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gennaio 2009

numero 134

Abitare la razionalità - Per una nuova clas­si­ficazione­delle­arti­-­Il­design­ae­ronautico,­Filippo­Zappata­e­la­Breda­-­Libri,­riviste­e­mostre­-­Le­pagine­dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli

Electa Napoli



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Alessandra de Martini, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Rosa Losito Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80121 Napoli, Via dei Mille, 16 - Tel. 081/4297440 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00

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Electa Napoli


F. Purini, R. Barilli, A. Bassi,

Abitare la razionalità 5 Per una nuova classificazione delle arti 19 Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda 31 Libri, riviste e mostre 45 Le pagine dell’ADI

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Renato De Fusco, Antonio Desiderio, Elisabetta Di Stefano, Livia Falco, Fabrizio Migliorati, Miriam Panseri, Titti Rinaldi.



Abitare la razionalità FRANCO PURINI

L’architettura vive oggi una condizione critica caratterizzata da una molteplicità di problematiche contrastanti, segnata dalla compresenza di più direzioni di ricerca in conflitto tra di loro, sottoposta dall’arte a una pressione che si sta facendo insostenibile, resa difficile da una diffusa indeterminazione dei rapporti che essa intrattiene con gli ambiti che la definiscono come un sistema. Superando ampiamente, ma anche deformando in modo sostanziale gli orizzonti, tendenti a una risemantizzazione dell’architettura, che Renato De Fusco aveva individuato nel 1967 nel suo Architettura come mass media, gli edifici si sono trasformati in misura sempre maggiore in veicoli pubblicitari a servizio della logica astratta e atopica delle real estate; parallelamente l’architettura ha rinunciato a prefigurare nuove prospettive per la città, limitandosi a registrare a posteriori ciò che in essa avviene. Al contempo la stessa idea di architettura si è fatta così plurale, relativa e metamorfica da rendersi indefinibile e di fatto inoperante, con il risultato che la ricerca teorica e la riflessione critica stanno subendo un’eclisse crescente mentre ogni ipotesi disciplinare appare confusa, intercambiabile e incidentale. Questa situazione babelica la quale, specialmente in Italia, dove esiste un’abnorme sproporzione tra il numero degli architetti e le opportunità di cui essi dispongono, una situazione che per inciso qualcuno potrebbe anche ritenere, a ragione, en-

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demica, è pervenuta recentemente a un livello per più di un verso patologico. In questo contesto così impervio e complesso, pur se, per altro verso, proprio per questi suoi caratteri suggestivo e avventuroso, l’unica possibilità di costruirsi un punto di vista dotato di una qualche oggettività, dal quale dedurre una serie di conseguenze provviste anch’esse di una certa solidità concettuale, consiste nel chie­dersi a che cosa serva l’architettura. In effetti, solo una risposta motivata alla domanda su quale sia il ruolo dell’architettura sembra in grado di chiarire le finalità e le priorità dell’atto costruttivo. Su questo interrogativo si è svolto recentemente un convegno all’Accademia Normale di San Luca, che ha visto confrontarsi opinioni diverse alla ricerca di punti di vista teorici e di strategie progettuali confrontabili. Spogliata di ogni sovrastruttura discorsiva, delle numerose false coscienze che notoriamente l’accompagnano, nonché di quelle tendenze, oggi così presenti e condivise, che la considerano un derivato della sociologia, dell’economia e della psicologia, l’architettura si rivela, molto semplicemente, come lo strumento per migliorare l’abitare. Il suo compito è solo questo. Migliorare l’abitare è un obbiettivo e insieme il modo di essere dell’architettura, il luogo concettuale che polarizza ogni suo aspetto facendo convergere le aspettative individuali e collettive in un preciso ambito teorico, tecnico e linguistico nel quale esse pos­sono essere ascoltate e realizzate. Migliorarlo, tra l’altro facendo sì che il suo incremento funzionale, rappresentativo ed estetico sia compreso e condiviso dalla comunità. Tale plusvalore non deve proporsi infatti come un’accelerazione improvvisa dei processi vitali e dell’abitare nelle sue forme, ma come l’esito graduale di tendenze in esso presenti. Affermare che l’architetto deve migliorare l’abitare comporta il fatto che la sua disciplina deve dar luogo a una attività – che è un’arte e insieme una scienza – essenzialmente positiva. Ciò significa che, a differenza della letteratura, dell’arte pittorica e plastica, del cinema, della musica, della danza e della poesia l’architettura non ha la


possibilità di descrivere la sofferenza, il disagio, lo spaesamento, l’insensatezza del vivere, la perdita di sé, la tragedia. L’architettura non dovrebbe costruire spazi angoscianti, oppressivi, claustrofobici o agoràfobici, come è avvenuto negli ultimi anni in molte opere decostruttive che hanno recuperato, come nel caso di Daniel Libeskind, le atmosfere allunate e distorte dell’espressionismo; a essa compete definire gli spazi della socialità in quanto spazi destinati, come sosteneva Le Corbusier, alla felicità degli esseri umani. Se questo è vero e è allora anche vero che l’arte del costruire ha a che fare con la sfera della solidità, dell’utilità e di una bellezza armoniosa e accogliente. Come in Vitruvio, dato per finito qualche anno fa da Kurt Forster, curatore di Metamorph, la IX Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia del 2004. Prima di continuare il discorso iniziato è utile a questo punto mettere in evidenza alcune contraddizioni che attraversano l’architettura in questo inizio del Ventunesimo Secolo. La prima di queste contraddizioni consiste nel fatto che, se nella cultura contemporanea e nel sentire comune la città è vista come un sistema di flussi, di relazioni contestuali, di segnali in incessante progressione, se è vissuta come luogo di una pluralità di fenomeni in continua evoluzione immersi in un dinamismo totale, capace di evocare un’infinità cosmica, questa stessa fluidità non è traducibile in quanto tale nell’architettura. Questa, infatti, non è mai mobile e metamorfica. La facciata romana di San Carlino di Francesco Borromini è una superficie curva che evoca senz’altro un movimento ma solo perché chi la osserva effettua un trasferimento empatico da se stesso all’oggetto architettonico, attribuendo a tale oggetto una sensazione provata dallo stesso osservatore. In realtà quell’edificio, ma la stessa cosa si può dire per le opere di Frank O. Gehry, di Zaha Hadid o di Peter Eisenman, sta fermo sulle sue fondamenta, esattamente come un volume statico di Oswald Mathias Ungers. Sia esso plasticamente articolato, spazialmente compenetrato e in qualche punto dissolto

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nell’atmosfera o, al contrario, raccolto in se stesso come un blocco unitario, un edificio è sempre una presenza solida che occupa un punto preciso e unico dello spazio urbano, indipendentemente dalle impressioni che esso può suggerire, e dalle metafore che è in grado di attivare. Il senso della fluidità è allora qualcosa che non può appartenere per davvero all’architettura, configurandosi come una sua aggettivazione secondaria, in qualche modo aggiuntiva, un mero accidente descrittivo. In altre parole il senso della fluidità rappresenta un elemento che genera equivoci piuttosto che offrire nuove chiavi interpretative. Quanto detto è valido anche per altri trasferimenti empatici quali quello relativo alla pluralità, inteso in architettura come moltiplicazione semantica del manufatto, o alla presenza di segnali, visti come autoproduzione di messaggi da parte dell’edificio.

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Una seconda contraddizione riguarda sempre la città, di cui si considera in questo caso la condizione strutturale. Nella modernità la città ha scelto di essere discontinua, illimitata, dispersa, disordinata, frammentaria, disorganica, smisurata. Questi caratteri si sono talmente radicati da aver prodotto un vero e proprio immaginario. La città del Novecento si è rappresentata, nell’arte pittorica e plastica, nella musica, nella danza, ma soprattutto nel cinema, come un insieme governato dal caos. Un insieme entropico capace di provocare sorpresa e meraviglia, accompagnate dal­ l’entusiasmo e dal piacere benjaminiano del perdersi. Tuttavia questa essenza energetica della città, così forte da provocare stordimento e perdita del controllo su di sé in chi la vive, travolto dai suoi ritmi accelerati, pur iscrivendosi in una vera e propria estetica, è in profonda opposizione rispetto alle qualità che si richiedono all’abitare. Questo dovrebbe infatti essere limitato, misurato, riconoscibile, armonico, gerarchico, in grado di garantire sicurezza, accoglienza, possibilità di coltivare nel migliore dei modi i rapporti sociali. Deve essere limitato ovvero dotato di ben definiti elementi di margine perché occorre sempre poter individuare i confini reali e virtuali degli spazi, se si


vuole evitare di causare senso di disorientamento; deve sostenersi su un sistema di misure di agevole lettura chiamato a contribuire alla sua riconoscibilità, vale a dire alla possibilità di possederlo mentalmente e di decifrarlo nel suo insieme e nelle sue parti. Sul fatto che l’abitare debba essere armonico non ci possono essere dubbi, nonostante l’architetto possa subire il fascino della disarmonia, un carattere che egli sarebbe costretto comunque a escludere dall’architettura che disegna e costruisce. Anche la necessità che l’abitare possieda una gerarchia, ovvero una gradazione in esso di valori differenziati, non ha bisogno di essere argomentata, essendo un requisito che assicura al­ l’abitare stesso una giusta relazione tra le sue componenti. Garantire sicurezza, accoglienza, possibilità di coltivare rapporti sociali sono tre requisiti indiscutibili dell’abitare alla pari del carattere armonico che esso deve presentare. In sintesi, la città del Novecento è fatta di spazi destabilizzanti e perturbanti, spesso ostili e pericolosi e ciò è in conflitto con l’abitare, che dovrebbe essere protetto, selettivo, disponibile a essere memorizzato e per questo dotato di punti singolari, carichi di significati topologici e architettonici. Un’altra contraddizione concerne una questione temporale. La cultura moderna e contemporanea ha scelto la dimensione dell’effimero e dell’istantaneo, esautorando tutto ciò che è duraturo. In accordo con questa, molti, anche tra gli architetti, ritengono che ciò che ha una vita brevissima sia portatore di un senso di disponibilità al cambiamento, di una libertà di configurazioni in altre forme, della volontà di non inverarsi in soluzioni così persistenti da risultare alla fine convenzionali e, per questo, autoritarie. In realtà l’architettura, contrariamente a quanto affermavano gli architetti futuristi, non può essere istantanea ed effimera. Anche quando essa dura poco, come avviene per gli stand di una esposizione – si pensi ai bellissimi padiglioni di Luciano Baldessari – essa appartiene al novero delle cose du­revoli, di cui possiede le proprietà strutturali

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nonché i modi attraverso i quali queste vengono decodificate. Gli allestimenti di Franco Albini, a esempio, sono contraddistinti da un impianto talmente rigoroso, così scandito in sequenze musicali e correlato nelle sue parti da assumere nella memoria quella permanenza con la quale si ricordano i momenti. All’architettura si deve quindi chiedere di farsi solido antemurale nei confronti del tempo, rappresentando ciò a cui si può sempre tornare. Un’ultima contraddizione si riconosce nella prevalenza nella città moderna di ciò che è aperto rispetto al chiuso. Anche in questo caso si crede che l’apertura sia il segno di una maggiore libertà, della capacità di lasciare spazio al­ l’attraversamento degli spazi urbani da parte di fenomeni e di cose che portano elementi nuovi. Si pensi a questo proposito alla mitologia del nomadismo, considerato come il massimo emblema di una città che è capace di ospitare culture diverse e di convivere con esse. Ciò che è chiuso è simmetricamente visto come un rifiuto nei confronti del­ l’incontro con l’altro. È evidente come questa contrapposizione non debba essere meccanica ed esclusiva ma a sua volta inclusiva e dialettica. L’abitare non può essere o aperto o chiuso, ma aperto e chiuso allo stesso tempo. Esso ospita una comunità identificandola con un perimetro nel momento stesso in cui questo perimetro è interrotto da porte per consentire a esso di accogliere persone e cose in una continua interrelazione di ciò che permane con ciò che cambia. Alla dimensione chiusa dell’abitare si richiede quindi di trattenere una serie di suoi contenuti, a quella aperta di riformularli incessantemente alla ricerca di equilibri temporanei, destinati dopo un certo tempo a essere anche essi modificati.

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Le contraddizioni descritte nei paragrafi precedenti, che impegnano il progetto in mediazioni tanto incessanti quanto, quasi sempre, inadeguate, si iscrivono nel loro insieme in una convinzione estesa e radicata, consistente nel credere che la realtà sia troppo complessa per essere go-


vernata. Si ritiene che non sia possibile intervenire su di essa per cambiarla, ma che sia consentito solo rappresentarne i processi. Ma non basta. Soggiacendo alla complessità spesso mitizzata, ci si sottrae a uno dei compiti principali dell’architetto, quello di trasformare la complessità stessa in semplicità scegliendo, all’interno di chiare priorità, soluzioni che possono essere comprese da tutti nelle loro finalità e nelle modalità con le quali esse saranno messe in atto. In questo modo, rinunciando a quella distanza critica di cui parla da tempo Vittorio Gregotti, ci si limita ad assecondare i fenomeni osservati, individuando nei risultati dell’analisi la finalità stessa dell’operazione progettuale. Si afferma così un’ottica che si potrebbe definire superrealista per la quale il progetto è il calco di una condizione esistente ritenuta, con un certo compiacimento, estetizzante, immodificabile, soggetta soltanto a essere trascritta negli interventi urbani e architettonici negli stessi termini con i quali essa è stata rilevata. Le posizioni di coloro che si riconoscono nella teoria della città generica e dello junkspace di Rem Koolhaas, rappresentano un modo sofisticato almeno quanto ambiguo di lavorare all’interno del­l’equivalenza tra ciò che si osserva e ciò che si propone. Se fosse vero che la città contemporanea non ha più identità, e che lo spazio pubblico è solo uno scarto – un rottame come quelli di cui parla Zygmunt Baumann quando descrive le metropoli globali come altrettante discariche – l’unica cosa da fare sarebbe quella di restituire alla città stessa e ai suoi spazi riconoscibilità e senso comunitario. Al contrario, chi condivide le prospettive koolhaasiane ritiene opportuno confermare l’omologazione della città contemporanea e il proscioglimento dello spazio pubblico in quello del consumo, di cui diventa una semplice appendice funzionale. La stessa cosa si può dire per coloro che trasferiscono l’ipotesi di Marc Augé, relativa all’esistenza dei non luoghi, nel progetto urbano. Il compito dell’architetto non è quello di celebrare l’atopia, ma quello di trasformare i non luoghi in luoghi, ovvero spazi nei quali sia possibile, da parte di chi abita, stratificare usi,

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memorie e valori collettivi, in una parola quelle narrazioni senza le quali la città non avrebbe senso. Quanto detto riguarda anche i sostenitori dell’architettura della comunicazione, materializzata dai media building. I volumi e gli spazi che essi contengono sono ritenuti semplici supporti per l’involucro, una pelle iridescente e cangiante nella quale si concentrano tutti i significati dell’edificio. In tal modo si sovrappone alla città dei flussi una sua replica esasperata, sovente sottilmente parodistica. L’architettura non è più fatta di ambienti dove si vive. Essa si riduce alla bidimensionalità di schermi e di griglie e di transenne che veicolano segnali o motivi decorativi. Simili a televisori o a opere di arte plastica – le archisculture teorizzate da Germano Celant – gli edifici fanno a gara nel dissimulare la loro vera natura rinunciando a esprimere quei contenuti architettonici attraverso i quali si passa gradualmente dal suolo al cielo dando una forma compiuta a ogni fase del processo costruttivo. Un processo che è analogo a quello con il quale gli esseri umani edificano la loro comunità. Tuttavia, le architetture decostruttiviste, i media building, le archisculture o le sofisticate almeno quanto ingenuamente futuribili macchine performative dell’high tech, cariche di una hybris ammonitrice e moralizzante non sono le sole a non corrispondere al loro ruolo esagerandolo, mistificandolo o diminuendolo. Non si può infatti dimenticare l’ossessione descrittiva e paligenetica del paesaggismo, uno spazio problematico per certi versi nuovo che sta cercando di sostituire, e in fondo di negare, gli ambiti propri del territorio e della città a favore di una totalizzazione estetica del mondo fisico nutrita di un ecologismo idealizzante. Sostituendosi ai codici del linguaggio urbano e architettonico, e di conseguenza alla loro storicità, i segni del paesaggismo pretendono di trasformare ogni area del pianeta in un’opera d’arte dalla pervasiva e insidiosa ridondanza retorica insidiosa perché fa leva sull’etica in una captatio benevolentiae venata di opportunismo e di mi­ tologia ambientalista sospesa tra efficientismo e spiritua­ lismo.


Negli ultimi anni sono emerse una serie di critiche motivate alla dissipazione superrealista che è stata appena sintetizzata. Alcune voci di diversa provenienza, oggi non più scarse e isolate ma numerose e per così dire, messe in rete, stanno procedendo a una profonda revisione della condizione attuale dell’architettura. Marco Romano, urbanista e storico della città, sostiene con argomenti convincenti, come nel recente La città come opera d’arte che l’idea oggi vincente di non disporre più di strumenti per conferire agli insediamenti urbani una dimensione finita, una struttura organica e una bellezza riconoscibile e condivisa è del tutto infondata. Egli dimostra infatti che gli strumenti per fare di nuovo delle città un manufatto esteticamente significativo, una ritrovata cosa umana per eccellenza, citando Claude Levi-Strauss, sono senz’altro disponibili se solo si volessero usare. Franco La Cecla, con il suo Contro l’architettura vuole richiamare questa disciplina alle sue responsabilità, tendendo però a ridurla a una espressione socio-antropologica. Vittorio Gregotti, in polemica con lo stesso La Cecla e con un forte interesse per le tesi di Arthur Danto sulla fine dell’arte, ripropone la già richiamata distanza critica come ambito per una ridefinizione del ruolo dell’architettura interna ai suoi strumenti specifici. Camillo Langone, ne Il collezionista di città mette in evidenza gli eccessi autoreferenziali e il carattere anticontestuale dell’architettura contemporanea. Nikos A. Sa­lingaros svolge in Architettura e demolizione – la fine del­l’architettura modernista, una accurata requisitoria contro il nichilismo decostruttivista, mentre in Principles of Urban Structure espone una teoria completa e convincente sul disegno di insediamenti urbani compiuti e organici in opposizione al dilagare della città diffusa e alla scomparsa dello spazio pubblico. Accenni altrettanto critici nei confronti del meccanicismo atopico e della deriva mediatica dell’architettura contemporanea si trovano negli interventi di Roger Scruton e nell’attività teorica di Claudio D’Amato, curatore del concorso Città di Pietra, una delle manifestazioni interne alla X Mostra Internazionale di Architettu-

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ra della Biennale di Venezia del 2006. Il concorso promuoveva la ricerca di modalità costruttive legate all’uso di materiali lapidei in opposizione sia alla tettonica discontinua del cemento armato e dell’acciaio, sia al declino della tipologia, in quanto principio in grado di conferire omogeneità e riconoscibilità al tessuto edilizio, un principio erroneamente ritenuto oggi, dalla maggior parte degli architetti, del tutto superato. Diversa per molti aspetti dalle posizioni esposte, quella di un altro importante protagonista del dibattito architettonico contemporaneo, Paolo Portoghesi. Facendo proprie alcune riflessioni di Gregory Bateson egli sostiene da tempo la necessità di un nuovo patto tra natura e architettura – Natura e architettura è il titolo di un suo libro del 2003 – per un abitare più organico e avanzato, nel quale la sostenibilità non sia soltanto un’esigenza tecnica ma l’ambito di una nuova bellezza dell’architettura.

