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F. Talevi Historic Waste Landscapes. Una chiave di lettura per la città storica contemporanea

delle conoscenze passate che, per esser passate, devono essersi sottratte alla vista: questo momento è la ritentiva; 2° la possibilità di richiamare, all’occorrenza, la conoscenza passata e di renderla attuale o presente: che è propriamente il ricordo. La psicologia antica ha insistito sull’aspetto per il quale la memoria è conservazione, persistenza di conoscenze acquisite. In modo analogo, l’elencazione che S. Agostino fa dei «miracoli» della M., poggia sullo stesso concetto di essa come ricettacolo delle conoscenze o, secondo la sua espressione, «ventre dell’anima» [Confessioni, X, 14]. Questo è pure il concetto che della M. ebbero i filosofi medievali. S. Tommaso la chiama il tesoro e il posto di conservazione delle specie [S. Th., I, q. 29, a. 7], ripetendo un luogo comune della filosofia medievale. Ciò equivaleva ad insistere sulla M. come ritentiva.

Secondo Plotino, invece, il tempo non esiste fuori dell’anima: è la vita dell’anima e consiste nel movimento per il quale l’anima passa da uno stato a un altro della sua vita [Enneadi, Ili, 7, 11]: sicché anche l’universo si può dire che è nel tempo solo in quanto è nell’anima, cioè nell’anima del mondo [Ibid., Ili, 7, 3].

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S. Agostino riprende e sviluppa con intenso pathos religioso la teoria plotiniana e la trasmette al mondo cristiano: L’anima infatti attende e fa attenzione e ricorda, sicché ciò che essa attende, attraverso ciò cui fa attenzione, passa in ciò che ricorda [Confessioni, X, 14]. La concezione agostiniana, come si vede, rafforza la nostra interpretazione per cui spazio e soprattutto ricordo del tempo costituiscono la tesi dell’unità spazio-temporale ovvero del ricordo.

La questione dell’esempio

Pertinente alle cose sopra discusse è il «problema dell’esempio». Capita spesso che l’emittente ricorra all’esemplificazione del contenuto insito nel messaggio, ritenendo che la forma più ridotta del significante trasmetta più semplicemente il significato del messaggio stesso: in altre parole, il concetto si traduce in un esempio.

Nella maggioranza dei casi l’espediente funziona, anche se l’esempio resta comunque una riduzione. In altri casi, altrettanto frequenti, l’esempio è nocivo alla comunicazione. 25

Nella disputa dialettica l’emittente esprime un concetto e/o un’informazione puntando su una conoscenza da parte del ricevente. Questi al fine di avere ragione tira in ballo ragionamenti non conseguenti alla comunicazione del primo interlocutore. Infatti, il ricevente, utilizzando le nozioni che possiede, ignora volutamente il messaggio e ne ribalta il contenuto. Ne risulta un palese malinteso e la perdita di quella comunicazione diretta. Prudenza vuole che l’emittente abbia argomenti più precisi non recepiti dall’altro interlocutore, il quale confonde il messaggio con argomenti apparentemente adeguati ma di fatto volti ad aver ragione e non a trovare un punto in comune.

La nostra tesi

Manca a nostro avviso, una concezione del tempo – e segnatamente della sua misura – legata alla dimensione della memoria.

La misura del tempo non è soltanto ricavabile in termini tecnici, ma anche in termini psicologici. Paradossalmente, a una persona chiusa ed isolata, il tempo appare monotono e breve; viceversa a una persona libera di muoversi, il tempo e lo spazio risultano meglio ricordabili e appunto misurabili.

Questa misura si può ricavare dalle azioni compiute: una vita monotona, rendendo indifferente un giorno rispetto all’altro, appiattisce il tempo, annulla la storia; viceversa una vita dinamica, variando lo spazio e il tempo, compatta le azioni nella storia. Ad una comunità stanziale, il tempo appare monotono e paradossalmente breve; a una comunità nomade, libera di muoversi, il tempo e lo spazio risultano invece meglio ricordabili e, appunto, misurabili.

Poiché la storia è fatta di ricordi, questi sostanziano il tempo rendendolo parte di una storia; al contrario, laddove mancano le differenti azioni (il fare) e i relativi ricordi, manca la storia.

