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R. De Fusco M.D. Morelli Logomachia

è fuori di loro, si misurano con la sostanza vivente del mondo, senza limitarsi, però, a offrire semplici resoconti [A. Castelli, F.

La Cecla, Scambiarsi le arti, cit.].

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Con la propria sensibilità, molti artisti (come gli autori di graphic novel politiche) si pongono in ascolto di qualcosa che, con la sua presenza prepotente, “agisce” dal di fuori. Assegnano una decisiva centralità all’osservazione diretta, di prima mano: a quello che è stato definito il paradigma ottico [S. Tyler, L’etno-

grafia post-moderna: dal documento dell’occulto al documento occulto (1986), in Scrivere le culture. Poetiche e politiche in etnografia, Meltemi, Roma 1997, pp. 163-182]. Attribuiscono una cruciale importanza alla capacità di osservare, di descrivere, di catalogare e di analizzare nel modo più fedele possibile le dinamiche del presente. Affrontano le mutevolezze, le incoerenze e l’irripetibilità degli eventi concreti. Si lasciano interrogare dal reale: uno “scarto”, che sfida, mette in crisi, alimenta dubbi, è difficile da colmare e chiede di essere investigato. Delimitano, poi, il proprio fieldwork, cercando di saldare lo sguardo “dal di fuori” con lo “sguardo da dentro”. Interpreti della tensione tra ciò che è vero e la rivelazione di se stessi, sanno che ogni lavoro sul campo si dà sempre come riflesso deviato di un oggetto su un determinato soggetto.

Per conservare il “contesto” come immagine, queste voci, perciò, scelgono di ibridare la pratica artistica con quella etnografica. Per restituire il visibile colto in presa diretta, prendono note, schizzano, abbozzano, disegnano, raccolgono impressioni, memori di una consuetudine da sempre diffusa tra gli antropologi, portati a sperimentare paradigmi discorsivi originali: una scrittura reportagistica, una retorica nella quale non è possibile separare in modo netto e chirurgico il fattuale dall’allegorico [D.

Freedberg, Antropologia e storia dell’arte: la fine delle discipline?, cit., p. 6].

Infine, questi artisti non si limitano alla mera registrazione. Interiorizzano l’esperienza site specific. Evidenti anche qui le assonanze con quel che fanno gli etologi, i quali propongono messe in scena di società o di culture fatte con l’aiuto di frammenti e di rottami, ricorrendo, però, a processi di de-temporalizzazione, a operazioni di distillazione paziente, per filtrare l’osservazione 17

giornaliera [C. Lévi-Strauss, Tristi tropici (1955), Il Saggiatore, Milano 1960, pp. 41-53].

In questa geografia segnata da frequenti riprese di metodologie etnografiche, si situano tanti graphic novelist. Antropologi visivi che, pur conservando una forte attenzione nei confronti dei drammi della cronaca, per riprendere ancora le parole di LéviStrauss, cercano di conoscere e di giudicare l’uomo da un punto di vista sufficientemente elevato e distaccato, per astrarlo dalle contingenze particolari a una data società o a una data civiltà [Ivi, p. 53].

1 Dell’artista come antropologo ha parlato J. Kosuth in un saggio del 1975 (poi, in L’arte dopo la filosofia, a cura di G. Guercio, Costa&Nolan, Genova1987, pp. 53-75). Questa idea sarà ripresa da H. Foster, che ha descritto l’artista come etnografo in Il ritorno del reale (1996), Postmedia books, Milano 2006, pp. 175-210.

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Logomachia

RENATO DE FUSCO, MARIA DOLORES MORELLI

Introduzione

Oggetto della nostra esposizione è il legame tra le categorie del tempo e dello spazio, segnatamente legate alla dimensione della memoria. È necessario quindi dare una definizione, sia pure sommaria, dei fattori chiamati in gioco.

Le categorie

Esse sono l’attribuzione di un predicato ad un soggetto. Sono specificamente le classi supreme di ogni predicato possibile, con cui poter ordinare tutta la realtà. Alle due categorie spazio e tempo va assegnata innanzitutto la loro priorità, nonché il loro concatenarsi; infatti non si dà tempo senza spazio e viceversa, né infine le due partizioni senza la memoria.

