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F. Deo Quanti oggetti è un oggetto?
from Op. cit. 175
by Op. Cit.
dettaglio costruttivo, un giunto di non facile esecuzione. La sua realizzazione richiede preparazione ed esprime intelligenza costruttiva oltre che fascino e bellezza relativa alla sapiente maestria inerente la carpenteria lignea. L’esecuzione del “dardo di Giove” consiste in un doppio cuneo a parallelepipedo, che deve essere sempre collocato in modo verticale per consentire sia al modulo di resistenza (W), che al momento di inerzia (riconosciuto analiticamente anche quale momento di secondo ordine o secondo momento d’inerzia) di garantire stabilità, connessione e congruenza. Infatti, la questione del “dardo di Giove” riguarda principalmente l’inerzia, la proprietà geometrica di un corpo, definita come il secondo momento della massa rispetto alla posizione: esso misura l’inerzia del corpo al variare della sua velocità angolare, una grandezza fisica usata nella descrizione del moto dei corpi in rotazione attorno a un asse, e nei moti rotatori: il momento d’inerzia gioca il ruolo che ha la massa nei moti lineari. Insiti nel pensiero del dettaglio costruttivo, vi sono la conoscenza costruttiva, il calcolo, l’esperienza, l’intuizione e di conseguenza l’accompagnamento che procede dal disegno alla realizzazione in opera degli stessi elementi. Si tratta di una serie di passaggi di scala, tutti avvertiti sia dall’architetto e dall’ingegnere che da parte delle maestranze. L’arguzia dell’esperienza nella posa in opera consente di completare una serie di operazioni, di chiudere un ciclo ragionato, uno spirito “opus sectile” fascinoso che in qualche maniera si sviluppa, il quale ricorre nel tessere un programma costituito da pensieri, disegni, calcoli, prove, messa in opera e poi infine dalla stabilità, come a dire un “rede in te ipsum, in interiore homine habitat veritas”! Ciò spiega l’impeto costruttivo che segue l’esperienza presente nel grido “acqua alle corde” del marinaio Benedetto Bresca.
Conclusioni
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Gli antichi ma anche molti dei più recenti maestri del passato non trasmettevano né un cifrario, né tantomeno dogmi, ma portavano in loro l’energia e la forza di un metodo che toccava al discente perpetuare. Chi è riuscito a maturare e a fare proprio questo compito non è rimasto un originario modellatore di forme; al 61
contrario ha saputo approfondire quei contenuti avvalendosi di una costante ricerca introspettiva della realtà, attraverso la verità. La questione della verità in architettura si basa sul processo costitutivo e costruttivo. Si tratta ogni volta di ristabilire la distinzione di verità discernendo l’essenza del problema. La sintesi che racchiude la sapienza, così come il segreto della “tessitura dovuta al disegno di Atena”, è concepita come una somma di elementi fisici: colore, suono, movimento, tempo, spazio, integrati in una unità fisico psichica. Si tratta in conclusione di un concetto consequenziale, che racchiude la sequela dell’esperire e del fare. Si parte dai disegni, dalle tecniche grafiche differenziate, dalle elaborazioni, dai calcoli, e poi si passa alla maestria della posa in opera che restituisce al disegno la verità insita nella sua operatività2 .
1 La cultura di massa, com’è noto, dipende dallo sviluppo tecnologico. Come scrive Bernard Rosemberg se si può avanzare una formulazione (in forma di ipotesi) questa potrebbe essere che la moderna tecnologia è la causa necessaria e sufficiente della cultura di massa. Cfr. Architettura e cultura di massa, «Op.cit.», n. 3, maggio 1965. 2 “L’artista non deve mai dimenticare che l’estetica, con la sua innegabile componente soggettiva, è intimamente legata alle proprietà geometriche, analitiche, meccaniche e resistenti delle superfici e delle linee che delimitano la massa della costruzione”. E. Torroja, op. cit., p. 367.
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Quanti oggetti è un oggetto?