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Tranne la posizione di Franco La Cecla, di Vittorio Gregotti e di Paolo Portoghesi, le altre si situano tutte, con diverse sfumature, nell’ambito dell’altra modernità se non proprio dell’antimodernità. È questo, in effetti, il discrimine. La condizione attuale dell’architettura, per la quale essa appare oggi non solo incapace di raggiungere i propri obbiettivi, ma soprattutto intenzionata a contrastarli, non sembra superabile assumendo come riferimento le tesi, peraltro complesse e motivate, dal New Urbanism, una corrente di pensiero e un orientamento progettuale derivanti dalle teorie di Christopher Alexander e di Leon Krier. Anche se le analisi prodotte dai rappresentanti di questo movimento, tra i quali Salingaros, sono ampiamente condivisibili, ciò che non appare accettabile è la ricerca di alternative al di fuori delle problematiche dell’architettura moderna. Ovviamente non tutto ciò che i teorici della modernità architettonica hanno sostenuto è oggi valido – si pensi a esempio alle astrazioni, alle schematizzazioni e alle premesse omologanti presenti nella Carta d’Atene – ma senza dubbio i numerosi fenomeni degenerativi che hanno


accompagnato l’applicazione dei sui principi possono e debbono essere eliminati agendo all’interno di questi stessi principi. Nonostante l’autenticità dell’impegno che anima i sostenitori del New Urbanism, i risultati del loro lavoro non convincono del tutto perché immersi in un clima revivalistico e artificioso, che recupera forme del passato allestendo scenografie urbane seducenti e al contempo ingannevoli. In qualche modo le opere concepite all’interno di questa corrente, – come ad esempio Seaside, di Andres Duany e Elizabeth Plater-Zyberk, la nuova città in Florida nella quale è stato ambientato il film The Truman Show – presentano un percepibile sdoppiamento tra un impianto urbano rigoroso e armonico, sapientemente strutturato secondo gerarchie scalari che differenziano i percorsi con accurate modulazioni dimensionali, e il ricorso a un linguaggio architettonico cha gioca più sulla sua capacità evocativa che sulla propria logica. Tale dissociazione sancisce una distinzione tra la sfera pubblica e quella privata. La prima è il luogo di un ordine che permea ogni ambito dell’insediamento, rappresentandosi soprattutto nella pianta, la seconda si riconosce in una serie di varianti di un codice classico visto come un repertorio infinito, ma anche largamente interscambiabile e aleatorio, di soluzioni architettoniche. Queste critiche non tolgono comunque validità alle analisi dalle quali il New Urbanism trae i propri principi. Analisi sulle quali chi si riconosce nella tradizione moderna dovrebbe riflettere seriamente alla ricerca di come queste possano essere acquisite in un ordine problematico dedotto criticamente da questa stessa tradizione. In effetti, nelle diagnosi di La Cecla, di Gregotti, di Portoghesi, ma anche nelle posizioni di Giorgio Grassi, di Antonio Monestiroli e di altri esponenti della Tendenza, esistono elementi comuni a quelli che emergono da quanto affermano Langone, Salingaros, Scruton, D’Amato. I due fronti sono infatti uniti dal rifiuto dell’autoreferenzialità, dal considerare l’operazione progettuale qualcosa che ha bisogno di una sua logica, dall’attenzione per il contesto – che per inciso Rem Koolhaas disprezza – dall’idea che

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l’abitare debba essere progettato nella sua interezza e non considerato come un’estensione illimitata, indifferenziata, destrutturata e frammentaria, disponibile ad accogliere architetture casuali, landmark chiamati a esaltare singoli punti del tessuto urbano all’interno di una discontinuità accettata come un dato in qualche modo non suscettibile di essere modificato.

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L’architettura è un’espressione collettiva. Essa non viene cercata ma è essa stessa che si propone autonomamente a chi attraversa la città. Per questo non deve essere aggressiva, invasiva, iperdisegnata e spettacolare. Per la sua stessa natura l’architettura dovrebbe invece, a differenza dell’arte, collocarsi nel registro medio dell’espressione. Va chiarito che in tale registro essa può toccare la massima intensità – si pensi alle opere di Giuseppe Terragni – senza che venga infranto quel patto che prevede per l’architettura l’obbligo, per così dire, a dissimulare, la propria riconoscibilità linguistica all’interno della moltitudine di edifici che costituiscono la città. Proprio a causa del carattere pubblico dell’architettura il suo linguaggio è costretto a vivere una condizione duplice. Come si è già detto, esso è tenuto ad assumere una tonalità media ma al contempo può e deve proporre anche un secondo livello espressivo, un piano linguistico che può essere complesso fino all’ermetismo, denso di rimandi e di assonanze, attraversato da conflitti. Da questo punto di vista non c’è limite alla sperimentazione formale, ma solo se essa si configura come una scrittura parallela, un discorso introverso che non interferisce con la necessità che l’architettura metta in primo piano la sua essenza collettiva, il suo doversi inserire in una situazione di sostanziale equivalenza delle varie evidenze che essa può volta per volta assumere. La normalità contro l’eccezionalità, dunque, una normalità che non esclude una sua esistenza laterale, a volte appartata fino alla segretezza. In fondo si tratta di accettare la dimensione dell’anonimato – la sfida eroica della modernità – come luogo della più ampia possibilità di essere compresi. Ri-


cordandosi, nello stesso tempo, che il silenzio al quale la ragione permette di arrivare può conciliare la più radicale rarefazione della scrittura architettonica con una estrema concitazione della forma. Migliorare l’abitare, il fine dell’architettura, si inserisce nel quadro descritto in queste note. Un quadro che individua nella razionalità la categoria principale di un’architettura in grado di corrispondere pienamente al suo ruolo. Ci si potrebbe spingere ancora più avanti sostenendo che la razionalità è in qualche modo un sinonimo della stessa architettura, dal momento che senza il sostegno della logica, della chiarezza, della consapevolezza delle scelte da fare e delle operazioni da compiere l’architettura difficilmente può essere pensata e costruita. Una razionalità non ridotta comunque a una questione di metodo, o confinata nella lucidità di analisi esaurienti e illuminanti, ma aperta a verificare quanto di irrisolto o di inascoltato ci sia nella realtà, che cosa questa richieda per continuare a essere considerata come tale, e non una sua alterazione o una sua inerte prosecuzione, in che cosa essa coincida con ciò a cui l’abitare tende. Abitare la razionalità come una forma di utopia della realtà allora, come la ricerca costante di ciò che riesce a giungere là dove è atteso.

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Per una nuova classificazione delle arti Renato Barilli

Dobbiamo al Lessing (1729-1781) una delle più limpide proposte di classificazione delle arti che siano mai state avanzate, quella secondo cui la pittura e la scultura sarebbero arti dello spazio, e la letteratura, nei due rami della poesia e del dramma teatrale, nonché la musica e la danza, avrebbero come tratto fondante il tempo. A sviluppare una simile articolazione, che comunque appare poggiare su un limpido buon senso, era stato il saggio dedicato al gruppo scultoreo del Laocoonte, e a lui intitolato, apparso nel 1766. In quell’opera il Lessing si chiedeva se la letteratura fosse stata capace in passato, o lo fosse in quei tempi, di raggiungere un simile stato di violenza e di tensione quale risultava dall’immagine del sacerdote troiano avvolto assieme ai figli tra le spire del serpente. Lessing, sia ben chiaro, parteggiava per il primato del dramma teatrale-letterario, di cui era egli stesso tenace e valido cultore, ma questa preferenza professionale non gli impediva certo di arbitrare onestamente il confronto, evitando anche di risolverlo col dichiarare una confluenza ed equipollenza tra le due arti. Anzi, al contrario, i meriti della sua trattazione cominciavano proprio per il fatto di respingere la fatua e stereotipata equiparazione quale echeggiava nel detto tradizionale ut pictura poësis, che era stato un cavallo di battaglia delle vecchie dottrine classiciste. Non che l’autore tedesco avesse la capacità di staccarsene decisamente, ma-

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gari andando a preannunciare lieviti della futura stagione genericamente ascrivibile al romanticismo. Lo vediamo in­fatti ancora intrigato nelle solite questioni se all’arte o alla letteratura fosse possibile prescindere dal bello, e dal­ l’eccellenza del tema umano, il tutto sotto l’influenza del­ l’indefesso propugnatore del primato di una classicità arcigna e dura qual era allora il suo connazionale Winckelmann, cui nel saggio in questione vanno numerosi riferimenti. Ma di una cosa il Lessing era sicuro, che ci fosse appunto una differenza incomponibile, tra la capacità consentita allo spettatore del gruppo scultoreo del Laocoonte, di afferrare l’immagine in un abbraccio globale, qui e ora, senza sporgere nel tempo, laddove il lettore di un qualche equivalente di passionalità e di tormento psichico affidato all’espressione verbale doveva affidarsi a un scorrimento, procedere per tappe successive. A ben guardare, il Lessing non chiarisce con precisione se, riferendosi a un’esposizione dei motivi psicologici svolti nella sequenzialità del dramma, si rivolga proprio all’azione diretta quale avviene su un palcoscenico, attraverso quella che ormai diremmo, con significativo e quasi insostituibile vocabolo inglese, una performance, o invece a una sua trascrizione sulla pagina di un manoscritto o di un prodotto a stampa. E lo stesso interrogativo si porrebbe anche in ambito musicale: ci si vuole riferire all’esecuzione in atto, affidata alla piena orchestrazione strumentale, o invece a una sua traduzione su spartito, attraverso qualche sistema di annotazione? In fondo, non sfuggiva certo al Lessing un dato sostanziale, legato a una impossibilità tecnologica esistente da secoli, anzi, fin dagli inizi della parabola dell’umanità, quello stesso dato che già i latini avevano affidato al detto perentorio e inesorabile verba volant, scripta manent. E dunque, pare chiaro che l’autore tedesco non contrapponeva la fisicità del prodotto pittorico-scultoreo, condizione prima che ne garantiva anche l’esistenza spaziale, al carattere volatile, precario, condannato a dileguarsi nell’aria, che viceversa da sempre affliggeva le produzioni di specie sonora, fossero esse di natura verbale o musicale. E con i suoni si


dileguavano pure nel nulla gli atti della recita, ovvero i fat­ tori specificamente appartenenti alla sfera della performance. E dunque, esisteva un qualcosa che già rebus sic stantibus sembrava unificare le produzioni di natura artisticovisiva e quelle verbali-letterarie, la necessità di approdare comunque a una registrazione grafica, l’unica allora in grado di fornire una possibilità di conservazione a lungo periodo. Ma giustamente il Lessing scorgeva che, al di sotto di questa unificazione di superficie, permanevano differenze essenziali di funzionamento. Agisce in questo senso la distinzione da lui accennata tra il carattere naturale che sarebbe immanente ai mezzi della mimesi visiva, e quello artificiale-convenzionale che invece si imporrebbe sui sistemi di trascrizione dell’universo letterario-musicale. Con ciò il Lessing affrontava avanti lettera una questione riemersa in tempi recenti sul filo della vera e propria ossessione semiotica da cui, anni Sessanta-Settanta del Novecento, è stata presa tutta la nostra cultura. E ancora una volta, dobbiamo lodare il buon senso cui nel districare il quesito l’autore tedesco sembra attenersi, con soluzione non del tutto accettabile, ma che almeno evita uno degli errori possibili. Oggi non possiamo certo sottoscrivere la sua pretesa che i segni, se li vogliamo chiamare così, di cui si vale l’ambito del visivo siano naturali, nel che è un riflesso della allora dominante concezione mimetica, da cui discendeva la credenza che la riproduzione richiesta a pittura e scultura fosse appunto del tutto speculare, come l’immagine riflessa nello specchio, senza l’intervento di fattori culturali a imprimere qualche scarto deformante o codificante. Curiosamente, di un errore del genere si è macchiato in tempi ben più recenti il nostro Pasolini, quando ha dichiarato che il cinema non ha semiosi, in quanto appunto riflette per via naturale la realtà afferrata dalla cinepresa. Ma d’altra parte, ribadendo ancora una volta una perentoria e non cancellabile linea divisoria tra la spazialità dei fenomeni visivi e la temporalità di quelli acustici, il Lessing evitava la pretesa che invece ha dominato il campo nel periodo sopra indicato, di trionfo di una semiosi

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asservita ai meccanismi della lingua, per cui si è creduto di poter imporre dovunque, in ogni ambito, la famosa doppia articolazione, la frammentazione delle lettere dell’alfabeto e la loro aggregazione in sillabe o radici verbali, fino a tentare di piegare entro quel letto di Procuste anche il segno visivo, ovvero l’icona. Ma in definitiva, anche se superiamo l’ingenuità lessinghiana di separare una classe di segni naturali da un’altra di segni convenzionali, e accettiamo, non certo i criteri di una semiotica asfittica e stritolante – come quella che poneva alla testa di tutto il primato degli schemi linguistici, oltretutto della lingua occidentale a fondamento fonetico – ma il fatto che pure le arti visive facciano uso di sistemi culturalmente elaborati, resta lo stesso la cesura così validamente additata dal No­ stro, in quanto i processi di codificazione culturale cui si ispirano opere pittoriche o scultoree sono pur sempre scodellati tutti d’un colpo, in una compresenza spaziale, hic et nunc, laddove le codifiche delle opere letterarie-musicali chiedono di essere affidate allo scorrimento delle pagine, e a inevitabili processi di percezione e di lettura consecutiva, e pertanto compare davvero uno scorrimento tem­ porale. Dunque, riassumendo, il Lessing ha posto in campo un sistema divisorio essenziale, perfino rudimentale, largamente debitore del buon senso, ma perciò stesso forte di una sua evidenza, destinato a resistere a lungo. In definitiva, ad attaccarlo, ad avvertirne le strettoie, ad agitarsi per superarlo, sono state, come per tanti altri settori operativi, le cosiddette avanguardie storiche, che ben presto si sono date il compito di sottrarre i prodotti visivi alla loro fissità extratemporale, condannata a occupare solo lo spazio, nel tentativo invece di dare anche a essi il movimento, l’effetto cinematico. E correlativamente si è posto anche un altro problema, quello di sottrarre le arti del gruppo motorio, teatro, musica, danza, a un limite ugualmente mutilante, l’obbligo di sottostare a una trascrizione grafica. Il tutto condizionato da limiti tecnologici, dal fatto che fin dagli inizi della sua avventura l’umanità è risultata capace di far


rimanere solo dei tracciati grafici riportati su qualche supporto, fossero essi rivolti a fissare un evento visivo nella sua totalità, o a depositare in sequenza i grafemi capaci di inseguire un evento drammatico, una narrazione, una serie ritmica di suoni. Perché le avanguardie storiche, agli inizi del secolo scorso, si sono date a sgomitare, non più sottostando a certi limiti posti da lunghe tradizioni, non solo secolari ma addirittura millennarie? In genere i problemi si pongono quando vagamente si intuisce che ci sono le modalità per risolverli, e dunque, anche nel nostro caso la ragione di tante preoccupazioni è presto trovata, la tecnologia di quei tempi stava facendo passi da gigante per risolvere i problemi fin lì pendenti. Stava arrivando la cinematografia, capace di conquistare il flusso temporale, senza più imbottigliarlo in uno sciame di grafemi, secondo i riti della scrittura. E così anche l’immagine immobile del regno del visivo poteva essere dotata del bene prezioso della cinesi, mettersi cioè in movimento. Fino a quel punto, si trattava in sostanza di uno sfruttamento ulteriore di progressi tecnologici già ben noti, la fotografia esisteva già da più di un secolo, senza contare che il perfetto mimetismo proprio della tradizione occidentale, da quando l’Alberti aveva messo a punto la prospettiva fondata sulla piramide capovolta, procedente verso un unico punto di fuga, era stato capace già da secoli di “fotografare”, almeno virtualmente, il reale. Bastava applicare al singolo fotogramma lo scorrimento reso possibile da una macchinetta, in grado, prima, di far scorrere il rullo della pellicola attraverso l’obiettivo, consentendogli di catturare le immagini in sequenza, e poi di restituire lo stesso movimento a livello di proiezione, e la cinesi risultava così assolutamente conquistata. Invece un altro grande passo avanti tecnologico stava nascendo, al di là dei territori della registrazione fotochimica e dell’innesto su di questa degli effetti di motorini, condotti a mano inizialmente (il proverbiale “si gi­ra”), poi volti a sfruttare l’effetto di qualche elettromeccanismo. Si stava facendo adulta la smisurata famiglia delle registrazioni elettroniche, rendendo possibile la fonografia, dap-

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prima su disco, poi su nastro elettromagnetico. E così, risultava del tutto superata la barriera del verba volant, da un lato la dimensione sonora della nostra attività, anche nella specie nobile del flusso verbale della narrazione o di quello della musica, acquistava stabile diritto di sopravvivenza. Mentre a sua volta il mondo delle icone, come la principessa addormentata della favola, veniva svegliato dal suo torpore e rianimato dal bacio tecnologico, dapprima della cinematografia aiutata dagli elettromeccanismi, poi anch’esso a sua volta grazie allo sfruttamento del videorecording di specie elettronica, affidato allo spolverio infinito e impalpabile dei pixel. A questo punto del percorso incontriamo la figura immensa di Marcel Duchamp, il numero uno nel panorama delle prime avanguardie storiche, il più intrepido nello scagliarsi contro tutte le barriere esistenti, fra cui ovviamente l’interdetto gravante nei secoli sul visivo, con l’obbligo di doversi attenere all’immobilità delle forme. Du­ champ ci ha provato in tutte le maniere, dapprima tentando di conquistare il movimento attraverso la moltiplicazione delle stasi, si pensi al Nudo che scende le scale, in cui però commise la stessa ingenuità che si doveva rimproverare ai nostri Futuristi, bastava del resto leggere i coevi ammonimenti instancabilmente emessi dal Bergson: attraverso lo spazio, e cioè con la moltiplicazione delle “stazioni”, e la suddivisione degli intervalli, non si raggiungerà mai la qualità primaria consistente nel flusso, nello scorrimento, aveva già provveduto il sofisma della rincorsa di Achille dietro la tartaruga a dichiarare qualcosa del genere. O, trasferendo il tutto in una dinamica dei liquidi, non sarà mai a colpi di cucchiaiate che si potrà svuotare l’oceano, come indicava sarcasticamente a un Sant’Agostino pensoso l’angelo mandato da Dio. Ovvero, se si vuole il movimento, bisogna balzare entro di esso di getto, fin dal primo momento, ed ecco allora che Duchamp, abbandonata la dimensione del virtuale e dei puri effetti retinici, cerca la cinesi attraverso una prima rudimentale applicazione dei motorini elettrici, e abbiamo così il capitolo dei Rotorélie-


fs, padre di tutti i cinetismi a venire. Ma è troppo Dottor Sottile, il protagonista principale del Dadaismo, per potersi considerare soddisfatto di quelle applicazioni troppo fragorose e pesanti, e dunque abbandona quest’area problematica, rivolgendo la sua attenzione sull’altro fronte, a far cadere le barriere tra le varie zone sensoriali, passa così a congiungere ai dati visivi i referti provenienti dal mondo della scrittura, delle lettere, e soprattutto dal mondo dei concetti: dopo la fonosfera, è opportuno aprirsi alla noosfera, la quale a sua volta può essere appoggiata a manifestazioni del corpo. Insomma, c’è in Duchamp il preannuncio di ogni possibile invasione di campo, puntando decisamente a fare dell’arte un’attività performativa globalizzata, senza frontiere. Il problema del cinetismo raggiungibile attraverso elettromeccanismi, che il gran padre Duchamo aveva lasciato cadere con fastidio, viene ripreso dalle seconde avanguardie del secondo Novecento con lo zelo e l’impegno quantitativo che in genere le contraddistingue, ed ecco quindi il clima dei nostri primi anni Sessanta che vede al lavoro baldi gruppi impegnati su questi fronte: si pensi al gruppo T a Milano, forte dei contributi di Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Grazia Varisco, o al Grup­ po N a Padova, con Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Man­ fredo Massironi. Questi operatori rispettano al meglio le coordinate generazionali entro le quali si muovono, e dunque il loro compito è di dichiarare definitivamente chiusa la stagione dell’Informale, che certo si poneva il fine di superare tante barriere, ma pur sempre rimanendo entro l’ambito di immagini virtuali, pronte a suggerire un turbine di sensazioni, visive, sonore, gestuali, ma pur sempre a livello immaginario, lontano da una realtà tangibile, cercando di stimolare le nostre risorse fisiche a surrogare una tecnologia di cui si era stati costretti a diffidare, visto l’uso perverso che ne aveva fatto il secondo conflitto mondiale. E dunque, i gruppi T e N, come del resto i loro colleghi ancora impegnati nella proposta di forme stabili, avevano prima di tutto il compito di condurre un intervento igieni-

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co, risanare la situazione, raffreddarla dalla febbre dell’Informale, costringerla ad adottare un metro riposto sul­ l’ordine, su interventi programmati, in una rinnovata fiducia nella macchina, che però rimaneva ancora un Dio pesante, squadrato e massiccio, dai movimenti contegnosi, e appunto programmati, incapaci di sfuggire a rotte o rettilinee o circolari, come era nello statuto dell’intero meccanomorfismo. E dunque, ne veniva una cinesi sincopata, prevedibile, totalmente succube alle leggi dell’inorganico. Ma era ormai in vista la rivoluzione decisiva del ’68, che significò l’ingresso in forze della strumentazione di specie elettronica, con la sua capacità di simulare da vicino, o ad­ dirittura di stabilire una efficace emulazione nei confronti del mondo della vita. Da una tecnologia rigida, impacciata, schiava di pesanti regole, si passava a una tecnologia leggera, soffice, diffusiva. Il che poneva l’arte in grado di puntare a effetti largamente sin-estetici, o addirittura avviati a superare la dimensione del “fare”, del fabbricare un’opera cui affidare per delega il diritto di recare possibilità sensoriali che l’artista fin lì non riusciva a conseguire direttamente. Non per nulla allora risuonò un fatidico dilemma, opera o comportamento? E l’estetica ritrovò una stretta vicinanza alla sua origine etimologica, che nelle parole del padre fondatore Baumgarten voleva farne una “scienza della sensorialità” piuttosto che una filosofia delle belle arti, dei prodotti nati da un’attività industriosa, abile, di alta professionalità. Si profilava insomma la meta comune d’arrivo di ogni sforzo condotto nell’ambito sensoriale quale era data dalla performance, parola che allora ottenne una consacrazione ufficiale, ma a patto di scrutarne con attenzione la provenienza, che non intendeva affatto premiare un’eccellenza della componente formale. Quel form sbandierato dal vocabolo inglese era in realtà una lectio facilior, una storpiatura di ben altro, di un’antica radice delle lingue neolatine consistente in forn, da cui il nostro fornire. Ecco fatto, la performance corrisponde alla fornitura di una prestazione di alta intensità, ma soprattutto di totale pienezza intersensoriale, col concorso di tutte


le capacità umane stimolate in pari grado. E tra queste, beninteso, con ruolo preponderante, entra la motricità, cioè appunto un effetto cinetico, ma affidato al ritmo stesso delle forze organiche della vita, e dunque condotto in regime di flessibilità, elasticità, prontezza reattiva, ben lungi dalle mosse contegnose e limitate delle “macchinette” care ai precedenti esperimenti. Ma si poneva però il solito assillo, che nei secoli aveva funestato l’intuizione di quanto fosse bello e gratificante affidarsi appunto a una prestazione comprensiva di tutti i canali sensoriali, non era questo un lavorare sulla sabbia, su un materiale precario e deperibile? La nuova era elettronica ormai largamente apparsa sul­ l’orizzonte era pronta a dare una risposta e un rimedio, grazie alla maturazione delle tecniche della videoregistrazione, ormai in grado di soppiantare le più lente e impacciate tecniche della impressione su pellicola. Ora subentrava largamente il nastro elettromagnetico, o il disco, e ogni altra diavoleria congiunta, i quali, magari, scorrono o ruotano ancora con l’aiuto di qualche congegno elettromeccanico, però intanto offrono una larga superficie pronta a imbeversi delle mille impronte emesse dallo spettacolo massimamente reale della vita nel suo felice e pieno dispiegarsi. La videoarte è divenuta ormai una specie di minimo comune multiplo in cui tutti i dati sensoriali e organici e performativi confluiscono, c’è il dato visivo, comprensivo del riempimento cromatico, quello sonoro, quello gestualecorporeo, il quale ovviamente implica in primo luogo la presenza della dimensione temporale, ovvero l’immagine si muove, il cinetismo è conquistato nella misura più integrale e soddisfacente. Al momento, restano assenti solo i dati di ordine olfattivo e degustativo, ma probabilmente, con l’aiuto di una pur complicata rete di sensori, anche questi potranno essere aggiunti al fine di raggiungere una sinestesia senza limiti ed esclusioni. Per questo aspetto tutte le precedenti proposte di classificazione delle arti cadono oggi in discredito, cessano di avere validità, l’attività artistico-estetica marcia verso una mirabile unitarietà e compresenza di tutto con tutto.