La dialettica, dal greco dialektikḗ (tékhnē) è l’arte di argomentare con logica serrata, in modo particolarmente abile e persuasivo. In filosofia, metodo d’indagine razionale che, attraverso il dialogo e la discussione degli argomenti dell’avversario, si propone di determinare il contenuto concettuale della verità; per Platone coincide con la stessa filosofia, mentre per Aristotele essa è ridotta a scienza dell’argomentazione probabile.

Nell’idealismo hegeliano, la stessa realtà nel suo divenire perenne, in quanto questa, identificata con la natura stessa del pensiero, si scandisce in un ritmo dialettico di tesi, antitesi e sintesi. 19

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Il ricordo della sua probabile genesi si è fatto più chiaro costituendo una forma di eristica.

L’eristica (dal greco erìzein, “battagliare”, indica l’arte di battagliare con le parole) è un’evoluzione della prima Sofistica di Protagora e di Gorgia. All’eristica non interessa se un discorso possa essere vero o falso né le definizioni delle parole che vengono impiegate; il suo unico fine è quello di confutare il proprio avversario e di persuaderlo mediante la retorica a cambiare opinione.

Nell’età moderna Schopenauer riprende la questione e la propone nel modo più radicale: La dialettica eristica è l’arte di disputare, e precisamente l’arte di disputare in modo da ottenere ragione, dunque per fas et nefas, [con mezzi leciti e illeciti]. Si può infatti avere ragione objective, nella cosa stessa, e tuttavia avere torto agli occhi dei presenti e talvolta perfino a priori. Ciò accade quando l’avversario confuta la prova dell’altro, e questo vale come se avesse confutato anche l’affermazione, della quale però si possono dare altre prove; nel qual caso, naturalmente, per l’avversario la situazione si presenta rovesciata: egli ottiene ragione pur avendo oggettivamente torto. Singolare il modo col quale Schopenauer tratta il problema in maniera radicale. Infatti, alla domanda da dove deriva l’eristica, o meglio che cosa di negativo deriva da questa concezione il filosofo risponde: dalla naturale cattiveria del genere umano. Se questa non ci fosse, se nel nostro fondo fossimo leali, in ogni discussione cercheremmo solo di portare alla luce la verità, senza affatto preoccuparci se questa risulta conforme all’opinione presentata in precedenza da noi o a quella dell’altro: diventerebbe indifferente o, per lo meno, sarebbe una cosa del tutto secondaria. Ma qui sta il punto principale. L’innata vanità, particolarmente suscettibile per ciò che riguarda l’intelligenza, non vuole accettare che quanto da noi sostenuto in principio risulti falso, e vero quanto sostiene l’avversario [A. Schope-

nauer, L’arte di ottenere ragione, Adelphi, Milano 1991, pp. 15-16].

Quella descritta da Schopenauer è una vera e propria logomachia, ossia una disputa protratta con una sofisticata verbosità, articolata in cento modi, primo fra tutti l’insistito errore. Infatti per gli eristi si può trovare una scusante: molte volte, all’inizio sono fermamente convinti della verità della loro affermazione; ma

ora l’argomento dell’avversario sembra rovesciarla: abbandonando però subito la nostra causa, spesso ci accorgiamo poi che avevamo invece ragione; la nostra prova era falsa, ma per quella affermazione era possibile darne una giusta: l’argomento risolutore non ci era venuto in mente subito. L’interesse per la verità, che nella maggioranza dei casi è stato l’unico motivo per sostenere la tesi ritenuta vera, cede ora completamente il passo all’interesse della vanità: il vero deve apparire falso e il falso vero [Ivi, p. 16].

Il filosofo ribadisce la sua visuale riassumendo: Dunque, di regola ciascuno vorrà far prevalere la propria affermazione, anche quando per il momento gli appare falsa o dubbia; e i mezzi per riuscirvi sono, in certa misura, offerti a ciascuno dalla propria astuzia e cattiveria: a insegnarli è l’esperienza quotidiana nel disputare [Ivi, p. 17].

