autonome […]. Inoltre, i membri della Dürerbund-Werkbund-Genossenschaft si sono impegnati a contrassegnare con un marchio i prodotti qui elencati, preferibili ad altri all’atto dell’acquisto. Almeno nel design storico, tre sono i fattori distintivi dei prodotti degni di questo marchio: quantità, qualità e basso prezzo. Essi saranno modificati nel corso del tempo, ma costituiscono uno dei punti di partenza per una filosofia del design. Il progetto del consumo La componente «consumo». Opposto al senso del possesso è proprio quello del consumo, nozione insita nel fenomeno dell’usa-e-getta. Già alcuni si sono espressi a favore del consumismo, nei limiti naturalmente del sostenibile, sottoscrivendo quanto ebbe a dichiarare l’antropologo Tullio Seppilli: il consumismo non è una tendenza da demonizzare, ma il risultato di una crescita progressiva della produzione. Di conseguenza la contrazione del consumismo è l’effetto di una perdita di colpi del sistema produttivo. La questione di base riguarda quindi il mantenimento dei livelli produttivi. È il sistema produttivo che ci stimola al sempre più rapido ricambio, programmando la durata dei prodotti e provocando l’obsolescenza psicologica dei modelli [cit. in C. Morozzi, Viva il consumismo, in «Modo», n. 161,
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dicembre 1994 - gennaio 1995]. Ma più che insistere sugli aspetti
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economici e commerciali del consumo, è necessario svolgere altre considerazioni, questa volta orientate più sul versante delle preferenze, del gusto, del costume, e non meno politiche e sociali di quelle finanziarie. Gli studi sul consumo dei più recenti prodotti del design tengono finalmente conto delle esigenze del pubblico, ivi comprese quelle non contemplate e addirittura stigmatizzate dal rigore del design storico. In altre parole, trovano legittimazione molte scelte popolari che i primi cultori della nostra disciplina consideravano distorte e da modificare in nome dell’economia, del buon gusto, della modernità. Quanto alcuni anni fa Theodor W. Adorno scriveva sull’architettura, cercando peraltro d’indicare le contraddizioni dell’arte contemporanea, vale soprattutto per la più vasta sfera del design: perché l’architettura, oltre che autonoma, è anche, effettivamente, legata a uno scopo, non può semplicemente negare gli uomini come sono; anche se, in quanto autonoma, deve farlo. Se scavalca gli uomini tel quel, si adatta a un’antropologia e magari a un’ontologia discutibili […]; non a caso. Le Corbusier inventò degli uomini modello; ma gli uomini viventi, anche i più arretrati e schiavi delle convenzioni, hanno diritto al soddisfacimento dei pur loro falsi bisogni. […] Persino nel falso bisogno dei viventi sussiste un moto di libertà: ciò che la teoria economica ha chiamato valore d’uso in contrapposizione all’astratto valore di scambio. Perché si rifiuta di dare agli uomini ciò che così fatti – e non altrimenti – essi vogliono e di cui hanno magari bisogno, l’architettura legittima appare loro necessariamente nemica [T.W. Adorno, Parva aesthetica, Feltrinelli, Milano 1979, p. 121]. Ancora più pertinenti alla componente consumo nei prodotti usa-e-getta risultano le osservazioni di Reyner Banham in ordine al rapporto fra arte popolare e mass media: il vecchio snobistico sarcasmo anticommerciale, comune sia agli esteti accademici che ai socialisti rivoluzionari che ‘tutto va bene se si vende’ è evidentemente falso oggi e deve essere sostituito dalla domanda ‘che cos’è che si vende?’ o, domanda ancora più importante e che rappresenta il vero compito del critico, ‘che cosa si venderà?’; il critico non può più parlare in nome dell’ottuso
manichino, astratto e privo di sogni, immaginato dai neo-accademici, ma in nome del popolo quale esso è e quale diverrà, e deve progettare i futuri sogni e desideri con la cura scrupolosa di uno che parla dalle file stesse del popolo. È solo così che egli potrà partecipare alla straordinaria avventura della produzione di massa che oppone al vecchio aristocratico slogan ‘pochi fiori rari’, e al suo corollario ‘le moltitudini sono erbaccia’, un nuovo slogan che taglia corto a tutte le categorie accademiche; ‘molti fiori selvaggi’ [R. Banham, op. cit.]. In sintesi non siamo in presenza del solo intreccio tra i quattro termini del quadrifoglio ma di ulteriori intrecci che alimentano la complessità del design e spingono a interrogarsi sui suoi caratteri ‘storici’ e sul loro continuo aggiornamento.
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Esperienze di coabitazione. Inclusioni spaziali, sociali e di genere alla XVII Biennale di Venezia MICHELA BASSANELLI
Sono trascorsi quasi due anni dall’inizio della violenta pandemia di Covid-19, che ha costretto l’intera popolazione mondiale a sperimentare un diverso modo di abitare: forzato, condiviso molto spesso in pochi metri quadrati, decollettivizzato e telecontrollato. La casa è diventata un luogo di rifugio desiderato, poiché solo lì era possibile trovare la propria sicurezza lontano dagli altri e dal virus, ma anche prigione: Tutto è diventato casa. Il che non è necessariamente una buona notizia. Le nostre case non ci proteggono. Possono ucciderci. Si può morire per eccesso di casa [E. Coccia, Rovesciare il monachesimo globale, in «Che fare», 28 aprile 2020: https://www.che-fare.com/coccia-monachesimoglobale/].
Con un anno di ritardo, dovuto al grande evento di coabitazione forzata, la XVII Biennale di Architettura curata da Hashim Sarkis, architetto libanese che si occupa di temi che legano architettura e res publica, è risultata anticipatrice di scenari che la pandemia ha mostrato con veemenza. How we will leave toghether? è la domanda rivolta ad architetti, ricercatori e studiosi, chiamati a individuare un nuovo e diverso «contratto spaziale». Se l’emergenza sanitaria ha evidenziato, da un lato, la difficoltà di dover condividere spazi e arredi all’interno delle mura abitative e, dall’altro, l’assoluta mancanza dei contatti sociali, che sono stati ricercati in terrazze condominiali, scale, finestre e cortili, la Biennale racconta una diversa modalità, in cui attuare modi di vita inclusivi.
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D’altra parte, la pandemia ha accelerato il bisogno di un diverso pensiero progettuale che sia anche sociale, politico e collettivo. Nel 1976 Martin Heidegger scrive un saggio, ancora attuale, sul significato fenomenologico dell’abitare e su come la costruzione non sia altro che «un fondare e disporre spazi» da far abitare [M. Heidegger, Bauen, Wohnen, Denken, in Vorträge und Aufsätze, a cura di, M. Heidegger, Pfullingen, 1954, pp. 145-162; trad. it. Saggi e Discorsi, Mursia Milano, 1976, pp. 97-108]. Buan (traduzione in
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tedesco di abitare) contiene nella parola stessa il legame tra l’uomo e il suo essere nel mondo. A tale concetto, il filosofo aggiunge un altro elemento essenziale: il tratto fondamentale dell’abitare è l’aver cura […] I mortali abitano in quanto salvano la terra […] Salvare la terra è più che utilizzarla o peggio sfiancarla [Ivi, p. 100]. Nell’aver cura di noi, degli altri e dei luoghi che attraversiamo e abitiamo, sembra fondarsi il patto etico del nuovo contratto spaziale richiesto da Hashim Sarkis in questa Biennale. Nella società contemporanea, pervasa da situazioni complesse, frenetiche e fluide, l’individuo diviene sempre più fragile. Esiste un ambito della psicologia, definito ambientale, che studia l’influenza sui processi psichici dell’ambiente, antropizzato e naturale. Lo psicologo Paolo Inghilleri mostra come i luoghi che frequentiamo, le case che abitiamo, gli oggetti che possediamo, siano fattori indispensabili nella formulazione di un’idea di cura. Una sua riflessione puntuale riguarda il rapporto dell’uomo con la natura e con le altre forme di vita che offrono uno stimolo alla generazione di un senso di empatia: è quindi importante imparare a relazionarsi con il mondo naturale e con tutte le forme di vita che in esso sono contenute [P. Inghilleri, I luoghi che curano, Raffaello Cortina, Milano 2021]. L’aspetto che rende stimolante questa Biennale risiede proprio nell’essere concepita come una grande piattaforma di ricerca che raccoglie strategie, approcci e risposte. Il progetto architettonico con le sue qualità estetiche resta così spesso sullo sfondo, a favore di una lettura dei processi e delle influenze nei diversi contesti sociali e ambientali. La pandemia, come è stato affermato da più voci, ha accelerato anche il tema delle possibilità offerte dalla tecnologia; aspetto che sta cambiando il modo di vivere gli spazi e di concepirli1. Per alcuni mesi il mondo virtuale ha consentito il normale svol-
gimento di alcune attività: la didattica, il lavoro immateriale, i diversi esperimenti di contatto sociale attraverso i social network. Come sottolinea il filosofo Paul B. Preciado, il lockdown che abbiamo sperimentato è però molto diverso dal confinamento avvenuto durante la peste del Trecento e del Seicento o durante l’influenza spagnola, dove era prevista non solo la chiusura nello spazio domestico e la separazione fisica tra i corpi, ma anche l’interruzione dei processi di comunicazione e delle pratiche di ripetizione sociale e di normalizzazione rituale che si svolgevano per lo più nello spazio della strada, del mercato e della fabbrica, ma anche della scuola o dell’esercito [P.B. Preciado, Il confinamento digitale nell’era della pandemia, «Internazionale», 24 Dicembre 2020: https://www.internazionale.it/ opinione/paul-preciado/2020/12/24 /confinamento-digitale-pandemia]. Durante la prima
ondata del Covid-19 abbiamo testato una chiusura nel mondo digitale, che segna la transizione verso una nuova forma di capitalismo dominata dal telelavoratore e dal teleconsumatore. In questa geografia di spazi, scrive Preciado, la casa diventa il principale luogo dove si attua un’«economia farmacopornografica», dove l’esserci nel virtuale diventa l’espressione prioritaria di ogni singola esistenza2. Alla Biennale due padiglioni in particolare, quello australiano e quello tedesco, lasciano il visitatore immerso in un grande spazio vuoto, senza materiali fisici, e dove l’accesso ai contenuti è garantito solo tramite il QR code, visualizzato mediante il proprio dispositivo personale di lettura. Sebbene le questioni tematiche presentate dai due padiglioni siano in linea con le richieste curatoriali, esse aprono la strada a un approccio progettuale di una completa smaterializzazione del progetto di allestimento e della fruizione dei suoi contenuti, resa possibile da qualsiasi luogo. 2038. The New Serenity è il titolo del padiglione tedesco che raccoglie uno sguardo sul prossimo futuro: secondo gli studi e le ricerche dei curatori (Arno Brandlhuber, Olaf Grawert, Nikolaus Hirsch, Christopher Roth) vi sarà un accentuarsi delle questioni attuali come i disastri economici e ambientali, le limitazioni negli spostamenti e nei rapporti sociali [L. Kubina, a cura di, 2038. The New Serenity, Sorry Press, Münich 2021]. Anche in questo caso, come per la mostra generale della Biennale, il titolo colpisce per la
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capacità premonitrice e visionaria poiché deciso prima dell’evento pandemico. Nella ricerca di una nuova serenità, la società si sposterà verso una forma di «democrazia radicale», che prevede una ridistribuzione e una gestione diversa delle risorse, un indebolimento della proprietà privata e una decentralizzazione delle infrastrutture digitali. Tramite i QR code è possibile accedere a video che raccontano come le persone, le istituzioni e le industrie siano riuscite a sviluppare, nel corso del tempo, modelli diversificati di coesistenza che sostengono i diritti fondamentali dell’esistenza umana. I curatori hanno tra i loro riferimenti il progetto World Game (1961) di R. Buckminster Fuller, uno strumento concepito con l’obiettivo di simulare le risorse mondiali e aiutare i partecipanti a capire come condividerle nel modo più equo possibile. L’ambizione dell’architetto americano era creare un modello di dati come fonte di ispirazione per trovare soluzioni ai diversi problemi e in grado di rispondere, quale fine ultimo, alla pace dell’umanità. Il tema dell’accelerazione delle nuove tecnologie sottende un ruolo politico in tutti i processi di gestione del territorio, della città, fino al progetto di architettura attraverso una visione transcalare. La politica torna al centro di questa Biennale con sguardi diversi che riconoscono nella parola «contratto» gli sviluppi per la vita collettiva: se un contratto sociale determina le libertà perdute e acquisite affinché le persone possano entrare nella società, un contratto spaziale determina i metodi con cui esse negoziano queste libertà attraverso le loro interazioni spaziali. Il contratto spaziale anticipa, prova, articola, materializza, invariabilmente abilita o resiste, ma spesso sostituisce il contratto sociale [H. Sarkis, How we will live toghether?, comunicato stampa della 17a Biennale di Architettura, Venezia 2021]. Il padiglione dell’Austria, Platform Austria, indaga l’influenza delle piattaforme digitali e della loro struttura e conformazione, sulle trasformazioni della città e dell’architettura. I curatori (Peter Mörten böck e Helge Mooshammer) raccontano come piattaforme digitali quali Airbnb, Uber, WeWork, Amazon permeano ormai la nostra quotidianità, determinando una diversa strutturazione della società, non più basata sul ruolo predominante dello spazio architettonico. Per stimolare una riflessione su questo sistema
virtuale, che produce un nuovo tipo di classismo sociale, l’interno del padiglione viene concepito e allestito come una piattaforma, uno spazio di conversazione in grado di creare nuove reti di comunicazione e scambio. Il padiglione inglese, The Garden of Privatised Delights, chiama in causa il fenomeno della crescente e sempre più spietata privatizzazione dello spazio, focalizzandosi sull’assenza di ambienti comuni, pubblici o privati, che sono invece di fondamentale importanza per superare le disuguaglianze e avviare i presupposti per una società inclusiva. La critica lanciata dalle due curatrici, Manijeh Verghese e Madeleine Kessler, parte dalla rilettura del pub inglese come modello di spazio pubblico privato. Attraversando i sette ambienti del padiglione inglese, allestiti con un linguaggio giocoso e pop dai colori accesi, emerge la volontà e il bisogno di una maggiore interazione tra pubblico e privato, attuabile attraverso una progettazione in grado di ripensare il ruolo degli spazi pubblici nelle città [L. Ottone, Un giardino per riappropriarsi degli spazi pubblici in Gran Bretagna, in «Domusweb», 21 giugno 2021: https://www.domusweb.it/it/speciali/biennale-architettura-venezia-2021/gallery/2021/a-garden-for-the-reappropriation-ofpublic-spaces-in-great-britain0.html].