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Siamo davvero pervenuti a un regime di totale confluenza, e dunque i tentativi abborracciati dal Lessing sono destituiti di qualsiasi attendibilità. Ma non è questa la notte già paventata da Hegel in cui tutte le vacche sono bige e indistinguibili, non ci troviamo immersi in un mare di pericolosa confusione? Quando tutte le ipotesi lessinghiane sembrano aver perso credibilità, emerge e prende corpo invece quella cui l’autore tedesco era più attaccato, non dimentichiamo che prima di essere filosofo o estetologo egli si sentiva versato nella pratica della drammaturgia, e in fondo era per rivendicare il ruolo privilegiato di questa sua vocazione e professione che egli condannava il logoro precetto dell’ut pictura poësis, ribadendo che c’è una bella differenza, tra il dare un’unica immagine statica, seppur diramata in un fitto intrico di terminazioni sensibili, o invece il proporre un’azione con la sua complessità. Ma ecco allora profilarsi una differenza che permane, anche in questi tempi di pratiche intersensoriali così bene assicurate dalla registrazione elettronica. In fondo, si tratta di abbandonare il Lessing ma non per un avveniristico viaggio verso il futuro, che è poi il nostro presente, bensì per retrocedere in un lontano passato, approdando ad Aristotele e alla sua Poetica. Dire azione non significa soltanto additare possibilità motorie-temporali, le quali oggi appartengono a ogni operatore del visivo e dell’estetico, grazie alla videoarte. La parola può assumere anche un significato intensivo, corrispondere a ciò che appunto Aristotele chiama mythos, e noi diremmo trama, intreccio. Rispunta insomma, alla fine di tutto, una distinzione radicale, tra opere, o azioni, o performances, che si consumano in breve, o che possono anche estendersi in lunghe sequenze temporali, ma senza essere dotate di una dimensione narrativa, vivendo piuttosto in una piena orchestrazione, hic et nunc, dei dati sensoriali, e altre che invece quel nocciolo di narrazione, di diegesi, vogliono darselo, e anzi pretendono di essere va­lutate in primis per l’effetto che questo esercita sul fruitore. Naturalmente, al giorno d’oggi il mezzo tecnico assunto non fa più la differenza, la narrazione, ovvero il ri-


corso a componimenti lunghi, può esserci ancora presentato sul supporto cartaceo del libro, e allora abbiamo la narrativa propriamente detta, fatta di romanzi e di racconti, ma sappiamo bene quanto essa sia in sofferenza, patendo della crisi stessa che ormai affligge la Galassia Gutenberg. Assai più validi, e diffusi, e accetti al vasto pubblico, i prodotti narrativi che si affidano alla pellicola cinematografica, o sempre più al nastro elettromagnetico. Su un’altra sponda, si trovano i componimenti in linea di massima tenuti su misure brevi, che apparterrebbero al genere lirico, ma che oggi non vivono certo nelle smilze misure dei versi forniti su carta, trovandosi piuttosto nella totalità dei prodotti offerti dalla videoarte. Insomma, una diarchia alla maniera del Lessing è ancora proponibile, ma non più fondata sull’opposizione tra lo statico e il mobile, tra lo spazio e il tempo, bensì su uno scarto dimensionale tra microcomponimenti, benché pronti a dilagare in ogni ambito sensoriale, e macro-componimenti, serviti in tavola an­ ch’es­si attraverso molti possibili canali, ma unificati dal fatto di stringersi attorno a un intreccio, a un plot, a una trama.

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Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda Alberto Bassi

Storia e storie del design Storie e cronache del design – in particolare in Italia – presentano, come asse portante del percorso di ricostruzione storico-critica, in sostanza soprattutto il settore dell’arredamento domestico. Letto, in prima istanza, come variante dell’operare di artisti e architetti nei dintorni delle arti applicate e decorative; in seconda battuta, come costituirsi di una teoria e pratica disciplinare più strettamente attinente al progettare per la produzione industriale, comprese le varianti “deboli” volte a declinare una specifica collaborazione con il fare artigianale oppure peculiari modalità di porsi rispetto ai differenti mercati. Non sono dunque frequenti le incursioni in altri territori tipologici – come, ad esempio, l’automobile, l’elettrodomestico o l’oggetto tecnologico – oltre che l’esplorazione di diversi atteggiamenti metodologici e operativi. Questo avviene anche perché la leadership del design italiano ha gravitato e gravita soprattutto attorno al furniture; restano però gravi le lacune di conoscenza sulle declinazioni più ampie del progetto per la produzione e lo sono ancor più in una fase, come quella attuale, dove proprio l’arredo appare in difficoltà rispetto ai temi dell’innovazione, scavalcato dalla centralità di altri ambiti e approcci, rilevanti e pertinenti anche dal punto di vista dell’identità e potenzia-

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lità di sviluppo per le imprese. Per questi ultimi però risulta necessaria e utile la costruzione di ulteriori fondamenti conoscitivi storici e critici, in grado di circostanziare in modo più appropriato e puntuale il ruolo del progetto in relazione al fare dell’impresa, per far capire insomma qual è il contributo del design. Questo testo sceglie allora uno fra i molti possibili territori trascurati, l’aeronautica italiana e un’azienda importante e centrale come la Breda di Sesto San Giovanni; e ancora, uno dei maggiori progettisti, Filippo Zappata e il suo aereoplano BZ 308 – pensato al principio degli anni quaranta e che volò nel 1948. Fondata a Milano da Ernesto Breda a fine Ottocento, poi trasferita e presente in più aree per dedicarsi a molteplici settori – dall’originaria produzione ferroviaria alle navi, dai veicoli agricoli agli aerei, oltre alla siderurgia –, l’industria sestese con la sua sezione aeronautica ha conosciuto un momento eclatante, e fortemente simbolico, proprio con il progetto e la realizzazione del quadrimotore per trasporto civile da 80 passeggeri BZ 308 di Zappata. Un aereo assolutamente all’avanguardia, osteggiato e prodotto in un unico esemplare, che ha coinciso con la prematura fine della produzione di aerei Breda (più in generale, in realtà dell’intera industria aeronautica italiana). Una vicenda emblematica e paradigmatica per evidenziare diverse questioni del design italiano, a cominciare dal rapporto fra la grande industria, la sua cultura e i progettisti. Un modello di relazioni che, fondato negli anni fra le guerre, conosce il massimo splendore nel corso dei decenni cinquanta e sessanta, entrando poi in una crisi definitiva che ha portato – come ha ben riassunto Luciano Gal­­lino1 – in sostanza alla sua definitiva scomparsa. Un modello che, pur con alcune obbligate varianti dimensionali, operative e “filosofiche”, si è rivelato contagioso e rilevante anche per le piccole e medie imprese. Le vicende della Breda sono lette (in modo embrionale ma metodologicamente chiaro) dal punto di vista della storia del design, che prova ad analizzare gli aspetti proget-


tuali all’interno di un contesto più ampio (di conoscenze tecnologiche, di organizzazione imprenditoriale e produttiva, di condizioni economiche e politiche), senza il quale lo studio non può essere che parziale2. In sostanza, sceglie l’oggetto come punto di partenza per molti “racconti”: su progetto, produzione, tecnica, comunicazione, consumo; fra l’altro, ciò può render conto della “cultura del prodotto” e del lavoro, di una specifica industria o società, fino a collocarsi all’interno di una kubleriana sequenza temporale di “storia delle cose”. Operando in questa direzione è stato nodale il recupero dell’indagine sulle fonti, che di frequente sui temi della progettazione si presentano lacunose, intese nella più ampia accezione, dal documento cartaceo all’iconografia, dalla storia orale al materiale legato agli aspetti di comunicazione, non solo gli opuscoli pubblicitari, ma anche la cartellonistica o i manuali tecnici di istruzione3. A distanza d’anni risulta ancora assolutamente condivisibile l’esortazione di Cesare De Seta a proposito degli stu­ di d’arte e di progetto, ma estendibile ad altri ambiti storiografici: Esigenza prioritaria della critica d’arte contemporanea è quella di risalire alle fonti, di misurarsi con le testimonianze e i documenti che ad essa si riferiscono: assumere un habitus filologico per larga parte ancora sdrucito per non dire straccione. È questa una prima garanzia per scrollarsi di dosso una sovrastruttura di teorizzazioni e di disegni generalizzanti, più che generali, che hanno coperto di spessa coltre le vicende dell’arte e dell’architettura italiana della prima metà del Novecento4. La Breda e la cultura del progetto Un’osservazione preliminare va fatta per quanto riguarda il mondo progettuale dentro cui si sviluppa la produzione Breda5. L’azienda sestese, come molte altre industrie milanesi, lombarde ma in generale italiane, nasce riunendo in un’unica figura imprenditore e progettista, risul-

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tato della cultura ingegneristica di fine Ottocento, tradotta e concretizzata dentro la logica non più solo dell’invenzione ma della creazione di un prodotto. Cioè la costruzione di un sistema, una struttura industriale, produttiva e organizzativa, per cui l’invenzione tecnica diventa prodotto. Per un lungo periodo infatti in Breda prevale il filone unitario del cosiddetto “design degli ingegneri”, dove l’aspetto del “dover essere della funzione” ha il predominio rispetto alla necessità di “dare forma”. È rilevabile poi un secondo indirizzo, legato al lavoro degli uffici tecnici, che rappresenta un trait d’union fra tale cultura dell’imprenditore-ingegnere e la realizzazione fisica dei prodotti. Infine, si rintraccia una terza componente che concorre alla realizzazione dei prodotti, quella del “saper fare” della tradizione del lavoro operaio. Al principio degli anni Trenta, trova compimento un momento decisivo di dialogo fra questi “saperi” – il design dell’ingegnere, lo sviluppo dell’ufficio tecnico, l’esperienza degli operai – e una nuova idea del progetto: la cultura del disegno industriale che ha origine dalla formazione e attività degli architetti. L’oggetto-simbolo di tale svolta è l’elettrotreno Breda ETR2006, progettato nel 1936 dall’ufficio tecnico delle Ferrovie dello stato e della Breda, con il decisivo contributo dell’architetto Giuseppe Pagano, sia nell’aspetto esteriore che nella distribuzione e arredamento degli interni. Pagano, fra i maggiori protagonisti della storia della cultura architettonica in Italia, fu direttore dal 1933 di “Casabella”, rivista di riferimento per l’architettura e il design; guidò nel 1936 la VI Triennale di Milano, quella “razionalista” per eccellenza, e nel 1940, all’interno della VII Trien­nale, curò la Mostra della produzione in serie, la prima mostra di design in Italia. Sempre fra le guerre, si sviluppa in Breda una forte attenzione alla comunicazione, che crescerà in modo sostanziale almeno fino agli anni Cinquanta – come è testimoniato, fra l’altro, dalla presenza di un ufficio pubblicità interno e dal contributo di Araca (Ezio Forlivesi Montana-


ri) nella cartellonistica o della collaborazione con Luciano Baldessari7 – a segnalare una sensibilità abbastanza unica dentro l’azienda, un’attenzione al progetto moderno che passa attraverso il prodotto, la comunicazione o l’architettura degli allestimenti. La sezione aeronautica L’attività in campo aeronautico di Breda inizia durante la prima guerra mondiale, ma i primi velivoli interamente costruiti negli stabilimenti di Sesto sono della fine degli anni venti: nel 1917 produce componenti per aerei e nel 1919 apre la sezione aeronautica in una zona fra Sesto San Giovanni e Bresso, dotata di un campo volo e di una scuola piloti, dove trasferisce anche il reparto motori per aerei. Il giubilare che ricorda nel 1936 i primi cinquant’anni di attività dell’azienda così riassume: La sezione Aeronautica, dal 1919 ad oggi, ha costruito e messo a punto per il volo ben 34 nuovi tipi di apparecchi, i quali, nelle loro varie edizioni (motori differenti, idrovolanti etc.) costituiscono un totale di 63 diversi tipi di aeroplani8. E, a riprova del valore della produzione, indica il numero di 500 apparecchi da turismo, sia terrestri che idrovolanti, realizzati fra il 1927 e il 1935. La produzione di velivoli rappresenta un settore produttivo fortemente innovativo, connotato dalla ricerca tecnologica e dalle problematiche della costruzione della forma, in particolare quando diviene centrale la questione dell’aerodinamica. Disponendo dunque anche di un proprio campo volo, Breda si specializza da principio in piccoli aerei d’addestramento e turismo e in seguito in velivoli militari. Non è un caso quindi che dal 1928 lavori per l’azienda l’ingegnere aeronautico Cesare Pallavicino, autore negli anni quaranta della Lambretta Innocenti, indimenticato scooter dell’immediato dopoguerra. Per Breda progetta, fra gli altri, il modello Breda 15 (1928), monoplano ad ala alta, e Breda 27 (1932), primo ad ala bassa costruito in serie. Lasciata nel 1933 l’azienda sestese, si trasferisce alla

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Cab (Caproni Aeronautica Bergamasca) per approdare poi alla Innocenti9. Sempre negli anni venti, Giulio Costanzi, coadiuvato per la struttura da Gaetano Arturo Crocco, progetta il bombardiere trimotore ad ala bassa con struttura metallica Breda CC 20. Presentato nel 1927 a un concorso e in volo dal 1929, dispone di un’ala monoplana di ben 42 metri di apertura, con un solo longherone a sezione quadrata10. Nel 1936 è assunto alla Breda Mario Pittoni, che collabora per la parte strutturale al Breda 64 e 65, e nello stesso anno progetta il velivolo da turismo Breda 89, monoplano ad ala bassa dalle linee pulite. Nel frattempo, in qualità di responsabile dell’Ufficio aerodinamico Breda, si occupa del progetto e della costruzione, avviata fin dal 1934, della Galleria del vento (attiva a Sesto ancora oggi), una delle prime interne a un’azienda realizzate in Italia11. Dal 1947 Pittoni è responsabile della progettazione; il suo bimotore da trasporto da 18 passeggeri BP 471, dall’inconsueto disegno a W dell’ala, vola nell’agosto del 1950, ma rimane un esemplare unico. Il BZ 308 di Filippo Zappata

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Nel 1942 diviene capo progettista alla Breda, Filippo Zappata, uno dei maggiori ingegneri aeronautici italiani12, che progetta il BZ 308 (1942-48), un quadrimotore previsto anche in una versione da 80 passeggeri e ai cui interni lavora l’architetto Giulio Minoletti13. Prodotto in un unico esemplare, è paragonabile ai contemporanei velivoli inglesi e americani che equipaggeranno l’aeronautica civile nel dopoguerra. Zappata aveva lavorato a lungo ai Cantieri Riuniti di Mon­falcone14, progettando alcuni dei più interessanti aerei italiani di ogni tempo. Arriva alla Breda15 interessato, fra le altre cose, alle possibilità sperimentali della Galleria del vento; a partire dal 1942 studia, oltre al più noto BZ 308, anche i bimotori BZ 301 e BZ 303. Da Monfalcone l’ingegnere porta con sé alcuni validi tecnici – come l’ingegner


Michele Demma, il progettista strutturale Andretti, l’impiantista Bonfiglietti, il tracciatore Manià – che vanno a formare un nutrito gruppo di lavoro, aggiungendosi agli ingegneri e operai Breda, guidati dall’ingegner Angelo Prati, che segue per intero il progetto e la costruzione del BZ 30816. I primi studi per un grande quadrimotore per il trasporto passeggeri risalgono all’inizio della guerra, ma nel 1944 il bombardamento subìto dalla sezione aeronautica costringe a spostare la fusoliera dell’aereo in costruzione nelle vicinanze di Monza. Alla fine del 1945 il BZ 308, realizzato per due terzi, è riportato nelle officine di Sesto, ma numerosi contrattempi ne ritardano il compimento. Esisteva certo nel nostro Paese un complesso contesto politico postbellico – a fine agosto 1945 il Ministero dell’Aeronautica è orientato all’acquisto del BZ 308 che in ottobre è bloccato dalla Commissione Alleata di Controllo che sovrintende alle nostre industrie e alla aviazione militare17 – ma anche una pesante situazione economico-politico-sociale scuoteva Sesto San Giovanni, con la minaccia di chiusura per molte fabbriche, lotte operaie e forti tensioni sociali18. A ciò si sommano operativamente, ad esempio, le difficoltà legate alla fornitura dei motori inglesi Bristol Centaurus. Quella della produzione motoristica, fin dagli anni fra le guerre, è stata una della gravi carenze dell’industria aeronautica italiana, riconosciuta dai contemporanei e dagli storici, e lamentata dallo stesso Zappata. La centralità dei problemi di motorizzazione è confermata dalla corrispondenza che Zappata intrattiene con l’amico Corradino D’Ascanio, progettista per Piaggio delle eliche a passo variabile, adottate anche dal BZ 30819. Il 27 agosto 1948 il BZ 308 effettua il primo volo – condotto dal pilota Mario Stoppani accompagnato, come era solito fare sempre per i primi voli dei suoi aerei, dallo stesso progettista – ma non giungerà mai alla produzione in serie. Negli anni successivi volerà a lungo per terminare in modo rocambolesco l’attività, dopo un atterraggio sfortunato a Mogadiscio.

