Op. cit., 130, settembre 2007

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Op.cit. rivista quadrimestrale di selezione della critica d'arte contemporanea

Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segretaria dì redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80123 Napoli, Via Capurro, I - Tel. 081/5756654 Un. fascicolo separato € 9.00 (compresa IVA) - Estero€ 10.00 Abbonamento annuale: Italia€ 25.00 - Estero € 28.00 Un fascicolo arretrato€ 10.00 - Estero € 11.00 Spedizione in abbonamento postale - 70% Direzione commerciale imprese - Napoli C/C/P n. 24514804 Electa Napoli


R. DE D.

Fusco, Russo,

B. ANIELLO, A. CAPPELLIERI,

Architettllra, arte applicata Nuova galassia tipografico-digitale L'Iconografia dell'estasi Quando i designer erano architetti libri, riviste e mostre Le pagine dell'ADI

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Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Eduardo Alamaro, Rossano Astarita, Marilena Borriello, Francesca Rinaldi.



Architettura, arte applicata RENATO DE FUSCO

In tanto parlare di comunicazione, ritengo sia utile ri­ prendere una nozione in passato mal posta e quindi accan­ tonata, quella di arte applicata. Essa rientra nella serie di binomi utilizzati dall'estetica per meglio definire gli aspet­ ti polivalenti dell'arte. Le arti si dicevano maggiori e mi­ nori, liberali e meccaniche, dello spazio e del tempo, libere e non libere, la bellezza veniva distinta in vaga e in adhae­ rens, le arti scisse tra «pure» o appunto applicate, ecc. Ogni stagione della storia dell'arte ha proposto una sua particolare interpretazione a seconda del modo di pensare, dell'organizzazione lavorativa, delle concezioni sociali. Prima di procedere oltre, accenniamo brevemente al signi­ ficato di alcuni di questi binomi. Senza rifarsi al mondo antico per alcune di tali distin­ zioni, quella tra arti maggiori e minori risale all'età comu­ nale a proposito della diversa importanza tra le corporazio­ ni delle Arti e dei Mestieri; durante il Rinascimento la differenza era data dalla separazione tra artisti e artigiani e dall'intento di ridimensionare le corporazioni. Come ha osservato Ferdinando Bologna, lo strumento sociale del rigido sistema gerarchico furono le Accademie del Di­ segno, delle quali la prima fu quella istituita dal Vasari a Firenze nel 1562, la più esplicitamente programmatica e influente fu l'Accademia di San Luca in Roma, nata

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nel 1577 col fine di sostituire l'antica corporazione degli artisti, ma già nel 1593 eretta a scuola d'arte per inizia­ tiva di Federico Zuccari [ ... ]. Dall'origine, le Accade­ mie ebbero per fine di formare ed associare in un corpo socialmente solidale gli artisti "dotti" e "speculativi" [F. Bologna, Dalle arti minori all'industriai design, storia di un'ideologia, Laterza, Bari 1972, p. 64). li binomio maggiori-minori ha seguito l'alternarsi delle vicende stori­ che dell'arte e della critica, donde i momenti di rivalutazione dell'artigianato, da William Morris a Riegl. La separazione fra liberali e meccaniche è ancora più antica e coinvolge molte arti: la retorica, la geometria, l'aritmetica, l'astronomia, la musica, mentre si dubitava che fossero liberali le arti figurative. Emblematica della mentalità del tempo è la distinzione di S. Tommaso, il quale chiamava liberali le arti, che riguardano l'abito speculativo della ragione, servili quelle esercitate me­ diante il corpo [cit. in L. Grassi-M. Pepe, Dizionario della critica d'arte. UTET, 1978, voi. I. p. 50]. In breve, per molto tempo le arti liberali erano quelle che più si avvicinavano alla scienza, meccaniche quelle che si incen­ travano sul pratico operare. Il binomio arti libere-non libere trova in Hartmann ( 1886) il suo maggiore sostenitore: nel saggio Die deutsche Aesthetik seit Kant, muove dalla distinzione kantiana fra «bellezza libera» e «bellezza aderente»� la prima avente un fine in se stessa, la seconda invece in rispondenza ali' og­ getto cui aderisce. L'architettura sarebbe allora arte non libera (unfreie Kunst) in quanto legata alla propria "realtà", mentre le altre arti "rappresentano" la realtà. Si tratta di una distinzione artificiosa e senz'altro da respingere, sia perché considera l'architettura un'arte condizionata da componenti di utilità e di praticità che ne compromettono la purezza, sia perché ancora si ap­ poggia al vecchio sistema delle arti imitative [L. Grassi, in op. cit., p. 51]. E veniamo alla nozione di «arte applicata». Essa si


