133
maggio 2013
numero 147
Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del Novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli
Electa Napoli
Selezione della critica d’arte contemporanea
rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco Redattori: Roberta Amirante, Alessandro Castagnaro, Emma Labruna, Livio Sacchi Segreteria di redazione: Ciro Olisterno Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 - Tel. 081/7690783 Amministrazione: 80146 Napoli, Via F. Imparato, 190 - Tel. 081/5595114 Un fascicolo separato e 9.00 (compresa IVA) - Estero e 10.00
Abbonamento annuale: Italia e 25.00 - Estero e 28.00 Un fascicolo arretrato e 10.00 - Estero e 11.00 Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione commerciale imprese - Napoli C/C/P n. 1012060917
Grafica Elettronica
L. Sacchi, M. Cordioli, G. Cutolo,
Architettura e identità islamica Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del Novecento Il Grande Fiume del design italiano Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI
5 23 40 49
Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Alessandro Costagruaro, Vincenzo Cristallo, Andrea Gritti, Jacopo Leveratto, Massimo Visone
Architettura e identità islamica LIVIO SACCHI
Esiste una identità islamica? Qual è il senso identitario di una cultura geograficamente estesa a una così larga parte del mondo? Si tratta di interrogativi che si sono posti di recente in molti: per esempio, in occasione della inaugurazione della nuova Islamic Wing al Louvre. L’Islam, com’è noto, è prima di tutto una religione. Ma è anche un modo di vivere, in un’accezione piuttosto ampia e articolata, oggi diffuso dal Marocco all’Indonesia, dalla Turchia al Sudan. Un po’ più ristretto è il bacino linguistico dell’arabo, comunque parlato in tutto il Nord Africa e in Medio Oriente. Ancor meno ampia è infine la cultura araba qualora la s’intenda geograficamente limitata alla penisola arabica, includendo quindi l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, il Bahrain, il Kuwait, lo Yemen e l’Oman. È a tale area che limiteremo la nostra indagine. Il concetto di identità, nel nostro caso, va evidentemente riferito alla sua definizione aristotelica, che considera l’i dentità come unità di sostanza: In senso essenziale, le cose sono identiche nello stesso senso in cui sono uno, giacché sono identiche quando è una sola la loro materia (o in specie o in numero) o quando è una la loro sostanza. È quindi evidente che l’identità è in qualche modo un’unità, sia che l’unità si riferisca a più cose sia che si riferisca a un’unica cosa, assunta come due: come avviene quando si dice che la cosa è identica con se stessa1. Ma dietro
5
6
ciò che appare una più che legittima aspirazione di ogni cultura, si nascondono aspetti non privi di ambiguità. Ne era consapevole Jacques Derrida quando, a proposito del l’identità europea, scriveva: il proprio di una cultura è di non essere identica a se stessa. Non di non avere identità, ma di non potersi identificare, dire “io” o “noi”, di poter prendere la forma del soggetto solo nella non identità a sé o, se preferite, nella differenza con sé. Non c’è cultura o identità culturale senza questa differenza con sé. (…) Lo stesso vale, inversamente o reciprocamente, per qualunque identità o identificazione: non c’è rapporto a sé, identificazione a sé, senza cultura, ma cultura di sé come cultura dell’altro, cultura del doppio genitivo e della differenza rispetto a sé. La grammatica del doppio genitivo notifica altresì che una cultura non ha mai una sola origine. La monogenealogia sarebbe sempre una mistificazione nella storia della cultura2. Ed è proprio tale mistificante monogenealogia ad apparire come l’obiettivo strategico primario di alcune società contemporanee, sia sovranazionali (come nel caso del l’Islam), sia nazionali, sia regionali; obiettivo che trova un comodo punto d’aggregazione nella più o meno esplicita contrapposizione al generale processo di omologazione e globalizzazione che stiamo vivendo. Si tratta anche di un obiettivo politico, spesso ben chiaro. Re, emiri e sceicchi arabi cercano legittimazione al proprio potere, peraltro in generale relativamente recente, all’interno di forme di teocrazia, più o meno assolute, che puntano a una crescente caratterizzazione di tipo islamico. Per esempio, la dinastia che è a capo dell’Arabia Saudita, di gran lunga la più ricca e importante della regione, gestisce la propria immagine con estrema cura, da una parte ricorrendo a una sofisticata e capillare mediatizzazione, dall’altra radicandola nella storia e, soprattutto, in quella nicchia, forse più pura e oltranzista, della religione islamica che è l’ortodossia wahabita: non a caso, il principale attributo del re, ricordato non senza enfasi ogni qual volta lo si nomina, è “Custode delle due Sante Moschee” (quelle di Medina e di Mecca). La mistifi-
cazione monogenealogica sta proprio nel tentativo di rimozione di ogni altra componente culturale storica: da quella pre-islamica (nonostante la sua oggettiva importanza) a quella non-islamica (nonostante il riconoscimento della comune origine abramitica delle tre grandi religioni monoteiste) e, nell’ambito dello stesso Islam, da quella ottomana (derivante cioè dal poco amato dominio turco) a quella sciita (derivante cioè dal poco amato e molto temuto Iran). Dell’architettura, non diversamente da quanto veniva fatto in passato in Europa da papi, imperatori, re, principi ecc., dopo decenni di sudditanza culturale dall’Occidente, viene oggi dunque promosso un uso “politico” il più possibile monogenealogico. Niente di nuovo: è ciò che Habermas e Taylor hanno definito “lotte per il riconoscimento”, proprie di tutte le culture in qualche misura fuori dal mainstream occidentale, quando si confrontano e/o si scontrano sul sempre più ibrido e multiculturale orizzonte planetario3. La pervasività dell’Islam nelle società islamiche contemporanee è sin troppo evidente. Islamico è il calendario, il venerdì festivo, il Ramadan, l’adesione alla legge coranica, la dieta, l’abbigliamento, la scansione della giornata con la preghiera, il linguaggio, lo stile di vita ecc.; si parla anche di sostituire il meridiano di Greenwich con quello passante per la Mecca. E il rigore con cui tutto ciò viene applicato aumenta a mano a mano che ci si avvicina ai luoghi santi: l’Arabia Saudita, che fisicamente li custodisce, si pone ai visitatori come società teocraticamente permeata in maniera sorprendentemente integralista: per molti aspetti ancor prima che gli stranieri vi mettano piede. Qualche esempio: le poche compagnie aeree di altri Paesi cui è concesso di atterrare in Arabia Saudita non servono alcolici né cibi vietati durante il volo; sui moderni aerei dalla Saudi Arabian Airlines le parole del Profeta vengono puntualmente trasmesse dalla radio di bordo poco prima di ogni decollo; la (ovviamente variabile) direzione della Mecca viene sempre, puntualmente indicata; le donne non islamiche si coprono con un lungo velo nero, l’abbaya, poco prima dell’atterraggio (tutte le altre lo sono già) ecc. Gli esempi utilizza-
7