La perentoria avversione ai sofisti trova conferma chiamando in causa la dialettica e la logica. Ma mentre la dialettica si fonda su due fattori, la logica su uno solo. Cosicché è inutile la logica nel dirimere le contese dialettiche.

Pertanto non condividiamo le tesi di Schopenauer, anche se apprezziamo il suo decisionismo, spesso da preferirsi all’ambiguità opportunistica. E va tenuto in conto in un momento politicoculturale come l’attuale in cui, come dice l’aforisma, “molti inventano e pochi hanno modo di indovinare” [cfr. R. De Fusco, Chi

parla inventa e chi ascolta indovina, «Op. cit.», n. 169, settembre 2020].

Tempo

La nozione di T. è stata costantemente oggetto di riflessione, spesso da punti di vista molto differenti, nel corso della storia della filosofia. Per definirla occorre quindi ricostruirne geneticamente lo sviluppo. Semmai si può ricordare l’etimologia del nome, dal greco tèmno e dal latino temperare, verbi entrambi significanti l’atto con cui qualcosa è diviso secondo ordine e misura

[cfr. S. Givone, Tempo, in Grande Dizionario Enciclopedico UTET, vol. XIX, p. 875].

Il Tempo è collegato al movimento, viene sottratto alla pura aleatorietà del divenire e si lascia misurare. Secondo Platone il T. 21

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è il fondamento della misurazione del movimento, in quanto partecipa della sua natura ma anche della natura dell’eternità, riuscendo dunque a essere, sulla base di questa, paradigma di quello. In questo senso si deve dire che il T. implica tre T.: presente, passato, futuro. Implica il presente, in quanto, come l’eternità, è al di là del divenire; implica il passato e il futuro in quanto è soggetto al divenire. Ma si deve dire inoltre che il T. scandisce il movimento, cioè lo misura, in riferimento a ciò che «era» e a ciò che «sarà». Ossia, per usare il linguaggio di Aristotele (Fisica, IV): «il T. è la misura del movimento secondo il prima e il dopo». La definizione di Aristotele rimarrà esemplare, per tutta la classicità e il Medioevo, e sarà un punto di riferimento per quanti si occuperanno del problema. Da notare però che se Platone rispetto a Pitagora aveva spostato il piano della discussione da un ambito metafisico o più precisamente cosmologico a un ambito psicologico, Aristotele rispetto a Platone sposta a sua volta il discorso da un ambito psicologico ad un ambito fisico e matematico. A S. Agostino si deve la migliore espressione e la diffusione di questa dottrina nella filosofia occidentale. Il tempo è identificato da Agostino con la vita stessa dell’anima che si estende verso il passato o l’avvenire (extensio o distensio animi). Dice S. Agostino: In che modo si diminuisce e consuma il futuro che ancora non c’è? E in che modo cresce il passato che più non è, se non perché nell’anima ci sono tutte e tre le cose, presente passato e futuro? L’anima infatti attende e fa attenzione e ricorda, sicché ciò che essa attende, attraverso ciò cui fa attenzione, passa in ciò che ricorda. Nessuno nega che il futuro non ancora c’è; ma c’è già nell’anima l’attesa del futuro. Nessuno nega che il passato non è più, ma c’è ancora nell’anima la memoria del passato. E nessuno nega che il presente manca di durata perché subito cade nel passato; ma dura tuttavia l’attenzione attraverso la quale ciò che sarà passa, si allontana verso il passato [Conf., XI, 28, 1]. Il teorema fondamentale di questa concezione è stato enunciato dallo stesso S. Agostino: Non ci sono, propriamente parlando tre tempi, il passato, il presente e il futuro ma soltanto tre presenti: il presente del passato, il presente del presente e il presente del

futuro [Ibid., XI, 20, 1].

Spazio

I termini di spazio, spazialità, spaziosità e gli aggettivi spaziale, spazioso, ricorrono continuamente nel linguaggio della critica d’arte, assumendo aspetti semantici sovente differenti. La nostra trattazione dello spazio trova maggiore appiglio nel mondo dell’arte piuttosto che in quello della filosofia.