afferma in Inghilterra intorno alla metà del secolo XIX ed è in relazione ali'industria; il rapporto arte/industria si pone immediatamente dopo la fase paleoindustriale. II di­ battito sul significato e le ragioni delle arti applicate fu particolarmente vivo negli ultimj decenni dell'Ottocento. In un giudizio di William Morris è sintetizzato molto di quanto si discuteva nel suo paese: Lo scopo di applicare l'arte agli articoli utilitari è duplice; in primo luogo, per aggiungere bellezza al risultato del lavoro umano, che potrebbe altrimenti essere brutto; ed in secondo luogo per dare gioia al lavoro stesso, che altrimenti sarebbe spiacevole e disgustoso [Cit. da M. Pepe, in op. cit., p. 48). Il passaggio dalle morrisiane Arts and Crafts ali'Industriai design è sufficientemente noto per doverlo riprendere in questa sede. Soffermandoci invece sull'espressione «arte applicata» è possibile dame altre interpretazioni. Se la gran parte delle analoghe distinzioni dell'arte è, come s'è visto, in sostanza fondata principalmente sulle categorie sociali degli artefici, legata al loro tipo di lavoro più o meno mentale e più o meno manuale, la questione dell'arte applicata è di altro genere. Essa - che si pone in termini affatto nuovi con la rivoluzione industriale - non riguarda tanto le mo­ dalità lavorative quanto la natura stessa di un'arte in cui il pratico prevale sull'estetico, in cui il valore-interesse (la proprietà di soddisfare determinati interessi) prevale sul1' interesse, per così dire, «disinteressato» dell'arte, in cui l'artisticità diffusa prevale su quella eccezionale ed emer­ gente, in cui soprattutto il dicibile, il razionale, la semiosi, prevalgono sull'ineffabile, l'ambiguo, l'arazionale, l'astanza per usare la nota espressione di Cesare Brandi. Inoltre, da quanto precede si evince che la serie delle distinzioni non è un tema campato in aria perché indica reali condizioni; come dicevo, non è un falso problema, ma solo un problema mal posto. Proviamo a rivederlo in un'ottica diversa che si richiama ad assunti più antichi e in pari tempo a conoscenze più moderne. Cominciamo a ri-

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conoscere alcune invarianti qualitative; per questo o quel motivo, tutti i primi termini dei binomi denotavano in genere gli aspetti migliori delle arti, il contrario facevano i secondi; cosicché, concentrandoci come stiamo fa cendo sulla nozione di arte applicata, questa veniva sempre inte­ sa come un'esperienza secondaria rispetto alle cosiddette arti «pure», una pratica più fabbrile che spirituale, un mestiere più meccanico che libero. Ma accettando questo genere di valutazione, come porre il caso dell'architettura, da un lato, certamente cosa prati­ ca, funzionale e appunto fabbrile con la definizione stessa di quest'arte, considerata di livello superiore a cominciare dal suo etimo derivato da archein, essere al comando? La parola architettura deriva dal greco architektonia. È composta da archi-, particella prepositiva che serve a denotare superiorità, preminenza, eccellenza, e tektonia che significa costruzione. Arché indica ciò che è in prin­ cipio: è ciò che sta nelle profondità mitologiche e aral­ diche dell'origine, ma è anche ciò che si impone per principio, perché è evidente, logico, elementare. Rinvia a un primato di grado (potenza, regno, carica) e di tempo (inizio, principio). [R. Masiero, Estetica dell'ar­ chitettura, il Mulino, Bologna 1999, p. 13]. Come può essere «applicata» un'arte, anzi una super­ arte, così titolata? Evidentemente l'aggettivo non denota qualcosa di scarso valore e comunque di inferiore rispetto alla arti «pure», donde la necessità di trovargli un altro significato. In genere si sorvola sulla contraddizione: non si nega ali' architettura la valenza marcatamente utilitaria e al tempo stesso si conserva l'assunto che, come abbiamo appena visto, quest'arte è al di sopra delle altre. Anche quando, specie ad opera di Riegl, fu superato il principio «sportivo» del primato, tant'è che, ad opera dello stesso autore, furono riabilitate anche le cosiddette arti minori, restò comunque un certo imbarazzo nel considerare una pratica tanto nobile come l'architettura utilizzata per fini 8

servizievoli.