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Retto da una struttura interamente metallica e munito di carrello triciclo retrattile, il BZ 308 è equipaggiato da quattro motori Bristol Centaurus 568, con eliche a cinque pale a passo variabile in volo, e raggiunge una velocità di 573 chilometri orari e una velocità di crociera di 45020. L’aeropulman BZ 308 è una derivazione perfezionata – si legge in una documentazione tecnica Breda – del BZ 305, già impostato nel 1942… a sua volta assommava in sé l’esperienza del CantZ 511 sleeping transatlantico, idrovolante con fusoliera a due galleggianti21. Le ricostruzioni e valutazioni storiche sul BZ 308 hanno messo in evidenza soprattutto il limite costituito dalla mancanza di cabina pressurizzata. Al momento dell’impostazione iniziale nel 1942, tale aspetto non poteva essere certo considerato prioritario. Le prime commesse per la produzione seriale erano infatti giunte dal Sud America, quindi era previsto inizialmente che l’aereo volasse sulle rotte atlantiche, ad altezze di 1500/2000 metri in quanto i motori rendevano meglio a bassa quota; la pressurizzazione sarebbe stata invece necessaria a quote superiori ai 2500 metri. La questione della pressurizzazione è comunque ben presente nella mente di Zappata. In una lettera inviata al Ministero della Difesa-Aeronautica nel luglio 1949 gli ingegneri della Breda, per caldeggiarne l’acquisto, confermano lo sviluppo a cabina pressurizzata dell’attuale velivolo22. Per quanto riguarda le commesse ricevute, molto rimane ancora da indagare. Interessante, ad esempio, la testimonianza di Dino Mattioli sulla missione in Sud America che porta a la vendita al Governo argentino di tre esemplari dell’apparecchio BZ 308 ancora in costruzione presso le Officine Breda23, che non viene mai ratificata. La Breda si era inoltre rivolta nel 1949 al Ministero della difesa e aeronautica e al Ministero dell’industria per sostenere l’adozione del BZ 308: i risultati delle prove hanno confermato come il velivolo possa non solo allinearsi con i similari della concorrenza, quale il Douglas DC6 e il Lockheed Constellation, ma presenti alcune


caratteristiche tecniche di impiego di netta superiorità. Per proseguire: anche sotto il profilo economico… la nostra società può ragionevolmente prevedere un prezzo di vendita di circa $ 900.000, naturalmente per una serie di una certa entità; sono recenti le offerte della Lockheed per i Constellation a $ 120.00024. Accompagnava le lettere una “Analisi economica d’Impiego su rotte transcontinentali, dei velivoli BZ 308, Lockheed Constellation 749, Douglas DC6”, a firma dell’ingegner Alberto Vallisneri. A sostegno della proposta commerciale del BZ 308, la Breda commissiona una serie di manifesti a Max Huber, uno dei maggiori grafici attivi in Italia, pubblicati nel settembre 1949 sul periodico “L’ala d’Italia”25. Merita menzione, a testimonianza della modernità e bellezza del velivolo, il “tributo” conferitogli dal film statunitense Vacanze romane che affianca proprio il BZ 308 ad altri simboli della motorizzazione e design degli anni cinquanta, come lo scooter Vespa e l’Ape26. Riassume infine in modo esemplare il valore economico e sociale del BZ 308 quanto scrive il 10 luglio 1946 il settimanale socialista “Sesto proletaria”: Il popolo sestese, che ai fasti della Breda, e in particolare della Sezione Aeronautica, si sente legato da una tradizione ultraventennale di sacrifici e di trionfi, si augura di poter ben presto sentire il rombo dei motori possenti che saetteranno nel cielo la nuova macchina alata, non più messaggera di strage, rovine e orrori, ma apportatrice di nuova civiltà27. Nel 1951 la V sezione aeronautica Breda chiude. I progetti aeronautici di Zappata presentano un’elevata qualità estetica, oltre che tecnico-funzionale. A questo proposito, fonte assolutamente straordinaria per indagare la genesi della forma sono alcuni album di disegni, appunti e schizzi, realizzati da Zappata in particolare nel corso degli anni Trenta28. Sui piccoli fogli quadrettati è possibile seguire lo svilupparsi e l’affinarsi di un’idea, che di frequente muove dall’osservazione della natura, ad

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esempio il comportamento degli uccelli. Gli album permettono di rilevare un’estrema sicurezza e immediatezza di segno e assieme la padronanza della configurazione formale complessiva: i suoi aerei sembrano nascere facili nella mente e nel disegno, prima di tutto come forme piuttosto che negli aspetti tecnico-funzionali. L’ingegnere era infatti solito sostenere, coniugando felicemente tali aspetti, che nel progettare occorre tener presente che la linea più aerodinamica è sempre quella più valida esteticamente29. Un “principio” che in sostanza porta a riconoscere nel suo lavoro diverse costanti. Prima di tutto l’attenzione aerodinamica o idrodinamica ai tempi degli idrovolanti, ottenuta con la grande cura nel disegno delle forme, risultato anche della sperimentazione dentro la Galleria del vento. Le ali dei suoi velivoli si caratterizzano per il forte allungamento che conferiva un’elevata portanza, bassa resistenza e ottima stabilità laterale. Zappata aveva sostenuto la sua predilezione per i monoplani e il fastidio per tiranti o altri elementi d’intralcio alla realizzazione di un corretto profilo aerodinamico. Confermano l’elevata qualità prestazionale, i numerosi record conseguiti dagli aerei da lui disegnati, ben 500 in meno di otto anni, e tutti con velivoli in sostanza di produzione seriale. Questo breve testo non può che configurarsi come un contributo iniziale nella ricostruzione di una vicenda solo parzialmente indagata all’interno della storiografia e che accomuna Zappata a numerosi ingegneri aeronautici – ma lo stesso si può dire di molti progettisti in campo nautico, motoristico, automobilistico ecc. (Mario Castoldi, Corradino D’Ascanio, Ermenegildo Preti, Stelio Frati, Dante Giacosa, solo per fare alcuni nomi) –, che attendono da tempo una corretta indagine e un’opportuna collocazione dentro le storie del design.

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1 Si veda, ad esempio, L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003. 2 Come continuano a essere condotte molte storie specialistiche,


rivolte a un pubblico di superesperti, di frequente autoreferenziali e alfine poco utili. 3 Occasione per questo saggio è stata la relazione Per la storia dell’aeronautica: il fondo Breda Aeronautica, presentata al convegno L’Aeronautica italiana: una storia del novecento, Milano, 22 novembre 2000 (pubblicata nel volume P. Ferrari (a cura di), L’aeronautica italiana. Una storia del Novecento, Franco Angeli, Milano 2004) di cui qui forniamo una versione aggiornata. I materiali sono perlopiù derivati dall’Archivio storico Breda, conservato presso la Fondazione Isec di Sesto San Giovanni. Fra i maggiori in Italia, l’Istituto per la storia dell’età contemporanea è specializzato sui temi del lavoro e dell’impresa e ha raccolto numerosi archivi e fondi d’industria, come, fra gli altri, Breda, Ercole e Magneti Marelli, Montecatini, Falck, Italtel, Binda. Si veda, www.fondazioneisec.it. 4 C. De Seta, Cultura e architettura in Italia fra le guerre: continuità e discontinuità, in S. Danesi e L. Patetta (a cura di), Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, Electa-La Biennale, Venezia 1976, p. 7. 5 L’accomandita semplice Ing. Ernesto Breda & C. è costituita nel 1886 dall’ing. Ernesto Breda dopo aver rilevato l’Elvetica, piccola società milanese operante nel settore meccanico-ferroviario. Un anno dopo avvia la fabbricazione di materiale bellico e nel 1891 quella di macchine agricole, carri ferroviari e carrozze ferro-tramviarie. Realizzati gli stabilimenti di Sesto San Giovanni e Niguarda per sviluppare il settore ferroviario, Breda nel 1908 consegna alle Ferrovie dello Stato la 1000ª locomotiva. Durante la prima guerra mondiale si dedica alle dotazioni belliche (dai proiettili ai cannoni, dai siluri ai biplani da combattimento), mentre agli inizi degli anni Venti, l’azienda, già strutturata in sezioni di produzione, apre il cantiere navale di Marghera e inaugura l’Istituto scientifico tecnico E. Breda destinato alle ricerche e agli studi di metallurgia. Negli stessi anni, il reparto motori per aerei si trasferisce da Milano nella sede della sezione aeronautica, tra Sesto San Giovanni e Bresso. Nel secondo dopoguerra, l’azienda è impegnata nei problemi della riconversione produttiva fino al 1951 quando nasce la Finanziaria Ernesto Breda cui fanno riferimento varie società attive in più aree produttive. Sulla storia Breda si vedano, fra gli altri, La Breda. Dalla società italiana Ernesto Breda alla Finanziaria Ernesto Breda 1886-1986, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 1986; La Breda all’estero, un secolo di lavoro nel mondo, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (Mi) 1990; A. Bassi e R. Riccini (a cura di), La locomotiva Breda del 1906, Silvia Editrice, Cologno Monzese (Mi) 2006. 6 Su questo passaggio si cfr. G.K. Koenig, Il disegno del veicolo ferroviario. Automotrici e elettrotreni, in “Rassegna”, Ferrovie dello Stato 1900/1940, 2, 1980, p. 57. L’elettrotreno presenta una linea stream­line di grande modernità, scelte cromatiche autonome rispetto a quelle sviluppate in precedenza e un nuovo disegno degli interni, caratterizzato dall’innovativa adozione della carrozza open-space di tradizione americana, da sedute ripensate formalmente, dall’utilizzo

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dell’acciaio e di un sobrio sistema di illuminazione. Il frontale, denominato “a testa di vipera”, aveva un’accentuata linea filante che gli permise di conquistare nel 1939 il record di velocità. A proposito, si vedano A. Bassi, Streamline italiano, in “Casabella”, 653, febbraio 1998, pp. 30-39; idem, Design anonimo in Italia, Electa, Milano 2007, pp. 214-219 e, più in generale sull’attività di designer di Pagano, A. Bassi e L. Castagno, Giuseppe Pagano, Laterza, Roma-Bari 1993. 7 Si vedano G. Ginex, Le forme della comunicazione aziendale: il caso Breda, in Istituto Milanese per la storia dell’età contemporanea della resistenza e del movimento operaio, Annali 6. Studi e strumenti di storia contemporanea, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 213-219; M. Savorra, Capolavori brevi. Luciano Baldessari, la Breda e la Fiera di Milano, Electa, Milano 2008. 8 La Società Italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche dalle sue origini ad oggi 1886-1936, Officine grafiche Mondadori, Verona 1936, p. 93. 9 Pallavicino progetta inoltre per Breda il monoplano Breda 18 (1929, prototipo), il biplano da acrobazia Breda 19 (1930), i monoplani ad ala bassa da gran turismo Breda 33 (1931) e 39 (1932). Si vedano G. Evangelisti, Gente dell’aria 2, Olimpia, Bologna 1994, pp. 191-210; A. Bassi, Lambretta: l’altro scooter italiano, in “Casabella”, 656, maggio 1998, pp. 8-12. 10 L’ala fu ripresa nei Breda 32 e Breda 46, “progettati dall’ufficio tecnico composto dagli ingegneri Adriano Parano, Giuseppe Panzeri e Mazzini, con un grado di collegialità superiore a quello prevalente nelle altre aziende”. Agli stessi si attribuiscono anche i monorotori Breda 64 e 65 e il bimotore Breda 88 (R. Abate e G. Alegi, in G. Apostolo (a cura di), Ali e motori in Lombardia, Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo 1995, p. 82). 11 Si veda G. Evangelisti, op. cit., pp. 125-138; sulla Galleria del vento, M. Pittoni, La galleria del vento dell’Aeronautica Breda, in “Auto Moto Avio”, 5, marzo 1939, pp. 3-8. 12 Su Zappata si vedano I. Mencarelli, Filippo Zappata, Ufficio Storico Aeronautica Militare, Roma 1971; A. Bassi, Viva Zappata, in “Lettera”, 25 maggio 1995; G. Evangelisti, G. Zappata, Le navi aeree di Filippo Zappata, Firenze 1996 (ricco di documentazione, ma poco illuminante su caratteri e scelte progettuali). Il Fondo Zappata all’interno dell’Archivio storico Breda conserva molta documentazione cartacea, fotografica e filmica riguardante la vicenda. 13 Sui progetti di Minoletti per gli interni Breda, si veda A. Bassi, Gli interni di Giulio Minoletti per i mezzi di trasporto Breda, in “Casabella”, 695-696, dicembre-gennaio 2001, pp. 57-63 e, più in generale, sulla sua attività Giulio Minoletti, Milano Moderna, Milano 1959. 14 Sulle Officine di Monfalcone, si veda AA.VV., Monfalcone e le sue officine aeronautiche, Monfalcone 1987; sul legame di Zappata col collaudatore Mario Stoppani che conduce anche il primo volo del BZ 308, si veda G. Evangelisti, Cento aeroplani e un grande cuore, Artioli, Milano-Modena 1968.


15 La vicenda che lo ha portato alle officine sestesi è piuttosto complessa e in parte documentata da materiali d’archivio (Fondazione Isec, Archivio storico Breda, Fondo Zappata). Al principio del 1941 Zappata, in collaborazione con il Ministero dell’Aeronautica, aveva elaborato un progetto dapprima per la costituzione di uno stabilimento aeronautico da collocare a Pomigliano d’Arco, e in seguito per un “Aerocentro Sperimentale… un centro sperimentale con un ufficio tecnico specializzato, con una galleria del vento e con officine limitate nello spazio e nei mezzi alla produzione di prototipi”, previsto nelle immediate vicinanze del campo di aviazione di Bologna (Fondazione Isec, Archivio storico Breda, Fondo Zappata, Promemoria, Roma, 18 marzo 1942). L’incarico successivo dell’Iri per Pomigliano coinvolse anche l’ing. Gobbato dell’Alfa Romeo, che rimase ad occuparsi del progetto mentre Zappata scelse la Breda. 16 Colloquio dell’ing. Angelo Prati con l’autore, 5/10/1993. Prati era stato assunto in Breda nel 1939; “fino all’arrivo di Zappata – ricordava – non c’era in Breda un valido ufficio progetti”. 17 E. Brotzu e G. Garello, BZ 308. Aerei italiani del dopoguerra trasporto, Edizioni Dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1979, p. 23. 18 Sul contesto sestese, si veda L. Ganapini, Perché non decollò quel quadrimotore, in G. Petrillo e A. Scalpelli (a cura di), Milano anni Cinquanta, Franco Angeli, Milano 1986, pp. 101-138. 19 Presso l’Archivio D’Ascanio all’Archivio di Stato di Pescara sono conservati i fascicoli relativi a Corrispondenza con l’ing. Zappata e a Fornitura per eliche per Bz 308. Su D’Ascanio – progettista di elicotteri ed eliche, oltre che dello scooter Vespa Piaggio – si vedano AA.VV., Corradino D’Ascanio dall’elicottero alla Vespa. Mostra documentaria, Sovrintendenza Archivistica per l’Abruzzo e il Molise, Pescara 1986; A. Bassi e M. Mulazzani, Le macchine volanti di Corradino d’Ascanio, catalogo della mostra, Electa-Giorgetti, Milano 2000. Anche Giuseppe Zappata ricorda l’amicizia e la stima che legarono il padre a D’Ascanio; nella sua casa conserva anche vari documenti relativi all’attività paterna (d’ora in poi, Archivio privato Zappata). 20 Si veda, fra gli altri, E. Brotzu e G. Garello, op. cit., oltre a due relazioni dell’Ufficio tecnico dedicate a “Aeropulman Breda Zappata 308”, datate s.d. (1946) e 8 marzo 1946 (Fondazione Isec, Archivio storico Breda, Fondo Zappata). 21 “Aeropulman Breda Zappata 308”, s.d. (1946), cit. 22 Fondazione Isec, Archivio storico Breda, Fondo Zappata, Lettera al Ministero dell’industria, Lettera al Ministero Difesa-Aeronautica, 12 luglio 1949. 23 D. Mattoli, Mezzo secolo di strada, Edizioni Centro Italia, Città di Castello (Pg) 1953, p. 330; Brotzu e Garello (op. cit., pp. 24-25) riportano che “alla fine del 1947 il governo argentino offre 380.000 dollari per il prototipo e due altri esemplari insieme a 180.000 dollari per i diritti di produzione su licenza di altri 10 velivoli”. 24 Fondazione Isec, Archivio storico Breda, Fondo Zappata, Let-

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tera al Ministero dell’Industria, Lettera al Ministero Difesa-Aeronautica, 12 luglio 1949. Alcuni studiosi hanno notato anche come il contesto internazionale al principio degli anni Cinquanta avrebbe potuto divenire favorevole a velivoli con le caratteristiche del BZ 308. Gli impegni statunitensi nella guerra di Corea impegnavano infatti quasi per intero le linee produttive dei DC6, liberando spazi di mercato per altri aerei. 25 I bozzetti originali sono conservati presso Fondazione Isec, Archivio storico Breda e pubblicati anche in A. Bassi, Gli interni di Giulio Minoletti per i mezzi di trasporto Breda, cit., p. 59. 26 L’attrice Audrey Hepburn è ripresa all’aeroporto, mentre scende la scaletta del BZ 308 con il marchio Breda e il cavallo rampante di Araca, oltre all’insegna della compagnia di bandiera italiana, in evidenza. 27 C.R., L’aeropulman Breda-Zappata 308 in viaggio terrestre da Monza a Sesto, in “Sesto proletaria”, 10 luglio 1946, p. 252. 28 Archivio privato Zappata. 29 L’affermazione è stata riferita dal figlio Giuseppe (colloquio con l’autore, Milano, 12/8/1993). Una valutazione complessiva, relativa anche alle qualità formali, è contenuta anche in O. Marchi e V. Zardo, Aeronautica Militare Museo Storico Catalogo Velivoli, Patron editore, Bologna 1980, pp. 260-261: “gli aeroplani di Zappata erano e sono tutti di rara e preziosa eleganza, quasi fossero disegnati da sapienza e sensibilità d’arte”.

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Libri, riviste e mostre

Enzo Mari, L’arte del design, To­ rino, Galleria d’Arte Moderna, 29 ottobre 2008 - 6 gen­ naio 2009 (prorogata al 1° febbraio). In occasione dell’anno che vede investita la città di Torino del ruolo di capitale mondiale del design, la Galleria d’Arte Mo­ derna ha deciso di ospitare un’esposizione dedicata all’opera di Enzo Mari, chiamando lo stesso maestro a curarne l’allestimento. Figura complessa quella di Enzo Mari, non definibile soltanto come designer, termine che peraltro è stato accettato dall’interessato solo allorquando si è trovato a tradurre in inglese la parola progettista. Mari aspira a incarnare piuttosto la coscienza dell’artista della seconda metà del XX secolo: educatore, pensatore e sperimentatore ma anche interprete della società di cui è parte. Un artista, dunque, ma per caso, come sembra emergere dalla sua (auto)biografia, fulcro del catalogo che accompagna la mostra (F. Motta Editore). Traitd’union tra arte propriamente

intesa e disegno progettuale, l’o­ pera di Mari si colloca in una dimensione di costante ricerca, volta a collaborare al lento processo di cambiamento della realtà sociale. Filiberto Menna (1988) individua in un medesimo atteggiamento di fondo, analitico, autoriflessivo, progettuale, tre vie possibili nel lavoro di Mari: l’esperienza dell’arte in senso proprio, la progettazione nell’ambito del design, la formulazione di proposizioni e giudizi ideologici in forma di allegorie filosofiche. D’altronde, se, come afferma Arturo Carlo Quintavalle (1983), è molto difficile, comunque, cercare di distinguere fra dipinti, oggettiscultura, oggetti per produzione in piccola serie e a carattere “estetico”, strumenti di lavoro e funzionali alla ricerca, e infine prodotti del design, l’esposizione stessa intreccia e confonde le tre direzioni individuate da Menna, realizzando un allestimento che dà luogo a rimandi continui tra le stesse opere e tra queste e l’ideologia dell’autorecuratore.

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Attraverso gli oggetti definibili come arte optical o programmata, infatti, emerge chiaramente quella ricerca progettuale che il prodotto di design finito non lascia trapelare, nonché l’interesse per le modalità percettive e ricettive. Riducendo ulteriormente e all’essenza i già limitati elementi del mondo svelato da Piet Mondrian, Enzo Mari ripropone più volte a sé e agli altri le innumerevoli possibilità di creazione fornite dalle linee verticale e orizzontale e dalla giustapposizione di nero e bianco. Non si tratta però di voluti riferimenti all’arte suprematista di Malevic] o al rigore di De Stijl, bensì di uno studio sull’uomo reale e sul suo ambiente. La vicinanza e il confronto con associazioni sperimentali come Nuova Tendenza (la cui mostra a Zagabria nel 1965 è coordinata dallo stesso Mari) e GRAV, per un artista solitamente restio a far parte di gruppi organizzati, lo ha probabilmente persuaso a seguitare nella direzione operativa intrapresa. Innanzitutto Mari ha sempre sentito la necessità di porre delle regole nel proprio lavoro progettuale, poiché, come tuttora sostiene, la libertà esiste con le regole. Il bisogno di regole si spiega con quello di comunicare, di trovare nel fruitore un interlocutore, quindi un soggetto reale e non stereotipato per il quale costruire delle forme. Il progettista non si pone come detentore della verità, bensì è cosciente che un vero progetto non può essere predeterminato: si scopre facendolo, e che la conclusione di ogni progetto è sempre da considerarsi come provvi-

soria. In Mari, dunque, si ritrova quella critica all’oggetto prodotto non più inteso come fine del processo del design ma co­ me momento di un intervento progettuale più vasto e radicale, come Paolo Fossati (1972) ebbe a sottolineare in merito al­ l’apporto dell’esperienza, tanto discussa in quegli anni quanto dimenticata oggi, della Hochschule für Gestaltung di Ulm. Si tratta di una “progettazione integrale” che parte dalla presa d’atto del ruolo del designer e della sua opera all’interno di una società sovraesposta all’uso e alla percezione di prodotti di design. A questo contesto va ascritta la critica chiara e priva di incertezze che Enzo Mari ancor oggi muove alla struttura produttiva, mentre negli anni Settanta la sua posizione avrebbe potuto dialogare con quella esposta da Victor Papanek, pur in una più concretamente utopica visione del proprio ruolo. Per Mari le forme diventano linguaggio, una risposta e una domanda nel contempo. Una risposta ai problemi che il progettista si è trovato ad affrontare e una domanda rivolta alla società di fruitori, il comportamento dei quali, nei confronti dell’oggetto realizzato, diventa un nuovo oggetto di studio e di ricerca. Un dialogo o forse, meglio, un monologo, perché costruito sulle risposte comportamentali degli altri. Un discorso, comunque, depurato all’essenza per quella regola della limitazione dell’obsolescenza espressiva che gli permette di individuare ogni volta il tipo di linguaggio adatto ad aumentare la durata del­ l’oggetto sia in senso tempora-


le sia in quello della sua disponibilità di adattamento. Da que­sta riflessione si è originata l’ideazione della mostra di falci (1989), strumento, la falce, che per Mari è un modello di quello che il design dovrebbe essere. Mari rifiuta la strada della moda e dell’evanescenza perché è artigiano e artista. Il richiamo al lavoro artigianale, naturalmente presente nel processo creativo di Mari, è un elogio del­ la mano (del tecnico e dell’artista, in questo caso) ma anche un’ulteriore dichiarazione di vicinanza alla realtà, che sia quella del materiale o quella della collettività sociale poco importa specificare. A questo punto, pare necessario ricorrere nuovamente alle parole di Fossati, che introdusse Mari tra i dieci ritratti di designer de Il design in Italia 1945-1972: artigiano è il senso della partecipazione singola, l’individuale mettere mano all’oggetto come procedura di un’intuizione che trascende, anche se in fondo giustifica, la produzione meccanica. L’altra parte di Mari, l’artista, guarda oltre la contingenza umana verso le leggi permanenti dell’armonia. È chiaro che il maestro si ritiene un designer, piuttosto che un artista, ma se il designer è il progettista della forma, è anche vero che le forme che ha creato non sono migliorabili poiché sono rappresentazione di ciò che trascende l’uomo, come egli stesso definisce l’arte. Si potrebbe altresì affermare che la creazione di questi oggetti trascende l’uomo poiché lo analizza a ogni livello, in ogni sua esigenza e in ogni sua speranza.