ti sono emblematici: in architettura, come in molti altri ambiti, il vecchio e il nuovo si mescolano nella penisola arabica in maniera inconsueta, al punto da far pensare a una struttura identitaria bipolare strettamente interconnessa, a un doppio ossimoro specchiato: da una parte sembra insomma che la spinta verso il nuovo sia tale da aver ormai determinato una sua autonoma tradizione, una autentica “tradizione del nuovo”; dall’altra il crescente interesse per l’Heritage, per la tradizione costruttiva, sembra anch’esso segnato, e non tangenzialmente, dal nuovo, al punto da configurarsi, a ben guardare e in maniera certamente paradossale, come una novità, una vera e propria “invenzione della tradizione”. La tradizione del nuovo
8
A fronte di tanta intransigenza religiosa e di un così forte radicamento culturale nell’Islam, colpisce l’altrettanto forte ed entusiastica adesione al nuovo, sia dal punto di vista stilistico sia da quello tecnologico. Ciò vale segnatamente per l’architettura e la città, ma anche per le infrastrutture e per quella che non è azzardato definire un’autentica reinvenzione della geografia, del paesaggio e del territorio. Tale gusto del nuovo è molto radicato nella penisola, soprattutto in Arabia Saudita, negli Emirati, in Qatar e in Bahrein. Un nuovo sempre pronto a saccheggiare, rielaborare e a rendere superlativa, con molta disinvoltura, tutta la sperimentazione linguistica più avanzata e coraggiosa sviluppata in America, Europa e Asia negli ultimi decenni in particolare o nell’intero arco della modernità architettonica più in generale: una vera e propria “tradizione del nuovo” dunque, per non dimenticare l’ossimoro coniato da Harold Rosenberg negli anni Cinquanta. Gli esempi non mancano. Basti dare un’occhiata al progetto della nuova, vertiginosa Burj al Mamlakah, o Kingdom Tower, commissionata dal principe Al-Waleed bin Talal (l’uomo più ricco del regno) ad Adam Smith (ex SOM) attualmente in costruzione a Jeddah, destinata a diventare la più alta del mondo: sia l’altezza sia il
profilo sono molto vicini a quella del celebre Mile High Skyscraper di Frank Lloyd Wright. L’espansione urbana determinatasi nelle aree più ricche del mondo arabo, sebbene l’ampia attenzione mediatica ricevuta negli ultimi anni ne abbia in qualche modo consumato i contenuti e nonostante gli effetti della crisi globale dell’ultimo quinquennio (che ne ha comunque rallentato la crescita), continua ad avere dell’incredibile. La prosperità apportata dai giacimenti di petrolio e di gas ha innescato un’attività edilizia che da una parte non ha eguali nel resto del mondo, soprattutto se si considera che, nel maggior numero di casi, si partiva praticamente da zero; dall’altra non è esente da una visibile ansia del fare, forse anche dovuta alla consapevolezza che tali riserve energetiche fossili dovrebbero esaurirsi nel volgere di circa ottanta anni. La prima caratteristica comune a tali nuovi insediamenti urbani è la totale artificialità determinata dal clima: in una condizione storicamente nuova, la vita dell’uomo contemporaneo si svolge all’interno di ambienti climatizzati (persino l’acqua delle piscine, nella stagione calda, viene opportunamente raffreddata), mentre lo spazio pubblico all’aperto svolge una funzione assolutamente secondaria. Le capitali dei sette emirati, in particolare Dubai e Abu Dhabi, ma anche quelle del Qatar e del Kuwait (nel loro insieme i cosiddetti GCC, Gulf Coast Countries) e le grandi metropoli dell’Arabia Saudita, da Riyadh a Jeddah, da Medina a Dammam, hanno avuto e continuano ad avere un frenetico boom edilizio, spesso all’insegna dell’imitazione e del superamento dei modelli ipercapitalisti più spettacolari e commerciali, segnatamente nordamericani e asiatici. Più di ogni altra, l’espansione di Dubai è stata rapidissima e vistosissima sia in verticale sia in orizzontale, soprattutto verso il mare. Com’è noto, l’economia della città-stato non deriva dallo sfruttamento di risorse energetiche fossili (di cui è sostanzialmente priva), quanto piuttosto dall’afflusso di ingenti capitali privati incoraggiati, in un primo momento, dai grandi poteri finanziari inglesi che, in prossimità della scadenza del mandato britannico su Hong Kong,
9
10
erano desiderosi di trovare una piazza alternativa rivolta ai mercati asiatici, e, successivamente, dalle audaci politiche economiche dello sceicco Maktoum bin Rashid al-Maktoum, deciso, senza andare troppo per il sottile, a trasformare la città in un grande centro transnazionale della finanza, del commercio e del lusso: obiettivo in larga misura conseguito. Resort City, com’è stata definita da Rem Koolhaas, Dubai ha così messo in crisi ogni discorso storicamente fondato sulla forma urbana e sulla sua evoluzione nel tempo. La crescita verticale è stata determinata dal proliferare di un numero incredibile di nuove, altissime torri: da Burj alArab, la “vela” di Tom Wright e Atkins che, con i suoi 321 m, emerge dalle acque del Golfo, fino a Burj Khalifa, progettata da Adam Smith con SOM e realizzata dalla sud-coreana Samsung Corporation, che, con i suoi 828 m, detiene attualmente il labile titolo di edificio più alto del mondo. La torre (burj vuol dire appunto torre) fa parte di un gigantesco complesso circondato da un lago artificiale – collegato al Creek, la profonda insenatura che, lasciando entrare le acque del Golfo, è all’origine dell’insediamento portuale della città – su cui si affaccia Burj Dubai Downtown, un insieme comprendente 33.000 unità residenziali, il centro commerciale Dubai Mall, uffici e alberghi, fra cui (all’interno della stessa Burj Khalifa) il primo Armani Hotel. Altrettanto vistosa l’espansione orizzontale: oltre che verso le inospitali aree desertiche interne, essa avviene soprattutto sottraendo progressivamente pregiati spazi al mare. Si tratta di interventi che, per dimensione e spettacolarità, non hanno precedenti: come testimoniano le immagini satellitari, è la stessa geografia costiera a risultarne radicalmente modificata. È il caso delle molte, note realizzazioni immobiliari come The Palms, tre grandi isole artificiali (Jebel Ali, Jumeirah e Deira, quest’ultima ancora in costruzione) destinate ad alberghi e residenze di lusso, ciascuna dotata di attracchi privati per le barche; o The World (la cui costruzione è iniziata nel 2003), un arcipelago di circa 300 isole artificiali che, viste dall’alto, simulano le terre emerse dei cinque con tinenti. Su Palm Jumeirah sorge in particolare l’Atlantis,