Eppure, come ho già avuto occasione di notare altrove, si esce dalla contraddizione, pensando che la parola «ap­ plicata» vada intesa non nel senso che l'architettura si applica a qualcos'altro - che poi non si saprebbe indicare - ma piuttosto che all'architettura si applicano molti altri fattori, scienze e pseudo-scienze. Per giungere a tale con­ clusione bastava leggere Vitruvio: Architecti est scientia pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata, ecco l'applicazione ad essa di vari fattori, non solo, ma il cuius

iudicio probantur omnia quae ab ceteris artibus perfi­ ciuntur opera, vale a dire che tutte le altre arti sono sot­ top?ste al suo giudizio, il che conferma il suo superiore prestigio. Ora, mentre la prima parte della frase conferma l'idea che altri saperi si applicano all'architettura, la seconda parte, benché più opinabile, pure contiene l'osservazione attendibile per cui molte altre esperienze, almeno nel cam­ po delle arti figurative, si avvalgono dell'architettura. Quan­ to pittura, scultura, arti grafiche, design contraggono debiti con l'architettura è noto a tutti, ma una recente dichia­ razione, sulla quale ritornerò più avanti, mi sembra con­ fermare tale assunto. Intanto, volendo accentuare quella notazione di «appli­ cato» nel senso detto sopra, va chiarito che in architettura (e come vedremo nel design) ci troviamo nell'ambito della «cultura materiale», vale a dire di una cultura composta da apporti chiaramente percepibili - le note leggi della fisica, la tecnologia dei materiali, l'esperienza storica e simili piuttosto che dipendente dal portato della nuova tecno­ scienza di cui siamo, nella grande maggioranza, solo in­ consapevoli fruitori. Certo, anche gli apporti digitali sono un'applicazione all'architettura di qualcosa che la rende scientia pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata, ma con la differenza che non sappiamo fino a che punto essi la trasformeranno tanto da renderla irriconoscibile e difficilmente contenibile nei tanto invocati «limiti dello sviluppo».

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L a «cultura materiale» inoltre comporta il tema della manualità. Un tempo l'espressione «fatto a mano» era intesa come garanzia della qualità di un prodotto; succes­ sivamente, coi perfezionamenti della tecnica, essa è venu­ ta eclissandosi quasi che fosse una nota di demerito; si assisteva così ad una sorta di ribaltamento del giudizio molto spesso più ideologico che riferito ad una situazione reale. Come che sia, il rapporto tra lavoro hand made e l'architettura, segnatamente il design, è uno dei tanti mai sufficientemente chiariti e in definitiva passato senza giu­ dizio. Anzitutto, sarebbe utile conoscere quanta parte di la­ voro manuale incide ancora nella «cultura materiale». Do­ minio della manualità è certamente la costruzione dei mo­ delli che, forse in ogni settore merceologico, precede l'ini­ zio di una serie. Si tratta di una fase intermedia tra ideazione e realizzazione per la quale non esiste alcuna macchina già pronta dovendo il modello dar forma e occasione di sperimentazione per qualcosa di totalmente inedito o co­ munque abbastanza nuovo da essere considerato un proto­ tipo. Un secondo luogo della manualità è quello in cui si arresta la lavorazione meccanica eseguita da una fabbrica e subentra quella affidata a singoli artefici esterni, sia perché il processo produttivo di un oggetto è di per sé tecnicamente eterogeneo, sia perché si vuole diversificare ciascun esemplare della serie, sia perché risulta più econo­ mica una manifattura mista e/o integrata. L'elenco delle possibili permanenze dell 'hand made potrebbe continuare, ma sarebbe sproporzionato farlo in questa sede. L'esplicita ammissione da parte dei produttori della suddetta promi­ scuità operativa porterebbe all'ideazione di un progetto più libero ed articolato e non totalmente condizionato da una sola tecnologia; porterebbe ad identificare quei pro­ cessi lavorativi propri della piccola serie distinguendoli dagli altri caratterizzati da una illimitata iterazione, evitando le frequenti mistificazioni; porterebbe il consumatore 10