L’azione didattica del progettista è duplice in Mari. Si esplica nell’oggetto “disegnato”, attraverso l’uso del quale, riprendendo le parole di G.C. Argan (1981), la società impara(va) che ogni atto moralmente valido è una progettazione, cioè un passo verso la realizzazione dell’ideologia nella cui prospettiva è (era) stato ideato. E, per l’opera di Mari, non è difficile parlare di ideologia (immaginazione eticamente e politicamente intenzionata). A que­ st’educazione sociale si aggiunge l’insegnamento vero e proprio, quello rivolto soprattutto ai giovani, che però non si sostanzia di verità indiscutibili, quanto di reciproco scambio di visioni: infatti, se alla base della progettazione vi è la riflessione, l’esperienza del maestro viene comunicata attraverso un percorso maieutico alla ricerca di una nuova soluzione per la forma. Il prodotto deve essere quindi uno strumento di pensiero, atto alla trasmissione di valori e al mantenimento di una cultura critica in assenza della quale verrebbe meno la stessa speranza proget­ tuale. Afferma Mari che il designer deve necessariamente svolgere il proprio lavoro con la consapevolezza dei due mondi: quello dell’utopia e quello del reale. Quello del reale non può che essere vissuto dichiarando le ragioni dell’utopia. Decide quindi di pensare al mondo come campo concreto di progetto, aderendo alle ragioni del­l’u­ topia concreta appoggiate parallelamente anche da un altro maestro-pensatore, Tomás Maldonado. Dunque, affinché un og-

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getto disegnato per un contesto reale possa oltrepassare la mera risposta alle esigenze di partenza, bisogna che esso sia portatore di valori, anzi che l’oggetto stesso venga considerato come valore, poiché è il design che promuove una cosa al grado di oggetto e pone l’oggetto come perfettibile, e cioè partecipe del finalismo dell’esistenza uma­ na (Argan, 1981). La mostra torinese si è trasformata in un nuovo, ulteriore progetto di Enzo Mari, come già si era verificato per il volume edito dalle edizioni di Comunità (casa editrice storicamente attenta alla dimensione della cultura del progetto) nel 1970, Funzione della ricerca estetica. La modularità degli elementi propria di un certo filone della ricerca di Mari viene, nel caso torinese, trasposta nell’esposizione in cui i numerosi lavori presentati concorrono alla costituzione di un’opera totale; qui realizzazioni artistiche e tecniche si compenetrano senza tralasciare il terzo filone caro al maestro, quello delle allegorie filosofiche. L’area espositiva principale, anzi, pare proprio ristabilire un’atmosfera allegorica, disponendo le opere in uno spazio che impone al visitatore un percorso quasi ci si trovasse all’interno di una chiesa, dove la navata si apre sulle molteplici cappelle laterali fino a giungere, infine, agli inginocchiatoi posti di fronte a un ampio specchio (Allegoria della dignità, 1988). Si tratta di una rinnovata ricerca comportamentale nell’ambiente reale di uno spazio museale o, piuttosto, di una volontà di recupero del valore dell’oggetto progettato e, conseguentemente, del

valore del soggetto che con quel­ l’oggetto si re­laziona? M. P. E. Morteo, Grande Atlante del Design, dal 1850 a oggi, Electa, Milano 2008. Chi, tradito dal titolo, scambia questo libro con una delle pubblicazioni oggi in voga dove sono raccolte opere esemplari di design, magari disposte in ordine cronologico, si sbaglia. Il testo di Morteo non è solo questo ma anche altro; infatti ogni opera illustrata è accompagnata da informazioni sull’autore, la tendenza, la tecnica, il costume, il tutto utile a formare un contesto storico-critico. Cosicché il volume in esame è una vera e propria storia del design, caratterizzata dal commento delle singole opere; e francamente non capisco perché gli autori esperti di design, nella loro maggioranza, non usino per i loro saggi il termine «Storia», facendo la fortuna di quei pochi libri così intitolati. Non potendo dar conto delle «schede» (che da quanto precede tali non sono), provo a dialogare con la parte introduttiva del libro che, questa volta opportunamente, s’intitola Dai bisogni ai desideri, dai desideri ai comportamenti. In essa si legge: viziati dalla nostra abbondanza, sarebbe però un errore se pensassimo al nostro passato solo in termini di arretratezza e limitazioni. La storia ci ha restituito oggetti antichissimi che rivelano grande perizia tecnica e che


spesso anticipano l’idea stessa della produzione in serie, dimostrando un completo controllo delle procedure e dei metodi di fabbricazione. Allo stesso modo, non mancano esempi di straordinaria fattura e di una raffinatezza formale analoga alle opere d’arte … Nonostante ciò, è indubbio che l’avvento della rivoluzione industriale coincida con il definitivo passaggio da una “civiltà degli utensili a una civiltà delle macchine”. Si direbbe che siamo di fronte a una soluzione di continuità. Infatti, dopo aver descritto per sommi ed efficaci capi quest’ultima, l’autore definisce la rivoluzione industriale co­ me, tra l’altro un mondo svuotato dalle abitudini e dalle tra­ dizioni, non più descrivibile in base all’esperienza ma alle leggi della ragione. È dunque can­cellando, sottraendo e semplificando che la modernità si fa strada. Ed è questo vuoto che il fiume di merci e di oggetti prodotti dall’industria si appresta a saturare: una massa tanto compatta quanto sorda, al cui interno il design si identifica con il difficile, appassionato percorso di una ricerca capace di restituire una nuova pienezza di senso all’apparente vuoto della modernità. Infatti, non è solo il fiume di merci a riempirla, bensì anche le nuove forme e le nuove prestazioni fino al punto da modificare i paesaggi urbani e domestici, i comportamenti sociali e i riti col­ lettivi, la percezione dello spazio e del tempo, i bisogni e le aspettative di consumo. È nel riconoscere e affrontare questa complessità, nel tentativo di

dare forma e senso alle contraddizioni e alle attese che accompagnano l’avanzare stesso del progresso che il progetto entra nella dimensione del design. Design non è sinonimo dell’intera massa della produzione né tanto meno è identificabile nell’operatività dell’industria. Qui, a mio avviso, Morteo si iscrive al partito per cui è il design che ha salvato il mondo e ancor più lo salverà alleandosi al mondo dell’arte, dello spettacolo, della comunicazione e a quant’altro pertiene al mondo dei creativi, trascurando il fatto che due debolezze non formano una forza. Che vi sia un cedimento all’estetica della sua filosofia è dimostrato dal fatto che, a un certo punto del suo argomentare, egli, non solo attribuisce al design poteri eccezionali, ma lo identifica anche con uno stile. Il tutto contenuto in un passo emblematico: in altre parole, il design sembra aver assunto i connotati di un vero e proprio stile: lo stile dei nostri tempi. Di fronte alle dinamiche contemporanee del consumo, alla capacità di ciascuno di progettare le proprie esperienze – dai viaggi al proprio aspetto fisico, dai luoghi d’incontro alla fruizione del cibo, della cultura, del tempo libero – non sarebbe neppure improprio parlare di “design dell’esistenza”. Non occorre essere Adorno o altri acuti come lui per accorgersi che tutto questo non è vero. Lo stile del nostro tempo non è quello del design ma del kitsch più sfrenato, della tv spazzatura, della pornografia pubblicitaria;

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ancor meno vero è che possiamo «progettare» la nostra esistenza quando, a seconda della condizione geografica ed economica, siamo comunque continuamente eterodiretti. Queste osservazioni non intendono presentare la posizione di Morteo come quella di un incantato e ottimistico cronista, perché essa risulta assai più problematica. Concedendo al mio vizio di ricercare alcune invarianti, mi pare di cogliere una sorta di motivo ricorrente nelle varie epoche e tendenze trattate nel libro, rispondente al seguente schema: viene posto un tema socio-culturale di cui sono evidenziati pregi e difetti, salvo l’intervento del design che «risana» il tutto. Abbiamo già incontrato questa «terapia» progettuale applicata alla rivoluzione industriale; essa ritorna quando viene descritta la cultura del design in America e in Europa e si ritrova altresì nel brano dedicato all’Italian Style – a un modello tanto elastico da assorbire anche l’onda delle contestazioni più radicali, sintomi di importanti cambiamenti sociali ed economici – fino all’esame della condizione più attuale. La «diagnosi» dei mali di que­ st’ultima è così espressa: pro­prio la capacità di essere anche linguaggio accompagna il design oltre la soglia della modernità, consentendogli di accedere e interferire con le dinamiche della società postindustriale, là dove lo scambio dei segni prevale sul materiale scambio delle merci. Inevitabilmente, nel confronto con il contemporaneo, il design non ha potuto sottrarsi ai rischi

del­l’omologazione imposta dal dominio dei segni: in un universo di immagini, dove sfuma la differenza fra ciò che vedo, ciò che ho visto, ciò che vorrei vedere, tutto si consuma con identica ingordigia, in una superficiale spettacolarizzazione del presente che tende ad annullare sia il valore del passato quanto le aspettative del futuro… le immagini del design hanno forse perso parte del­ l’originaria carica innovativa. Ma ecco la «terapia»: a risarcire la perdita, il design ha però ottenuto una visibilità universale e un riconoscimento di mas­sa mai raggiunto prima, conquistando l’attenzione di pubblici più ampi e trasversali e diventando un’espressione di moda con cui identificare i tratti di un’elegante modernità funzionale o di un’esibita contemporaneità. Naturalmente non sfugge al­ l’autore anche ciò che una critica troppo benevola e orientata soprattutto sulla nuova tecnoscienza afferma quotidianamente, don­ de – nelle «schede» – il richiamo alla miniaturizzazione, alla virtualità, alla comunicazione fino a ciò che considero una contraddizione con la cultura materiale: il cosiddetto «design dei servizi». Giustamente Morteo afferma: in questo scenario non è più possibile pensare al design in termini univoci, ma solo quale categoria declinata al plurale. In parte assimilato al linguaggio delle mode, in parte stile culturale, il design è soprattutto un atteggiamento progettuale che non riguarda più solo gli oggetti ma coinvolge i siste-


mi delle relazioni, i processi del­l’innovazione, le strutture stesse di una società in trasformazione. Sottoscrivo tale giudizio, ma esso non giustifica la presa in seria considerazione di oggetti, progetti e teorie che serie non sono. Insomma, questo Grande A­tlante del Design mi sembra orientato a includere tutto, a non lasciarsi sfuggire nulla, anche a costo di rinunciare a quel minimo di cattiveria congeniale e inevitabile nell’esercizio della critica. Ma seguendo le invarianti caratterizzanti l’impostazione del saggio, si può dire che il difetto del diffuso ottimismo trovi adeguato compenso nella vasta informazione che l’opera offre a piene mani, rivelandosi di grande utilità e fonte di numerosi argomenti sui quali discutere, segnatamente quello espresso dalla frase, agli storici piacciono le date: ogni cifra è un punto fermo, un chiodo di sicurezza piantato nella parete del tempo. R.D.F. D. Dardi, Il design in cento oggetti, Federico Motta Editore, Milano 2008. Il volume, secondo una consuetudine ormai abbastanza diffusa, è organizzato in schede, ognuna delle quali racconta con chiarezza ed efficacia la storia degli oggetti selezionati, pezzi che, molto diversi tra loro per data di realizzazione, uso e tipologia sono ormai parte integrante della nostra storia. Il testo è suddiviso in tre parti: le prime sono pagine introduttive e riguardano

numerose e differenti questioni tra cui quella, fondamentale, inerente i metodi di selezione dei pezzi da inserire nelle ricerche con sistema di catalogazione, la parte centrale del libro è costituita dalla schedatura mentre la conclusione è riservata alle note biografiche degli autori. L’introduzione prende il titolo, valori personali, da un’opera di Magritte; l’autrice comincia, infatti, con l’analizzare la tela di uno dei maestri del Surrealismo in cui alcuni oggetti sono mostrati in scala ingrandita rispetto ad altri, gli oggetti che in qualche modo rappresentano i nostri valori personali sono stati sottolineati con un salto di scala rispetto a quelli che semplicemente popolano il nostro spazio arredandolo. In questo modo Magritte mette in risalto in maniera evidente il valore affettivo e psicologico che alcuni oggetti hanno rispetto a quello prettamente pratico e funzionale; la Dardi prende in prestito questo riferimento per sviluppare e chiarire il suo sistema di selezione degli oggetti basato, ma non solo, su una valutazione popolare di un pubblico che ha decretato la longevità di un prodotto. Una delle riflessioni portate avanti nel testo evidenzia, infatti, la possibilità di considerare nel condiviso valore personale un principio di selettività con la consapevolezza comunque del grado di parzialità del giudizio. L’autrice chiarisce che la selezione non può essere basata esclusivamente sui cento pezzi più venduti, ne resterebbero infatti esclusi alcuni che hanno fatto la storia del design senza per questo essere noti al grande pub-

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blico; inoltre ci sono anche casi, non pochi, di oggetti passati inosservati al momento della loro messa in produzione e diventati solo in un secondo momento delle icone riconosciute. Proprio tenendo conto di questi fattori, nel volume sono allora presenti dei pezzi non per il loro essere in effetti i più acquistati ma per il loro essere conosciuti. È il caso della Ferrari Testarossa sogno di molti ma realtà per pochissimi; è questo l’esempio in cui il marchio è diventato popolare di riflesso rispetto all’oggetto stesso ed è realmente possedibile da tutti: difficile diventare proprietari dell’auto ma semplice indossare la maglietta o il cappellino con il cavallino rampante. La difficoltà della selezione è legata anche alla quantità di saperi che sono a essa collegati: nel settore del design entrano infatti in gioco discipline anche molto diverse tra loro che vanno dalla sociologia alla antropologia, dalla moda alla tecnica e che contribuiscono tutte fortemente alla ideazione e al successo degli oggetti. All’interno dello studio vengono inoltre indicate altre dinamiche caratterizzanti il settore: le delicate connessioni tra progettisti, produttori, venditori e pubblico, il collegamento tra successo popolare e successo di mercato, l’anomalo atteggiamento di molti studiosi di design che sembrano a volte quasi guardare con imbarazzo all’aspetto commerciale degli oggetti, dimenticando in questo modo che questi nascono per assolvere a delle funzioni acquistando poi in alcuni casi un valore aggiunto. La ricerca non si propone co-

me una storia del design classica, vuole essere diversa dalle storie che utilizzano l’oggetto o come deduzione dalla teoria generale o comunque come elemento che stia nel mezzo di un passaggio reversibile dal particolare all’universale; mancano infatti riferimenti alle teorie in voga al momento della nascita dei prodotti selezionati, l’attenzione è unicamente e semplicemente concentrata sul pezzo scelto. Gli oggetti selezionati sono i più vari, da quelli legati a nomi riconosciuti del design internazionale a quelli anonimi. Si tratta in alcuni casi di prodotti nati per scopi unicamente funzionali a cui è stato poi anche riconosciuto un valore fortemente estetico, ne è di esempio la lampadina di Edison; sono presenti inoltre pezzi il cui nome non è tanto legato a quello di un designer ma a quello di una azienda come dimostrano i prodotti dell’elettronica giapponese. È naturalmente sottolineato il ruolo che hanno alcuni oggetti che diventano simbolo di un’epoca e riferimento per intere generazioni di designer. Sono portate avanti delle riflessioni sul significato del termine design in relazione alle modalità di produzione, sul processo di serializzazione anche se molti oggetti nascono come artigianali per essere poi prodotti in serie, mentre altri hanno contribuito alla storia del design senza essere realizzati serialmente. In ultimo viene analizzata la situazione contemporanea che è molto più articolata e complessa rispetto al passato. Oggi il design risulta spesso legato a un pezzo unico e in maniera sempre


più frequente capita che molti oggetti perdano di vista la funzione per cui sono nati a favore della componente estetica che diventa predominante; il design tende in questo modo sempre più verso l’arte. I pezzi scelti, ordinati in sequenza cronologica, vanno dalla celebre sedia modello 14 della Thonet del 1859 a uno degli oggetti del desiderio più attuali del momento: l’Iphone della Apple. Ogni pezzo è illustrato da una scheda composta da un testo, in cui sono annotate tutte le indicazioni fondamentali per la sua conoscenza, e dalle immagini in alcuni casi d’epoca che rimandano a momenti anche lontani. Quasi sempre l’oggetto è però presentato singolo o inserito in un’ambientazione che ne amplifica le caratteristiche come accade proprio nel caso della prima scheda in cui le Thonet, iterate, ricoprono l’intera parete di una caffetteria connotando fortemente lo spazio semplicemente con la loro presenza. In alcune schede le immagini enfatizzano le forme scultoree degli oggetti: è il caso della Panton di Verner Panton in cui due sedie sovrapposte sottolineano le linee plastiche più che la funzione o delle sedie Ant di Arne Jacobsen che, poste su piani differenti e attentamente illuminate, formano un’ombra netta che rimanda alla figura della formica da cui deriva appunto il nome dell’oggetto. Molteplici le tipologie funzionali inserite: sono naturalmente presenti le immancabili sedute e lampade, dalla sedia per la Hill House di Mackintosh caratterizzata dall’alto schienale alla intramontabile Serie Up di Gaeta-

no Pesce basata invece su forme morbide e curve, dalla lampada Arco dei fratelli Castiglioni alla immancabile Tolomeo di De Lucchi e Fassina; i più vari gli altri pezzi schedati, presenti anche alcuni mezzi di trasporto: tra questi, il Maggiolino il cui grande successo ha indotto la Volks­ wagen a un recente reinserimento sul mercato dopo aver ap­ portato le necessarie modifiche di adeguamento, il motoscafo A­quarama, per molti anni vero e proprio status symbol, il Concorde dalle linee eleganti e aerodinamiche; non mancano naturalmente i telefoni, le radio, le macchine da scrivere. Diversi anche i riferimenti ad altre arti che hanno utilizzato pezzi di design contribuendo alla loro fortuna; è il caso del cinema e quindi inevitabili i rimandi al film Vacanze Romane in cui Audrey Hepburn e Gregory Peck si muovono per le strade della capitale a bordo di una Vespa Piaggio e alle avventure grottesche di Paolo Villaggio in cui viene resa celebre la poltrona Sacco. Presenti anche, forse un po’ a sorpresa per qualcuno, le bottigliette della Coca Cola nata nell’ormai lontano 1915 ma ancora riferimento negli attuali studi di marketing e del Bitter Campari progettata dal futurista Depero. L’attenzione viene soffermata anche su oggetti la cui caratteristica principale è l’essere di breve durata: nel tempo sono infatti inclusi alcuni prodotti appartenenti al mondo dell’usa e getta: la penna Bic che con la sua semplicità resta un pezzo di design alla portata di tutti, la posata Moscardino di Iacchetti e Ragni che unisce in un solo pezzo il cucchiaio e la

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forchetta e soprattutto sostituisce le tradizionali posate in plastica dalle forme non proprio accattivanti. Sono citati i grandi nomi del passato e contemporaneo, i maestri come Le Corbusier e Mies van der Rohe, le firme dell’attualità come Stark e i fratelli Campana. Sono inserite le grandi aziende che hanno legato il loro marchio a nomi famosi a cui devono la propria fortuna e riconoscibilità. Non poteva mancare, inoltre, l’attenzione rivolta al mondo dei bambini come testimoniano la presenza di alcuni giochi e arredi: gli Animali in legno di Mari, i Mattoncini della Lego, la Serie Mammut di Ikea. Nel complesso il testo risulta chiaro e alla portata di tutti, non solo quindi rivolto agli addetti ai lavori ma anche a chi con curiosità ma senza avere particolari strumenti di lettura si accosta al mondo del design, a chi cioè non ha conoscenze della storia e teoria del settore e delle dinamiche del mercato ma è attratto dalla materia riuscendo, dopo la lettura del libro, ad avere forse una maggiore consapevolezza dei pezzi che nel quotidiano affollano la nostra vita e a compiere, come auspica l’autrice, delle scelte del tutto personali: È comunque bello pensare che alla presente selezione, inevitabilmente limitata, ne possano cor­rispondere altre, tante quan­te saranno i lettori del libro, ciascuno chiamato a immaginare i propri ideali cento oggetti, sollecitato da quelli proposti.

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T.R.