spettacolare struttura alberghiera che replica, con una superficiale revisione di gusto arabeggiante, l’omonimo hotel di Paradise Island alle Bahamas. Certamente riuscito è poi, nel suo insieme, il nucleo di Dubai Marina, una zona economica a regime speciale prevalentemente abitata da occidentali. Anche qui la spinta verticalizzazione si accompagna a uno spregiudicato ridisegno geografico, con ampi canali e spettacolari bacini interni navigabili sui quali si affacciano terrazze e percorsi pedonali panoramici, moltiplicando in tal modo gli elevati valori immobiliari precedentemente propri dei soli edifici direttamente affacciati sulla spiaggia. Un simile, altrettanto colossale (140 kmq) progetto – al momento sospeso – è poi Waterfront City, commissionato nel 2008 dalla Nakheel Properties a OMA/Rem Koolhaas: all’interno di un quadrato delineato da un canale che consentirà alle acque di penetrare dove prima era la terraferma, la nuova città, pensata per 1.500.000 abitanti con una densità pari a quella di New York, avrà un impianto urbano regolare con 25 isolati e una serie impressionante di torri molto alte, ma anche una monumentale sfera di 44 piani riservata a usi civici diversi e una gigantesca moschea. Dubai, che è oggi la città della penisola arabica più ricca di verde, grazie al costante irrigamento derivante dalla massiccia desalinizzazione delle acque del Golfo (al punto da determinare un preoccupante aumento della salinità del mare), è dunque pronta a una espansione demografica senza precedenti: per il 2015, prima della crisi, le stime parlavano di 2,5 milioni di residenti, 40 milioni di visitatori l’anno, una ricettività alberghiera di 110.000 camere, 650.000 nuove unità residenziali con investimenti edilizi pari a 318 miliardi di dollari. Una nuova, efficientissima linea metropolitana, per lo più sopraelevata, lascia anche intravedere un progressivo affrancamento dai mezzi privati. Con la sua ansia del nuovo, Dubai costituisce una sorta di ossessione collettiva per l’intero mondo arabo e in particolare per i più giovani, con sentimenti misti che oscillano fra l’invidia per i livelli di libertà raggiunti, ormai per non pochi aspetti abbastanza simili a quelli occidentali e quindi
11
12
lontanissimi da quelli dell’Arabia Saudita, e il disprezzo per gli eccessi di apertura e la palese volontà di non applicare vagli rigorosi agli arrivi di capitali stranieri (si pensi a quelli fatti affluire dalle mafie di Karachi, Mumbai o Mosca). Ma analoghe considerazioni sono possibili nelle vicine città del Golfo: colossali interventi (alcuni connotati peraltro da forte attenzione per la dimensione ecologica) sono in corso di realizzazione, per esempio, ad Abu Dhabi dove, all’interno del Saadiyat Cultural District, grandi istituzioni museali occidentali come il Louvre e il Guggenheim stanno realizzando le loro nuove sedi (ideate rispettivamente da Jean Nouvel e Frank Gehry), dove Zaha Hadid ha progettato il Performing Arts Centre e Tadao Ando e Norman Foster hanno disegnato altri due nuovi musei. Hadid è molto presente nella penisola arabica: forse un po’ svantaggiata in quanto donna, è però certamente avvantaggiata dall’essere nata in Iraq e, quindi, dalla conoscenza della lingua araba, oltre che dall’avere il suo studio principale a Londra, città globale più di ogni altra, in cui la componente araba in generale e saudita in particolare è molto forte e sensibile. Non a caso, a Riyadh è in corso di completamento un suo edificio che fa parte della Princess Noura University, gigantesco campus interamente dedicato alle donne (la più grande università women only del mondo). Un discorso simile vale per lo sperimentale, molto promettente lavoro dello studio Asymptote, che pur avendo sede a New York, è certamente avvantaggiato dal fatto che il suo titolare, Hani Rashid, è di origine egiziana. Masdar, in particolare, è una nuova città a circa 17 km da Abu Dhabi, non lontano dall’aeroporto internazionale. Attualmente ancora in costruzione, è stata commissionata dall’Abu Dhabi Future Energy Company alla studio inglese Foster & Partners. La progettazione è iniziata nel 2006, la realizzazione, portata avanti con capitali statali (con una prima stima dei costi pari a 22 miliardi di dollari), nel 2008 e una prima, piccola parte è stata ultimata nel 2010. Il completamento della fase 1, rallentato dalla crisi, è previsto nel 2015. Una volta finito, il progetto sarà in grado di alloggia-
re circa 50.000 abitanti e 1500 imprese, soprattutto commerciali e manifatturiere e specificamente nel settore dei prodotti e delle tecnologie eco-sostenibili. Ma ciò che è più interessante è che il nuovo insediamento è pressoché integralmente dipendente dall’energia solare (una centrale fotovoltaica estesa per 21 ettari è appena fuori dalla città) e da altre fonti rinnovabili, proponendosi come esempio eccellente di ambiente urbano sostenibile. Dal 2010 la città ospita, fra l’altro, la sede del Masdar Institute of Science and Technology e ospiterà la sede della International Renewable Energy Agency. L’impianto urbano, pur caratterizzato da un’immagine gradevolmente contemporanea, appare in qualche misura radicato nella storia della città araba: quadrato; murato, per impedire l’accesso alle tempeste di sabbia e ai venti del deserto; servito da percorsi pedonali stretti, in ombra e quindi naturalmente ventilati; munito di una conica torre dei venti al centro della piazza principale, in grado di sfruttare le correnti d’aria e raffreddare l’edificato. Le auto sono bandite dall’intero perimetro urbano, se non limitatamente ad alcuni percorsi sotterranei; i trasporti affidati a sistemi pubblici su rotaia e al PRT, Personal Rapid Transit, piccoli veicoli automatici o podcar, che fanno parte della classe denominata AGT, Automated Guideway Transit, paragonabili ad ascensori orizzontali in grado di ospitare piccoli gruppi di persone, operativi gratuitamente dal novembre 2010. Insieme alla citata metropolitana di Dubai e alla nuova linea ferroviaria che collega Riyadh alla città costiera di Dammam, si tratta di un positivo segnale di rinnovamento, in Paesi in cui, anche a causa dei favorevoli prezzi dei carburanti, tutta la mobilità non aerea è ancora pressoché integralmente garantita dal trasporto privato su gomma. Significativo è infine ciò che sta avvenendo nel piccolo emirato di Ras’al Hayma, dove ancora OMA ha progettato il complesso di Rak Gateway. Oppure a Doha, capitale del Qatar, dove nel giro di pochi anni è stata scenograficamente ridisegnata la corniche lungo il mare, sono sorte altissime, trasparenti torri e I.M. Pei ha realizzato il nuovo Museum of
13
Islamic Art, che dimostra come sia possibile coniugare, non senza qualche ambiguità, tradizione autoctona islamica e modernità. Una sfida – questa di “islamizzare” un’architettura contemporanea – raccolta da molti: bastano le tecnologiche reinterpretazioni in acciaio dello schermo di una ma shrabiya utilizzate da Jean Nouvel sulla facciata dell’Institut du Monde Arabe a Parigi? O le geometrie arabeggianti adoperate da Cesar Pelli nelle altissime Petronas Towers a Kuala Lumpur, in Malesia? Forse non è questo il punto: più delle questioni linguistiche, è interessante ciò che sta avvenendo nel settore della sostenibilità. I recenti investimenti, sia sauditi sia dei Paesi del Golfo, nel settore delle energie rinnovabili in generale e, in particolare, di quella solare (che evidentemente non manca mai), sono ancora una volta senza precedenti. I risvolti specificamente architettonici e urbani di tali ambiziosi progetti senza dubbio imprimeranno un significativo rinnovamento nella un po’ stanca e appannata stagione recente della “tradizione del nuovo”. L’invenzione della tradizione
14