zionata personalizzazione. Si direbbe che il tempo dell'hand made sia definitivamente scaduto. Ma vi sono delle con­ tropartite. Posto che la gran parte della produzione industriale sarà tra breve tutta automatizzata, quanto costerà social­ mente, specie in termini occupazionali l'uso di questa nuova tecnologia? Che faranno tutti quegli addetti che finora hanno integrato in fabbrica il lavoro meccanico con ope­ razioni manuali? Mi accorgo che il mio discorso si avvia a descrivere più una produzione riguardante il design che non l'altra relativa all'architettura, cui mi accingo a ritor­ nare. Sebbene anche nel cantiere edile si registrino continui progressi tecnologici, i gradi di artigianalità e manualità persistono di fronte agli automatismi della produzione in­ dustriale di oggetti; il che non vuol dire che al! 'architettura non si applichino ancora molte altre conoscenze, sia spe­ cialistiche che umanistiche, donde il vantaggio della facol­ tà di architettura rispetto a quella di ingegneria edile, al pari del fatto che il liceo classico sia ancora da preferire a quello scientifico. Questo richiama il secondo enunciato vitruviano per cui dall'architettura derivano esperienze e giudizi. Quan­ to al tema della formazione, nonostante la tendenza alla laurea breve, a diplomare al più presto possibile il mag­ gior numero di giovani, mi pare che le scuole di architet­ tura, per quel tanto in più di discipline ad esse applicate, siano più formative di quelle specializzate nel design; e poi di quale design, quello delle navi o di una pagina pubblicitaria, visto che sembra accertata non l'esistenza di un solo design, ma di tanti quanti sono i settori merceo­ logici? Ettore Sottsass, in un'incontro tra i designer della sua generazione, a proposito di una notazione di Magistretti sulla produzione felice degli anni '50, dice: quel periodo non aveva designer ma architetti, architetti intellettua12 lizzati come Franco Albini e lo stesso Magistretti - io


allora ero piccolo . . . Ma eravamo tutti architetti. Oggi ci sono le scuole di design, che non offrono più la pre­ parazione vasta e articolata di cui noi disponevamo. [Cfr. Nel mondo degli oggetti, in «Domus», n. 869, aprile 2004]. La citazione non intende dire che per essere un buon designer occorre la laurea in architettura, né che le scuole di design vadano abolite, ma solo confermare ciò che sosteneva il vecchio Vitruvio.

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Nuova galassia tipografico-digitale DARIO RUSSO

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In un recente lavoro ho esaminato l'evoluzione della comunicazione visiva negli ultimi decenni, cercando di mettere a fuoco gli orientamenti emergenti'. In quest'occa­ sione, proverò a focalizzare e commentare alcuni temi particolarmente degni di riflessione. Nell'era digitale nella quale viviamo, che la grafica sia «fuori delle regole» mi sembra constatazione ormai paci­ fica e condivisa. Con l'avvento del (persona!) computer, negli anni ottanta, si determina infatti un momento crucia­ le nella storia della comunicazione visiva (il Mac è del 1984). Il computer imprime un drastico rinnovamento delle tecniche operative, accelerando il processo (già in corso) da un metodo di progetto essenzialmente razionale a mo­ dalità di comunicazione sempre più impattanti, e sempre meno ancorate alle regole. Qualcuno si domanderà: «Di quali regole stiamo par­ lando?» Quando si parla di regole in ambito grafico, viene in mente la cosiddetta Scuola svizzera. Questa, intorno agli anni trenta, diede un notevole impulso allo sviluppo del design grafico elaborando una metodologia molto so­ bria e sistematica, basata su una filosofia della progetta­ zione volta a organizzare l'informazione nel modo più limpido possibile, con un approccio tendenzialmente tipo­ grafico. Per fare un esempio, Emi! Roder, uno dei promotori di questa tendenza e autore del celebre trattato di







































guaggio professionale, commerciali. Gli oggetti di Sergio Asti sono come piccole chiavi, per aprire la porta a nume­ rosi percorsi, sono un po' come i biglietti di viaggio o piuttosto come taniche di carburante. [E. Sottsass, Un saluto a Sergio Asti, in Sergio Asti, catalogo della mostra a The Corporation of Intemational Craft Center, Kyoto 1983, p. 9]:-

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