FEDERICA DEO
In poco più di dieci anni di lavoro Mario Pagliaro ha dato vita a molti oggetti. Volendo parlare di una collezione potremmo dirla grande ed eterogenea. Alcuni sono silenti e funzionano come un sistema. Altri no, urlano lontani dal branco – come lo stesso autore ci ha confermato in un’intervista. In entrambi i casi possiamo affermare si tratta di design d’arredo – tavoli, sedie, poltrone, armadi tra gli altri – in perfetta aderenza alla tradizione del design partenopeo, sempre lontana dalla grande industria, dal settore elettronico, e più vicina alla cultura del materiale. E come i maestri del design napoletano Mario Pagliaro è, di formazione, architetto. Non vi è però nessun altro particolare e saldo legame con la scuola locale.
In alcuni oggetti è possibile osservare i temi che Pagliaro ha pian piano sviscerato con estrema coerenza. Penso al lavoro sul materiale e sul processo di produzione, al rapporto lineare tra questi due temi, che l’autore ha tradotto nella qualità estetica dell’oggetto che è, come egli stesso afferma, diretta conseguenza della tecnica. La serie in multistrato è paradigma di questa sua ricerca: qui tutti i ragionamenti sono portati alle massime conseguenze. Il materiale è unico, lo sfrido minimo e non vi sono aggiunte fuori dalla sua natura: per rispettarlo completamente l’autore studia speciali sistemi di incastri, nodi e cerniere.
Vi sono poi altri aspetti che emergono e che sono una seconda conseguenza di questo desiderio di semplificazione che li caratterizza, una certa volontà di economia di mezzi: la possibilità 63
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di montaggio e smontaggio semplice, già esaltata dai designer delle prime generazioni, proprio come la necessità di rimpicciolire al minimo gli imballaggi e rendere l’oggetto semplice da conservare o inviare via corriere1, quindi ridurre i tempi e i costi di spedizione.
Ve ne sono poi altri per cui, invece, questa logica sembra sovvertita. Oggetti che sfuggono a questo processo, che sembrano rispondere ad altre domande, ad altre ricerche, ad altre esigenze. In opere come Carriola, Gymball, o Tavolo al quadrato quanto descritto finora muta e prende altro posto nelle gerarchie del processo creativo-produttivo. Quest’ultimo sembra infatti costruirsi su altri campi d’indagine.
Nella conversazione avuta lo scorso marzo Pagliaro afferma: penso che la meraviglia sia importante. E in un certo qual modo è reciproca: se vengo meravigliato cerco di ricambiare.
Cosa intende per meraviglia?
Sulla natura differente degli oggetti
È possibile classificare l’immensa vegetazione degli oggetti come una flora o una fauna, con specie, tropicali, glaciali, con brusche mutazioni, con specie in via di sparizione? La civiltà urbana assiste a una successione accelerata delle generazioni di prodotti, di apparecchi, di gadgets di fronte ai quali l’uomo appare come una specie particolarmente stabi-
le [J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Bologna 2009, p. 5].
Questa affermazione di Baudrillard fa emergere con chiarezza almeno due questioni su cui è possibile riflettere in merito alla produzione di Pagliaro: la diversa natura degli oggetti in relazione all’artefice e alle sue intenzioni, e la loro relazione con chi li esperisce, alla scala sia individuale che sociale.
Pagliaro distingue due ordini di oggetti. Un primo afferente alla sfera del necessario, che prima di tutto obbedisce ad una funzione strumentale. Il secondo invece pone come primaria una funzione esperienziale-emozionale, vicina a quel sentimento che lui nomina ‘meraviglia’. E a tal riguardo afferma: Ci sono oggetti che appartengono al necessario. Un tavolo, una culla, una
sedia, un armadio: sono tutti oggetti che ognuno possiede in casa. E poi ci sono oggetti che non assecondano un bisogno specifico ma rispondono ad una necessità espressiva. (…) Per me rappresentano il superfluo necessario. Il pavone ad esempio avrebbe potuto essere monocromo, ma le sue piume colo-
rate producono meraviglia [dalla conversazione dell’A. con Mario Pagliaro].