A quella che, come abbiamo visto, è definibile come “tradizione del nuovo”, si contrappone il rinnovato, crescente interesse per la tradizione tout court, un’attenzione alla vecchia cultura islamica che, negli ultimi anni, ha assunto spesso i contorni di una vera e propria “invenzione della tradizione”: un ossimoro, particolarmente pertinente al nostro discorso, ripreso dal titolo di un noto libro di Eric Hobsbawm e Terence Ranger. Nell’introduzione, Hobsbawm, fra l’altro, scriveva: la locuzione “tradizione inventata” va intesa in senso lato, ancorché non impreciso. Include sia le “tradizioni” effettivamente inventate, costruite e formalmente istituite, sia quelle emerse in maniera meno facilmente rintracciabile, all’interno di un lasso di tempo breve e databile – talvolta questione di pochi anni – definitesi con grande rapidità4. Fra i primi esempi citati, l’attuale configurazione cerimoniale e formale della monarchia britannica: pur apparendo saldamente
radicata in un passato molto antico, essa non è in realtà che una elaborazione risalente al tardo Ottocento, se non addirittura al Novecento. Anticipiamo, tra parentesi, che la definizione di Heritage architettonico o Built Heritage, il patrimonio architettonico e urbano storico, è peraltro molto diversa nella penisola arabica da quanto si può probabilmente immaginare: il termine Heritage è applicato con indifferenza sia al vecchio sia al nuovo, all’eredità architettonica che ci giunge da un passato più o meno remoto come a tutto quanto viene oggi realizzato “in stile”, richiamandosi cioè a forme, tipologie, finiture, materiali e colori tradizionali del mondo arabo. Tale crescente interesse lascerebbe, se non altro, pensare a un grande rispetto per le vestigia del passato. Non è così. L’attenzione per la tradizione non ha evitato e non evita la preoccupante, disinvolta distruzione delle architetture e delle città storiche. In generale i centri storici della penisola arabica, con alcune eccezioni quali, per esempio, Sanaa, la capitale dello Yemen – la cui immagine fu resa istantaneamente celebre in Europa con Le mille e una notte di Pierpao lo Pasolini – sono di modeste dimensioni e si presentano o in stato di semi-abbandono o malamente ricostruiti. La qualità storica dell’architettura, al di là di alcune eccezioni, non è lontanamente paragonabile alla magnificenza delle grandi capitali dell’Islam dal Cairo a Damasco, da Isfahan a Istanbul. In alcuni casi il mancato restauro di alcuni edifici e siti storici legati alla vita del Profeta è stato persino giustificato con motivazioni di carattere religioso: essi tendevano a trasformarsi, impropriamente, in luoghi di culto, favorendo attraverso la loro stessa esistenza fisica un approccio che assumeva caratteri di superstizione poco graditi all’astratta e spiritualista ortodossia wahabita. È anche accaduto che la presenza di importanti luoghi di culto provocasse, indirettamente, la rimozione del passato architettonico circostante: significativo il caso di Medina, dove il progressivo ampliamento della moschea, uno dei due principali luoghi santi dell’Islam, ha determinato l’altrettanto progressiva distruzione del tessuto storico che la circondava. Qualcosa di si-
15
16
mile è avvenuto a La Mecca, dove la grande moschea – Masjid al-Haram – è oggi circondata da torri vertiginose, fra le quali la seconda più alta del mondo dopo quella di Dubai: i ricchi musulmani di ogni Paese sono disposti a spendere ingenti fortune pur di conquistare un affaccio privato sulla Kaaba, la pietra nera conservata al centro del recinto sacro. Un caso molto interessante è costituito da Al Balad, il centro storico di Jeddah, senza dubbio il più esteso, importante e vitale dell’Arabia Saudita. Jeddah è la seconda città dell’Arabia Saudita, la maggiore fra tutte quelle affacciate sul Mar Rosso. È antichissima: il suo nome vuol dire “nonna”, “ava”; è la progenitrice di tutte le città e, secondo una tradizione che ha origini preislamiche, è qui che si troverebbe la tomba di Eva, madre di tutti i viventi. La nuova Jeddah si estende all’infinito lungo la costa, soprattutto verso nord, in un susseguirsi di torri, centri commerciali, alberghi, ristoranti, showroom e aree residenziali di lusso, porti turistici ecc. La corniche, che scorre lungo il Mar Rosso, è punteggiata di opere d’arte contemporanea e percorsa da auto costosissime. Capitale del regno per alcuni decenni, Jeddah è stata anche sede di tutte le delegazioni diplomatiche e vi si trovano ancora le sfarzose case dei principali membri della famiglia reale. L’atmosfera che vi si respira è tuttavia molto diversa da quella di Riyadh, che è attualmente la capitale: il clima, ugualmente caldissimo, è qui carico di umidità marina a fronte del secco assoluto di Riyadh; la pioggia, pressoché assente, quando c’è costituisce un evento eccezionale che provoca danni anche notevoli; l’atmosfera di vecchio scalo portuale e commerciale è più rilassata che altrove; gli influssi africani, mediorientali e asiatici sono forti e tangibili. Il suo nucleo storico, Al Balad che vuol dire propriamente “città”, è un’area originariamente murata, costruita su di una collinetta in prossimità del porto. Qui approdavano le navi provenienti da ogni parte dell’Asia e dell’Africa cariche di mercanzie ma anche di pellegrini diretti alle città sante di Medina e Mecca. Qui una agiata classe mercantile costruì nel tempo case molto belle, alte fino a
sei-sette piani, in un’area ad alta densità, ricca di negozi, souk e moschee, su di un impianto urbano prevedibilmente e tipicamente arabo, puntualmente ritrovabile in altri centri urbani mediorientali, nordafricani e mediterranei. Ancora oggi questo esteso centro storico è densamente popolato: non più dai sauditi, quanto piuttosto da poveri immigrati africani e asiatici, originari di Sudan, Egitto, Palestina, Siria, Giordania, Yemen, Pakistan, India, Sri Lanka, Bangladesh, Filippine ecc. alla ricerca di un lavoro e di un posto dove vivere. Il tessuto urbano è denso e frammentario, talvolta labirintico; l’edificato alto quanto basta per avere spesso un po’ d’ombra; i rari slarghi si offrono al gioco dei bambini e come luoghi d’incontro; il tutto è permeato da un’umanità intensa e vivace che scambia, compra, vende. Le vecchie case, prevalentemente risalenti al XVIII, al XIX e ai primi del XX secolo, sono costruite utilizzando blocchi apparentemente lapidei: di origine non minerale ma animale, provengono dalle formazioni coralline della barriera che si estende lungo le coste inospitali, frastagliate e rocciose del Mar Rosso. Secondo una tradizione costruttiva comune anche alla vicina Africa orientale, i muri sono interrotti a intervalli regolari da ricorsi lignei orizzontali aventi funzione di distribuzione dei carichi oltre che di elementi ordinatori. Finestre e logge sono racchiusi dalle tradizionali, elaborate persiane tridimensionali in legno che garantiscono privacy assoluta agli abitanti, impedendo al sole e alla luce accecante di penetrare all’interno delle case. I solai sono anch’essi in legno. L’impressione che ne ricava il visitatore è di primo acchito straordinaria; ma a ben guardare non poche sono le case ricostruite male, o ingenuamente “in stile” o maldestramente moderniste. Non pochi i lotti distrutti e ingombri di detriti. Non pochi gli edifici originali le cui condizioni di conservazione sono ai limiti della loro stessa sopravvivenza. Non a caso l’Unesco, cui più di una volta è stata richiesta l’inclusione di Al Balad all’interno della World Heritage List, ha risposto negativamente. La zona ha inoltre purtroppo perso il suo originario rapporto con il mare, sia dal punto di vista fisico, a causa delle successive col-