Infine, il padiglione della Russia, Open?, rilegge le trasformazioni delle istituzioni culturali nella società contemporanea in relazione al binomio fisico e digitale. Al suo interno un’anti-mostra che espone la ristrutturazione del padiglione attraverso i disegni di KASA-Kovaleva&Sato Architects3. La nuova architettura diventa metafora del ruolo che dovrebbe possedere oggi un’istituzione: aperta, senza confini, a metà tra il fisico e il digitale. Accanto all’esperienza tra i diversi ambienti ristrutturati che raccontano stratigrafie sovrascritte della storia di questa architettura, un sito web approfondisce gli aspetti tematici e sarà attivo fino alla prossima Biennale, estendendo in questo modo lo spazio di vita del padiglione. L’installazione The Gamer, collocata in una gabbia di acciaio posta al piano terra, si concentra sugli spazi virtuali dei video games e sul loro crescente ruolo politico e sociale. In linea con la volontà di aziende come Facebook che si stanno muovendo verso la creazione del metaverse (un mondo parallelo digitale dove le persone interagiscono attraverso ava-
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tar), gli spazi digitali rappresentano uno dei più grossi mercati economici dell’attualità, oggetto di sperimentazione dei maggiori Stati [I. Pestellini Laparelli, E. Petrillo, a cura di, Voices. Towards Other Institutions, Lenz Press, Milano 2021].
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Nella definizione di questo nuovo contratto spaziale gli attori in gioco sono vari: le diverse comunità che abitano la terra, gli uomini, gli animali, le piante e i microorganismi. L’idea di un’estesa coabitazione è un filo conduttore trasversale che si ritrova in alcuni progetti esposti nei padiglioni olandese e israeliano e in alcune installazioni all’Arsenale. Il padiglione israeliano, Land Milk Honey, propone una critica aspra allo sfruttamento del suolo e degli animali attuato nel contesto nazionale nell’ultimo secolo, oggi non più sostenibile né accettabile. I curatori (Dan Hasson, Iddo Ginat, Rachel Gottesman, Yonatan Cohen e Tamar Novick) hanno utilizzato l’immaginario biblico del latte e del miele come metafora di una «finta» pienezza, attuata secondo modalità estrattive e cancellando la biodiversità. La mostra si snoda attraverso il rimando simbolico di cinque animali locali, addomesticati e selvatici (mucche, capre, api, bufali d’acqua e pipistrelli), a cui sono associati i cinque temi della modernità: meccanizzazione, territorio, coabitazione, estinzione e post-umano. L’allestimento concorre alla generazione di uno sguardo critico: ogni oggetto è esposto in un ambiente asettico con strutture in acciaio inox, che rimandano all’estetica delle celle frigorifere che contengono i cadaveri. Anche il padiglione olandese si apre con un’interrogazione ulteriore alla domanda posta da Sarkis: Who is we? Il noi, come sostengono i curatori Francien van Westrenen e Het Nieuwe Instituut, deve comprendere tutti gli esseri umani, il suolo, le piante, gli animali e i microbi. Questa pluralità determina le relazioni essenziali per costruire società e città resilienti. Il padiglione si apre anche a uno sguardo sul tema del gender, sostenendo come architetti e urbanisti debbano rivolgersi ad altri contenuti come femminile, indigeno, queer e multispecie. L’allestimento converte lo spazio in un luogo performativo, dove il materiale tessile diventa lo strumento attraverso il quale sperimentare sé stessi nello spazio accanto a video e performance che immergono il visitatore in una molteplicità di visioni.
Il tema della coabitazione prosegue nelle installazioni presenti alle Corderie dell’Arsenale con allestimenti dove interagiscono arte, architettura, materiali, attraverso confini sempre più labili. Occorre procedere con cautela per scoprire alcuni piccoli interventi come Variations on a Bird Cage del giovane studio olandese Ossidiana, che indaga gli oggetti attraverso i quali l’uomo formalizza il suo incontro con gli uccelli, gli animali che insieme a lui hanno maggiormente contribuito alla globalizzazione della natura. L’installazione si presenta come un paesaggio metafisico e modulare dove si possono attuare diverse forme di condivisione e negoziazione dei confini tra la nostra specie e le altre. L’archetipo della gabbia diventa metafora e luogo di questo scambio. Refuge for Resurgence di Superflux inscena una grande tavola per una cena utopica multispecie con animali, uccelli, piante, funghi e uomini. L’installazione sottolinea il valore dell’interdipendenza ecologica tra tutti gli esseri viventi, immaginando un mondo post-antropocentrico. Gli oggetti che compongono il banchetto sono parte di questa coabitazione: posate antropomorfe, i cui materiali derivano da ossa di uccelli, luci dei freni, ramoscelli, un circuito arrugginito, si uniscono a piatti in ceramica disegnati dall’illustratore Nicola Ferrao, che rappresenta storie mitopoietiche delle specie protagoniste della cena e delle loro storie. Questa idea di una metafisica della mescolanza e di una coabitazione diffusa è stata ampiamente trattata dal filosofo Emanuele Coccia e dal neurobiologo Stefano Mancuso in diversi scritti e si basa su una rilettura dell’origine del vivente a partire dalle piante intese come manifestazione dell’interrelazione tra tutte le forme di vita e della materia4. Elisa Silva di Enlace Arquitectura rilegge i barrios di Caracas mostrando le ricche dinamiche spaziali e culturali esistenti: nel barrio La Palomera, dotato di un sistema di spazi aperti formati da licheni, arbusti ed edera che crescono spontaneamente, le specie vegetali rappresentano un ricco e talvolta salvifico patrimonio di conoscenze tramandato dagli antenati che un tempo emigravano dalle zone rurali. Se dobbiamo imparare a confrontarci e coabitare con altre specie, dobbiamo essere in grado di farlo, in primo luogo, anche
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tra diverse comunità di esseri umani. L’architettura della casa in questo senso offre risposte concrete a possibili forme di condivisione. Il padiglione dei Paesi nordici immerge il visitatore in un’esperienza fisicamente immersiva sull’idea di co-housing. L’architettura storica incorpora la ricostruzione in scala 1:1 di uno spazio comune generato attraverso il coinvolgimento degli abitanti del progetto di Vindmøllebakken (Stavanger 2019) dello studio Helen & Hard, nel quale i residenti hanno appartamenti uniti a strutture e spazi comuni. Lo studio ha coinvolto gli abitanti nel cercare di capire se è possibile trasferire altri aspetti delle nostre vite private in uno spazio semi-pubblico di condivisione. Dalle risposte è scaturito il progetto di allestimento, che prevede un’opera di riscrittura architettonica dove i nuovi elementi realizzati in legno configurano un paesaggio interno, uno spazio-soglia dove è possibile svolgere attività collettive e sul quale si affacciano gli spazi più privati degli abitanti. Siv Helene Stangeland identifica nel progetto di architettura una spinta al bene comune, sviluppando il genius loci nel rapporto con gli abitanti, fornendo cure ambientali e sociali e aprendo il nostro sguardo alla bellezza. Il padiglione dell’Albania riflette sull’importanza del concetto di vicinanza tra abitanti, tema storicamente caro a questa Nazione, che possedeva in ogni casa un ambiente adibito al ricevimento degli ospiti: amici, vicini, parenti. L’allestimento ricostruisce in scala reale lo spazio di un soggiorno come metafora di «casa aperta», luogo di incontro e ospitalità attraverso film d’epoca e fotografie che reinterpretano questa idea [I. Andoni, R. Breçani, M. Ferra, F. Mali, In our home. On Neighbours and Togetherness, Graphic line 01, Tirana 2021].
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Il rapporto tra architettura e abitanti è il focus del padiglione francese che indaga cinque progetti collocati in continenti diversi: Europa, Asia, America e Africa, che mostrano il lento processo di appropriazione dei luoghi da parte delle persone che li abitano. Tra questi sono presenti l’intervento Grand Parc di Bordeaux (2017) in collaborazione con Lacaton Vassal e Frédéric Druot, il quartiere di Mérignac-Beutre (1968-70/2019), ma anche laboratori didattici, come i seminari con i residenti organizzati a Detroit e Soweto – tutti progetti sviluppati dal curatore del padiglione Christophe Hutin. Si tratta di operazioni «dal basso»,
che interpretano l’abitare come un’azione e il progetto come una partitura: quando le persone agiscono sul proprio habitat lo trasformano, lo modificano e infine lo rendono migliore, perché vanno a creare una sintonia tra il loro progetto di vita e l’oggetto costruito [M. Frochaux, L’architettura come improvvisazione. Intervista a Christophe Hutin, in «Archi», 24 giugno 2021: https: //www.espazium.ch/it/attualita/larchitettura-come-improvvisazione].
Ben riuscito è l’allestimento che fa rivivere l’architettura neoclassica del padiglione attraverso dei film esposti come trittici: l’immagine centrale raccoglie una carrellata che mostra gli ambienti vissuti mentre ai lati sono presenti fotogrammi di vita quotidiana e dei processi di trasformazione dei siti. Sul tema della comunità e della resilienza lavora anche il padiglione italiano curato da Alessandro Melis i cui contenuti, forse troppi, non sono facilmente leggibili a causa dell’allestimento a tratti cupo e molto denso. Apprezzabile lo sforzo transdisciplinare, che unisce l’architettura con la botanica, la medicina, l’agronomia, la biologia, l’arte, le scienze sociali e la tecnologia [A. Melis, B. Medas, T. Pievani, Catalogo del Padiglione Italia. Comunità resilienti, D Editore, Roma 2021].