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Historic Waste Landscapes. Una chiave di lettura per la città storica contemporanea

FRANCESCA TALEVI

Nel marzo del 2020, la pandemia di Covid-19 ha confinato l’urbanità in un tempo sospeso. Le strade si sono fermate, gli spazi pubblici si sono svuotati, le attività commerciali e i ristoranti hanno funzionato a singhiozzi. Per alcuni mesi, la città, nel suo insieme, ha smarrito il suo uso canonico, diventando unicamente rifugio, contenitore, protezione. La negazione dei luoghi di incontro e relazione, così come le rinnovate esigenze imposte dall’“anomalo abitare” dovuto all’emergenza sanitaria, hanno portato a profonde riflessioni sulla consistenza dell’urbanità del presente, sulle possibilità di revisione e reinvenzione dello spazio, sulla necessità di riconoscere e affrontare con crescente consapevolezza le nuove sfide, sempre più complesse, proposte dalla contemporaneità.

In questo clima di vivo dibattito, le città storiche hanno rappresentato un’eccezione: al di fuori del canonico fluire del tempo, hanno rivelato una bellezza antica, luminosa, tanto suggestiva da essere costantemente immortalata da immagini, testi, racconti.

Senza incontro, affermano Peter Brook e Grotowski [J. Gro-

towski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970; P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni, Roma 1999], non può avere inizio l’azione teatrale: la pandemia ha avuto, dunque, l’inaspettato merito di interrompere l’eterna messinscena dell’identità richiesta alle città del passato, diventando un’occasione per riconoscere le contraddizioni insite nella “rappresentazione” del patrimonio, nella sua spettacolarizzazione e mercificazione. Manuela Raitano [M. Rai- 27

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tano, La città storica un tempo era nuova. Cinque considerazioni, LetteraVentidue, Siracusa 2020], a questo proposito, mette in guardia dalla “rara e irreale bellezza” priva di una vera dimensione temporale, sospesa in una condizione di perfezione lontana dalla realtà, vicina alle logiche che guidano i processi di musealizzazione: appare urgente riconoscere un punto di equilibrio che permetta di tutelare il valore estetico, storico e testimoniale dell’antico, ma che consenta anche di restituire una dimensione viva, reale alle città del passato.

Questo contributo, che affonda le sue radici in più ampio lavoro condotto nell’ambito del dottorato di ricerca, intende dunque proporre una lettura inedita dei contesti stratificati e suggerire un possibile “cambio di paradigma” che permetta di guardare alla città storica nella sua complessità e di riconoscere i profondi contrasti generati dalla ricerca di equilibrio tra inibizione e trasformazione, tutela e sfruttamento, identità e genericità.

Considerando, dunque, la distorsioni prodotte dalla conservazione, troppo spesso risolta nella sottrazione del patrimonio dal tempo attivo, così come gli “effets pervers” [F. Choay, L’allégorie

du patrimoine, Editions du Seuil, Paris 1992] generati dai processi di valorizzazione e tutela dell’antico – come musealizzazione, gentrificazione, desertificazione, marginalizzazione, overtourism – si propone di ribaltare lo sguardo e di considerare le problematiche che investono i centri storici e le loro conseguenze sullo spazio urbano, come effetti dell’evoluzione della città contemporanea, rispetto alla quale gli spazi della storia permangono come “residui”, veri e propri “scarti” di un metabolismo feroce e inquieto.

Un tale cambio di prospettiva, senza dubbio provocatorio, permette di scardinare l’inibente prospettiva identitaria che caratterizza i luoghi del passato, e di interpretare l’urbanità antica e le sue emergenze non più solo come esempio da cui apprendere, ma come parte di un sistema più complesso, quello contemporaneo, a cui reimparare ad appartenere.

Le potenzialità del concetto di “scarto”

François Jullien descrive lo scarto – l’“eccedenza”, ciò che è in tensione tra due diverse realtà culturali – come uno strumento

fecondo, esaltandone la capacità di suscitare riflessioni sfuggendo all’ordinario, distaccandosi dalla norma: lo scarto disturba, destabilizza, consente di scovare prospettive e intenzioni inedite che sfuggono al pensiero canonico [F. Jullien, Il n’y a pas d’identité culturelle, L’Herme, Paris 2016]. Lo studio delle potenzialità offerte dagli “scarti” e dagli spazi residuali è diventato, a partire dalla fine degli anni ’801, un tema urbanistico di grande interesse, che ha assunto nel tempo numerose declinazioni2, riguardanti principalmente la tematizzazione e la reinvenzione di aree periferiche, degradate, dimenticate.