17
18
mate che hanno progressivamente allontanato la fascia costiera, sia da quello visuale, a causa della spinta edificazione verticale circostante. Gli interessi economici, qui come altrove, non sempre coincidono con quelli della conservazione del patrimonio: i singoli proprietari, forti della legge coranica che garantisce loro piena giurisdizione, non hanno alcun interesse a conservare, recuperare, restaurare immobili affittati a prezzi bassissimi agli immigrati; essi tendono piuttosto a lasciarli crollare nell’incuria, in attesa di poter magari ricostruire in altezza con volumetrie più cospicue, soprattutto nelle aree periferiche del centro, quelle cioè più prossime alla città moderna. In molti casi, incendi dolosi e acidi colati ad arte per dissolvere i blocchi di origine corallina danno il colpo di grazia al naturale processo di degrado dell’edificato. Ma, nonostante tutto ciò, le potenzialità di Al Balad sono ancora oggi evidentemente elevatissime: all’interno di un Paese praticamente chiuso al turismo, Jeddah, ha sempre avuto e continua ad avere un flusso incredibilmente alto di turismo religioso, legato ai pellegrinaggi che almeno due volte l’anno determinano una vera e propria invasione. Una volta arrivati all’aeroporto internazionale – l’unico a servire La Mecca – i pellegrini proseguono in auto o in pullman per la città santa, interdetta, com’è noto, ai non musulmani e controllata da check points che filtrano i pellegrini o controllandone i passaporti (abbastanza diffusi nei Paesi islamici) che portano l’indicazione della religione professata o verificandone l’appartenenza ai gruppi organizzati che garantiscono per loro nei casi in cui essi provengano da Paesi i cui documenti non prevedano tale indicazione. Pellegrini che a Jeddah trovano poco da visitare e soprattutto niente che non sia dato ritrovare in qualsiasi altra moderna città, ma che invece nella derelitta Al Balad ritrovano l’atmosfera urbana, architettonica e culturale caratteristica di un’antica città araba, con in più alcune interessanti moschee che, se non le più belle del mondo islamico, sono comunque fra le più antiche. Ma al di là del possibile “sfruttamento” turistico, Al Balad costituisce qualcosa di più: è la vera anima, il centro
ideale di una città che per il resto appare alienata e priva di radici, un punto di riferimento stabile all’interno di una società, quale quella saudita, oggi ampiamente soddisfatta nei suoi bisogni materiali ma incerta sui propri orientamenti psicologici, culturali e spirituali, ostentatamente tradizionalista me che sembra tuttavia aver perso, nei fatti, ogni concreto riferimento alla sua secolare tradizione architettonica. Si aggiunga che Al Balad costituisce, potenzialmente, una interessante area per la sperimentazione della sostenibilità urbana più avanzata, in tutte le sue molte, diverse accezioni: il grande green leap forward, il “verde balzo in avanti”, da tutti auspicato anche in un Paese che è fra i principali produttori di petrolio e di gas del mondo, è con ogni probabilità più efficacemente sperimentabile qui, dove tipologie insediative e tecniche costruttive si sono sempre misurate con le difficoltà provocate da un clima estremamente caldo, che altrove, dove il modello edilizio internazionale importato dall’Occidente, e segnatamente dagli Stati Uniti, è stato adattato alle condizioni locali soltanto a costi elevatissimi. Le case dei ricchi, in particolare in Arabia Saudita (ma la moda è diffusa in diverse aree geografiche sia in Medio e in Estremo Oriente sia in Africa) sono pressoché tutte storicisticamente connotate, con riferimenti che, con maggiore o minore ingenuità, vanno da Palladio a Versailles; ma la maggior parte di esse appare invariabilmente ispirata alla grande tradizione architettonica islamica: dal Marocco alla Siria alla Persia. Permane insomma, in molti paesi arabi, qualcosa di simile a ciò che, negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, veniva proposto, non senza un certo ap peal culturale, da personaggi quali Léon Krier o lo scomparso Quinlan Terry, con l’appoggio di alcuni illustri opinion-maker quali, per esempio, il principe di Galles nonché di alcune scuole – si pensi alla cattolica Notre Dame University nell’Indiana. Una tendenza apparentemente in dismissione nel mondo occidentale (o quasi: non dimentichiamo la recente proposta avanzata dallo stesso Krier per il quartiere romano di Tor Bella Monaca), ma nei fatti molto diffusa altrove. Lo stesso discorso vale per i villaggi turi-
19
20
stici: ciò che viene per lo più proposto negli Emirati, in Qatar o in Oman non è, dal punta di vista concettuale, molto diverso da ciò che fu fatto, negli anni Settanta e Ottanta, a Port Grimaud in Francia, sulla Costa Smeralda in Italia, a Seaside in Florida (la cittadina usata come set per il film di Peter Weir The Truman Show), e in tanti altri, meno blasonati, casi. È interessante osservare come spesso il tradizionalismo non permea coerentemente l’intero edificio: in molti casi c’è un gap fra interno ed esterno, ritrovabile in due modalità: quella di esterni tradizionali cui corrispondono interni modernamente dotati di tecnologie e impianti avanzati (dalla climatizzazione agli ascensori ecc.), o quella di esterni “moderni” cui corrispondono interni “in stile”, caso molto frequente nei ristoranti degli alberghi di lusso, nelle spa ecc. La riproposizione di stilemi decorativi tradizionali islamici, in cui, com’è noto, è pressoché assente ogni forma di figurazione, ha almeno il vantaggio di limitare le cadute di gusto più vistose. Non così quando vengono adottati con maggiore o minore disinvoltura gli stili storici europei, dal rococò all’impero, soluzioni diffusissime all’interno di case e alberghi di lusso principalmente realizzati negli anni Ottanta e Novanta, ma anche più di recente. L’He ritage costituisce insomma una vasta riserva di immagini particolarmente facili da utilizzare e molto gradite a developer e fruitori, soprattutto negli ambiti tipologici prevedibilmente più legati alla tradizione, da quello residenziale a quello turistico, da quello religioso a quello mercantile, fino all’interior design dei centri commerciali dedicati all’artigianato, ai souvenir, alla ristorazione ecc. Per quanto riguarda più specificamente il recupero delle preesistenze storiche, va infine osservato che, nei fatti, siamo davanti a un graduale allontanamento dai principi classici del restauro, quelli per esempio delineati nel 1963 da Cesare Brandi nella sua Teoria del Restauro e poi riaffermati, nel 1964, nella Carta del Restauro, la cosiddetta Carta di Venezia. Le differenze, sostanziali, che separano opere d’arte come dipinti e sculture, abbastanza facilmente conservabili all’interno di musei e collezioni, dalle architetture,