Attuando un ulteriore passaggio di scala all’interno di questa disamina tematica si giunge alla materia di cui sono composti i corpi di ogni essere vivente. Proprio questo tema è tutt’ora al centro delle riflessioni emerse dalla pandemia: corpi protetti nelle case, corpi morti che non si vedranno più, corpi che hanno perso il loro valore, corpi controllati e studiati. Alcune installazioni collocate all’Arsenale mostrano come i riti e le consuetudini che avevamo verso gli altri sono cambiate e continueranno a farlo anche nel prossimo futuro. La ricerca Your Restroom Is a Battleground di Matilde Cassani, Ignacio G. Galán, Iván L. Munuera e Joel Sanders si snoda in diversi punti: all’ingresso del l’Arsenale un diorama semicircolare racconta il bagno come dispositivo spaziale, politico e ambientale, ai Giardini alcune bandiere annunciano il riprogetto di una delle toilette pubbliche. Lo spazio interno viene ridefinito a partire da una riflessione sul significato di corpo, infrastruttura, ecosistema, norma culturale e regolamento, con l’obiettivo di trasformare il bagno in un luogo
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da vivere collettivamente, annullando ogni tipo di barriera e stereotipo. Sempre nello spazio dell’Arsenale l’istallazione Catalog for the Post-human, curata da Parsons & Charlesworth, racconta il tema della fragilità del lavoro legata alla quarta rivoluzione industriale attraverso sculture che usano il linguaggio del design per rappresentare una collezione sconosciuta di oggetti relativi al futuro del lavoro immateriale, del lavoro produttivo e del corpo. L’obiettivo è di fornire strumenti utopici capaci di aiutare i lavoratori ad affrontare circostanze in cui i loro corpi possono essere spinti al limite. Infine, la ricerca The Hospital of the Future curata da Reinier de Graaf (OMA) propone una riflessione a partire dal corpo e dalla malattia per ripensare il tema della struttura sanitaria. In questa visione distopica del futuro l’ospedale è immaginato come un dispositivo in continuo movimento, autosufficiente, in grado di operare e fornire soluzioni a distanza.
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In conclusione, possiamo affermare che tutte le installazioni descritte mostrano l’urgenza, la complessità e la necessità di cambiamento dei nostri modi di abitare. Tanti sono i temi affrontati, spesso sotto forma di ricerche, per evidenziare questioni fondamentali. Resta però un grande interrogativo riguardo al ruolo che dovrà avere il progetto di architettura e in che modo potrà offrire soluzioni pratiche. Alcuni padiglioni suggeriscono alcune strade da perseguire nell’ottica di nuove visioni progettuali. Il padiglione del Giappone con la mostra Co-ownership of Action. Trajectories of Elements, curata da Kozo Kadowaki, ci riporta ai singoli elementi dell’architettura e al modo in cui possono essere riscritti e sovrascritti. Una tipica casa giapponese destinata alla demolizione è stata smontata ed esposta, non nella sua forma originale, ma in nuove configurazioni create dall’incontro tra architetti e artigiani, aggiungendo materiali nuovi o locali nel processo: parti della casa diventano mura espositive, panchine e schermi per proiezioni. L’architettura è intesa come processo, recupero, storia che combina una catena di azioni collaborative. In modo simile il padiglione americano con l’installazione American Framing rende omaggio alla tecnica costruttiva più comune nel paese, realizzando una nuova struttura che cela il padiglione originale e lo rende visibile da altri punti di vista e scorci. Questo inseri-
mento ci costringe a pensare qualsiasi luogo come vivo ed evolutivo, in grado di cambiare a seconda delle nostre esigenze, guardando alla storia e al patrimonio di saperi tecnici. Infine, il padiglione del Belgio Composite Presence, curato dallo studio Bovenbouw Architectuur, riflette sul rapporto tra architettura e città e su come questi due ambiti debbano interagire. La realizzazione di cinquanta modelli in scala 1:15, che rappresentano altrettanti progetti di architettura costruiti negli ultimi vent’anni nella Nazione da quarantacinque studi, immerge il visitatore in un paesaggio immaginario che mostra come strati storici, morfologie e incontri imprevisti siano una fonte a cui attingere per la produzione contemporanea e per generare un ambiente durevole, più bello e inclusivo. L’architettura viene intesa come patrimonio di saperi e tecniche a cui fare riferimento, come riciclo e riscrittura dei materiali, come elemento che insieme all’uomo, alle piante e agli animali può determinare nuovi paesaggi dell’abitare.
Sul tema dell’addomesticamento delle nuove tecnologie si veda: R. Silverstone, E. Hirsch, D. Morley, Information and communication technologies and the moral economy of the household, in R. Silverstone, E. Hirsch, a cura di, Consuming technologies. Media and information in domestic spacesRoutledge, London 1992; R. Silverstone, Televisione e vita quotidiana, il Mulino, Bologna 2000. 2 Si veda Paul B. Preciado, Pornotopia: An Essay on Playboy’s Architecture and Biopolitics, Zone Book, New York 2014; trad. it. Pornotopia. Playboy. Architettura e sessualità, Fandango Libri, Roma 2020. La pornotopia si caratterizza per la capacità di stabilire relazioni tra spazio, piacere e tecnologia in quello che Preciado definisce come «sistema capitalistico farmacopornografico». 3 KASA è un giovane studio di architettura russo/giapponese con sede a Mosca e Tokyo, fondato da Alexandra Kovaleva e Kei Sato. Per questo progetto hanno collaborato con Maria Pshenichnikova (fashion designer), Haruka Shoji (textile designer), Yoshihiro Fukushima (structure designer) e Ksenija Voronina (conservatore). La loro proposta guarda attraverso diversi modelli di cura all’architettura, alle persone e agli ecosistemi. 4 E. Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna 2018; S. Mancuso, Le pianta del mondo, Laterza, Roma-Bari 2020; Id., La nazione delle piante, Laterza, Roma-Bari 2019. 1
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Libri, riviste e mostre
Marco Sammicheli (a cura di), Carlo Mollino. Allusioni iperformali, Electa-Triennale Milano, Milano 2021. Nonostante Carlo Mollino sia ampiamente conosciuto e riconosciuto quale figura nodale nella cultura architettonica del Novecento, questo testo è lo spunto per aprire nuove prospettive che mettono in evidenza tutti gli aspetti dell’opera molliniana non ancora sufficientemente approfonditi dalla critica ma che risultano fondamentali per una rilettura di Mollino. L’occasione deriva dalla recente acquisizione della suite da salotto progettata da Mollino per Casa Albonico a Torino tra il 1944 e il 1946. La rocambolesca vicenda che ha permesso a questo «tesoro» sconosciuto di rimanere entro i confini nazionali è nutrita da una buona dose di tenacia e anche da un pizzico di fortuna. Gabriele Neri racconta che gli arredi, erroneamente datati con un decennio di ritardo (19541956), non sono inizialmente sottoposti ad alcuna procedura di autorizzazione per l’espatrio e sono pronti per essere spediti verso un famoso
museo di design tedesco. Ma, grazie all’acutezza di due storici dell’arte, facenti parte dell’ufficio esportazione della Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio di Milano, viene identificato e evidenziato l’errore nella datazione e conseguentemente modificato l’iter procedurale. La cooperazione e la risolutezza di autorità e istituzioni nelle operazioni di verifica consentono l’accertamento dell’eccezionalità e dell’interesse culturale della collezione d’arredo, di cui al termine viene negata la circolazione e confermata l’acquisizione del Ministero della Cultura italiano con deposito in comodato presso il Museo di Design della Triennale di Milano. È qui che viene avviata un’attenta operazione di restauro della suite, valorizzata da una mostra, allestita dal 3 settembre al 7 novembre, a cui il testo in oggetto fa da accompagnamento. Questa pubblicazione vuole quindi, probabilmente prima di tutto essere un monito per evitare la fuoriuscita di opere non ancora protette, con l’auspicio che la storia di questi arredi, prime opere di design acquistate dal Ministero, non resti un esempio isolato ma possa
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inaugurare un percorso di tutela sistematico e congiunto anche su questo importante comparto delle eccellenze del nostro paese. L’esposizione, che si pone come obbiettivo quello di «scardinare alcuni facili cliché per offrire nuove letture e meglio inquadrare la pratica dell’architetto e designer torinese», trova nel catalogo il suo contrappunto. Mentre la prima nasce come occasione per mostrare fotografie, disegni, lettere e documenti inediti che ruotano attorno al perno dell’allestimento, ossia il salotto di Casa Albonico, il secondo diventa un vademecum della mostra, evidenziando l’eclettica personalità di Mollino mediante un excursus temporale scandito da eventi, mostre, progetti e riviste che inquadrano la figura dell’architetto e il contesto storico-culturale in cui si è formato. La pubblicazione non si riduce quindi a una descrizione della vicenda del concepimento e della produzione del sistema d’arredo per la famiglia Albonico, ma diventa piuttosto un atto propedeutico alla mostra o se vogliamo anche una sua presa di coscienza. Pur collocando idealmente su una linea allestimento e catalogo come due elementi in successione, è possibile tessere tra essi un parallelo per ciò che concerne la loro configurazione. Il testo diventa una sorta di messaggio dalla camera oscura – citando la nota opera di Mollino – che in maniera astratta, mediante «fotografie temporali», inquadra la mostra donando diverse prospettive sull’oggetto. Allo stesso modo l’allestimento progettato da Bunker Arc, brevemente descritto nel testo da Carlo Gandolfi, crea un percorso fluido, a tratti interrotto da visioni selettive concesse da due feritoie che «bucano» la parete curva, quinta
scenica dello spazio espositivo, e permettono allo sguardo di travalicare verso i sistemi d’arredo: quasi un’azione estrattiva, volutamente rivelata secondo sequenze aperte e successive: lo spettatore genera traiettorie, vettori di forza invisibili e le prospettive sono moltiplicate in favore della possibilità di arricchire i piani di lettura degli oggetti disposti al cospetto di quella sorta di scrittura genetica che ci viene consegnata dagli straordinari disegni autografi. Il medesimo effetto di fotogrammi di campo e controcampo della mostra è ottenuto nel catalogo tramite i tre filoni in cui è diviso: il primo punta dritto sugli arredi per casa Albonico, il secondo propone una rilettura a posteriori su Mollino e il terzo, con un approccio rivolto maggiormente al progetto, fornisce una prospettiva sull’allestimento. In ognuna di queste sezioni, il fuoco è sulla figura di Mollino, ma ciò che caratterizza e informa lo «scatto fotografico» sono l’ambiente e i progetti che vi gravitano attorno. Proprio come accade nei Ritratti ambientati (1945) dell’architetto torinese, dove le donne, assolute protagoniste, si muovono all’interno di una scena sempre mutevole e indeterminata che si intuisce come presenza assenza al di là del taglio dell’inquadratura. La prima angolazione su Mollino è fornita da Marco Sammicheli, curatore della mostra e del catalogo. Egli, trattando i temi salienti e gli eventi nevralgici della vita dell’architetto, crea un gioco di rimandi e interrelazioni che sistematicamente generano una corrispondenza con la suite d’arredo di Casa Albonico: dal l’utilizzo della fotografia quale «strumento di progetto e oggetto di indagine compositiva» alla collabo-