La produzione di spazi residuali ha, però, di fatto, sempre interessato le trasformazioni delle città nel tempo: Claude Chaline, racconta di come nel XVIII secolo, la Francia e l’Italia abbiano visto proliferare delle friche urbaines a causa della limitazione del potere ecclesiastico e per l’introduzione di nuove infra-

strutture [C. Chaline, La régénération urbaine, Presses Universitaires de France - PUF, Paris 9 settembre 1999], Ignasi de Solà Morales riconosce in Alexanderplatz un multiforme terrain vague [I. De

Solà Morales, Terrain Vague, in C. Davidson, Anyplace, MIT Press, Cambridge, Massachussets 1995], mentre Daniele Vitale evidenzia il fenomeno della marginalizzazione delle aree storiche parlando, per contrasto, della vitalità di Napoli [D. Vitale, Napoli e i Quar-

tieri Spagnoli, in Napoli: Montecalvario Questione Aperta. Teorie, Analisi e Progetti, a cura di S. Bisogni, Clean, Napoli 1994].

La scelta di utilizzare questo specifico sguardo orientato per individuare e descrivere le problematiche che interessano gli spazi disfunzionali delle città storiche contemporanee è dovuta alla possibilità di attingere a un differente bacino interpretativo e progettuale, così come alla volontà di “disordinare” le canoniche logiche di intervento.

Accostare le teorie relative alla tematizzazione di luoghi periferici alla lettura dei tessuti storici richiede però, inevitabilmente, di attuare un esercizio di “astrazione”, che permetta di leggere il patrimonio come un oggetto “architettonico puro” e la città, nella sua interezza, come costruita da materiale metastorico o iconologico: si sceglie, dunque, di adottare uno “sguardo archeologico” e di sfruttare la somiglianza [P. Gardenfors, Conceptual

Spaces: The Geometry of Thought, Bradford Books, Cambridge, Mass. 29

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2000] come mezzo descrittivo e di confronto. Solo in questo modo, infatti, periferia e centro storico possono essere messi efficacemente a confronto, assumendo il senso analogo di rovine di un’urbanità che si è perduta [G. Celati, Finzioni Occidentali: Fabulazione, Comicità e Scrittura, Einaudi, Torino 2001].

Diversi tipi di somiglianza

Nel 2006, Alan Berger restituisce una personale lettura degli effetti dell’espansione dei sobborghi americani, identificando i drosscapes, letteralmente “paesaggi-scoria” generati dallo sviluppo urbano. Il suo lavoro si costruisce a partire dalla ricerca di

Lars Lerup [L. Lerup, Stim & Dross: Rethinking the Metropolis, in Assemblage, vol. 25, MIT Press, Cambridge, Mass., 1995] che parla dei dross come di una componente strutturale della metropoli, e

attingendo agli studi di Lynch [K. Lynch, a cura di M. Southworth, Wasting Away - An Exploration of Waste: What It Is, How It Happens, Why We Fear It, How To Do It Well, Random House, Inc., San Francisco 1991] che in Wasting Away descrive i waste places come spazi in abbandono, derelitti, senza uso e definizione.

Gli scarti di Berger vengono, invece, riconosciuti come una risorsa progettuale: il dross, letteralmente, è la scoria di produzione delle lavorazioni industriali dei metalli, è un rifiuto, necessario ed auspicabile per la buona riuscita del processo. Allo stesso modo, i waste places che individua sono un indicatore di una sana crescita della città, sono non-luoghi in attesa di essere riscritti, di assumere un nuovo ruolo.

Nel fornire un’attenta catalogazione degli spazi di scarto generati dai processi evolutivi delle periferie, Berger non solo consente di individuarne le principali caratteristiche spaziali e qualitative, ma fornisce dei precisi criteri di identificazione della natura del “residuo”.

All’interno di “Drosscape”, indaga, infatti, il senso del termine waste, arrivando a identificarne l’origine latina, che riporta a una condizione di desolazione, immensità e vuoto (vastus), di devastazione (vastare) e di svuotamento (vacare); la radice persiana vang, che richiama “l’impoverimento” e il sanscrito “una”, che riguarda qualcosa di “mancante”, “difettoso”; l’etimologia

inglese (vast), che suggerisce il “declino”. Risentendo di diverse influenze culturali, la parola waste arriva a essere investita, nel tempo, dei significati più svariati (nel 1205 è “devastato”, nel 1340 “consumato senza scopo”, nel 1950 “intossicato” e nel 1964 “ucciso”), fino ad arrivare a costruire l’espressione wasting, “dissipazione”, o wasteful, “spreco” [A. Berger, Drossca-