Il sentimento di cui parla l’autore è legato a un processo di scoperta, o meglio, di riscoperta. Riflettendo su questo punto riaffiora alla mente un concetto formulato dallo scrittore e teorico della lingua Viktor Sklovskij circa un secolo fa. È un’idea affrontata nel saggio intitolato Arte come procedimento pubblicato nel 1917, anno della Rivoluzione d’ottobre. Qui Sklovskij ragiona sulla differenza tra il linguaggio comune – quello del quotidiano – e il linguaggio della poesia. Individua come contrassegno del primo l’automatismo di certi processi di interpretazione e comprensione, che sono soggetti al Principio dell’economia delle
energie creative [H. Spencer, The Philosophy of Style, in «Westminster review», n. 58, 1852] secondo cui la scelta delle parole nel linguaggio quotidiano è dettata dall’esigenza del risparmio di attenzione, ovvero che condurre l’intelletto per il cammino più facile al concetto desiderato è in molti casi l’unica mèta, e comunque quella principale [V. Šklovskij, L’arte come procedimento, in I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, a cura di T. Todorov, Einaudi, Torino 1965, p. 79]. In contrapposizione Sklovskij pone il linguaggio della poesia che invece procede con fare opposto, secondo quel procedimento che il russo definisce col termine di ostanennie (straniamento): per “sentire” gli oggetti, per far si che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come “visione” e non come “riconoscimento”; procedimento dell’arte è il procedimento dello “straniamento” degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato; l’arte è una maniera di “sentire” il divenire dell’oggetto, mentre il “già compiuto” non ha importanza nell’arte [V.
Šklovskij, op. cit., p. 82]. 65
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È possibile porre in parallelo la succitata esigenza di ‘risparmio di attenzione’ con il principio di immediatezza cui deve rispondere il design ordinario-quotidiano il cui mandato principale è nella funzione d’uso? È possibile mettere in parallelo il concetto di ostranenie con quel desiderio di meraviglia a cui il designer napoletano allude? Sulla linea di questo discorso potremmo distinguere quindi, nella produzione del designer napoletano, due classi di oggetti: una ‘ordinaria’ e una che diciamo ‘extra-ordinaria’. Ciò che le definisce tali è – decidiamo che sia – il mandato. Ma, a quale mandato obbedisce un oggetto di design?
Piccola nota storica sulla definizione di design
La storia del design industriale, per quanto giovane, è densa e veloce, proprio come il secolo breve di cui è figlia. È una storia il cui percorso è direttamente e saldamente legato ad altre storie: quella economica, quella dell’industria, la storia dell’arte e la storia sociale, tra le altre. Definisco il vincolo diretto e saldo poiché le domande di ricerca in questo campo sono tutte immediatamente dipendenti da fattori economici, industriali, artistici, sociali, e dalla velocità con cui questi settori si sviluppano così come dalle loro crisi. Queste interferenze hanno reso difficile il compito di individuare con chiarezza lo statuto identitario del design.
Ripercorrendo questa storia attraverso i maggiori e più noti saggi e manuali, risulta evidente un dato: molti tentativi di definizione della disciplina recano con sé una contro-definizione. La complessità che caratterizza il mondo del design indusse Gillo Dorfles già nel 19632, nella sua Introduzione al design industriale. Linguaggio e storia della produzione in serie, al rifiuto di una
definizione [G. Dorfles, Introduzione al design industriale. Linguaggio e storia della produzione in serie, Einaudi, Torino, 1972, p. 10]; Tomàs Maldonado solo nel 1961, in Disegno Industriale, un riesame, dopo averne offerto una definizione e una contro-definizione, tenta di descrivere tale complessità disciplinare avvalendosi di una classificazione: individua una moltitudine di fattori che concorrono al processo di formazione di un oggetto di design.
Qui afferma infatti che, al processo che ne presiede la formazione, si impongono una molteplicità di fattori: relativi all’uso, alla funzione e al consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici o culturali), a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico-economici, tecnico-costruttivi, tecnico-sistematici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi) [T. Maldona-
do, Disegno industriale: un riesame. Definizione Storia Bibliografia, Feltrinelli, Milano 2008, p. 12]. Anche Gillo Dorfles, nel rifiutare una definizione, propone tuttavia una classificazione degli oggetti industriali le cui variabili sono: presenza/assenza di una funzione d’uso; fruizione individuale o superindividuale; legame con la moda o assenza di legame con la moda.