razione con le ditte artigianali e con gli artisti di cui i mobili della mostra sono un esempio; dal suo travagliato rapporto con le Triennali milanesi alla sua visione dell’architettura come arte, in cui egli rifiuta qualsiasi interpretazione che potesse sviare dall’architettura intesa come esito di un gesto artistico, che la rinchiudesse nei canoni matematici della misura e del meccanicismo scientifico. Mollino si distacca quindi da quella ricerca che punta ad allinearsi alla produzione industriale e àncora il suo fare progettuale al concetto di sintesi delle arti, negli anni del dopoguerra largamente dibattuto. Paradigmatico del suo approccio è l’arredo di casa Albonico che viene presentato nel catalogo da una serie di schizzi, disegni di progetto, dettagli e foto, contenuti nel ricco Fondo di Carlo Mollino (Torino), «vero e proprio archivio di persona». Entrata con queste pagine nel vivo della mostra, la pubblicazione prosegue con il saggio di Pier Paolo Perruccio e Laura Milan che intrecciano le fila della storia di due famiglie, Albonico e Mollino, che si incontrano a più riprese, il che porta, nel 1944, alla commissione di una serie di arredi per la sala da pranzo e il soggiorno della casa torinese di Paolo Albonico. Dopo una breve digressione sui progetti giovanili di Mollino, i due autori si soffermano sul modus operandi che ha condotto l’architetto a concepire gli elementi d’arredo quali pezzi unici ed eccezionali, frutto di una stretta cooperazione con le maestranze artigiane: Gli arredi di Casa Albonico sono infatti tutti realizzati, per la prima volta in modo organico, in collaborazione con la falegnameria di Francesco Apelli e Lorenzo Varesio e testimoniano quanto l’attivi-
tà di Mollino designer si leghi al lavoro di abili ebanisti e artigiani. Il percorso sinuoso tra le anse della vita dell’architetto e dei suoi progetti, nel catalogo si richiude delicatamente su stesso come il guscio-parete che avvolge l’allestimento. Nello spazio espositivo della Triennale, si procede infatti verso l’uscita ruotando attorno al suddetto pannello ricurvo, forato dalla seconda feritoia che concede un ultimo sguardo sulla mostra. La medesima distanza critica è ripresa metaforicamente nel testo tramite la seconda sezione che reinterpreta la figura di Mollino mediante tre differenti prospettive. Esordisce lo storico dell’architettura Fulvio Irace che filtra l’immagine dell’architetto attraverso la grande mostra dedicatagli post-mortem, nell’aprile del 1989, all’interno della Mole Antonelliana. Mostra che aveva il compito di sottrarre Mollino alla facile mitologia autoriale e ricomporre lo specchio in frantumi di tante visuali parziali liberandone il ritratto dalle incrostazioni che ne stavano alterando la fisionomia. La seconda chiave di lettura viene data attraverso le testimonianze di amici colleghi e maestri, suoi contemporanei. Attraverso l’analisi degli scambi epistolari tra Mollino e Gio Ponti, Roberto Dulio evidenzia la centralità del tema della relazione arti-architettura su cui i due hanno a lungo discusso e il loro rapporto di reciproca ammirazione e rispetto che farà scrivere all’architetto torinese, in una delle sue ultime lettere, «io ti ricordo e soprattutto ricordo che a te devo moltissimo, quasi posso dire che mi hai generato all’architettura». Luciano Bolzoni, conscio del l’impossibilità di «racchiudere» la figura di Mollino lo racconta con le parole di Beppe Finessi, Alessandro
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Mendini, Alessandro Busci, Ettore Sottsass e Ugo La Pietra, che riconosce in lui anche il suo essere artista: Mollino non progetta semplicemente oggetti per l’arredamento ma progetta qualcosa che supera la definizione di opere d’arte applicate per raffigurare un altro territorio ben più elevato e più raro che è quello dell’opera d’arte. La terza e ultima chiave interpretativa è ricavata dal dialogo di Damiano Gulli con Corrado Levi, alunno di Mollino al Politecnico di Torino. Nelle vesti di professore è stato in grado di trasmettere il suo essere oltre le cose, il suo furore. […] l’atteggiamento di contaminazione profonda tra la vita e il fare arte, […] la volontà di operare in maniera totale sul progetto fino al più minuto dettaglio. Il catalogo cerca dunque di tenere assieme tutte queste sfaccettature che dimostrano la versatilità e la poliedricità di Carlo Mollino, creando un’armonia polifonica quale la sequenza di ritratti (sonori) di ambienti ispirati agli universi immaginati da Mollino. C. D’A. R. Cassanelli, A. Conti, M.A. Holly, A. Lugli, Dizionario dell’arte. Critica, iconografia, museologia, restauro, Jaca Book, Milano 2021.
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Il dizionario curato da Roberto Cassanelli, Alessandro Conti, Michael Ann Holly e Adalgisa Lugli, nuova edizione di un volume precedentemente pubblicato, si pone l’obiettivo di fornire al lettore le basi per un approccio completo e consapevole al vasto contenitore tematico identificato come «Arte». Questo
scopo viene perseguito attraverso la forma testuale del dizionario e al legame con alcune discipline chiave per l’avvicinamento, o per l’approfondimento, dell’ambito dell’arte: la critica, l’iconografia, la museologia e il restauro. Mentre queste ultime quattro sono protagoniste e oggetto di altrettanti contributi introduttivi raccolti sotto il nome di prolusioni, il dizionario vero e proprio occupa la seconda parte del volume, affrontando in ordine alfabetico oltre centocinquanta voci, affidate a studiosi e professionisti afferenti ai vari settori dell’arte. I quattro testi delle prolusioni, pur redatti da autori differenti e dedicati a temi diversi, presentano alcuni tratti comuni che definiscono il leitmotiv metodologico ed espositivo dell’intero volume. Sul valore contenutistico dell’opera regna un’impronta storiografica che affianca alla descrizione dei concetti principali e alle loro mutazioni nel tempo, la narrazione dei processi evolutivi del pensiero, delle teorie, delle tecniche e degli interpreti che li hanno prima generati e poi adoperati nel corso dei secoli. L’intenzione sottesa sembra non di configurarsi come un trattato, volto a esporre sistematicamente contenuti e definizioni, ma piuttosto di presentare, in ordine logico e cronologico, eventi storici, protagonisti, opinioni e fondamenti teorici che hanno dato vita e forma alle discipline oggetto di approfondimento. Tale processo è perfettamente interpretato dal primo testo delle prolusioni Storia della critica d’arte. I concetti di imitazione e di espressione nella teoria e nella storia delle arti figurative, scritto da Giuliano Ercoli. Partendo dalla definizione del termine critica che «indica, nella sua accezione più generale, un’ana-
lisi rigorosa condotta dalla ragione, e, insieme, il giudizio a cui attraverso tale analisi si perviene», l’autore conviene che se dunque ogni forma di apprezzamento può costituire un atto critico più o meno implicito, appare chiaro che la disciplina di cui stiamo trattando deve prendere le mosse da tempi assai più antichi, rispetto a quelli in cui venne elaborato il concetto dell’autonomia dell’arte e la «critica d’arte». Queste affermazioni aprono un’ampia argomentazione sul concetto di critica d’arte e, allo stesso tempo, danno avvio a tutte quelle operazioni di narrazione e contestualizzazione storica che, come anticipato, caratterizzano l’intera opera. Dalle parole di Boccaccio, Petrarca e Alberti, attraverso le opere di Winckelmann e von Rumohr fino a quelle di Wölfflin e Croce, la disamina trova una salda direttrice nel riferimento ai concetti di imitazione ed espressione, considerati i due cardini del pensiero estetico e della critica d’arte dalle origini ai nostri giorni, corrispondendo l’uno al momento dell’oggettività e l’altro al momento della soggettività. Similarmente nel testo Iconografia e iconologia. Saggio sulla storia intellettuale di Michael Ann Holly, la descrizione dell’indagine iconografica e, soprattutto, di quella iconologica – autentica protagonista del saggio –, nonché della loro differenziazione in discipline differenti eppure contigue, è quasi esclusivamente affidata alle voci dei più grandi esponenti in materia. Larga parte del saggio, infatti, è dedicata alla restituzione dei contributi apportati dai singoli studiosi e la spiegazione di concetti squisitamente legati alla disciplina – come «simbolismo celato» e «analogie intrinseche», «significato intenzionale» e «critica
inferenziale» – guida il lettore attraverso l’emergere della disciplina iconologica accanto a quella iconografica, fino allo sviluppo della nuova iconologia o «critica del connubio parola-immagine». Di queste ultime, in particolare, vengono evidenziati dall’autrice gli obiettivi e le necessità di aggiornamento più contemporanei concludendosi, in un climax di crescente coinvolgimento e interrelazione con il lettore, in un appello in prima persona plurale rivolto a chi scrive di arte – storici dell’arte, critici, teorici, e anche storiografi. Come lo studio dell’opera d’arte veniva precedentemente descritto attraverso la coppia di parole iconografia-iconologia, così l’istituzione museale, unitamente al suo ruolo nella storia e nella società, viene indagata attraverso la diversificazione della museologia in rapporto alla museografia. Quella proposta da Adalgisa Lugli nel testo Museologia. Le ragioni del museo, tuttavia, non è una mera esplicitazione dei due termini attraverso la definizione di confini disciplinari invalicabili, ma piuttosto una proposta di lettura dei loro ruoli, complementari, nei confronti del museo. Se la museografia è definita come sistema di indicazioni di funzionamento, come analisi di situazioni pratiche e proposta di soluzioni, la museologia si colloca invece al centro di un processo conoscitivo e di una spinta progettuale. In questo passaggio sembra prendere forma uno dei lasciti principali del terzo contributo delle prolusioni, cioè la comprensione che la museologia, in particolare dal secondo dopoguerra, nasce dal museo e non viceversa, qualificandosi come la risposta a un nuovo rapporto del museo col pubblico e con la società.