pe: Wasting Land in Urban America, Princeton Architectural Press, New York, 2006]. Comprendere il senso più profondo del termine aiuta, dunque, a servirsene per identificare alcune caratteristiche dei potenziali “paesaggi di scarto” delle città storiche, che si manifestano quando i luoghi risultano “impoveriti” dalla mercificazione dell’identità (basti pensare a Lisbona e ai suoi azulejos, sottratti alle facciate degli edifici per essere venduti come souvenirs) e dalla conseguente mancanza di mixité sociale e di diversificazione d’uso dello spazio [V. Gregotti, Demolire l’idea di Periferia, in Esportare il centro storico: Catalogo della Triennale di Milano, Guaraldi, Rimini 2015, p. 66]; quando vengono “consumati senza scopo” dall’atteggiamento predatorio e voyeristico [G.

Attili, Civita. Senza aggettivi e senza altre spiegazioni, Quodlibet, Macerata 2020] del turismo di massa; quando risultano “mancanti, difettosi” perché frammentari o quando la ricchezza semantica di cui sono portatori viene “sprecata” impedendone la risignificazione.

Come accade per l’appropriazione del senso di waste, anche il concetto di “inbetweennes” proposto da Berger offre una stimolante chiave di lettura per l’interpretazione della complessità dei centri storici odierni. I drosscapes sono definiti “liminali” perché sospesi in uno stato di transizione e relegati al margine, sulla soglia della vita della città, in attesa di un desiderio sociale che li riabiliti e che li reintroduca nella quotidianità con un nuovo valore e un nuovo status; sono, dunque, considerati in-between non solo perché interstiziali ma, soprattutto, perché in potenziale cambiamento.

Berger carpisce la definizione dagli studi di Turner sui rituali, dove la fase dell’“inbetweenness” viene identificata come quella che segue il distacco di un individuo dalla società e che precede il suo reinserimento in essa con un nuovo ruolo: un momento di radicale disarticolazione dell’identità, di instabilità e di destruttu- 31

razione e, per questo, “altamente creativo” [S. De Matteis, Intro-

duzione, in V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna 2013]. Trovarsi in una condizione di liminalità significa, infatti, abbandonare le precedenti caratteristiche per prepararsi ad acquisirne delle nuove, assumendo la natura di una “presenza assente”.

Uno stato analogo investe il patrimonio architettonico e urbano, confinato in aree circoscritte della città (in questo senso appare particolarmente pertinente ed evocativa l’immagine dei waterfronts urbani che, secondo Koolhaas, frammentano la Città Generica, dove i “turisti si riuniscono in mandrie intorno a gruppi di bancarelle” e orde di venditori ambulanti cercano di vendere gli aspetti “unici” dell’identità [R. Koolhaas, La città generica,

in Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di G. Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2006, p. 52) e sospeso in una fase di traumatica sospensione, in bilico tra un passato non più presente e un futuro, potenziale, volutamente non definito.

La ricchezza della nozione di inbetweeness fornita da Berger permette di riconoscere, dunque, in queste parti di città, non solo una dimensione interstiziale, di distacco e di alterità, ma soprattutto l’aspirazione a rientrare in circolo e a “ri-cadere” nella realtà assumendo un senso e un ruolo inedito.

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Waste Landscapes

I Waste Landscapes descritti da Berger possono essere reali, nel caso in cui si considerino spazi oggettivamente degradati (discariche, siti contaminati), ma anche legati alla percezione e all’uso dello spazio: il ruolo del progettista è quello di riconoscerli e di comprendere come poterli reintegrare nella vita attiva della città, ottenendo benefici in ambito sociale, ambientale e culturale

[A. Berger, cit., p. 237].

Tenendo fede a questa visione, la ricerca di Berger propone una catalogazione degli spazi disfunzionali dei sobborghi americani, distinguendoli sulla base alle ragioni che li hanno prodotti:

– i Waste Landscapes of Dwelling si riferiscono ai vuoti che vengono intenzionalmente progettati all’interno o all’esterno di nuovi insediamenti a carattere abitativo – gene-

ralmente gated communities – dismessi a causa di variazioni del mercato immobiliare o per un progressivo disuso.