esposte invece, oltre che alle avverse condizioni atmosferiche (nella penisola arabica soprattutto dannosi sono i forti venti, la polvere e le tempeste di sabbia, ma anche l’umidità elevata lungo le fasce costiere e il caldo che raggiunge e supera i 50°), ai terremoti, agli incendi, alle devastazioni belliche, agli usi impropri e, quasi sempre, più semplicemente, alla carente manutenzione. L’architettura è per sua stessa natura segnata da una durata relativa, richiedendo continui, difficili e costosi interventi manutentivi. Di qui la recente fortuna del concetto di conservazione su quello di restauro: quest’ultimo sempre più visto come una soluzione cui ricorrere solo in casi estremi, quando cioè l’edificio appare compromesso in modo tale da mettere a rischio la sua stessa sopravvivenza. Il restauro e la conservazione hanno trovato di recente una eccellente definizione critica nel Co dice del patrimonio culturale e del paesaggio, pubblicato in Italia nel 2004, in cui si ritrova espresso il concetto di progetto di conservazione, sostanzialmente basato sulla prevenzione e sulla manutenzione: si tratta di un insieme di linee guida cui si guarda con molta attenzione a livello internazionale. Ma prevenire i danni non è sempre possibile: in non pochi casi è necessario ricorrere al consolidamento delle parti strutturali di un edificio e al rifacimento dei suoi impianti, è necessario garantirne l’accessibilità anche ai disabili ecc. Talvolta è necessario dunque ripristinare o ricostruire l’immagine che l’edificio aveva nel periodo più fortunato della sua storia. In altre lingue europee, come per esempio in francese, la restauration viene considerata una vera e propria re-instaurazione dell’architettura ovvero una renovation à l’identique delle parti mancanti o gravemente alterate; per non parlare della nota teoria giapponese del restauro, che prevede il periodico, ciclico rifacimento della fabbrica. Qualcosa, in fondo, di non troppo distante dall’idea di restauro stilistico, sviluppatasi nel XIX secolo e riassunta dalla formula “dov’era, com’era” (da non prendere ovviamente alla lettera se non limitatamente alla sua prima parte): una formula che, pur nella sua estrema semplificazione, ben definisce un restauro in grado, non senza un elevato li-
21
vello di sensibilità culturale, un avvertito senso delle proporzioni ecc., di riprodurre i lineamenti originali di un edificio parzialmente o anche interamente distrutto. Diversamente dalla pittura, dalla scultura e da altre arti, l’architettura non è autografa; e l’autenticità storica della materia di cui essa è fatta non è altrettanto importante, dal momento che progetto e realizzazione sono opera di professionisti, tecnici ed esecutori diversi. Ma la delicata questione – chiaramente delineata da Paolo Marconi, sulla quale si discute oggi molto in Europa e in particolare in Italia – nella penisola arabica è stata nei fatti superata in favore di una visione ingenua, disinvolta quanto talvolta culturalmente inconsapevole, che assimila sostanzialmente il Built Heritage ad altre, meno tangibili, forme di Heritage (quali per esempio il folklore, la gastronomia ecc.) replicate e replicabili, evidentemente, senza problemi.
Aristotele, Metafisica, V, 9, 1018 a 7. J. Derrida, Oggi l’Europa, Garzanti, Milano 1991, p.14. 3 J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il rico noscimento, Feltrinelli, Milano 1998. 4 E. Hobsbawm, T. Ranger, The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1983, p. 1. 5 R. Bevan, Attack on Townscapes. The role of heritage in protec ting Common Grounds, in Common Ground, Venice Biennale of Ar chitecture 2012, a cura di D. Chipperfield, K. Long, S. Bose, Marsilio, Venezia 2012. 1 2
22
Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del Novecento MILENA CORDIOLI
A metà del secolo scorso, nel 1947, a pochi anni dalla conclusione dei tragici eventi che avevano sconvolto il mondo e l’umanità, uno dei più grandi filosofi del XX secolo, e di tutta la storia del pensiero occidentale, Martin Heidegger, scrive la sua Lettera sull’umanismo1. Apriamo l’indagine estetica sul ritratto del Novecento con le sue parole. L’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere. In questo “meno” l’uomo non perde nulla, anzi ci guadagna, in quanto perviene alla verità dell’essere. Guadagna l’essenziale povertà del pastore, la cui dignità consiste nell’esser chiamato dall’essere stesso a custodia della sua verità. Questa chiamata viene con il getto da cui scaturisce l’esser-gettato dell’esser-ci. L’uomo, nella sua essenza secondo la storia dell’essere, è quell’ente il cui essere, in quanto esistenza, consiste nell’abitare nella vicinanza dell’essere. L’uomo è il vicino dell’essere2. L’eco di queste parole risuona nei volti silenziosi dei ritratti dipinti da alcuni fra i maggiori interpreti dell’arte contemporanea, qui scelti come “icone” di un percorso che si sviluppa in direzione di un ritorno alla sua stessa origine, come vedremo. Una ricerca di significato dell’essere dell’uomo nel mondo riassunta nelle parole di Heidegger, per cui l’uomo non è il padrone della realtà: ne consegue un “atteggiamento antisoggettivista”; dev’essere pronto a una rinuncia del Sé per giungere alla verità: inevitabile la “rottura con ogni forma
23
24
di narcisismo”; la sua condizione esistenziale e ontologica è quella dell’“insensata gettatezza dell’esser-ci”. La lettera di Heidegger è piuttosto una lettera sull’anti-umanismo come unica possibilità di ritorno a un umanismo più profondo, alla condizione ontologica di apertura all’essere e alla sua verità. Non è un percorso facile, poiché deve attraversare il senso della perdita, deve raggiungere la soglia di quel «meno» che solo in maniera indiretta e sofferta potrà trasformarsi, paradossalmente, in un “più”. L’angoscia esistenziale e il fantasma del nulla, che prendono forma sulla superficie deformata di corpi straziati e volti esasperati, sino alle soglie della caricaturalità espressiva, costituiscono la prima tappa di questo viaggio nel ritratto del Novecento. Nel 1913 il pittore tedesco Otto Dix dipinge il suo Autoritratto come fumatore3. Dal frastuono notturno di un mondo cupo, scioccato da violente scosse e repentini sconvolgimenti, emerge la figura enigmatica e solitaria d’un fumatore. L’oscurità lo avvolge come un manto uniforme, nel buio profondo e incolore della notte, che rende un uomo simile a un’ombra e lo getta nell’abisso dell’indifferenza, nella tragica consapevolezza di essere ridotto soltanto a un numero, presto a una “matricola” dell’esercito nazionale, pronta a un insensato sacrificio. Funerea e quasi invisibile è la sua mano, che regge fra le dita la grigia sigaretta fumante, ma il misterioso fumatore nasconde una forza inaudita, che prende corpo proprio nel fumo che esce dalla sua bocca. La nuvola di fumo4, simbolo dell’inconsistenza, della precaria futilità della vita, sembra uscire dalle sue viscere, facendosi densa e palpabile come fosse una fluente matassa di cotone e come una scia, che si libera dall’interno attraverso la sua bocca protesa, si confonde con le pennellate striscianti che generano il suo volto e lo spazio intorno: è qualche cosa d’indefinibile, che lo abbandona e allo stesso tempo gli ottura la bocca soffocandone il respiro. La luce fumosa balena nel suo occhio destro che, pur nell’assenza del suo sguardo, interroga nel profondo chiunque lo affronti5. Negli anni della prima guerra mondiale, vissuta sul fronte, Otto Dix realizza