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Il testo che conclude le prolusioni, Restauro di Alessandro Conti, al di là degli aspetti storici che pervadono il volume, si addentra in un altro tipo di considerazioni, forse proprio grazie allo scenario offerto da una disciplina che – pur dibattuta e teorizzata in profondità – ha un carattere estremamente pratico, sia in termini tecnico-scientifici sia in termini di fruizione e accoglienza da parte del pubblico, più o meno informato. Le questioni teoriche si intrecciano nel testo, a immagine di quanto avviene nella realtà, con gli aspetti più tecnici, attraverso l’enunciazione delle principali operazioni di restauro e facendo riferimento a esempi realizzati, più o meno riusciti. Quella che emerge è una valutazione dei singoli interventi di restauro e degli approcci più generali che, pur emergendo dalle considerazioni dell’autore, incontra la riflessione del lettore offrendogli la possibilità, sulla base della propria preparazione, di esprimersi con autonomia o di mettere le basi per la costruzione di un pensiero personale. Se è vero che le prolusioni sono destinate a fornire al lettore gli strumenti per affrontare i termini del dizionario – le prime due più legate alla concezione e allo sviluppo di una disciplina, la terza e la quarta più inerenti agli aspetti applicativi – è anche vero che esse aprono un vaso di Pandora sulla ricerca e sull’approfondimento di ciò che rientra nell’universo «Arte». Termini apparentemente semplici sono ora rivestiti di fascino e autorevolezza, depositari dei significati e delle riflessioni presentati nelle prolusioni. Come a riprodurre la natura più marcatamente teorica dei testi dedicati alla critica e all’iconografiaiconologia, sono riportate ancora una volta le definizioni delle relative
parole chiave, insieme ad alcune specificazioni. Alla voce critica d’arte è unita quella di storia del l’arte e si aggiungono quelle dei concetti-guida espressione e imitazione; a quella di iconografia si affianca iconografia del museo, mentre iconologia è accompagnata da storia della iconologia. Per quanto riguarda, invece, il terzo e il quarto testo delle prolusioni, i temi legati alla museologia e al restauro sembrano esprimersi in forma più indiretta, demandandone l’approfondimento un po’ all’interesse di chi legge, che deve cercarne le relative definizioni attraverso l’uso di altre voci, un po’ all’effettiva presenza nel dizionario di una terminologia a essi affine. Sono infatti assenti le voci museologia e museografia, mentre quella di museo è aggregata a collezionismo o presente in evoluzione del museo e in didattica e museo. Amplissimo respiro viene conferito alle diverse categorie di musei, ben dieci; queste sono certamente rivolte all’approfondimento delle possibili origini di una collezione (musei civici o diocesani) e del diverso contenuto (musei archeologici, di storia naturale, del gioiello), ma sono soprattutto un’occasione per offrire una serie di esempi che ne riflettono i caratteri fondanti e gli obiettivi; lo stesso avviene nel caso dei nuovi musei, anche attraverso un’apposita sezione fotografica. In ugual modo è assente la voce restauro, esplicitata attraverso un repertorio delle operazioni e tecniche (foderatura, integrazione delle lacune, ma anche segretezza e selettività) messe in atto dal restauratore (altra voce presente) e dei materiali con cui si interfaccia (olio, tempera, vernice). Complessivamente è possibile affermare che nonostante molti lem-
mi potrebbero essere ascritti principalmente a una (o due) delle quattro discipline chiave riportate sulla copertina e nel titolo del volume, la sezione di dizionario, opportunamente introdotta dalle prolusioni, è in grado di mettere in luce la trasversalità di tali ambiti nei confronti dell’arte, evidenziando le relazioni reciproche tra i vari termini. Oltre ai rimandi presenti all’interno di una stessa voce, nella quale le singole parole approfondite in altre definizioni presenti nel volume vengono richiamate all’attenzione del lettore, non sfugge la presenza di vocaboli come idea, forma e formalismo, semiotica e semiologia che per la loro vastità sono in grado di relazionarsi con molti aspetti e temi dell’arte. Alcune voci sembrano rispondere a interrogativi specifici, fornendo precise spiegazioni e contenuti circa correnti storiche (barocco, gotico, rinascimento), concetti o teorie (Kunstwollen, pura visibilità). Altre ancora, infine, portano l’attenzione su specifici passaggi dell’evoluzione dello studio e della pratica dell’arte (come morte dell’arte, progresso e decadenza delle arti), aprendo riflessioni e interrogativi forse destinati a non esaurirsi con la lettura del dizionario. G. A. L. Longobardi, Lo spazio esistenziale. Definizioni e corollari. Vol. 01, Iemme edizioni, Napoli 2021. Lo spazio esistenziale. Definizioni e corollari. Vol. 01 è il libro d’esordio della critica d’arte e curatrice indipendente Lucrezia Longobardi (Castellammare di Stabia, 1991) pubblicato in doppia lingua, italiano
e inglese, nel settembre 2021 a Napoli da Iemme edizioni con il sostegno della Galleria Nazionale e della Fondazione Morra. Il volume raccoglie testi e immagini organizzati con un sapiente criterio di omogeneità che descrivono il processo critico dell’autrice, formalizzato sia attraverso l’elaborazione dei saggi d’accompagnamento alle mostre curate dalla stessa Longobardi sia mediante la costruzione di un impianto teorico complessivo che vede l’autrice impegnata negli ultimi anni. Lucrezia Longobardi coinvolge inoltre nel suo libro differenti autori, invitati a commentare e ad approfondire tematiche e ricerche da lei definite nella duplice esperienza teorica ed espositiva. In dettaglio, il volume raccoglie i saggi critici di Andrea Viliani, Ludovico Pratesi e Nicolas Martino, oltre a una conversazione fra Simone Menegoi e l’autrice. Il volume è innanzitutto un catalogo dedicato a tre esposizioni, a cura di Lucrezia Longobardi, realizzate fra Napoli e Roma; nello specifico la mostra dal titolo Definizione #1 realizzata nel 2017 dalla Fondazione Morra in uno storico palazzo in Corso Vittorio Emanuele a Napoli, dove sono esposte le opere di Renata Lucas, Luca Patella, Gregor Schneider, Ettore Scola, Gian Maria Tosatti e Francesca Woodman; la mostra Definizione #2 presso Casa Morra, Napoli, del 2019, nella quale sono presentati i lavori di Berlinde de Bruyckere, Roberto Cuoghi, Helene Fauquet, Flavio Favelli, Luigi Ghirri, Liz Magor, Vettor Pisani, Rachel Whiteread e infine la mostra Notturno con figura. Primo corollario sulla vibrazione realizzata nel 2020 alla Galleria nazionale d’arte Moderna e Contemporanea di Roma con i lavori di Carlo e Fabio Ingrassia e di Eugenio Tibaldi.
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Il volume Lo spazio esistenziale. Definizioni e corollari si apre con un saggio intitolato Per una curatela performativa nel quale l’autrice, oltre a offrire delle coordinate utili alla lettura delle pagine successive introducendo alcuni riferimenti al l’analisi delle mostre da lei curate, fa una dichiarazione d’intenti molto lucida riguardo il suo modo di affrontare l’attività di curatore di mostre. Lucrezia Longobardi innanzitutto circoscrive alla sfera dell’esistenza (e dell’esistenzialismo) il campo entro cui ha origine e luogo la sua pratica curatoriale, quest’ultima tesa alla ricerca artistica contemporanea, definendola “performativa” sia in riferimento a un tipo di curatela militante sia soprattutto nella costruzione di una dimensione processuale nella quale l’attività professionale si mescola con la vita privata, con una compenetrazione vicendevole. La Longobardi parla infatti di ricerca sperimentale, di un approccio profondamente umano e viscerale rispetto al dispositivo mostra (p. 9), che sapientemente riesce a incanalare in un discorso critico e filosofico dalle origini saldamente ancorate nella storia dell’arte, pur operando con slancio personale e originale rispetto a metodologie di critica d’arte che a tutt’oggi appaiono dissolte. Il saggio rappresenta un incipit fondamentale nella definizione dell’orizzonte teorico nel quale si muove la giovane critica e curatrice, oltre che essere un testo indicale di un tipo di scrittura che costantemente fonde esperienze e sensazioni personali con rimandi e tangenze storiche, artistiche e filosofiche, così come sarà per tutti i testi a seguire. Il secondo saggio presente nel libro è affidato ad Andrea Viliani ed è intitolato Performare la curatela. La
ricerca di Lucrezia Longobardi. È lo stesso Viliani che in queste pagine fa risalire la pratica intrapresa dalla Longobardi a tecniche curatoriali pregresse dal grande valore speculativo, trovando un corrispettivo fra la prospettiva intima e diretta proposta dalla curatrice napoletana e le esperienze di curatori come Harald Szeemann, Jan Hoet, Achille Bonito Oliva e Hans Ulrich Obrist. Fra le puntuali proposte interpretative e gli approfondimenti offerti dal saggio di Viliani, l’autore sottolinea quanto nell’attività curatoriale della Longobardi, definita appunto performativa, emerga una prospettiva marcatamente artistica in grado di offrire alla pratica curatoriale una sempre maggiore implicazione personale (p. 30). Nella sua veste di catalogo, il volume offre un’interessante visione d’insieme rispetto alle tre mostre collettive realizzate in spazi e tempi differenti che l’autrice riesce a collegare sapientemente proprio grazie alla costruzione di un discorso critico-filosofico laddove la pratica curatoriale fa da eco alla scrittura teorica. La sezione nel volume dedicata all’esposizione napoletana Definizione #1 del 2017 si apre con un testo critico intitolato Sulla dimensione dello Spazio esistenziale I nel quale si chiarisce, sin dalle prime battute, la pertinenza degli intenti dell’autrice con lo sviluppo della teoria esistenzialista di Martin Heidegger nel riferimento che il filosofo tedesco fa circa la relazione fra abitare, essere e percezione del sé. In questo saggio la Longobardi, come in definitiva sottolinea anche in altri scritti nel volume, lascia emergere un’urgenza personale, un’esigenza che la curatrice costruisce ancor prima dell’azione espositiva da offrire al pubblico; ovvero quella
di legare tracce della sua intimità domestica e quotidiana sia allo spazio-mostra sia all’oggetto-opera. In questo modo, il percorso espositivo proposto si teorizza e si formalizza attraverso la creazione di una profonda relazione esistenziale fra chi cura e cosa viene esposto. Il testo è infatti un continuo rimbalzo fra la descrizione di memorie personali, come la pratica dell’autrice di collezionare oggetti familiari, e l’analisi filologica delle opere in mostra, queste ultime descritte come fossero dei déjà vu o feticci memoriali, frammenti di un universo domestico che la rappresentano in pieno. Il testo, così come viene elaborato dalla Longobardi, si sovrascrive in definitiva alla scrittura espositiva, creando significati altri e stratificati, ben oltre la creazione di una mostra sitespecific. Unitamente a un’accurata raccolta di immagini d’insieme e di dettaglio della mostra, la sezione del volume dedicata a Definizione #1 si completa con un testo di Ludovico Pratesi dal titolo Casa Occupata in cui l’autore pone l’attenzione sia sull’esperienza totale e totalizzante proposta in mostra, sottolineandone un’aderenza contenutistica e formale fra habitat e habitus, sia il suo aspetto perturbante generato dalla capacità dell’impianto espositivo elaborato dalla Longobardi di rendere estraneo ciò che comunemente, come la casa, risulta a noi familiare. Sulla dimensione dello Spazio Esistenziale II è invece il saggio critico proposto dall’autrice come inizio della sezione nel volume dedicata alla seconda mostra, Definizione #2 realizzata in uno spazio, chiuso abitualmente al pubblico, all’interno del palazzo che ospita Casa Morra a Napoli. L’autrice attraverso una costante identificazione della propria condizione esistenziale con l’a-
zione curatoriale (la Longobardi ha effettivamente vissuto nello spazio per tutta la durata della mostra e dormito durante l’opening), approfondisce la nozione di tempo e di temporalità definendo il concetto di un “terzo tempo” scandito e generato dall’esistenza stessa di ciascuno di noi e connesso allo spazio vissuto e percorso (Minkowski-Heidegger). Lucrezia Longobardi descrive, fra l’altro, il suo secondo progetto espositivo come un dispositivo, una sorta di laboratorio di sperimentazione, di palestra o, per assurdo, una sala prove (p. 75). Tali connotazioni pongono le opere, lo spazio, il pubblico e la stessa curatrice in una condizione perenne di allenamento, di sforzo vitale e di sfida reciproca. È probabilmente la volontà di rendere manifesto qualsiasi processo esperienziale scaturito dalle sue mostre che spinge l’autrice a integrare la sezione dedicata all’approfondimento della mostra del 2019 con la pubblicazione di un botta e risposta via e-mail intercorso fra Simone Menegoi e la Longobardi, nel quale si intrecciano informali racconti personali con pareri dissimili circa le azioni curatoriali reciprocamente intraprese. Alla terza mostra Notturno con figura. Primo corollario sulla vibrazione realizzata nel 2020 alla Galleria Nazionale è dedicata un’ampia sezione di saggi suddivisi per capitoli dal titolo Lo spazio della vibrazione. In ciascuno di tali capitoli, l’autrice mette a sistema una serie di dialoghi simbolici fra le produzioni di artisti visivi, come Tracey Enim, di scrittori, come Sara Kane e Antonin Artaud, di registi e coreografi, come Pippo del Bono e Pina Bausch, al fine di giungere a una ricca e interessante visione multidisciplinare rispetto all’interpretazione del tema
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della “vibrazione”, da intendersi come moto involontario responsabile di qualsiasi slancio vitale e come tensione esistenziale che anima la sensibilità di uomini e donne illuminate. Fa seguito a questo ulteriore approfondimento critico e metodologico l’elaborazione del testo dedicato alla mostra romana dal titolo Notturno con figura, nel quale l’autrice ci offre una scrittura che non smette mai di muoversi fra esperienza sensibile e intuizioni teoriche. Lucrezia Longobardi ci descrive in queste pagine le fasi di gestazione della mostra, gli scambi d’opinione con gli artisti, la trasformazione della materia e della forma delle opere a partire non solo dallo spazio del Museo ma anche da un dialogo “d’esistenza” fra la curatrice e gli artisti. La sezione dedicata alla mostra si chiude con un lucido saggio di Nicolas Martino che approfondisce gli intenti già descritti nella teoria e nella pratica dalla Longobardi. Come ogni catalogo che si rispetti, anche questo volume è arricchito da un ampio repertorio fotografico documentativo delle mostre (interessante è il collage fotografico che descrive per intero l’opera di Eugenio Tibaldi su pagine a fisarmonica) alle quali si avvicendano, quasi clandestinamente, delle immagini sfocate e vibranti, come quelle di Francesca Woodman, scattate dalla Longobardi. C. P. G. Neri, Vico Magistretti, Architetto milanese, Electa-Triennale Milano, Milano 2021.