Dal punto di vista spaziale la condizione perché si formino questi tipi di paesaggi di scarto è la presenza di un limite, di un confine chiaramente identificabile (mura o cancelli), che imponga una duplice condizione di internità ed esternità rispetto all’insediamento, così come uno stato di disconnessione dal contesto; – i Waste Landscapes of Infrastructures riguardano gli spazi prodotti dall’interazione del paesaggio con nuovi sistemi di trasporto, considerando le aree sottoposte a servitù, le fasce di rispetto, le zone interessate da diritti di passaggio (tratti di autostrada e ai nodi di interscambio), le ferrovie, ma anche gli impianti necessari al sostentamento energetico della città (le trasmissioni elettriche, le condotte di gas e di carburante, gli acquedotti); – i Waste Landscapes of Transitions rivelano la natura provvisoria degli investimenti e della speculazione immobiliare: sono, infatti, intenzionalmente disegnati per accogliere usi temporanei a servizio della produzione – come aree di assemblaggio o di sosta (staging areas), depositi, aree di stoccaggio, parcheggi, stazioni di trasferimento – ma sono concepiti anche per influenzare il valore immobiliare dei terreni. La principale caratteristica di questi paesaggi è la transitorietà e lo stato di attesa di una ridefinizione dell’identità. Sono aree il cui uso originale si è esaurito e non hanno, nel presente, alcuna collocazione funzionale; – i Waste Landscape of Obsolescence sono concepiti per accogliere gli scarti dei consumatori, come le discariche, i siti di trattamento delle acque; – i Waste Landscapes of Exchange sono paesaggi di abbandono prodotti dal cambiamento delle abitudini di consumo: si tratta, in particolare, delle aree di pertinenza dei malls, un tempo principali centri commerciali delle città americane che, a causa delle trasformazioni economiche che hanno rapidamente mutato i bisogni dei cittadini, sono stati sostituiti dai più grandi e forniti supercenters, smarrendo definitivamente il loro ruolo urbano; 33

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– i Waste Landscapes of Contamination riguardano siti federali come gli aeroporti, le basi militari, i depositi di munizioni e campi di addestramento, le aree utilizzate per operazioni chimiche, petrolifere o minerarie.

Historic Waste Landscapes

Sconnessione dall’esistente, transitorietà, relazione con le infrastrutture, obsolescenza, perdita del ruolo urbano e contaminazione, sembrano essere le principali caratteristiche alla base della formazione dei Waste Landscapes che scandiscono i sobborghi americani, tutte condizioni che, seppur in forma diversa, possono essere riscontrate anche nei contesti storici europei: qui, il mandato di conservare l’immagine della città ha radicalmente mu-

tato la realtà urbana [R. Ingersoll, Sprawltown: Looking for the City on its Edges, Princeton Architectural Press, New York 2006], non più canonicamente vissuta e abitata ma, piuttosto, offerta sull’altare di un turismo tanatoscopico, bramoso di una sua rappresentazione iconica ed estetizzata [G. Attili, cit.].

Si può, dunque, immaginare che gli Historic Waste Landscapes si manifestino proprio in questi contesti irrisolti e problematici, in spazi prodotti dagli errori delle politiche di valorizzazione e dalle deformazioni della conservazione, dalla scelta di sottrarre il patrimonio alla città confinandolo in un altro tempo, un idealistico “altrove” […] (museo o centro storico, parco naturale o archeologico, monile o impianto urbanistico ecc.) [A. Terrano-

va, Valori della memoria e società post-industriale, in Le città & i progetti. Dai centri storici ai paesaggi metropolitani, Atti del X Convegnocongresso nazionale ANCSA, 1989, a cura di A. Criconia, Gangemi, Roma 1993, pp. 107-108] e dalla sua speculazione.

L’individuazione di possibili tipologie di Historic Waste Landscapes, riconosciuti e catalogati sulla base delle descrizioni fornite da Berger e dell’osservazione dei fenomeni che più frequentemente interessano i centri storici, porta alla costruzione di un mosaico di possibilità narrative, alla definizione di uno strumentario tematico utile per delineare un’immagine contemporanea delle città del passato, una rappresentazione variabile, multiforme, caleidoscopica, complessa.