La distinzione tra Arti dello spazio e Arti del tempo conserva ancora una sua validità di orientamento propedeutico, nell’uso critico concreto. D’altra parte, il concetto di tempo nelle Arti figurative, è congiunto teoricamente all’idea di spazio inteso come intervallo, ritmo, proporzione, simmetria, continuità compositiva, strutturale, dell’opera d’arte. Il sentimento dello spazio è ovviamente legato alle vicende stesse della storia dell’arte, nei diversi periodi: fa parte della organicità dimensionale degli stili. La composizione empirica della rappresentazione prospettica, prima del Brunelleschi; e la costruzione prospettica geometrico-matematica, dal sec. XV fino all’età moderna, appartengono a quel motivo e quesito qualificanti della storia del gusto, che si chiama prospettiva artificiale: rappresentazione, illusione soggettiva, suggestione della terza dimensione spaziale, profondità; che è poi il sentimento simbolico dello spazio che l’artista intende trasmettere nell’opera, e comunicare al fruitore della medesima.

Il momento della fruizione come proiezione e identificazione simpatica era stato teorizzato da Theodor Lipps, che in generale già aveva parlato di una «estetica dello spazio» nel suo Raumästhetik und geometrisch-optische Täuschungen. Si tratta di quelle forme geometriche fondamentali (linee animate verticali, orizzontali, ecc.), di cui noi sentiamo per analogia l’andamento vitale. Al concetto spaziale dei teorici della Einfühlung si collega profìcuamente il contributo critico dei teorici della pura visibilità. I quali si sono adoperati, come è noto, ad istituire e definire categorie, o costanti, della visione figurativa. In proposito, è interessante la proposta di August Schmarsow relativa ai tre fattori principali che la contemplazione architettonica comporta: lo spazio tattile, lo spazio visuale, lo spazio di moto in avanti (Gehraum). Lo Schmarsow inoltre, nei Grundbegriffe der Kunstwissenschaften (1905), distingue, nell’edifìcio architettonico, spazio interno 23

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e spazio esterno, assai prima di altri teorici e critici dell’architet-

tura [cfr. M. Borissavliévitch, 1926, pp. 19-20].

Quanto all’uso critico del concetto di S., l’accezione del termine, o delle relative aggettivazioni, subisce varianti di significato. Si legga qualche brano della ormai classica monografìa di R. Longhi (1927) su Piero della Francesca. In poche righe si parla di «misure spaziali», «sentimento dello spazio», S. vinto dall’energia, «spaziosità»: Come, attraverso le equazioni degli angoli, Paolo (Uccello) raggiungesse l’arte, è cosa che s’intende quando si rifletta che in quegli anni giganteschi e rivoluzionari accanto alla ricerca scientifica sorgeva il modo lirico della ricerca medesima; accanto alla ricerca delle misure spaziali, il sentimento dello spazio, incredibilmente propagatosi, infatti, dopo che il Brunelleschi aveva scoperto che una bellezza di rapporti metrici, la proporzione armonica, era annidata nella vastità delle aule antiche.

Molti anni dopo, lo stesso R. Longhi (1952), nel considerare le sorprendenti facoltà prospettiche di Giotto, in merito ai cosiddetti «coretti» nella parete dell’arco trionfale della cappella degli Scrovegni, ha intitolato quel suo memorabile articolo: Giotto spazioso.

Che lo spazio, il vuoto, sia il protagonista dell’architettura, a pensarci bene, è in fondo anche naturale: perché l’architettura non è solo arte, non è solo immagine di vita storica o di vita vissuta da noi e da altri; è anche e soprattutto l’ambiente.

Memoria

«Funzione psichica complessa che, attraverso i processi di fissazione, ritenzione, richiamo e riconoscimento dei dati della percezione, permette la riproduzione mentale di impressioni, nozioni, esperienze e comportamenti della vita passata, i quali in tale modo diventano elementi integrati e dinamici della personalità e rendono possibile l’attività psichica [S.

Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, 1978, vol. X, p. 46]; noi diciamo più semplicemente che la memoria è la facoltà di ricordare.

La memoria sembra costituita da due condizioni o momenti distinti: 1° la conservazione o persistenza, in una certa forma,

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