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A cento (e uno) anni dalla nascita di Ludovico (“Vico”) Magistretti, la Triennale celebra con una mostra
dall’11 maggio al 12 settembre 2021 la figura dell’architetto e designer milanese, sinora piuttosto trascurato dalla storiografia dell’architettura. La retrospettiva, a cura di Gabriele Neri, è realizzata in collaborazione con la Fondazione Vico Magistretti con l’allestimento di Lorenzo Bini (Studio BINOCLE) e ha come principale partner Cassina, azienda con cui il Nostro realizzò alcuni dei suoi progetti più famosi. Così il Palazzo dell’Arte, sede storica della Triennale, diviene ancora una volta palcoscenico della sua opera, indissolubilmente legata alla rassegna milanese. È qui infatti che egli muove i primi passi e sperimenta, tra gli anni del dopoguerra e quelli del boom economico, soluzioni abitative in linea con gli eventi che definiscono la storia del Paese e i relativi cambiamenti sociali. Nel volume connesso alla mostra, curato anch’esso da Neri e realizzato su progetto grafico dello studio Norm, si racconta di come i contributi di Magistretti alle diverse Triennali a cui prende parte siano di molteplice natura: dalla grafica all’arredo, dall’allestimento alla progettazione alla scala architettonica e urbana. La Triennale diviene dunque per lui occasione di crescita e confronto con il panorama internazionale e al tempo stesso è una vetrina che mette in luce le sue capacità progettuali in risposta alle questioni sociali del suo tempo. Tuttavia, la mostra (e di conseguenza il catalogo) per la prima volta espone l’opera di Magistretti nella sua totalità, mettendo in relazione e a confronto l’architetto e il designer: in questo modo i progetti dialogano e ammiccano l’uno all’altro, acquistano ulteriori significati e amplificano le prospettive di lettura e interpretazione dell’intera produzione progettuale.
In tal senso il volume contiene contributi di ventiquattro autori, tra cui le testimonianze di chi lo ha conosciuto che evidenziano semplicità, eleganza e genio del progettista milanese e che raccontano non solo del suo lato professionale, ma anche dell’uomo che fu Vico Magistretti, offrendo così l’occasione di approfondire alcune sfumature della sua sensibilità. In particolare, Lorenza Baroncelli riporta un’intervista fatta a Margherita Pellino, nipote dell’architetto-designer, che lo descrive come un nonno molto affettuoso che amava parlare del suo lavoro. Egli arredava i propri spazi con gli oggetti che disegnava personalmente, affermando: se faccio una cosa che in casa mia non voglio mettere, molto probabilmente è qualcosa che non mi convince o non funziona. Il mio design è essenzialmente autobiografico. Il catalogo dell’esposizione mette poi in risalto l’apertura internazionale del progettista, in particolare nei confronti dell’Inghilterra, del Giappone e dei Paesi del Nord Europa. Proprio a Londra, infatti, ottiene nel 1979 l’incarico di visiting professor al Royal College of Art (RCA), di cui diventerà membro onorario nel 1986. Dall’esperienza londinese, particolarmente feconda, nascono molti dei suoi progetti iconici, come la sedia Carimate, icona della Swinging London e presente nella casa della stilista Mary Quant inventrice della minigonna, o la serie Broomstick: si tratta di arredi pieghevoli, smontabili e trasportabili realizzati con semplici manici di scopa e ipotizzati per arredare l’appartamento londinese del designer. L’influenza giapponese, poi, è evidente sia in alcuni arredi che nei progetti architettonici, caratterizzati dalla semplicità ed essenzialità tipiche del costume
nipponico. Cruciale, infine, l’influenza del design e dell’architettura scandinava, identificabile soprattutto nella figura di Alvar Aalto, cui Magistretti guarda e da cui assorbe la delicatezza delle forme e la ricerca sul compensato curvato: è da questa influenza e ammirazione per i paesi scandinavi che nascono progetti come il tavolo Blossom e la sedia Cirene 03. Tuttavia, nonostante il respiro internazionale che caratterizza il Nostro, il contesto in cui egli vive e opera è centrale nella sua produzione e non si può scindere la sua figura dalla città di Milano: Magistretti è Milano, e Milano è Magistretti, come afferma Joseph Grima nel suo contributo all’interno del volume connesso alla mostra. Il cosiddetto Rosso Vico, colore utilizzato nei suoi schizzi di studio oltre che scelto per la produzione dei suoi progetti più iconici, è un chiaro rimando al mattone che caratterizza l’edilizia milanese. Il catalogo sottolinea, inoltre, la capacità di Magistretti di sperimentare e ricercare forme e materiali in linea con il proprio tempo: gli anni ’50, infatti, rappresentano un momento di grandi cambiamenti sociali ed economici che sono accompagnati da un rinnovamento anche nella produzione degli arredi. Si diffondono così oggetti d’uso quotidiano in plastica, materiale che consente di sperimentare nuove forme più morbide ma ugualmente riproducibili secondo le logiche industriali. È all’interno di questo scenario che nascono progetti come la lampada Chimera o la sedia Gaudì, caratterizzate da una sezione sinusoidale che ne garantisce la stabilità e al tempo stesso limita l’impiego di materiale. L’attenzione del progettista milanese ai principi della produzione di
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massa è chiara ed evidente nelle sue proposte architettoniche, con il frequente impiego di elementi prefabbricati (come accade per esempio nella Facoltà di Biologia dell’Università degli Studi di Milano), ma soprattutto nei progetti di design: essi sono infatti il risultato di un fecondo dialogo tra progettisti e imprenditori illuminati, come afferma Stefano Boeri, presidente della Triennale del 2021. Durante la sua carriera, dunque, Magistretti collabora con aziende come Cassina, Artemide, Kartell, De Padova, grazie alle quali riesce con le sue invenzioni a cambiare la quotidianità e ad educare al gusto la collettività. Emblematico è il caso della lampada Eclisse, in collaborazione con Artemide, che vincerà nel 1967 il compasso d’oro, rafforzando così la fama internazionale del designer. L’allestimento della mostra, raccontato dallo stesso Lorenzo Bini nel catalogo, riduce, semplifica e cristallizza le infinite traiettorie rese teoricamente e metaforicamente possibili dalla dimensione digitale dell’opera catalogata e le costringe in uno spazio fisico definito e limitato. La mostra si svolge in un unico spazio rettangolare, il cui ingresso è denunciato dalla presenza di una grande cappa (ingrandimento di un dettaglio progettuale del designer) che filtra il passaggio al microcosmo di Magistretti, caratterizzato dal colore rosso, tipico della sua produzione. Il supporto espositivo è rappresentato da una griglia modulare di un unico materiale che raggiunge altezze variabili: al centro dello spazio essa si configura come un enorme piano, mentre ai lati diventa uno scaffale che contiene gli oggetti esposti alludendo ad un luogo dove lavorare, progettare, pensare, stare e quindi anche abi-
tare. I materiali in mostra sono frutto di un’accurata selezione dall’archivio che la Fondazione Studio Museo Vico Magistretti mette a disposizione online, fornendo a chiunque la possibilità di indagare e approfondire lo studio della produzione progettuale dell’architetto-designer milanese. Rosanna Pavoni, direttrice della Fondazione, racconta infatti nel volume l’iter che ha portato alla sistemazione e digitalizzazione dell’archivio, descrivendo come si sia operato al fine di mantenere e mettere in luce le relazioni interne ai progetti per prodotti e architetture perché legati da uno stesso approccio metodologico. Infatti, è la ricostruzione delle relazioni tra documenti che permette di comprendere un progetto, relazioni che spesso sono più importanti del singolo documento. In definitiva, in occasione di questa retrospettiva finemente curata da Neri, possiamo certamente confermare ancora una volta come Vico Magistretti, con la sua eleganza accompagnata da una personalità dirompente e carismatica, sia riuscito ad affermarsi nel panorama internazionale senza mai rinunciare alla semplicità che, come egli stesso afferma, è la cosa più complicata del mondo. P. B. C. Olmo, Progetto e racconto. L’architettura e le sue storie, Donzelli editore, Roma 2020. Progetto e racconto completa un corpus di cinque scritti di Carlo Olmo che vanno da Architettura e Novecento fino a Città e democrazia, passando per Architettura e Storia e La Villa Savoye. Icona, rovina, re-
stauro (1948-1968) scritto con Susanna Caccia, tutti editi da Donzelli, in una lodevole continuità di cura ai contenuti e alla ricerca che rende onore alla casa editrice romana. Il libro, avverte l’autore stesso nell’Introduzione, non è di facile lettura, e richiede una costanza e un’attenzione non usuali al giorno d’oggi, caratterizzandosi per una forte densità e un inestricabile rapporto fra testo e apparato delle note, quasi un controtesto che basterebbe da solo a tratteggiare un intero cosmo di riferimenti e nel contempo la loro messa in discussione. A ciò si aggiunga uno stile rizomatico evidenziato anche da altri recensori. Uno stile di scrittura che, se da un lato rende meno agevole la lettura, dall’altro evita almeno due modalità di ricezione con cui si manifesta il presentismo cui accenna sovente l’autore, ossia l’immediatezza e la semplificazione. Il lettore, dunque, diviene inevitabilmente partecipe del testo, e alla sua conoscenza e intelligenza sono affidate possibilità altre di lettura e connessione tematica. Una scelta compositiva che, in considerazione degli argomenti trattati, risulta molto più utile e funzionale al fine di porre le basi di un ragionamento che si apra a un dibattito, evitando alla trattazione una breve vita che cominci e finisca con l’apertura e la chiusura del volume. Si può anche cogliere, e il sottotitolo L’architettura e le sue storie pare confermarlo, un rimando al Talmud, peraltro spesso richiamato nel testo come exemplum, componendosi l’opera di storie che, come nel testo ebraico, si intrecciano ad altre storie, ne generano e contengono altre, richiedendo a loro volta una continua ermeneutica delle parole e dei temi per una corretta decifrazione del presente. Questa appa-
rente mise en abîme non è però un gioco fine a se stesso, ma riesce a offrire il panorama più ampio di temi, parole, fatti e della crisi che, falsa unità poliforme, attraversa la contemporaneità, tanto nel profondo da non consentire nemmeno un’affidabile e sintetica definizione della stessa. Olmo organizza il saggio in due sezioni principali: nella prima si evidenziano e si correlano in fluide associazioni storico-interpretative le tematiche cardine che costituiscono e hanno costituito il lavoro storiografico e critico in ambito architettonico, ma non solo, in special modo dalla fine dell’Ottocento a oggi; nella seconda si procede ad analizzare quattro grandi temi, raccolti sotto il titolo Metamorfosi, conferendo alla trattazione un carattere prevalentemente esemplificativo che risulta più facilmente fruibile e offre al lettore chiavi di interpretazione legate a esempi noti: le Esposizioni Universali e Internazionali, l’opera storiografica di Nikolaus Pevsner, Pier Luigi Nervi, l’esplosione di mura e muri. L’indagine sulla scrittura delle storie dell’architettura moderna pone molte questioni e richiede una revisione profonda dell’approccio storiografico. Non solo perché sembrano essere state dimenticate le diverse stagioni durante le quali si costruisce e si ricostruisce questa storia straordinaria, ma perché ogni passo di quella storiografia richiede, forse, una contestualizzazione più attenta, a iniziare dal suo nascere in esilio. Nikolaus Pevsner, Sigfried Giedion e Bruno Zevi, sono i tre autori più influenti della storiografia architettonica novecentesca con i quali prende l’avvio il saggio. La loro attività e il venir meno delle condizio-
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ni per affrontarla nella guisa a loro tipica sono il punto d’inizio di un’analisi dell’attualità che si fa notare soprattutto per le proprie criticità; criticità che nella prima sezione dell’opera trovano modo di essere puntualmente analizzate e poste in connessione reciproca. Il contesto culturale, la congiuntura storica forse irripetibile, i mezzi di comunicazione più vari (radio, televisione, riviste specialistiche e non) cui tali maestri ricorrevano per divulgare e per riaffermare la propria condizione di intellettuali, unitamente alla caduta delle ideologie, spiegano in parte il cambiamento di paradigma del ruolo dello storico d’architettura. A finire è la stagione dell’intellettuale che prevale sullo storico e sull’architetto. E ciò accade anche perché la modernità era e rimane un’esperienza di secolarizzazione. Oppure di un recupero della narrazione che descrive e naturalizza le opere, mentre rilancia la figura dell’autore unico, e isola l’architettura dalla città: la modernità si istituisce proprio su narrazioni che sono autentiche produzioni di iconolatrie! Se la complessità, intrinseca alla disciplina architettonica, viene meno, cade di conseguenza il fatto stesso architettonico, con evidenti conseguenze per chi dovrebbe occuparsi della storia di tale disciplina. La secolarizzazione; la progressiva specializzazione disciplinare che, ben affrontata nel saggio di Diego Marconi Il mestiere di pensare (Einaudi, 2014), porta a porsi la domanda essenziale circa il significato stesso del pensare; la naturalizzazione delle fonti; la perdita del rapporto fra argomentazione e prova, parola quasi scomparsa nella letteratura più recente sulla storiografia del moderno, a fronte di