M. Elia, Vchutemas, Lupetti, Mi­ lano 2008. L’esperienza dei Vchutemas, acronimo di Laboratori tenico – artistici superiori di Stato – nella pregevole sintesi redatta da Marco Elia – si colloca in un periodo storico di grande fermento culturale e artistico, quale quello di inizio secolo. Sviluppatisi nella Russia post-zarista, i Vchutemas affondano le proprie radici in esempi analoghi del secolo precedente (Henry Cole e la London School of Design dell’inghilterra Vittoriana, il Werkbund di Muthesius) e trovano nel Bauhaus di Gropius il loro più famoso cugino europeo. Fa da sfondo a tale rinnovamento la Russia rivoluzionaria che, abbandonato il regime autocratico, si affaccia al nuovo secolo pregna degli ideali socialisti, muovendo i primi passi verso l’industrializzazione e la modernizzazione. L’istanza di elevare la qualità della produzione industriale, unita alla necessità di integrare l’arte nella vita quotidiana, diventa il nuovo credo dei giovani artisti russi, che al grido del nuovo per tutti militano nelle cosiddette avanguardie artistiche. Antiaccademiche e rivoluzionarie, le tendenze artistiche manifestano nei più disparati campi un assoluto interesse per il nuovo. Il rinnovamento investe anche i campi della didattica, i cui metodi di insegnamento messi in crisi dalle nuove teorie formulate dalle avanguardie artistiche necessitano di essere riformati. «Evviva la libera arte» diventa lo slogan negli ambienti delle rappresentanze studentesche e, a


cavallo della Rivoluzione di Ottobre all’interno della Scuola Ar­tistico-Industriale Stroganov di San Pietroburgo e della Scuola di Pittura, Scultura e Architettura di Mosca, i giovani, guidati dall’attivista Sen’kin, istituiscono i Liberi Laboratori, anticipando il decreto del Commissariato del Popolo per l’istruzione che nel 1918 trasforma le due antiche scuole russe in Primi e Secondi Liberi Studi d’Arte di Stato. Vengono gettate in tal senso le basi della futura esperienza dei Vchutemas. Studenti e docenti vivono tale rinnovamento uniti dalla comune volontà di rispondere alle nuove esigenze sociali, depurando l’arte da vecchi stilismi e sdoganando le nuove avanguardie artistiche, ricercando un nuovo metodo didattico, che nella sua oggettività consenta l’affermazione di un nuova figura di artista al servizio della produzione industriale. Si assiste pertanto a un processo di democratizzazione dei laboratori, consentendone l’accesso a giovani anche se privi di un titolo di studio e assicurando loro il diritto di scelta degli insegnanti. A questo si accompagna il libero accesso in ambito didattico da parte di ogni corrente arti­ stica. Il 19 dicembre del 1920 Lenin istituisce i primi Laboratori tecnico-Artistici Superiori di Stato: i Vchutemas. II primo paragrafo del decreto istitutivo enuncia a riguardo: i Laboratori tecnico-Artistici Superiori di Stato di Mosca sono una scuola tecnico-industriale superiore speciale, che ha scopo di preparare artistiprogettisti al-

tamente qualificati per l’industria, nonché istruttori e direttori per l’istruzione tecnicoprofessionale. Convergono e alimentano l’e­ sperienza dei Vchutemas i mo­ vimenti artistici che animano la Russia in quel periodo: Arte Monumentale, Suprematismo, Co­ struttivismo e Produttivismo. Gli attori di queste correnti, da Kandinskji a Malevic], da Rodc]enko a Stepanova, apportano all’interno dei Vchutemas le loro ricerche artistiche, declinandole sulla base dei propri differenti approcci teorici: da quello legato alle leggi della percezione psicofisica dell’opera d’arte (Kandinskji), alla sensibilità soggettiva dell’artista nelle arti figurative (Malevic]), a quello in cui si passa dalla rappresentazione del­ l’oggetto alla sua costruzione (Rodc]enko), alla volontà di coniugare estetica e processo produttivo (Stepa­ nova). Otto Facoltà (Architettura, Pit­ tura, Scultura, Lavorazione dei Metalli, Lavorazione del Legno, Ceramica, Tessuti, Grafica), aperte a ogni fascia sociale, e un programma voluto dal suo primo rettore, A. Radvel, volto a intensificare al massimo il legame tra facoltà produttive (Tessuti, Ceramica, Grafica, Lavorazione del Legno e lavorazione dei Metalli) e non produttive (Pittura, Scultura, Architettura), costituiscono l’ossatura dei Vchu­temas, che, sin dagli inizi, trovano il cuore pulsante della loro didattica nel Corso Fondamentale. Questo, la cui durata copre il primo biennio di studi e i cui tratti distintivi lo assimilano al Vorkurs del Bauhaus, si articola in quattro Unità didattiche (Konzentr): per lo stu-

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dio della superficie e del colore, per la rappresentazione del volume, per la configurazione dello spazio, per la grafica. L’interdisciplinarietà delle quattro Unità è accomunata dal fondamento della psicofisiologia della percezione, dalla negazione di ogni forma di gerarchizzazione delle arti, da un approccio oggettivo e scientifico al produrre artistico. Tuttavia tali propositi iniziali trovano non poche difficoltà nei risvolti pratici e, durante il rettorato di Favorskij (1923-1925), i Vchutemas vivono una fase caratterizzata da un forte sbilanciamento tra materie produttive e non produttive, da un’incapacità di tradurre gli aspetti teorici del Corso Fondamentale in strumenti professionali validi nei laboratori produttivi, con conseguente decadimento della didattica della Derfak (Facoltà di Lavorazione del Legno) e della Meffak (Facoltà di Lavorazione dei Metalli). Si deve, tuttavia, a personalità come Rodc]enko, Kiselev e Lavinskij il merito di infondere nel programma di studi elementi desunti dal mondo dell’industria di massa e di introdurre nella didattica tutti quegli insegnamenti fondamentali per una corretta comprensione delle problematiche inerenti la progettazione e la produzione di arredi prodotti in serie. L’orientamento dei Vchutemas acquisisce, pertanto, nuovi stimolanti indirizzi: nasce la scuola sovietica di disegno industriale. Emblematiche sono le produzioni di arredi dinamici, la cui flessibilità d’uso si esplica in un forte grado di trasformabilità dell’oggetto: i tavoli di Kokorev

e di Morozov, la poltrona di Sobolev, la serie di lampade da tavolo di Damksij, rispondono alle necessità dell’uso di spazi domestici minimi, tipici dell’edilizia sovietica degli anni ’20, coniugando sapientemente qualità artistica e serialità della produzione. Analogamente l’esperienza del Club Operaio di Rodc]enko testimonia l’affermarsi della nascente figura del designer, capace di rispondere alle necessità della collettività, accelerando gli stessi processi produttivi. Rod­c]enko infatti progetta per gli interni del Club arredi in serie, secondo principi di trasformabilità, che persino l’industria del mobile, ancora in fase semiartigianale, sarebbe stata in grado di fabbricare. Riconoscimento di tale ventata innovatrice è la partecipazione dell’Unione Sovietica all’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi del 1925, il cui Padiglione, realizzato in economia da Rodc]enko, presenta progetti figli dei nuovi tempi, in linea con le esperienze del Bauhaus, del De Stijil, del Razionalismo italiano e del Purismo francese. Il processo di rinnovamento innescato dalla Meffak e dalla Derfak coinvolge anche le facoltà di Tessuti e Ceramica. Nella prima gli insegnamenti di Stepanova e di Popova pongono l’accento su una nuova progettazione dei tessuti, svincolata da immagini provenienti dall’Europa Occidentale o dalle Americhe e aderenti alla vita sovietica in tutte le sue sfaccettature. «Disegni tematici o di agitazione» sono i nuovi pattern scelti per tessuti, la cui progettazione muove i


passi da un rapporto dialettico tra leggi della tessitura e disegno geometrico. Nella seconda, opera fino alla fine degli anni ’20 Filippov che, pur appartenendo a un orientamento indipendente, grazie al suo metodo didattico raccoglie consensi dalla corrente costruttivista. Il suo approccio è infatti legato al perseguimento di forme razionali atte al processo industriale. Ciò si esplica negando gli aspetti decorativi artigianali propri della tradizionale Scuola Stroganov e considerando la forma dell’oggetto il risultato di una serie di riflessioni circa la lavorabilità del materiale, le sue potenzialità espressive in ragione delle possibilità costruttive e produttive. Nel 1926 l’arrivo del nuovo rettore, P.1. Novickij, sancisce una nuova fase dei Vchutemas che l’anno dopo acquisiscono il nome di Vchutein, abbreviazione di Istituto tecnico-artistico superiore di Stato. Tale denominazione è frutto di un nuovo programma di riforma indetto dal rettore, volto ad orientare mag­giormente la formazione degli studenti alla produzione industriale. L’arte, che ha raggiunto alti livelli qualitativi, deve innanzitutto porsi al servizio dell’industria, cioè della produzione meccanica di massa degli oggetti socialmente indispensabili… il Vchutein prepara artisti di tipo nuovo, artisti che sono al servizio dell’industria, che organizzano la vita quotidiana e servono la lotta politicoculturale della classe operaia. Gli studenti, soprattutto nel­ l’am­ bito produttivo, progettano in totale rottura con le tradizioni

ed ogni tipo di riferimento storico, assumendo sempre più il ruolo di artista-ingegnere. E dalla Dermetfak, nata dall’unione della Derfak e delle Metfak, escono nel 1929 i primi otto designer sovietici, acclamati dalle riviste dell’epoca. All’interno di questo periodo si colloca l’operato di Tatlin che dal 1927 concentra il suo metodo didattico nella Dermetfak intorno alla ricerca sperimentale sulle proprietà dei materiali. Tuttavia l’attività del Vchutein registra una battuta d’arresto, le cui cause sono da ricercare nei grandi cambiamenti sociali che investono l’Unione Sovietica sul finire degli anni ’20. La decisa accelerazione nel campo industriale, accompagnata da un graduale ridisegno urbanistico di interi quartieri operai, è sintomatica di una forte richiesta produttiva di merci, beni di prima necessità, arredi, edifici standardizzati per la collettività. Tale scenario impone un riassetto del sistema scolastico al fine di garantire un sostegno attivo in ambito produttivo. Nascono pertanto nuovi Istituti Tecnici Superiori e il Vchutein, nonostante giochi un ruolo fondativo nell’economia nazionale, non viene riconosciuto come scuola specialistica. Tale cambiamento di rotta è specchio di una nuova tendenza imposta dal governo che cela l’idea di un ritorno all’ordine, verso un’arte e un’architettura che, dopo le sperimentazioni delle avanguardie, tornassero ad avere l’obiettivo di rifondare uno stile nazionale, anche nel recupero delle tradizioni locali, basato sul classicismo e sul monumentalismo.

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L’avanguardia russa, espressione di un grande cambiamento sia della figura dell’artista che delle dinamiche artistiche, paga a caro prezzo la forte autonomia, la visionarietà delle proprie sperimentazioni, il mancato raggiungimento del rinnovamento estetico e sociale delle arti, il sogno utopico socialista. Molti istituti di stampo avanguardista vengono chiusi, case editrici epurate, gli stessi artisti finiscono isolati o suicidi. Il Vchutein nel 1930 è suddiviso e unificato con altre Facoltà. Stessa sorte tocca alla scuola di design. Il Dipartimento di Lavorazione del Legno della Dermetfak è smembrato e al suo posto nasce l’istituto per la Lavorazione delle varietà dure e preziose del legno, mentre il Dipartimento della Lavorazione dei Metalli viene chiuso con conseguente trasferimento degli studenti in altre scuole superiori meramente tecniche. Si chiude pertanto l’esperienza dei Vchutemas-Vchutein, che va registrata nella storia del XX secolo come un tassello fondamentale per una più giusta comprensione degli sviluppi dei design… Essi costituirono il punto di partenza di un nuovo modo di intendere la cultura del progetto… fondata sulla necessità di avvicinare le basi teoriche della conoscenza alle più concrete esigenze della vita quotidiana. Arte e vita erano i nuovi antipodi tra i quali costruire un ponte ideologico… di una collettività che reclamava libertà di azione, uguaglianza sociale e istruzione per tutti.

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L.F.

D. Russo, Suite d’autore. Viaggio nella storia del design, Biblioteca del cenide, Villa San Giovanni 2008. Per il viaggiatore, che giunge in Sicilia alla scoperta di un’isola densa di arcane atmosfere e ricca di contrasti culturali, Piazza Armerina è sicuramente tappa obbligata. Infatti, nella cittadina della provincia ennese, già nota per i resti della famosa Villa del Casale di epoca romana, dal 2007 sorge Suite d’autore, su progetto di Dario Russo e Cesare Sposito, e una sosta consente al viaggiatore un insolito percorso…nella storia del design. Non si tratta di un nuovo museo, dove gli oggetti d’uso perderebbero la loro essenza costitutiva e funzionale per essere fonte solo di piacere estetico, ma di un Art design gallery hotel, ovvero un albergo che ospita opere d’arte e di design e che consente l’esperienza (non solo estetica) di vivere tra le opere d’arte e “usare” gli oggetti creati da famosi designer. L’albergo s’inserisce nella nuova tendenza degli Art hotel, strutture ricettive di lusso rivolte a un’élite culturale, e ha un precedente siciliano in Atelier sul mare, presso Castel di Tusa, ma rispetto agli altri alberghi-museo, Suite d’autore – secondo le intenzioni dei suoi art director, Russo e Sposito – mira a sottolineare la valenza artistica del design. Inoltre – e questa è l’intuizione innovativa dei progettisti – oltre a svolgere la sua naturale funzione ricettiva, Suite d’Autore assurge a un ruolo culturale: gli ambienti, infatti, sono organizzati secondo categorie esteti-


che che consentono di ripercorrere i momenti salienti della storia del design e delle tendenze contemporanee. Lungo questo percorso ci guida il bel catalogo bilingue (italiano/inglese) di Dario Russo: Suite d’autore. Viaggio nella sto­ria del design, presentandoci un albergo ricco di opere d’arte, progettate o scelte per illustrare un determinato periodo o movimento. Come spiega Russo, i vari ambienti sono vere e proprie Gesamtkunstwerken, opere d’arte totali, dove ogni elemento è concepito in rapporto armonico col tutto per creare suggestioni straordinarie. Di conseguenza, benché il volume si presenti, d’acchito, come un catalogo, in realtà, l’esame degli oggetti diviene solo un pretesto per intraprendere, come recita il sottotitolo, un viaggio nella storia del design. Infatti, con chiarezza ed essenzialità Dario Russo rivela le chiavi di lettura per interpretare oggetti e artefatti e inserirli in un percorso storico evolutivo. Si parte dal tema della “Geometria”, dominante nelle avanguardie del primo Novecento: in questa stanza l’armadio richiama le geometrie colorate di Mondrian, la libreria si ispira alla pittura di Bart van der Leck con i suoi peculiari segmenti rossi, gialli e blu. Il principio estetico cui s’ispirano gli artefatti della seconda camera è “Leggerezza”, «un tema», come suggerisce Rus­ so, «che richiama le esperienze progettuali tra gli anni Venti e Trenta (e poi di riflesso nel dopoguerra) contrassegnate da rigore formale e funzionalismo non disgiunto da intenti estetici». L’opera più rappresen-

tativa della camera è la sedia a oscillazione libera (o a sbalzo) di Marcel Breuer, una delle icone del Movimento Moderno e certamente l’oggetto più noto del Bauhaus. “Magia e ironia” sono le parole chiave del design italiano tra gli anni Cinquanta e Settanta, animato da una profonda creatività. Achille Castiglioni ne è una delle figure principali, con Ettore Sottsass, Vico Magistretti e Gio Ponti, le cui opere fanno da protagoniste in questa camera ironicamente magica. Di Castiglioni si può apprezzare il tavolino Cumano che, quando non serve, può essere piegato e appeso come un quadro; mentre la Valentine di Sottsass, mitica macchina per scrivere Olivetti, campeggia sul comodino col suo design Pop. L’ironia di Magistretti rivive qui nella sedia Selene, una delle prime interamente in plastica e altrettanto arguta e ironica è la Superleggera di Ponti. La camera sulla “Stravaganza” suggerisce lo scenario ricco e variopinto degli anni Sessanta, ma anche del Postmodern e di molto design emozionale dei nostri giorni, in cui il valore degli oggetti si misura, più che per la loro utilità, per la carica simbolico-evocativa che rapisce in un gioco di riferimenti culturali e iconici. In quest’ambiente domina il gusto per la sorpresa e per l’emozione, e lo spirito citazionistico tipico del Postmodern. Così il Cork Stool di Pierfrancesco Arnone, uno sgabello-tappo di champagne, suscita emozioni collegate all’esperienza della festa e il lampadario Campari Light, di Raffaele Celentano, allude alla famosa bottiglia progettata da Depero negli anni

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Trenta. Il Movimento Pop ispira un design frizzante e accattivante, ne è un esempio la Panton Chair di Verner Panton, una sedia interamente in plastica che trasforma il rigido rigore della Zig zag di Rietveld (la sedia a forma di zeta nella camera Geometria) in una serpentina morbida e sensuale. Un altro oggetto cult del design Pop è il Sacco (Piero Gatti, Cesare Paolini, Franco Teodoro), la poltrona informe resa celebre dal Fracchia cinematografico. Il riferimento ai mass media e al cinema, tipico del Pop ma anche del Postmodern e del design odierno, si ritrova in altri oggetti come il parallelepipedo-comodino (Dario Russo e Antonio Scontrino) le cui facce sono rivestite da locandine di famosi film di fantascienza. Infine l’ultima camera s’ispira a un tema (“Fluidità”) che taglia trasversalmente la storia del design dall’Art nouveau ad alcune esperienze contemporanee. Questo è sicuramente l’am­ biente più suggestivo dell’hotel; guidati da Dario Russo ci lasciamo “sciogliere” dalle emozioni. Una citazione del Modernismo catalano (versione spagnola del­ l’Art nouveau) è lo pseudo specchio di Beppe Madaudo, ispirato a Gaudì, che “cola” dalla parete con allusione anche al surrealismo di Dalì. E ancora a Dalì – in particolare al ritratto dell’attrice hollywoodiana Mae West, 1935 – si riferisce uno degli oggetti più accattivanti dello scenario Pop: il divano Bocca – progettato dallo Studio 65 – che seduce con le sue morbide sinuosità. Nella parete al di sopra, la libreria Bookworm, di Ron Arad, assume forme fluide richiamando

sulla Bocca l’immagine di due occhi dalle grandi ciglia, che completano il curioso ritratto postmoderno. Al centro della camera il letto tondo Round Bed sembra emergere dall’acqua, poiché il pavimento azzurro reagisce morbidamente alla pressione del piede, grazie a un liquido interno, confermando il principio estetico della fluidità. Leit motiv di tutte le camere è lo specchio “Nessun dorma” (An­ drea Gianni e Concetta Modica) in cui la frase-slogan (tratta dalla Turandot di Puccini) viene realizzata con delle variazioni inerenti ai differenti temi e costituisce un appello a perseverare in un godimento estetico infinito senza cedere all’oblio del sonno. Lo specchio, simbolo dell’imitazione artistica e icona dell’origine delle arti, ricorrendo pur in modo diverso nelle varie camere, tradisce le dinamiche estetiche fondative dell’albergo-museo: la contraddizione tra l’oggetto d’uso quotidiano e l’opera d’arte destinata alla pura contemplazione estetica. Si tratta di una dialettica insita nel design, nella sua eterna conflittualità con l’arte, una conflittualità che tuttavia tende sempre più a scomparire; ormai, infatti, il design si confonde e si sostituisce sempre più alle opere d’arte. Dall’esposizione di Memphis del 1981, dove alcuni designer capeggiati da Ettore Sottsass presentarono pezzi unici e costosissimi, gli oggetti d’uso si caricano di un quoziente estetico rilevante, sono spesso creati da artisti famosi e lontani dal concetto di serie. Oggi il sorgere di una nuova estetica, pregna di implicazioni mercantili, non disdegna di al-


largare i suoi orizzonti verso campi un tempo emarginati dalla filosofia: la moda, la comunicazione (mass media), la tecnologia informatica, e naturalmente il disegno industriale. L’oggetto d’uso si leva dalla banale quotidianità per assurgere a opera d’arte, in virtù di una sua peculiare aura che lo rende unico e irripetibile. Come mette in rilievo l’autore a conclusione del volume, questo è lo scopo di tutti quelli che hanno collaborato al progetto dell’albergo-museo, dal proprietario/imprenditore agli art director ai vari artisti e designer. Le camere, infatti, benché non siano in realtà molto grandi, sono Suite d’autore, poiché l’oggetto d’uso lungi dallo spersonalizzarsi nella produzione seriale rivendica la dignità di opera d’arte e la paternità di un progettista, come indica persino il logo dell’hotel con l’immagine del­ l’impronta digitale, la traccia più identificativa dell’uomo. E. D. S. C. Zimmermann, L’era delle me­ tropoli, Il Mulino, Bologna 2004. Sin dalla introduzione emerge chiaramente quale elemento di fondo il ruolo della grande città come luogo in cui si condensano e si manifestano in maniera più evidente i movimenti profondi che attraversano le civiltà, gli stati, le nazioni e che determinano quei mutamenti che scandiscono i processi dello sviluppo storico. La città rappresenta un centro di direzione e diffusione di tutti i fenomeni riguardanti le

sfere dell’economia, della cultura, dell’arte, della politica, della scienza, il cui significato non può essere definito semplicemente sulla base di criteri quantitativi – il numero di abitanti, la grandezza, le concentrazioni di potere finanziario –. I criteri in base ai quali si definisce una città come metropoli dipendono dalle innovazioni e dalle forze creative che esse espressero e dal periodo storico che si prende in considerazione. Se è caratteristico delle metropoli trasformarsi da produttrici di miti in laboratori di sperimentazione e criteri del nuovo, allora vanno considerate tali non solo le poche e del tutto particolari concentrazioni di persone, potere, economia e finanza come Londra, New York, Parigi o Berlino, ma anche grandi città come la «città d’arte» Monaco; San Pietroburgo, che nella sua qualità di centro amministrativo e sede di industrie era la città più importante della Russia; Barcellona, a causa del suo importante contributo all’arte e all’architettura europea moderna; Torino, che attraverso un’industrializzazione accelerata e orientata alla tecnologia recuperò nel XX secolo il perduto ruolo di centro significativo a livello regionale e nazionale; o Manchester, che rappresentò in un primo momento «Coketown», la città del carbone, e che in seguito diventò una metropoli multifunzionale con carattere economico-industriale. Nel contempo la città costitui­ sce lo spazio all’interno del quale si amplificano gli effetti degeneri della modernizzazione, co-