I paesaggi dell’esclusione. Come accade per le gated communities di Berger, anche le città storiche si riscoprono ricche di enclaves – che potremmo definire, sfruttando un’espressione di

Toffler, enclaves del passato [A. Toffler, Future Shock, Bantam Books, New York Toronto London 1999] – luoghi esclusi, disconnessi, dove i cambiamenti e le novità sono volutamente inibiti e dove è negata qualsiasi relazione attiva con la contemporaneità. Gli Historic Waste Landscapes of exclusion vengono riconosciuti principalmente nelle aree archeologiche urbane, porzioni di tessuto antico scardinate dal contesto attraverso il disegno di limiti fisici e normativi che ne sottolineano l’alterità e ne impediscono l’appropriazione. Gli scavi di Piazza della Vittoria a Siracusa rappresentano un esempio di questo fenomeno (un esempio, come gli altri che seguiranno, inteso alla maniera di Agamben, una “singolarità fra le altre”, affrontata, nella sua specificità, con l’aspirazione di essere rappresentativa di una serie di condizioni

analoghe [G. Agamben, Esempio, in La comunità che viene, Einaudi, Torino 1990, pp. 7-10]: qui, la scelta di isolare l’area, ha provocato una progressivo sentimento di estraneità e indifferenza da parte dei cittadini, che ha portato i resti dell’antica via Lata Perpetua a giacere in una condizione di abbandono e noncuranza.

I paesaggi delle infrastrutture. Come accade per le periferie americane, anche nelle città storiche l’interazione con le infrastrutture ha inevitabilmente influito sulla strutturazione del paesaggio urbano, spesso generando spazi residuali e negando la consistenza dello spazio originario. I Fori Imperiali sono un valido esempio di Historic Waste Landscapes of infrastructures: qui, l’arbitrario disegno di Via dei Fori Imperiali ha mutato la consistenza delle antiche piazze alterandone il rapporto di continuità. Il complesso, nella sua interezza, è così ridotto a un insieme di lacerti sconnessi e risulta per questo depotenziato, negato, interrotto.

I paesaggi dell’incomunicabilità. Aldo Rossi parla di obsole-

scence [A. Rossi, L’architettura della città, Città Studi Edizioni, Milano 1966] alludendo alle dinamiche proprie dei processi di trasformazione delle città e, in particolare, a ciò che rimane immutato nel cambiamento. L’immagine che consegna è quella di “isole” incapaci di adattarsi allo sviluppo generale, delle grandi aree di 35

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riserva, introverse, ricche di valore testimoniale ma incapaci di dialogare con la contemporaneità. La chiesa di St. Martin a Birmingham è un efficace esempio di “Historic Waste Landscapes of incomunicability”: architettura fondativa della città, sottoposta a vincolo di tutela, si trova oggi immersa nell’area commerciale del Bullring, rispetto alla quale appare, paradossalmente, aliena ed estranea.

I paesaggi della museificazione e della desertificazione. Gli Historic Waste Landscapes of museification/desertification riguardano i paesaggi urbani storici sottoposti a musealizzazione, impossibilitati a mutare la propria immagine e privati dei propri abitanti. Venezia rappresenta un caso emblematico: l’esasperata patrimonializzazione del tessuto urbano è stata accompagnata da una progressiva desertificazione della città insulare che, dal 1951 al 2021, ha visto l’esodo verso la terraferma di 123.600 abitanti.

I paesaggi della marginalizzazione. Gli Historic Waste Landscapes of marginalization si identificano come parti fondative della città antica che, nel tempo, hanno progressivamente smarrito il loro ruolo urbano: come accade per i malls americani, sono spazi prodotti dal cambiamento, dalla mutazione di scenari politici, economici e sociali oltre che da una progressiva obsolescenza. È il caso dell’Acropoli di Atene, “elemento primario” della città, indissolubilmente legato ai suoi processi trasformativi nei secoli (ne è il nucleo fondativo, in seguito è legata al culto di Atena e poi a quello cristiano, diventa Roccaforte del ducato di Atene e cittadella islamica…) oggi area archeologica del tutto estranea al funzionamento urbano.

I paesaggi della monosemia. Questo tipo di condizione di scarto, relativa alla “decomplessificazione semantica” del patri-

monio [F. Choay, Del destino della città, Alinea, Firenze 2008], riguarda permanenze che hanno perso la propria funzione primaria per assumere un significato unicamente turistico. La Reggia di Versailles è un chiaro esempio di Historic Waste Landscape of monosemic buildings: non ospita più la corte di Francia né rappresenta più il fulcro del complesso impianto urbano e paesaggistico di Versailles, ma si presenta oggi come un oggetto isolato, di cui, ogni anno, si appropriano transitoriamente milioni di visitatori.

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