un quasi abuso di un’altra parola, dilagante nella lingua degli storici dell’architettura contemporanea, «narrazione»; l’individualizzazione del progetto ascrivibile a figure, o meglio icone, presumibilmente dotate di un genio che le astrae dal reale e dalle necessità contingenti; il dominio di norme e protocolli; la semplificazione della complessità invero necessaria e costitutiva del fare architettura, e quindi della storia del fatto architettonico: tutto ciò concorre a render arduo il ruolo di storico. A ciò si aggiunga la perdita del concetto di memoria collettiva, a favore di un presentismo già citato in precedenza che viene sovrapposto e scambiato per presente. La visione sincronica dell’architettura porta a smarrire la complessità che la dovrebbe caratterizzare, a tutto vantaggio di una trasformazione della stessa in oggetto di marketing, di collezionismo (Boltanski), perdendo il legame essenziale fra pratica e rappresentazione collettiva, lasciando campo aperto alle soggettività imperanti. Ne conseguono due strade: la perdita del progetto soprattutto nel suo senso di negoziato e quella di intellettuale come professione sulla scia di Weber. E in particolare su questo punto l’autore tiene a precisare come la sua posizione si distingua da quella altrove espressa, su tutti da Marco Biraghi nel recente L’architetto come intellettuale (Einaudi, 2019). Nella concezione propugnata da Carlo Olmo, ad esempio in Architettura e Novecento, l’essere intellettuali implica una serie di doveri da rispettare […] e di privilegi di cui usufruire, nell’altra invece la natura intellettuale del lavoro di architetto non appare una conquista […] ma una condizione quasi preliminare. Alla base, la rinuncia al ruolo di intellettuale come
professione, stante anche la fondamentale meditazione di Bauman sulla dimensione ormai solo ermeneutica degli intellettuali, nella migliore delle ipotesi, contro una loro precedente funzione “legislativa”, declina in una accettazione di un mestiere di pensare che sia legittimato solo da protocolli e riscritture di quello che, per paradosso, si potrebbe chiamare un nuovo, melanconico, infinito Talmud solo e forzatamente ermeneutico della storia di una delle avventure umane in realtà più contraddittorie e affascinanti, ricche di anacronismi, di copie, di trasgressioni. L’architettura. La seconda sezione del libro presenta quattro temi che esemplificano le principali analisi della prima. Le Esposizioni Universali e Internazionali riassumono nella propria storia problematiche relative alla loro stessa narrazione da parte degli storici, i quali devono confrontarsi, per descriverle, con il contesto che in esse si riassume. Ma nelle Esposizioni assistiamo anche alla spettacolarizzazione dell’architettura, alla trasformazione del mercato in collezionismo, al fondarsi e svilupparsi della gestione del lavoro e del concetto di budget, al rapporto con un potere oligarchico che definisce l’indirizzo e gli effetti degli eventi sia sulla comunità che sulle città ospitanti, con trasformazioni urbanistiche di lunga durata, determinate da avvenimenti effimeri. In fondo le Esposizioni sono un po’ il Talmud della contemporaneità, molto più di internet: scrivono e riscrivono la stessa trama, intrecciano testualità e metafora non scostandosi dal tema centrale: l’ermeneutica delle parole chiave. L’attività di Nikolaus Pevsner e più precisamente la genesi e il con-
tenuto della sua opera più emblematica, An outline of European Architecture, consente di trattare un metodo storiografico che, in modo esemplare, definisce non solo il tema, ma anche la scansione temporale e i confini geografici dell’area presa in esame, in questo caso l’Europa, in un atto di microfisica del potere ante litteram. L’architettura non come monumenti e memorie, ma come educazione a non staccare forme e norme, e come storia che rifiuta l’identità in favore di un écart, come scrive François Jullien, di un continuo rielaborare lo scarto che consente di non cadere nel rischio più grande, oggi quanto mai evidente, e di cui, ancora una volta, l’architettura è il veicolo più esplicito: l’omologazione. Pier Luigi Nervi, novello capitano Achab come lo definisce Olmo, è figura emblematica del Novecento. In qualche modo autore della propria stessa biografia, Nervi è attentissimo a lasciare traccia e a creare un’immagine di intellettuale prima che di ingegnere. Tentativo che avrà successo, se pensiamo, ci ricorda l’autore, che lui solo in Italia, oltre a Calvino, venne chiamato a tenere le famose Norton Lectures ad Harvard. La figura di Pier Luigi Nervi rimane sostanzialmente incomprensibile se non si ha presente la discussione che si sviluppa, proprio a partire dagli anni trenta e da Gödel, su undecidability e randomness. Nervi vive e lavora in un contesto culturale e sociale dalle ambizioni ben più ampie di quelle della scienza e della tecnica delle costruzioni. Infine le mura e i muri, la cui distinzione non è di poco conto, costituiscono il tema attraverso cui si esemplificano il rapporto con la tec-
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nologia, o meglio con la tecnica, la crisi del potere, il fascino della retorica della città, che di volta in volta cambia la propria narrazione, per arrivare tra gli ultimi alla narrazione della smart city. L’esito infausto di questi sviluppi sono le gated communities, vere e proprie nuove mura medievali, oggi più o meno tecnologiche o digitali. Si riconoscono come base filosofica di queste comunità il presentismo e tre forme di memoria, le memorie empêchées, ma nipulées, abusivement comman dées, con cui lo storico deve rapportarsi per poter effettivamente scrivere una storia del presente. Un genere di storia che non esiste, al momento. L’assenza di questa storia spiega forse, almeno in parte, il ruolo sempre più marginale che la storia dell’architettura ha nella società e nelle scuole, quando non rincorre favole precostituite e, contemporaneamente, la quasi scomparsa del pensiero critico proprio quando, mai come oggi, si costruiscono architetture che sono simulacri, copie, icone svuotate da una circolarità delle immagini e dei modelli morfologici che fanno sorridere, se si pensa alla damnatio memoriae subita dall’International Style negli anni cinquanta e sessanta del Novecento! Se lo storico dell’architettura, ma in generale lo storico, ha ancora una possibilità non solo di esistere ma di agire nella società, forse è solo recuperando la dimensione di esercizio spirituale del suo lavoro, perché non si può fare la storia (non solo della filosofia antica di cui parla Pierre Hadot) senza «condividere» i testi che si esaminano. Seppur con la consapevolezza della complessità e della, apparentemente inevitabile, specializzazione frammentaria del sapere che rende
ardua la presenza di figure che riescano a elaborare un pensiero sintetico e quanto più vasto possibile, non può venir meno la volontà di comprendere le relazioni fra le parole e le cose, la interrelazione fra i temi e la loro crisi, fra storia, memoria ed esegesi. E a questo orizzonte di intenzioni va ascritto questo saggio di Carlo Olmo. F. T. C. de Seta, Sulle strade delle lettere e delle arti, Neri Pozza, Vicenza 2020. Libro-miscellanea, come altri pubblicati da de Seta ricomponendo in mosaico le tante tessere costituite dagli interventi su libri, giornali e riviste. Tra i più noti, Città. Territorio e Mezzogiorno in Italia del 1976 e Bella Italia. Patrimonio e paesaggio tra mali e rimedi del 2007. Scritti di problemi. Ora, trentaquattro brevi e meno brevi ritratti di fruttuosi incontri con persone, da Henri Focillon che apre l’elenco a Roberto Calasso che lo chiude. Incontri non necessariamente reali, le comunità culturali dialogano più normalmente a distanza con la parola e gli scritti. Come accade in questo caso, anche per ragioni anagrafiche, con Roberto Longhi, Lionello Venturi, Bernard Berenson e pochi altri mai conosciuti di persona da de Seta. I luoghi di origine degli scritti sono il Corriere della Sera, la Repubblica, L’Indice, Ars, Nuova informazione bibliografica, Revue de l’Art e altre riviste specialistiche. Lavoro sui testi di partenza ridotto al minimo indispensabile, con l’eliminazione dei refusi e l’aggiunta di citazioni tagliate per motivi redazionali. Prima di entrare nel merito del libro, è op-
portuna una considerazione su questo genere di pubblicazioni. C’è una preclusione o, quanto meno, un atteggiamento di sufficienza della critica nei confronti di questo tipo di editoria giudicata una semplice selezione di scritti già pubblicati che nulla aggiunge in termini di conoscenza. Valutazione sommaria per almeno due, tre buoni motivi. Intanto, uno studioso preoccupato di conservare il credito scientifico che gli viene riconosciuto non si inoltra su strade sconnesse ove rischia meritate stroncature. Simmetricamente, un’accreditata casa editrice non si presta a operazioni del genere laddove risultassero mere e disarticolate ristampe di cose già pubblicate. Poi, se un autore avverte l’utilità di procedere a una raccolta di propri scritti su un tema, non la pensa mai come mera ristampa ma costruisce una tesi, un nuovo contesto, una nuova tassonomia entro cui ricollocarli. Altro motivo sostenibile: alcuni scritti sono stati pubblicati in un passato prossimo o più remoto su giornali, riviste e libri poco noti o di difficile reperimento; la decisione di ripubblicarli, li riporta all’attenzione della critica, degli studiosi o dei semplici lettori conferendo alla raccolta qualcosa o molto di più rispetto al valore comunicativo dei singoli articoli o saggi. Dunque, non sono giustificati preclusioni o atteggiamenti di sufficienza per questo tipo di editoria. Ovviamente, per librimiscellanea riusciti. La parola all’A. per la rituale dichiarazione di intenti ospitata nella Introduzione. I testi qui raccolti hanno una comune particolarità: non hanno pretese accademiche, non vogliono offrirsi come un’ambiziosa sintesi organica su un tema di proporzioni più o meno ampie, piuttosto vogliono essere solo un
punto di riferimento – parziale e discutibile, ma con una sua sistematicità – su autori e argomenti che nel corso del tempo mi hanno preso per un motivo o per l’altro. E naturalmente sono dettati dal l’aquilone della politica editoriale. L’aquilone della politica editoriale è un’espressione che appartiene a Virginia Woolf. L’ha scritta nel 1939 per dire che il recensore è un’altra cosa dal critico, e la sua presenza è legata all’aquilone della politica editoriale, lo stesso che ha dettato a de Seta la selezione dei testi. Ci sarebbe molto da ragionare su questa distinzione che il quarto di copertina riprende e ribadisce, scrivendo che le ampie sintesi organiche del critico sono fuori luogo quando si tratta di esprimere uno stringato, per quanto motivato, giudizio su un autore o su un’opera che il citato aquilone pone di volta in volta al centro dell’attenzione. L’assenza di sistematicità, persino la palese parzialità del punto di vista concedono però altre opportunità: la chiarezza dell’esposizione, la necessaria considerazione dell’attualità dell’opera e della figura del l’autore, l’immediatezza del giudizio critico. Giustificazione plausibile, se posta in questi termini e riferita a un autore che, come nel caso in esame, selezioni i propri materiali per una loro nuova riedizione. In tutti gli altri casi, la politica editoriale non pone ma impone i suoi prodotti, sicché critico e recensore sono ruoli difficili da distinguere se non a valle della lettura di una recensione. Questo dilemma, per concludere, non è applicabile a «Op. Cit.» e alle sue quasi mille recensioni apparse sulla rivista, tutte redatte da critici e non da recensori (a voler citare ancora una volta Virginia Woolf). Approdati un po’ faticosamente
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al merito – per digressioni accessorie connesse alla natura stessa del libro – diciamo subito che esso, ancor prima che rassegna di persone, è luogo storiografico di idee e in particolare di quelle della storia dell’arte, della critica letteraria, della letteratura. Non sorprenda questa limitazione di genere, che esclude del tutto gli architetti ma non la cultura architettonica che viene ampiamente evocata nelle pagine di molti autori non architetti. Se questi ultimi si chiamano Cesare Brandi o Francis Haskell, sono garanzia di proposizioni critiche di assoluto valore che meritano un numero maggiore di pagine. Per lo storico senese, sono dedicate a scritti su Burri e al Disegno dell’architettura italiana per Einaudi del 1985; per lo storico inglese, a un florilegio di brevi saggi dal mondo classico all’Ottocento. Se si chiamano Antony Blunt, allora si contano anche sessanta pagine rispetto alla media delle sette-otto per autore. Intanto, perché è stato uno dei maggiori storici dell’arte del Novecento; poi perché s’è occupato del Settecento napoletano, del barocco siciliano e di Borromini dando vita con lo stesso de Seta al saggio Architettura e città barocche per Guida nel 1973; infine – e non poteva non essere citato un dato biografico imbarazzante (ma de Seta lo fa con molta discrezione) – per il suo ruolo di spia britannica al servizio dei russi durante l’ultima guerra. Continuando a scorrere l’elenco dei “ritratti”, una singolarità gradita è rappresentata da Lalla Romano, artista e scrittrice che viene inserita nell’antologia perché su di essa si può incentrare il tema della “rifrazione stilistica” tra pittore e poeta che ha avuto una sua alta declinazione in Montale che parla di De Pisis. Ancora altri esempi per indicare