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sicché la sperimentazione che si compie al livello culturale e scientifico trova, sin dal XIX secolo, proprio nella critica alla modernità, che veniva acquistando vita propria come ideologia politica, un terreno sul quale impostare ed elaborare quei programmi di riforma sociale, urbanistica, igienico-sanitaria che diverrano strumento della costruzione dei moderni sistemi di welfare. Il riferimento a fattori che vadano oltre il mero dato quantitativo fornisce indicazioni circa la metodologia e il tipo di approccio adottati da Zimmermann verso lo studio del fenomeno urbano, inteso come organismo complesso, la cui evoluzione è determinata dalla combinazione di una molteplicità di elementi. Oggi si arriva così a porre in evidenza l’alto grado di complessità del fenomeno «grande città», la contemporaneità di speculazione edilizia e pianificazione urbanistica, di avanguardia e arte tradizionale, di arte e commercio, che si accompagnano a tutto un insieme di spaccature e di relazioni nel confronto sociale sulla qualità della vita urbana. Il testo mostra come il tipo di funzione economico-produttiva – l’industria, nel caso della metropoli europea – costituisca un elemento di forte incidenza nella definizione della struttura sociale che caratterizza l’ambiente cittadino; e come questi due elementi insieme si riflettano nell’organizzazione, nelle pratiche di utilizzazione e nell’organizzazione urbanistico-architettonica dello spazio urbano. Lo stimolo che da tale impostazione proviene è,

pertanto, quello di osservare dinamiche oggetto di analisi specifiche – economico-produttiva, politico-amministrativa, sociodemografica, urbanistico-architettonica, geografico-territoriale – nelle loro reciproche interazioni, individuando gli specifici esiti – output – che risultano dalle combinazioni che tra di essi si generano in entrata – input –. È d’altra parte in virtù di tale impostazione che l’autore, accanto alle grandi linee dell’urbanizzazione europea, della quale sembra avallare la scansione in tre fasi avanzata da De Vries – La prima va dal 1500 al 1700; segue una seconda, caratterizzata dalla crescita del settore pubblico, per finire con una terza, che comincia nel 1750 ed è determinata dall’industria ma nella quale le gerarchie tra città, segnate da rapporti di scambio fissi, sono ancora strutturate come all’inizio del­ l’età moderna. Tra il 1500 e il 1800, infatti, non si verificarono importanti cambiamenti nella distribuzione della popolazione tra città e campagna, cosa che avvenne a velocità vertiginosa nell’Ottocento, secolo dell’urbanesimo. Questa cesura nella storia delle città e dell’urbanesimo si rende palese anche nel momento in cui si prendono in esame le mutate funzioni delle città durante il processo di industrializzazione e i nuovi fenomeni culturali, come la cultura borghese e la cultura popolare – verifica talune dinamiche di portata generale in relazione alle peculiari realtà urbane sopra citate. Si tratta, in sostanza, della tensione tra un approccio di tipo microa-


nalitico e uno di tipo macroanalitico – la quale riflette le impostazioni non perfettamente sovrapponibili, ma di certo complementari, tra la storia urbana – la quale analizza la maniera in cui lo spazio struttura le relazioni e i comportamenti sociali all’interno della città e viceversa, le evoluzioni della struttura economico-produttiva, le trasformazioni delle funzioni di tipo politico-amministrativo – e la storia dell’urbanizzazione – la quale si occupa della crescita e della diffusione delle città, dei movimenti demografici a queste ultime connesse, delle dinamiche di inurbamento, della diffusione di modi di vita connessi alla realtà urbana. Una tensione che rimanda al dibattito tra i sostenitori della teoria dei modelli di città (la città occidentale, la città medio-orientale, la città antica, la città moderna e così via) – la quale postula l’esistenza di caratteri comuni tra le città appartenenti a una stessa cerchia culturale – e coloro che, viceversa, sostengono l’opportunità di analizzare le diverse realtà urbane come fenomeni peculiari. Nell’analisi di Zimmermann tale dialettica si risolve attraverso l’identificazione di un generale processo, quello dell’urbanizzazione e della nascita della moderna metropoli in Europa a partire dal XIX secolo, all’interno del quale si collocano gli specifici percorsi di sviluppo delle singole città. Come si legge nel capitolo introduttivo, il processo di urbanesimo del XIX e XX secolo si svolse in modi diversi nei vari paesi europei. Nel XIX secolo l’Inghilterra era il paese con il maggior numero di abi-

tanti in città e fino al XX secolo non fu raggiunta dalla Germania. Un’altra differenza era quella tra Inghilterra e Germania da una parte, nelle quali il rapporto tra urbanesimo e industrializzazione era particolarmente forte, e Francia e Russia dall’altra, nelle quali tale rapporto era inizialmente meno spiccato. Ma tali specificità si ricompongono nella identificazione dell’industrializzazione quale fattore comune di espansione urbana, di innesco di processi di diversificazione in senso terziario della fisionomia produttiva della città e di trasformazione fisica di quest’ultima – anche grazie alla diffusione di nuovi mezzi di locomozione (l’automobile e il trasporto pubblico su ferro), che funse da stimolo alla progressiva espansione della città oltre i confini di edificazione dei nuclei storici. Tuttavia, come viene giustamente posto in evidenza, il rapporto tra industrializzazione e crescita urbana non è immediato. Nel caso di una stessa città come Londra, ad esempio, non fu importante solo la costruzione di impianti produttivi, ma anche lo sviluppo dei traffici che stava alla base della produzione stessa, la sua funzione come area di mercato sia per i circuiti interni che esteri e la conseguente posizione di centralità all’interno delle nuove vie di comunicazione su ferro – elementi, questi, che si collocano certamente nel contesto definito dall’industrializzazione, ma che non definiscono la crescita urbana londinese come frutto esclusivamente di essa. Il fatto, poi, che, essendo la prima fase di in-

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dustrializzazione dovuta allo sfruttamento di materie prime e dell’energia idrica, questa abbia avuto luogo prevalentemente fuori delle città; nonché l’evidenza della nascita di regioni industriali e dell’avvio di dinamiche di crescita urbana anche in assenza degli elementi generalmente ritenuti importanti prerequisiti dell’industrializzazione (risorse del sottosuolo, possibilità di sfruttamento dell’energia idrica, vicinanza di porti), confermano la tesi che altri, pure, possano essere i fattori – la presenza di una forza lavoro locale, la rete di trasporti interna, la disponibilità di capitali accumulati nella regione e la pre­ senza di un ceto imprenditoriale innovatore con radici regionali – che si pongono a fondamento dei processi di sviluppo urbano. La tesi avanzata, e sulla quale si ritiene si possa e si debba concordare, è, dunque, quella del­ l’estrema complessità del fenomeno della grande città, la cui evoluzione non può essere spiegata alla luce di modelli universali e unificanti, né di analisi particolaristiche che rischierebbero di rendere l’oggetto di studio avulso da ogni contesto e slegato da processi più generali e profondi che ne rappresentano inevitabilmente il presupposto – ciò che è stato mostrato è che la prima fase dello sviluppo delle metropoli è caratterizzata sia da differenze che da una direzione comune; sullo sfondo stanno i processi sociali generali di base, ma è necessario cogliere il carattere individuale di ogni città –. Una complessità e pervasività del fenomeno

urbano nella storia dell’umanità, tali da giustificare il ricorso a quella che l’autore definisce «variabile urbana», per la quale i processi di trasformazione macrostrutturali – industrializzazione, rivoluzione dei trasporti, formazione di classi dipendenti dal mercato, diffusione del consumo di massa – influenzarono lo sviluppo delle città nella stessa misura in cui le città stesse contribuirono alla dinamizzazione di questi macroprocessi. A. D. R. Pasini, Che cos’è l’arte, Libreria Editrice Universitaria, Verona, 2008. Chiedersi che cos’è l’arte è certamente farsi del male. Inizia così il testo, ermeneuticamente ricco e illuminante, di Roberto Pasini. Una frase che rappresenta quasi un esergo, un punto di partenza e una massima che arriva subito al nocciolo della questione, proprio in quel luogo preciso nel quale mi punge personalmente, e ne rappresenta, quindi, il vero punctum. Chiedersi che cos’è l’arte è un po’ come chiedersi cos’è la vita. La questione dell’arte è, quindi, inestricabilmente, legata a noi, alle nostre vite. Toccare l’argomento arte rappresenta qualcosa di doloroso, ma questa minaccia deve essere affrontata o, forse, depotenziata e avvicinata con il timore e tremore della reverenza e della prossimità a noi tutti. Solo con questa (in) coscienza possiamo parlare d’arte, sentirne la potenza e, infine, coglierne il


senso profondo. L’interrogativo iniziale è attraversato dall’onestà del riconoscimento di quanto l’arte sia dolorosamente produttrice di bellezza: ci avviciniamo alle opere e sappiamo che noi non saremo più come prima, ne saremo ossessionati. Senza però farne una malattia scientificamente teorizzata e definita. Quelle opere ci ossessioneranno, noi le porteremo ovunque, probabilmente senza essere al corrente di ciò, ma loro ci saranno. E si incideranno nella nostra carne. In poche parole, l’arte fa male, punge con il suo acuminato splendore. Affrontare questo nesso problematico è sicuramente un atto coraggioso, ma non scellerato. Non si è voluto qui esaurire la portata che una domanda come quella che campeggia in copertina pretenderebbe di fare. Difficile è esaurire una questione. In questo saggio, Pasini ha voluto aprire molte questioni, porgendo domande e facendo intravedere possibili risposte, ma senza determinare una risposta assoluta, valida per sempre. Quella domanda, che cos’è l’arte?, non è solo incastonata nelle minuscole pieghe della ruvida copertina verde del testo, ma si proietta fuori dal tessuto cartaceo. Nella sua presenza silente in una qualsiasi libreria, quelle parole giungono ai nostri occhi e ci attaccano, rivolgendosi direttamente a noi, mantenendo vivo l’interrogativo: che cos’è l’arte? Esistono […] due piani su cui si pone la domanda […]: il primo riguarda una dimensione indefinita […] il secondo una pratica disciplinare. L’interrogativo dimostra qui già due

prese di posizione. Quella dimensione indefinita riguarda il fenomeno universale di arte, quello della creatività che vede il suo esito in un ampio ventaglio di tipologie di espressione (pittura, scrittura, musica, ect.). Alla pratica disciplinare si ascrive invece ciò che viene generalmente definito come «arte visiva». Da questa prima diaresis, si passa a un’analisi più rigorosa del concetto di arte. Come affrontarlo? Pasini ci presenta tre punti di vista. Il primo è quello operativo e in base ad esso l’arte coincide con la pratica dell’arte. L’arte è quindi fare, e la figura centrale di questo movimento è il poietes, etimologicamente «colui che fa». Il secondo è quello fenomenologico. L’arte è, ha i suoi prodotti che ne costituiscono un insieme estremamente ricco, ma ciò che più importa, è la loro presenza al mondo. Esistono come fenomeno e si porgono davanti a noi con la loro corporeità. L’ultimo punto di vista è quello valutativo. L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte: così inaugurava un suo testo fondamentale Dino Formaggio, recentemente scomparso. Apparentemente tautologica, questa frase ci fa riflettere sull’esistenza di una discriminante ufficiosa, che pretende continuamente l’innalzamento all’ufficialità. Nel corso della storia i gusti sono cambiati, i modelli di riferimento precedenti sono stati rivisitati o addirittura negati. Ma vi sono sempre state delle volontà esaustive che per secoli sono vissute nell’illusione veramente donchisciottesca […] di avere […] infilzato, con la lancia acuminata del

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proprio sistema concettuale, l’universalità stessa dell’arte, tutta l’arte e per sempre. Pasini continua su questa linea, dimostrando che la frase apparentemente tautologica subisce invece uno spostamento laterale che problematizza ancora di più la questione. Non è sicuramente da accettare acriticamente la ferma dichiarazione di esaustività delle concezioni espresse nei secoli, ma va valutato anche questo oscillamento di gusti e definizioni. Ogni risposta ad un problema è infatti una variabile che dipende dal contesto in cui si colloca, e funziona come espressione di quel contesto […] ogni epoca storico-artistica […] tende inevitabilmente ad offrire una propria versione dei fatti. Relativismo e metabolismo culturale sono concetti chiave per approcciarsi alla questione dell’arte in maniera onesta. In ambito artistico non esistono acquisizioni assolute: dobbiamo fare i conti con moti alternativi periodici, levogiri o anticipatori che siano. Ma difficilmente costanti e pronosticabili. A questo punto l’autore inserisce il concetto di cronotopo, che indica la sintesi di temporalità (chronos, tempo) e spazialità (topos, spazio), insito in ogni opera d’arte. Grazie ad esso noi possiamo stabilire: le coordinate storiche (perché il Cubismo è iniziato nel 1907?: nel 1906 muore Cézanne, e la grande retrospettiva a lui dedicata scatena nel giovane Picasso il germe della rivoluzione artistica cubista), il contesto culturale (concetto dello Zeitgeist che opera a vari livelli nei vari campi del sapere, attraverso quelle che ven-

gono definite omologie), la situazione artistica (cioè il restringimento del contesto culturale all’ambito squisitamente artistico) e la problematica individuale (attraverso l’accertamento di una determinata posizione nel contesto culturale in generale, e nella vita stessa dell’artista). Il cronotopo è qui specialistico: proviene dal genere e, come nell’albero porfiriano, raggiunge la specie ultima, lo specifico. Ma dentro a quali contenitori storico-artistici lavora il cronotopo? L’analisi qui va verso le tre grandi epoche che possiamo definire pre-moderna, moderna e contemporanea. La prima copre l’intero arco dell’arte antica e di quella del Medioevo, che si caratterizzano per l’assenza della prospettiva, mentre nell’arte moderna viene varata quella nuova concezione dello spazio che prende il nome di perspectiva, «forma simbolica» (come ci ha insegnato Panofsky), culturale del vedere. L’epoca contemporanea segna una rivoluzione totale di segno meccanico (le invenzioni del treno, della bicicletta e dell’automobile) e tecnologico (scoperte di Volta, di Oersted, di Faraday) che va nella direzione di affermare via via una nuova, straordinaria capacità dell’uomo di rimpicciolire il pianeta: si esce dalla dimensione della distanza per calarsi totalmente in quella della vicinanza. Se la scienza entra nella materia (con l’indagine subatomica), l’arte, proprio per il sistema omologico, non può che entrare nella forma, attraverso modi operandi di tipo distruttivo o d’analisi microscopica. Si passa […] dal cronotopo dell’illic et nunc, là


e allora, a quello dell’hic et nunc, qui e ora. «Hanno rapito Aldo Moro!!». Potremmo dire che l’arte è questa frase. Ma solo se scritta in un tempo lontano da quel 16 marzo 1978, con la coscienza di mentire e lo scopo di rivelare l’ironia delle parole stesse. Il passaggio che tale frase perpetra è quello dal contenuto all’esistenza stessa, dal «che cosa» al «come». Tutto questo provoca ciò che Sklovskij chiamava straniamento e ciò si inserisce nel difficile rapporto tra arte e comunicazione. L’arte informa, comunica, rende edotti, oppure, semplicemente, è? Proprio partendo da quest’ultima caratteristica possiamo scandagliare le dimensioni che l’arte lambisce con i suoi tentacoli. Vi è una dimensione strettamente personale, intima che aporeticamente incontra sem­ pre quella comunicazionale, pubblica. Lo stesso artista è anche costantemente attratto da tutta l’arte precedentemente prodotta (con la chiara volontà di distanziarsene) e dai rapporti che la società pretende di instaurare con lui (attraverso i meccanismi del consenso, della negazione o della neutralità), proprio perché l’artista è l’incarnazione della contraddizione privato-pubblico. L’opera d’arte […] è davanti allo spettatore, gli si offre senza alcun segreto né reticenza: questo è il suo statuto di directness. Al tempo stesso però si presenta in forme che non appartengono a chi la osserva […]: il senso dell’opera e quindi la sua qualità comunicazionale debbono essere esplicati, trovare un mezzo che li smerci presso il pubblico: questo mezzo è la parola. Questa

«parola» è il momento critico, il momento del critico. Grazie a questo momento incuneato nel tempo l’arte si dimostra «intrinsecamente storica». Bisogna stabilire dei criteri per dare a queste opere un lasciapassare o meno, che permetta loro di entrare a far parte di quella che andiamo a indicare come «storia dell’arte»: è quindi un «processo è di mediazione». La stessa storia dell’arte è però il prodotto della storiografia dell’arte (sappiamo che non ne esiste solo una, ma svariate e specifiche) che ha la fortuna di «venire dopo», di vantare uno sguardo di più ampio raggio rispetto a quella che invece è la critica, spesso definita «militante», che lavora sul momento, in stretta cogenza con i vari fenomeni. Ma l’elemento che assimila entrambe le attività è la scrittura: questo punto comune è un aspetto veramente drammatico (in greco drama è l’azione) in cui si ha un rapporto corpo a corpo con la parola e l’immagine. In tutto il lavoro di interpretazione di un’opera d’arte, la parola è chiamata a fasi viva, a rendere l’opera, a presentificarne l’esistenza. È di questo fondamentale compito che il lavoro critico si fa carico, incessantemente: qui sta tutta la meraviglia di guardare, riguardare e leggere un’opera d’arte: nel suo non essere mai de-finita per sempre, e nell’essere sempre rimessa in gioco, nel vorticoso mondo della storia dell’arte. E in questa ricerca non possiamo che avvertire il senso pieno di una magnifica avventura. F. M.

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Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 1.  Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gau­ di di Pane (fascicolo esaurito) N. 2.  Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neona­tu­ra­ listica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3.  Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunst­ wollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4.  La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5.  I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6.  Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7.  Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi del­l’at­ti­ vità formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» Libri, riviste e mostre N. 8.  Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scien­ tifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9.  Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre

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N. 10.  Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12.  Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14. La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica dell’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Bien­nale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15. I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica - Libri, riviste e mostre N. 16.  Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17.  Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18.  L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19.  Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20.  Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Li­bri, riviste e mostre N. 21.  Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bon­ siepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre

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N. 22.  Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U.


Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre N. 23.  La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24.  «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25. Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26. La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Ba­ril­li, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27. Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28.  Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29.  Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30.  Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iper­ rea­lismo - Libri, riviste e mostre N. 31.  Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32.  L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33.  Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34.  Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35. Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Ba­

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ril­li, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria ar­ chitettonica - Libri, riviste e mostre N. 36.  I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre N. 37.  Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38.  Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39.  La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40.  «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41.  Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42. L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni con­tributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43.  La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44.  Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45.  Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46.  I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47.  Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48.  Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49.  Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre

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N. 50. Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre


N. 51.  Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, ri­viste e mostre N. 52. L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre N. 53.  Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55.  Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56.  Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57.  Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58.  E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59.  Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60.  Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61.  Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koe­nig, Men­dini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62.  Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63.  Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64.  Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65.  Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Ap­punti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre

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N. 66.  Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67.  Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre N. 68.  Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69. Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La ne­ cessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70.  Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «mi­ litanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71.  Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - De­ sign: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72. Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73. Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74.  Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75.  Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76.  I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design con­ temporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77.  Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78.  L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79.  Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del pro­ getto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre

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N. 80.  Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre


N. 81.  Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82.  Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze - Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre N. 83.  Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Wal­ demar George - Libri, riviste e mostre N. 84.  Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85.  Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86.  Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87.  Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design - Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88.  L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89.  Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90.  L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e pro­ blematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed er­me­ neutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92.  Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93.  La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94.  Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95.  Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica - Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre

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N. 96.  Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97.  Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98.  Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - De­ sign: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99.  Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo - Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre N. 100.  Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101.  Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103.  Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104.  La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105.  L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Bien­nale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108.  Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109.  Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre

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N. 110.  Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre


N. 111.  Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia archi­ tet­tonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112.  Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113.  Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114.  L’architettura italo-europea (fascicolo monografico) N. 115.  L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre N. 116.  Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo moder­ nista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117.  Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118.  Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119.  L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120.  Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121.  La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122.  L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123.  Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pa­gine dell’ADI N. 124.  Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125.  Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 126.  L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127.  Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 128.  Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129.  Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130.  Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neoavanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132.  Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e an­tagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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Direttore responsabile: Renato De Fusco

Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

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Le pagine dell’ADI

Associazione per il disegno industriale

Dopo la parentesi dedicata alla XXI edizione del Compasso d’Oro (fascicolo della nostra rivista n. 133, settembre 2008), questa tradizionale appendice di «Op. Cit» riservata al­l’ADI, riprende a pubblicare alcuni brani del libro I ciquant’anni dell’ADI, a cura di Renato De Fusco ancora in corso di stampa. Nel fascicolo n. 132 (maggio 2008) i brani riportati riguardavano soprattutto i movimenti figurativi degli anni ’60. La Pop Art fece irruzione in Italia con la Biennale del ’64 e sembrò che non vi fosse ambiente più pronto a riceverla. Il maggiore «centro di accoglienza» fu Firenze, sia alla Facoltà di Architettura in sintonia con le ricerche di Ricci e Savioli, sia presso i gruppi di designer che subito si formarono. Qui i fatti linguistici si intrecciano con la particolare condizione socioeconomica italiana. In pieno boom del design razionalista e del diffondersi dell’Italian Style nel mondo, gli autori più giovani si sentivano esclusi; tra le più attendibili spiegazioni della tendenza che tradusse la Pop Art in radical design, definito anche anti-design, contro-design e simili, è stato il desiderio di emergere, di rendersi visibili, di vincere le difficoltà ambientali. Non è casuale che il movimento, proprio negli anni del suo maggiore successo, sia sorto in città relativamente o addirittura povere di industrie come Firenze, Roma o Napoli. Nella prima, nel 1966 furono fondati il gruppo Archizoom, il gruppo Superstudio; nel ’67 il groppo UFO. Nello stes­so anno, sempre a Firenze, si organizza il gruppo 9999. A Roma operarono nella linea di un design surrealista De Sanctis


e Sterpini. Nel ’68 a Napoli fa il suo solitario esordio Riccardo Dalisi, inserendo il design nella linea dell’arte povera. Nel­l’industriale Torino, facendo eccezione a quanto detto sopra, si forma agli inizi degli anni ’70 il gruppo Strum.

A conferma della tesi sopra esposta, molti degli autori citati, segnatamente fiorentini, si trasferiscono od operano a Milano. Anche qui, nella fiorente regione lombarda, i giovani milanesi o di altre regioni d’Italia assumono la linea della «contestazione del presente»,


Il desiderio di andare oltre la stessa tipologia del mobile, la spinta verso l’ironia quale sentimento prevalente, e soprattutto la contestazione della produzione, considerata incapace di decidere tra artigianato e industria, diretta da gruppi in gran parte self-made, indecisa tra difficoltà di acquisire un positivo know-how e genialità individualistica, tra il volere e il potere, tra il fare di necessità virtù con tutti i limiti imposti dalla forza delle cose e la spinta a sperimentare che questo comporta.

Il tutto mutevole da settore a settore specie in ordine al divario fra progettazione e produzione. Emblematico di questa condizione è Ettore Sottsass jr, maestro reale del design e ancor più considerato tale dai giovani contestatori. Tra le proposizioni da questi elaborati è anche quella, a mo’ d’esempio, per cui il designer non dovrebbe più porsi come «l’artista che aiuta a far bella la casa, che bella non sarà mai, ma [come] l’individuo che muovendosi sul piano dialettico, oltre che formale suscita dibattiti e


stimola comportamenti che contribuiranno a una presa di coscienza; unica premessa questa per un riequilibrio di valori e infine per un’evoluzione e, se vogliamo, un recupero dell’uomo stesso». Quanto la produzione fosse scarsamente intaccata da queste dichiarazioni è dimostrato dal fatto che accettò di buon grado i progetti più radicali, non solo, ma non trascurò alcuna occasione commerciale. Si pensi alla già citata manifestazione dell’«Eurodomus». Sul fenomeno del ’68, espresso emblematicamente dalla sua data, si è fatto, detto e scritto tutto il possibile, per cui ci dispensiamo di aggiungerne altro, salvo ciò che concerne il campo del design e dell’ADI in particolare. Quanto a quest’ultima i primi mesi degli anni ’60 la trovavano impegnata nei soliti difficili problemi per il riconoscimento ufficiale del design, per l’istituzione della relativa scuola, per la sistemazione del Centro di documentazione, per l’inserimento della voce «disegno industriale» nel costituendo tariffario degli architetti e degli ingegneri. A questi compiti istituzionali si accompagnava l’apertura della XIV Triennale, dedicata ad un tema, il «Grande Numero», peraltro in sintonia con quanto in maggioranza si pensava intorno alla cultura di massa e in gran parte ordinata in prevalenza dai soci dell’ADI, dal presidente Zanuso a Gardella, da Rosselli, a Steiner e a Viganò fino al segretario dell’Ente, Tommaso Ferraris. Ma l’inaugurazione della mostra il 30 maggio faceva immediato seguito alla rivolta studentesca di Parigi, donde l’inizio della contestazione e l’occupazione del Palazzo dell’Arte. «Rabbie personali, contrasti di categoria, negazione di come la cultura veniva gestita in Italia – questa l’analisi che Giancarlo De Carlo ne faceva pochi giorni dopo – confluirono in un dibattito assembleare, che si sarebbe svolto con alterne vicende fino allo sgombero operato dalle forze del­ l’ordine».


L’ADI fu coinvolta dagli occupanti con un telegramma: «Assemblea occupazione Quattordicesima Triennale chiede vostra adesione per occupazione in corso et vostro diretto intervento commissioni di lavoro. Comitato di occupazione», al quale la nostra Associazione rispondeva con una mozione, frutto di un approfondito dibattito: «riconoscendo l’attualità e la validità della contestazione


alla politica culturale in Italia e negando la possibilità di risolvere il problema con la violenza, comunque espressa, si impegnava a dare un proprio contributo specifico, chiarendo il proprio ruolo – le proprie motivazioni associative – e le proprie scelte operative, nella puntualizzazione delle problematiche anche disciplinari». L’occupazione della Triennale non era una tragedia, ma costituiva quel «braccio» del ’68 che toccava l’ADI e il design verso il quale, bisognava prendere, al pari di molte altre categorie, una «posizione». Seguiva un florilegio di sentenze, risoluzioni, ordini del giorno e simili atti ad assolvere questo compito. Già nel ’67, in un convegno tenuto a Rimini sul design, l’onnipresente Argan notava la contraddittorietà di una mostra che esplicitamente legava il disegno industriale all’automobile, mezzo di largo consumo. L’anno dopo, nel settembre, forte di un maggiore slancio ricevuto dai fatti di maggio, lo stesso autore affermava che il design avrebbe potuto attingere dalle nuove tecniche di progettazione ambientale i mezzi per superare – o perlomeno cercare di superare – il condizionamento da parte del sistema economico dominante, gravitante sul binomio produzione/consumo. «I designer possono assumersi così un atteggiamento nettamente critico nei confronti del sistema», e separarsi «dalla categoria privilegiata dei tecnici industriali», per riunirsi alla categoria «diseredata degli intellettuali». Si avviava così quella fase in cui la morale progressista imponeva un design di uso collettivo al posto di quello ad uso individuale. In un articolo anonimo, intitolato Popular design, pubblicato su «Casabella» nel 1968, si legge: «Autocontestazione al Convegno di Rimini sulle strutture ambientali, dove tutti i nodi sono venuti al pettine: suicidio dell’intellettuale progettista o azione critica contro la forza condizionante del sistema? Noi siamo per la seconda alternativa, ma


con una componente autocritica: a favore di una comunità che “si” progetti, deve definitivamente cadere il mito del designer che “la” progetti. C’è stato un momento, a metà degli anni cinquanta – press’a poco quando apparvero la poltrona di Eames, la Ds 19, il “Caravelle” e la “500” – nel quale sembrava che l’industrial design fosse il toccasana per i mali che già stavano affliggendo l’architettura, dopo il fallimento del razionalismo architettonico.

Ma purtroppo, come tante volte avviene nella storia, e particolarmente in quella dell’arte, nel momento stesso in cui ci si rendeva conto che un felice nodo di relazioni e di eventi aveva posto il design al centro dell’attenzione artistica internazionale, cominciava inesorabilmente la caduta.[…] La ruota della civiltà dei consumi non può smettere di girare, pena la morte dell’industria; e quando non si


aprono nuovi sbocchi ai mercati, occorre aumentare massicciamente la droga da dare al consumatore per indurlo a nuovi bisogni: la pubblicità. È tale la fame odierna di nuove forme oggetti che il designer che avesse nuove idee troverebbe da venderle ancor meglio che negli anni d’oro dell’i.d. […] se nessuno oggi va più in brodo di giuggiole di fronte a uno scarpone premiato col Compasso d’oro (“per l’euritmia delle proporzioni”, e viene il sospetto che lo si sia scambiato per il Partenone…); anzi, se siamo in molti a essere seccati di veder sugli altari tanti inutili feticci, è proprio perché ci fa rabbia veder sprecare tanto impegno nel creare oggetti la cui storia interessa solo gli “happy few”, e basta. Mentre invece cento grossi problemi sono ignorati. A che serve un oggetto prezioso se non è inserito in ciò che Argan chiama “circuito”? Un’ottima lampada non serve senza la corrente elettrica, una Ferrari val meno di una Vespa senza un’autostrada non ingolfata, e una città non ha immagine, e quindi senso, se diviene impercorribile. Questi sono i veri problemi che il design deve affrontare oggi; e la cosa più ridicola è che il nostro governo (limitandoci alle autostrade), in ben cinque anni di mezzadria socialista, non ha saputo far niente di meglio che creare, sulle autostrade, i Pavesi ed i Mottagrill[…] «In conclusione, noi pensiamo che l’attuale impasse in cui si dibatte l’i.d. sia superabile, almeno in parte, attraverso lo sviluppo intensivo del “design per la comunità”. Vi è tutta una enorme quantità di oggetti che l’utente usa, ma non compra: dal taxi al treno, dal lume stradale alla panchina, dalla fermata dell’autobus alle cassette postali. […] “Casabella” è convinta che non sia affatto scoccata l’ora della fine dell’i.d.; ma che, al contrario, il vero design per il popolo, che pone tutto l’accento sul grande numero dei consumatori, trasformandosi da “industrial design” in “popular design”, sia appena agli


inizi: ed in tal senso sta avviando un discorso sull’argomento. È chiuso il ciclo inaugurato dalla Bauhaus: la battaglia per l’oggetto di serie è stata vinta; e proprio il diminuito interesse per l’oggetto dimostra che esso è finalmente giunto a quella massima diffusione che Gropius


desiderava. Ma la battaglia per le “cose non nostre”, la battaglia più difficile, che richiede una parallela educazione dei consumatori, è ancora tutta da fare. “Environmental design”: dall’interesse per l’oggetto al­l’interesse per il paesaggio artificiale e naturale nel quale l’uomo vive; design inteso come processo cosciente di formalizzazione dell’ambiente umano, dove il “fuoco” si sposta da una metafisica concezione dei singoli prodotti per centrare l’insieme dei prodotti in funzione della psicologia dell’individuo». L’articolo di «Casabella», nato come recensione del Convegno di Rimini, rifletteva puntualmente quanto pensava la sinistra politico-culturale in quegli anni, anzi nella sua proposta alternativa di un design per la comunità piuttosto che per l’utente privato, mostrava più ragionevolezza del movimenteo studentesco di architettura, le cui istanze erano ancor più confuse. Nella vasta produzione di documenti, qualcuno non cadeva in questi difetti e tentava di razionalizzare gli avvenimenti. Mi riferisco a un seminario «Significato e finalità dell’ADI», ospitato dalla Società Umanitaria e in particolare a una nota redatta dal gruppo coordinato da Enzo Mari della quale riporto la parte fondamentale: «È necessario che coloro che operano nei diversi campi della progettazione uniscano le loro volontà e le loro cognizioni per promuovere tutte quelle iniziative utili all’affermazione dei seguenti principi: il design deve essere quella volontà collettiva che, mediante la coordinazione delle tecniche appropriate, programma, progetta e realizza quanto è utile al progredire della società, utilizzando lo strumento dell’industria. In questo momento storico il progredire della società si può realizzare solo attraverso l’affrancamento di ogni forma di lavoro da tutti i tipi di repressione. L’attuale sistema non consente alternative alla nostra sopravvivenza di ricercatori al di fuori dell’integrazione, che di norma


avviene “passivamente”, a livello individuale, sia pure con velleità didattico-riformistiche, aspettando le soluzioni da chi ha il potere decisionale-politico. Per questo, l’unico modo di concretizzare veramente il nostro contributo alla ristrutturazione della società, è quello di impegnarsi, nel subire l’attuale integrazione, ad una lucida e continua presa di coscienza collettiva, denunciando e dibattendo pubblicamente le condizioni dell’attuale modo di progettare e costruire; questo sia per coloro che operano nelle nostre stesse condizioni, sia con quelli che queste condizioni non conoscono, ma di cui subiscono le conseguenze». Non poteva mancare, quindi, tra i temi sviluppati dalla critica di sinistra quello della responsabilità del design nella società delle merci; il che significava anche stabilire il ruolo che doveva assumere il designer nel rapporto tra produzione e consumo. È un tema strettamente legato all’utilità sociale del prodotto, già peculiare del Bauhaus e del Vchutemas, che trovava, però, la sua più precisa formulazione in una terza scuola, la Hochschule für Gestaltung (HfG) di Ulm fondata da Max Bill. Come scriveva Maldonado entrando a farvi parte nel ’55, «è opinione diffusa, per lo meno in alcuni settori, che il disegnatore industriale, il progettista che lavora per la produzione in serie, abbia una sola funzione da svolgere: quella di servire il programma di vendite della grande industria e di stimolare il meccanismo della concorrenza commerciale». In contrasto con questa opinione, la HfG fa sua la tesi, secondo la quale il progettista, pur lavorando per l’industria deve continuare ad assolvere le sue responsabilità nei confronti della società. Sul piano formale l’HfG conservò coerenza con l’impronta estetico-metodologica (la gute Form) impressavi da Max Bill in continuità con il Bauhaus e in opposizione con lo styling. L’istituto collaborò con molte indu-



strie, specialmente con la Braun di Francoforte ma, come commenta lo stesso Maldonado, «la “gute Form”, atto di dissenso, secondo Bill, nei confronti di una certa industria, si fa atto di consenso, tramutandosi in “stile Braun”». Senza entrare nel merito della complessa vicenda della HfG – alla cui chiusura, errate valutazioni politiche a parte, concorse più di una causa – si può sostenere che il forte impegno culturale, sociale e politico di alcuni docenti quali Maldonado, Bonsiepe e Schnaidt, ne fu uno dei fattori trainanti. Tale atteggiamento – commentato con efficacia da Argan: «il design è un servizio, si può essere servizievoli senza essere servili» – nella prassi puntava al tentativo di accedere ai centri direzionali del mondo produttivo e di eleggere un tipo di consumatori di prodotti di uso pubblico piuttosto che privato. E saranno soprattutto questi i temi che da Ulm passeranno in Italia grazie anche all’osmosi di insegnanti e allievi creata tra il nostro paese e la scuola tedesca. Si pone in Italia, come in altri paesi delle cosiddette società opulente e consumistiche, l’idea che «il settore dei prodotti per uso privato è supersviluppato, mentre il settore dei prodotti per uso pubblico o comune è sottosviluppato, la qual cosa è in relazione diretta con le leggi del mercato. Salute, insegnamento e benessere pubblico non si lasciano trasformare in merce donde trarre grandi guadagni». Prende così sempre più corpo l’aspirazione a quella che verrà definita la «committenza alternativa», grande speranza e illusione nutrita negli anni Settanta dai designer fortemente politicizzati formatisi nel clima delle lotte studentesche del ’68. Tale speranza parte da posizioni fortemente critiche; per Enzo Mari «il committente si identifica con quella parte della società che ha il potere economico-politico-culturale e il destinatario con quella che non


ha questo potere. L’oggetto della committenza è quanto viene comunicato, con diversi mezzi, secondo le necessità del rapporto intercorrente fra committente e destinatario. Tale rapporto, nella realtà storica, è sempre di tipo paternalistico e mira a preservare i privilegi della committenza». Dal canto suo, Paolo Deganello in un’acuta analisi del lavoro di progettazione nel settore dell’arredamento, storicizzando l’ordito sociale, politico, sindacale ed economico degli anni ’50-70, tocca anche il ruolo del tecnicoprogettista rispetto alla committenza. Quest’ultima, a suo parere, si manifesta sempre «in un’imposizione sulla qualità del lavoro e sulle condizioni di lavoro. Il rifiuto di questa imposizione, il diritto del tecnico di imporre la committenza, che poi altro non è che riappropriarsi del controllo sul proprio lavoro, non è praticabile a livello individuale, presuppone un’organizzazione politica». Tale organizzazione avrebbe dovuto mirare, in sostanza, a capovolgere il rapporto che assegna a una committenza tradizionale la funzione di «innovare in positivo il ciclo e il prodotto, evolvere, trasformare dentro un sistema dato, i valori d’uso e di scambio di una data merce, subire o rifiutare la soddisfazione della domanda di una data merce o servizio che nasce dalla base cioè dall’utenza e al progettista sempre più solo e soltanto il compito di accettare e rendere operative le scelte della committenza». A tale situazione il tecnico progettista di sinistra oppone la sua aspirazione: «avere il potere di scegliere un’utenza quale suo committente, un’utenza che abbia però il potere di essere committenza reale e non ideale, e sia utenza da interpretare, contribuire a definire, fino a farla diventare oggetto fruibile attraverso anche il lavoro di progettazione». In questa sede non abbiamo l’opportunità di rendere conto del perché l’obiettivo di una committenza alternativa e l’ipotesi di una cogestione dei servizi siano rimaste anche


nel nostro paese un’istanza inevasa; vi concorsero, infatti, crisi sindacali, irrigidimenti padronali, ristrutturazioni aziendali troppo complesse, per la cui valutazione non possiamo che rimandare allo scritto di Deganello. Dalle parole di quest’ultimo, tuttavia, vogliamo citare ancora un brano che sembra riassumere la sostanza di una tale disillusione: «anche quando esiste una nuova definizione della qualità del servizio, sia scuola o ospedale, non esiste […] un potere di gestione capace di garantire la realizzazione di quella nuova definizione di servizio. E anche quando, in particolari e fortunate occasioni di lavoro si riuscisse a progettare e realizzare quella nuova definizione del servizio, dentro quella scatola nuova e diversa continuerebbero a svolgersi attività e funzioni tipiche di quella vecchia definizione del servizio. In altri termini finché non viene a costituirsi consolidata una struttura di potere capace di commissionare un dato prodotto e garantire il corretto e conseguente uso, non ha senso parlare di progettazione per nuovi valori d’uso. Parlarne significa coltivare appunto speranze progettuali, autoemarginarsi in una progettazione utopica, produrre ricerca in attesa di una congiuntura che anche quando si realizzasse sarà necessariamente sempre relativamente diversa ed estranea, se non si-accetterà un coinvolgimento totale nel processo politico che di fatto porterà alla costruzione di quella congiuntura». Accanto a questa linea, per così dire, più dura e politicizzata non bisogna dimenticare, però, anche il fenomeno del cosiddetto anti-design o radicaldesign. I vari Sottsass, Mendini, Archizoom, Ufo, Sturm, Superstudio, vestendo, dapprima, i panni di un’avanguardia dissacratoria, ma senza ripudiare, almeno in un secondo tempo, la produzione industriale, puntavano su una potenziale committenza costituita dai portatori della controcultura giovanile degli anni ’60. Si è trattato di una tendenza progettuale basata su va-


lori essenzialmente ironici, effimeri, spettacolari; ha avuto sì una sua committenza specifica, ma nel senso che ha conquistato una fascia di mercato elitaria, allettata dai con­ trassegni della cultura di massa purché riproposti a prezzi inaccessibili a questa. Comunque queste posizioni trovarono riscontro nell’ADI che, come vedremo si adeguava strutturandosi in commissioni e sottocommissioni, spesso perdendo il principale nodo della crisi che la riguardava: oltre la politicizzazione, la contestazione, il movimento studentesco e quant’altro, non tutti compresero che la contestazione era in buona parte dovuta all’intento di voler cambiare la linea linguistica seguita dall’Associazione sin dalla sua nascita, quel good design che gli oppositori giudicavano espressione del conformismo. In breve, tranne il pubblico disorientato, la più giovane generazione degli addetti ai lavori accolse la contestazione come cosa da cui trarre qualche vantaggio, mentre quella dei professionisti affermati come qualcosa di cui era obbligatorio tener conto, da subire come la leva militare o altro impedimento a ciò che richiamava i loro principali interessi; da qui l’utopismo velleitario dei discorsi giovanili e la banalità culturale e burocratica di quelli espressi dagli anziani. Negli anni a venire registreremo una serie infinita di aggiustamenti istituzionali con «avanzamenti» e «retrocessioni», aventi comunque una valenza dialettica, ma per l’immediato la più tangibile conseguenza del rinnovato clima fu che il concorso del Compasso d’Oro, ebbe un arresto durato dal ’70 al ’79.



ISSN 0030-3305

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