diversi autoritratti, immaginandosi come un Marte incarnato, figurandosi semplicemente come soldato, esprimendo il suo “sconcerto esistenziale” di fronte al mondo e a se stesso. Più che un fumatore qui l’artista sembra essersi voluto ritrarre come un uomo “fumante”, con il fumo che gli esce dalle narici e non solo dalla bocca, come un toro gettato nell’arena, che pur nello stato d’impotenza in cui si trova esprime il suo sgomento e la sua rabbia. Proprio questo fumo di Dix sembra prefigurare la forza “contaminatrice” della pittura di Bacon nei confronti delle tradizionali regole di rappresentazione della realtà e quella che Gilles Deleuze, nel suo libro Logica della sensazione, dedicato al pittore irlandese, ebbe a definire come una «tauromachia latente» presente in ogni sua opera6. Nell’esperienza dell’autoritratto il narcisismo è completamente rinnegato e ogni possibilità di pacifico rispecchiamento del Sé è interdetta. Scrive Maurice Merleau-Ponty in Il visibile e l’invisibile7, uscito postumo nel 1964, che questo avvolgimento del visibile sul visibile, può attraversare, animare altri corpi quanto il mio, e se io ho potuto comprendere come in me nasce quest’onda, come il visibile che è laggiù è simultaneamente il mio paesaggio, a maggior ragione posso comprendere che anche altrove esso si richiude su se stesso, e che ci sono altri paesaggi oltre che il mio. Se esso si è lasciato captare da uno dei suoi frammenti, il principio della captazione è acquisito, il campo è aperto per altri Narcisi, per una “intercorporeità”. Gli altri Narcisi … il campo è aperto all’altro che diventa il mio corpo poiché mi vede in quanto io lo vedo: è la protesi vivente della mia unità interrotta, del mio essere limitato e mutilo8. L’“insanabile solitudine dell’Io” nel l’esperienza esistenziale contemporanea coincide con il più “intenso bisogno di alterità” che mai l’uomo abbia saputo, e potuto, esprimere: una solitudine universale come condizione ontologica dell’esser-ci. Bisogna fare un balzo indietro e poi uno in avanti, saltando molte tappe in virtù di un cortocircuito spazio-temporale, per incontrare le due personalità che hanno espresso tale movimento della vita con una
25
26
forza distruttiva e, al tempo, neo-costruttiva per una visione dell’uomo che non sia più padrone ma «pastore dell’essere»: Vincent Van Gogh e Francis Bacon. Tra novembre e dicembre del 1888 Van Gogh dipinge il Ritratto dell’amico Joseph Roulin9, impiegato alle poste di Arles. La pittura di Van Gogh è alla ricerca della profonda unione tra l’uomo e il mondo, che si realizzi nel colore e nei segni pittorici, come frammenti di un’onda, di una vibrazione invisibile, che attraversa ogni cosa ed è propagazione del proprio sentire. In parole sue10, invece di raffigurare esattamente ciò che mi trovo davanti agli occhi mi servo arbitrariamente del colore, per esprimermi con maggiore forza e immettervi l’affetto che provo per il soggetto, l’affetto appunto, cioè il movimento interiore non visibile che esternandosi inevitabilmente trasforma e deforma il visibile, secondo un’arbitrarietà solo apparente, che di fatto accompagna e fonda ogni singolare visione del mondo e dell’altro. Un affetto e un’unione profonda col mondo e con gli altri che Van Gogh non poteva che riconoscere e ritrovare implicati in figure come l’amico Roulin, specchio del destino di coloro che, ogni giorno, in silenzio e con duro lavoro, si apprestano ad agire per gli altri, come il pittore stesso dovrebbe fare nell’idea di Van Gogh e come fa Roulin, smistando quotidianamente la posta che arriva ad Arles, riordinando e suddividendo i singoli destini degli abitanti della cittadina, che per un momento si erano mescolati nel vagone ferroviario. Questa profonda “solidarietà con il mondo” è il bisogno che spinge l’opera di Van Gogh verso l’uomo e la natura insieme, arrivando persino a confonderli nella potenza del suo segno e del colore, pur nella consapevolezza ultima del l’infinita solitudine umana, quale condizione dell’esistenza dell’uomo contemporaneo, che nel ritratto di Roulin si fa forma nel particolare cromatico dell’accensione violenta di rosso sanguigno nella bocca e nell’orecchio dell’uomo. I luoghi del volto aperti all’altro, ossia la bocca, dove si annida la parola come bisogno di espressione di ciò che il volto racchiude, e l’orecchio, come disposizione all’ascolto e
all’accoglimento dell’altrui sentire (a distanza di poche settimane Van Gogh si amputerà l’orecchio sinistro, a seguito di una violenta lite con Gauguin – secondo la versione fornita da quest’ultimo), sono diventati nel rosso che li colpisce una ferita aperta nel volto dell’uomo, che soltanto la profonda indicibile malinconia dello sguardo di Roulin può testimoniare. La malinconica tensione dell’animo verso il mondo e verso l’altro spinge il gesto del pittore oltre i confini della sua interiorità, che egli esprime invadendo di forze invisibili lo spazio esterno. Vorrei fare dei ritratti che fra un secolo, alle genti future, possano sembrare come delle apparizioni. Non cerco la somiglianza fotografica, ma l’espressione delle nostre passioni usando come mezzo, per mettere in evidenza il carattere, la scienza e il gusto moderni del colore: è significativo che Van Gogh usi il termine “nostre” passioni e non “mie”, termine che indica il tentativo dell’artista di raggiungere un piano di condivisione profonda del sentimento passionale dell’esistere, attraversando con il suo sguardo il mondo, gli altri e se stesso e imprimendo in ogni cosa il respiro della vita come forza inarrestabile, nella predilezione di un segno che è frammento d’un vortice, d’un moto ondoso continuo. Van Gogh non cerca la precisione fisiognomica ma l’apparizione del flusso invisibile della vita sulla superficie visibile dell’essere. Venendo all’autoritratto vero e proprio, soggetto amato e continuamente ripreso da Van Gogh, facciamo tappa nel settembre del 1889, quando dipinge i suoi ultimi autoritratti11: l’artista si trova dal mese di maggio dello stesso anno al ricovero di Saint-Paul-de-Mausole presso Saint-Remy. Con la petizione di marzo gli abitanti di Arles, chiedendone l’internamento, sanciscono la sua condizione di “alienato”, eppure la sua pittura acquisterà sempre maggiore forza d’intenti e d’espressione: un vigore espressivo condensato negli ultimi autoritratti. Antonin Artaud12 si chiedeva: pazzo, Van Gogh? Chi, un giorno è stato capace di guardare un volto umano, osservi l’autoritratto di Van Gogh. Non conosco un solo psichiatra capace di scrutare un volto umano con la stessa forza e la stessa potenza, di sezionarne spie-
27
28