che in questo album di famiglia allargata si ritrovino personaggi stimati, altri per nulla apprezzati, altri ancora non conosciuti realmente. Tra quelli del secondo gruppo, Giovanni Testori e Andrea Camilleri. Al primo che chiama ‘cartellonaccio’ il Guernica di Picasso e grevemente prosegue contro tutta l’arte moderna, de Seta riserva un posto nella tradizione della Vandea e del sanfedismo europeo, chiudendo con Dante per il quale “ognuno è padrone di scegliersi li maggiori sui”. A Camilleri, che ha scritto il romanzo Dentro il labirinto nel quale avanza fantasiose ipotesi sulla morte di Edoardo Persico ignorando artatamente ogni prova contraria, rimprovera d’aver dimenticato l’ammonimento di Croce che per far biografia è necessario aver simpatia per il soggetto. Lionello Venturi, esule a Parigi, concluse così il ricordo di Persico: «È stata una luce la sua… che non è estinta né si estinguerà fino a che alcuno di noi, che ne fu illuminato, saprà conservarla dentro nell’animo». Da questa luce Camilleri non è stato sfiorato, hélas. Vigata è lontana da Girgenti e da Racalmuto. Tra i personaggi stimati, Argan, Brandi, Blunt, Chastel, Longhi, Venturi, Wittkower. Dedicato a Bernard Berenson (Una ‘privacy’ tutta esibita) uno dei ritratti narrativamente più riusciti, anche grazie alla poliedrica personalità del lituano, americano, bostoniano, fiorentino d’adozione e tedesco per vocazione culturale…un gran venditore di sé stesso, del suo personaggio e del suo mito. L’epilogo non può essere che il riconoscimento di “famoso connaisseur” che nella letteratura artistica è un epiteto non dichiaratamente gratificante. Tra gli scritti più partecipi, quelli riferiti a Sergio Romagnoli, Ezio Rai-
mondi e Alberto Vigevani. Nessun architetto tra questi, come si conviene nelle famiglie allargate che includono, in questo caso, eccellenti diversità culturali. Libro di libri recensiti, di idee discusse, di fatti narrati e commentati, di polemiche quasi mai sopite. Storie delle arti e dell’architettura a fare da trama unificante. La famiglia allargata di cui si diceva, quella d’un
intellettuale vivace che ha molto girato il mondo e ben frequentato personaggi e salotti con i quali e dentro i quali gli accadimenti dell’arte e dell’architettura si prolungano in racconti di qualità letteraria. Risultati infrequenti nella nostra tradizione storiografica e per questo da apprezzare maggiormente. P. B.
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Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 1. Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2. Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3. Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4. La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5. I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6. Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7. Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8. Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9. Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre
N. 10. Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12. Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14. La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15. I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16. Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17. Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18. L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19. Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20. Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21. Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre N. 22. Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre
N. 23. La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24. «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25. Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26. La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27. Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28. Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29. Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30. Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31. Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32. L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33. Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34. Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35. Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36. I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre
N. 37. Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38. Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39. La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40. «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41. Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42. L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43. La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44. Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45. Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46. I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47. Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48. Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49. Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50. Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51. Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre N. 52. L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre
N. 53. Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55. Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56. Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57. Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58. E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59. Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60. Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62. Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63. Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64. Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65. Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66. Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67. Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre
N. 68. Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69. Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70. Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71. Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72. Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73. Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74. Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75. Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76. I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77. Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78. L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79. Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80. Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81. Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82. Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83. Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre
N. 84. Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85. Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86. Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87. Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88. L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89. Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90. L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92. Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93. La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94. Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95. Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96. Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97. Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98. Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99. Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre
N. 100. Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre
N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Common Ground - Per il centenario di Jackson Pollock - Design: segni del tempo - Interni d’avanguardia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradig-
ma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania N. 157. Editoriale - Una “ipostasi” della forma-tatuaggio - Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi - Lebenswelt e architettura - Design vs Lebenswelt Libri, riviste e mostre N. 158. Architettura e qualità nell’età dei concorsi - La nostalgia nella cultura digitale - Conformazione e trasformazione degli spazi interni - La ricerca di una definizione di design - Libri, riviste e mostre N. 159. «Corporea» alla Città della scienza di Napoli - Mono-ha nel contesto globale. Poetiche e culture a confronto - Distruzioni e ricostruzioni a Berlino - Il tempo del tipo nello spazio del design - Libri, riviste e mostre N. 160. Il mestiere di architetto: prospettive per il futuro - Téchne e progetto d’architettura - Riflessioni sulla 57ª Biennale di Venezia e Documenta 14 a Kassel - Didattica e design, dal learning by doing al learning by design - La rivista «October»: temi e nuclei teorici - Libri, riviste e mostre N. 161. La metodologia circolare della progettazione in architettura - Aldo Rossi. Topografia urbana - Artisti italiani e realtà sociale nel secondo dopoguerra - La rivista «October»: novità metodologiche e crisi di un paradigma - Il design (morale) dell’ordine - Ernesto Basile. Dall’architettura d’interni all’industrial design - Enzo Mari. Opera, multiplo, serie - Libri, riviste e mostre N. 162. Il BIM. Un parere in evoluzione - Bruno Zevi e lo spazialismo architettonico - Semantiche del sublime architettonico - Brecht nostro contemporaneo - Il dono e l’arte, la festa e la dépense ai tempi di internet - Il “nuovo” nel modello Design-Oriented - Handmade in Italy - Libri, riviste e mostre N. 163. L’architettura è (ancora) un’arte? - Sull’unbelievable: Hirst, il fantasy, la post-verità - La Biennale d’architettura 2018 - Crossing the border: la storia dell’arte nell’epoca della globalità - La teoria in scena: Adolphe Appia - Libri, riviste e mostre N. 164. Architettura e tecnocultura “post” digitale. Verso una storia - Arte di ieri, oggi e forse anche domani - L’arte del XXI secolo - Il Teatro grottesco di Mejerchol’d - Industrialismo e archeologia industriale - Convergenze tra design e bioscienze - Ernesto Basile: dall’architettura d’interni al design Libri, riviste e mostre N. 165. Organic and mechanical - Paesaggi dell’Antropocene - Carlo Ludovico Ragghianti “architetto”. Dal dibattito al museo - Oltre il biomorfismo: l’approccio bioispirato - Libri, riviste e mostre N. 166. Linguistica, semiotica e architettura - Il museo nell’era del web - La poesia scenica di Gordon Craig - Fare, pensare e progettare nel tempo della app economy - Essere designer: ruoli e dinamiche al confine con l’arte - Libri, riviste e mostre
N. 167. Smart Cities - Fenomenologia della nostalgia - Olivetti in Messico: 1949-2002 - Donne e architettura: il Woman’s Pavilion di Chicago - L’opera, l’immagine digitale e il Digital Storytelling 2.0 - Sulle tracce dell’opera d’arte. Video-recording e XXI secolo - Incoming/Outgoing. Flussi trans e multiculturali nel design contemporaneo - Libri, riviste e mostre N. 168. Napoli: architettura internazionale anni ’70 - Telelavoro - Design quotidiano al tempo della vulnerabilità diffusa - L’Opificio Bertozzi & Casoni: estetica, concetto e sapienza fabbrile - Tra il sacro e l’espositivo - Cucinare e consumare: la cucina-casa - Quando i Giganti cadono. Fenomenologia della Memoria - Libri, riviste e mostre N. 169. Chi parla inventa e chi ascolta indovina - Insegnare a distanza: il “progetto della didattica” - La prospettiva anarchica di Giancarlo De Carlo - Contro il parametricismo - Oltre il biomorfismo: il bioispirato e i materiali per lo sviluppo di prodotti resilienti e sostenibili - Antinomie del progetto Moderno - Soglie critiche. Sulla trasformazione come perdita e recupero Tra tradizione e innovazione: gli artisti contemporanei e la ceramica - Libri, riviste e mostre N. 170. L’analogia: l’euristica dell’architettura e del design - La città in quanto software - Sul potenziale della situazione: architettura come infrastruttura - New Media (e) Public Art. Arte oltre l’emergenza - Riflessioni sulla HfG di Ulm, per una storia delle scuole di Design - Pratiche d’immaginazione per decodificare la realtà. Alcuni artisti e opere - Due idee di vuoto: Dino Buzzati e Yves Klein - Il lato buono degli Scandinavi - Bisogni e desideri - Libri, riviste e mostre N. 171. Dall’industrial design all’interaction e social design - Il pensiero come corpo. Per una concezione empatica dell’architettura - Soft skills e consapevolezza identitaria. A che cosa serve l’arte? - Teoria e pratica del dissenso in Giovanni Klaus Koenig - Arte Ricerca Scienza: per una visione palindroma della conoscenza - Sezione visibile e réalisation. La materia delle cose (e il loro linguaggio) - Ambientalismo e Design - Libri, riviste e mostre N. 172. Landmark e patrimonio: architetture tra cronache e storia - Pas de tubes? Corpi moderni e infrastrutture domestiche - Interno parallelo e continuo. Il Manierismo nel Barocco - Pratiche d’immaginazione per decodificare la realtà. Alcuni artisti e opere - La ferrea delicatezza. Il cammino di Muky attraverso arte, poesia e socialità - Libri, riviste e mostre
Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Bernardo Cavallino, 35/g - 80128 Napoli
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