Queste proposte di catalogazione elaborate solo negli anni Sessanta, quando il mondo del design era nella sua prima fase di affermazione, preannunciano la natura plurima dell’‘oggetto design’, che porta in sé, contemporaneamente, risposte a numerose questioni. Ciò che tuttavia ci permette di poter differenziare ordinario e extra-ordinario è l’identificazione del mandato principale. È possibile stabilire una gerarchia dei mandati che caratterizzano gli oggetti di Pagliaro?
Tentativo di stabilire una gerarchia dei mandati
Osservando il lavoro di Pagliaro, intuiamo possano esservi delle interferenze tra ciascuna delle classi individuate. Cos’è Carriola? Un oggetto da collezione? Una poltrona per dondolare? Una sofisticata leva del pensiero – un oggetto di Ready-made – come è stata più volte letta e apprezzata? Sull’ideazione di quest’oggetto il giovane designer ci racconta che è nato da una commissione specifica: la richiesta di una seduta per esterni: Mi chiesero delle poltrone per esterni. Allora ho pensato innanzitutto al materiale, il ferro, anche sotto suggerimento della committenza. Ho pensato a un semi-lavorato, qualcosa che fosse molto sottile e leggera: la lamiera grecata. E ho iniziato a lavorarci. Poi sono andato da un rivenditore di materiali da costruzione molto rifornito e lì ho visto una carriola, mi ci sono seduto e ci sono rimasto un po’ perché era comoda. L’ho comprata e l’ho portata a casa. L’ho messa sul tavolo e ho 67
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iniziato a riflettere. Non ho usato subito la base del mezzadro, ho provato prima a incastrarla. Il progetto su carta era gradevole, ma quando l’ho realizzata ti assicuro che non era bella, perché i materiali erano proprio incompatibili. (…) alla fine ho appurato che l’appoggio a terra come nel Mezzadro di Castiglioni non andava bene, e l’ho girato. Così funzionava! Anche il profilo era perfetto. Ovviamente ho dovuto fare delle prove per capire empiricamente lo spessore dell’appoggio
[dalla conversazione dell’A. con Mario Pagliaro].
Risulta quindi evidente che, in questo caso, è stato il materiale ad attivare e guidare la ricerca del manufatto, per poi cambiare direzione e concentrarsi sull’oggetto carriola-seduta, ricercandone le possibilità ergonomiche.
Alla stessa domanda sulla concezione di Gymball l’autore risponde: Gymball nasce da quest’oggetto semplice, la palla. La vidi per la prima volta a casa di un amico, vi era seduto sopra. Ne resto affascinato e decido di comprarne una. La uso per mesi. (…) trascorse circa un anno prima di elaborare la prima ipotesi. L’idea risolutiva sul come fissare le palle alla struttura l’ho avuta a Ibiza. Osservando dei giambè ho trovato il modo per fissare le due palle alla struttura con la corda. Solo che non si configurava come un prodotto industriale: ci voleva un giorno a vincolarle e a quel punto non sei più un designer, sei un artigiano. Quindi ho deciso di cercare un’altra soluzione e alla fine l’ho trovata nella palla stessa: scegliendo quella con i nipples, il tubolare lo bloccavo giusto tra due di
questi e funzionava bene [dalla conversazione dell’A. con Mario Pagliaro].
In questo caso è invece l’oggetto ‘palla’ e la volontà di esaltarne la potenzialità espressivo-sensoriale a guidare il processo creativo da cui può generarsi quel sentimento di meraviglia precedentemente nominato. Osservando il lavoro di Pagliaro, quindi, rintracciamo alcuni fattori che sembrano presenti, ma in misura diversa, in tutti i suoi progetti. Penso al ruolo che assumono la funzione d’uso, il materiale, il processo tecnico-costruttivo, la qualità estetica e la necessità espressiva3 .
Quest’ultima categoria risulta certamente la più astrusa da definire. Già solo nell’individuazione del soggetto: parlando di