tatamente l’inconfutabile psicologia. Inconfutabile è il senso di dolorosa solitudine dell’uomo, l’oppressione profonda del suo peso corporeo, la bocca impossibilitata a proferire parole e lo sguardo rivolto a un punto nel nulla, occupato da chi lo sta osservando. Inconfutabile però è anche la forza che prorompe attorno alla sua figura e dilaga come un’eco nello spazio. Come un guanto rovesciato su se stesso Van Gogh cade “vittima” del proprio sguardo e ritorna all’abisso da cui ogni essere vivente emerge e risprofonda: nel mezzo è la vita. Le possibilità dell’uomo sono sconfinate, ma anche, ciò che sembra contraddirlo, le sue impossibilità. Tra l’infinito che egli può e l’infinito che non può, si trova la sua patria. Questo aforisma di Simmel sigilla il senso del conflitto in atto nell’opera, e nella vita, di Van Gogh. La condizione di alienazione è strutturale alla vita stessa, poiché ogni uomo è sé e altro al medesimo tempo, perché la sua solitudine e la sua angoscia per la propria finitezza sono la solitudine e l’angoscia d’ogni altro, pur rimanendo assolutamente diverse e irriducibili. La vera alienazione è l’incapacità di scoprire che questa lacerazione, questo sentirsi a brandelli tra la propria interiorità ed esteriorità è la possibilità unica di un incontro con l’altro sul piano del comune sentire. Artaud sostiene che un alienato è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare e l’ascolto negato è la dimensione della sofferenza insensata, perché non condivisa e quindi, come pensava Van Gogh, non redenta. La macchia rosso scuro presso l’orecchio sinistro chiude lo spazio dell’ascolto e si sta propagando sul volto, contrastando efficacemente con il livore degli occhi, quasi esausti dallo sforzo di “perforare” la superficie del visibile, e con il verde profondo dello spazio vorticoso, che si sostituisce a quello della nuda, anonima parete vuota. In que st’estremo autoritratto Van Gogh sembra racchiudere il senso stesso dell’autoritratto: rivelazione ultima della propria condizione di “gettatezza” nel mondo e della quasi inaccettabile emersione sulla sua superficie. Come un sasso gettato nell’acqua, che è destinato a sprofondarvi e a posarsi defini-
tivamente sul fondo, non essendo più visibile, però non senza aver prima lasciato il proprio segno increspando in modo irripetibile la calma superficie, così l’artista, nella sua visione unica del mondo, “increspa” la superficie del visibile pur nel destino, comune a ogni altro, di risprofondare nell’abisso: le pennellate vorticose che esplodono dall’anima di Van Gogh e si propagano come forze invisibili sulla tela sono le trame della sua “increspatura”. Lo sconfinamento della propria ansia verso l’esterno e la ricerca d’espressione di que st’affezione verso la vita sono l’apertura a una nuova dimensione dell’apparire: proprio per questo motivo molti artisti che gli succedettero vollero omaggiarne a loro modo l’opera, sentendo che in essa si era affermata una nuova forza interiore capace di deflagrare nello spazio esterno. Nel 1963 Bacon dipinge Omaggio a Van Gogh13, citando il suo autoritratto con pipa e orecchio bendato14. All’artista olandese aveva già dedicato nove opere, tutte incentrate sulla ripresa di una sua tela distrutta durante un incendio nella seconda guerra mondiale, la cosiddetta “passeggiata di Van Gogh”, del 1888, intitolata Il pittore sulla strada di Tarascona, per rendere propria nel profondo l’esperienza dell’altro, non per violarne l’irraggiungibile mistero interiore ma per fare di quel mistero stesso che è la vita la ragione disperata di una profonda “compassione”, dove a tale parola si deve dare il suo preciso significato etimologico: dal latino “cum - patire” che significa “soffrire insieme, condividere”. Solo così Bacon può fare un’operazione artistica di per sé assurda: “autoritrarre l’altro”. Bacon non si può riconoscere in uno specchio, che restituisca l’immagine chiara e puntuale della sua apparenza esteriore e gli permetta d’identificarsi con un’idea perfetta ma astratta di sé, si deve invece ritrovare perdendosi nello specchio ben più profondo e incontrollabile dello sguardo altrui: avere la forza di rimanere fino in fondo se stesso nel cuore e nell’abisso di un deserto interiore, in cui ricongiungersi a ogni altro, sulla via indefinita della vita, come processo inarrestabile di trasformazione materica e spirituale. Nell’abisso solitario del dolore personale e di un’esperienza di vita singolare (il
29
30
gesto di Van Gogh) egli cerca il senso di una condizione universale e perciò condivisibile. Van Gogh non si arrese all’angoscia come condizione individuale e a un conseguente solipsismo interiore: ebbe il coraggio di trovare in essa il superamento dell’individualismo ed esprimere con forza un sentire universale. Scrive Van Gogh, in una lettera all’amato fratello Theo, che spesso gli uomini stanno imprigionati in una specie di orribile gabbia… Non è facile riuscire a dire che cosa t’imprigiona, ti chiude fra quattro mura, ti spinge sotto terra, eppure quelle sbarre, quelle grate, quei muri li senti! Paradossalmente proprio la condizione di prigionia interiore e limitatezza esistenziale è la molla invisibile che fa scoppiare una forza capace di trascendere, dall’interno della gabbia, questi limiti. Con la “metafora della gabbia” di Van Gogh bruciamo la distanza temporale e siamo già di fronte all’opera di Francis Bacon; in cui essa diventa limite concreto, fisico e visibile: è fondamentale il passaggio dalla dimensione cosmica della natura a quella microcosmica della stanza, che accresce la compresente sensazione di esplosione e implosione, che spesso in Bacon prende forma nella devastante espressione della bocca aperta nel grido. Nelle diverse versioni di Head, il cui soggetto a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta è principalmente il Papa Innocenzo X da Velázquez, la tensione tra la carica esplosiva della testa urlante e l’impossibilità di una corrispondente liberazione fisica, oltre le “grate” della gabbia virtuale (come scrive appunto Van Gogh, poiché capiamo che essa è molto più di una costrizione tangibile), è il motivo che ritorna in ognuna di esse. Nell’opera di Bacon è sempre in atto una lotta tra una o più figure che resistono al limite della loro dissoluzione, combattute tra la pulsione a deflagrare nello spazio circostante e la resa all’opposta forza di contenimento che le comprime, condizione simboleggiata dall’immagine della gabbia. Anche laddove la gabbia non c’è più, la percezione non cambia: per esempio nei numerosi Autoritratti dipinti negli anni Sessanta e Settanta15 è come se Bacon fosse alla
ricerca delle cavità del proprio volto da cui estrarre, con la forza della pittura, le sue pulsioni interiori, pronte a scatenarsi nello spazio esteriore. La pittura di Bacon esprime la sua forza sul piano di una dialettica tra la pienezza e l’energia del colore e gli improvvisi suoi svuotamenti: è come percorsa da un senso di “non finito”, poiché il movimento e il rischio di una nullificazione sono in essa due elementi strutturali, egli raggiunge la dimensione del vuoto, dell’assenza come traccia potente dell’esistere, dell’esserci. Si può dire che Francis Bacon abbia figurato il cammino stesso dell’uomo del XX secolo, rivelandone l’inaccettabilità a chiudersi in una forma esteriore, in un’idea definitiva del suo essere, per giungere a scoprire il senso più profondo della vita nella sua continua metamorfosi, nel movimento spirituale (che è un sentire ed esprimersi per segni, vortici, grida soffocate), gestuale, materico cui l’opera può tendere, attribuendo un senso anche a ciò che non si è arrestato in una forma definitiva, anche se quel senso sfiora il non-senso, ossia il nulla. Torna alla memoria l’immagine offerta da Søren Kierkegaard nel suo Aut-Aut16 del 1843, emblematica della scelta anomala di un pittore che rinuncia alla rappresentazione, usata dal filosofo come metafora della sua stessa condizione esistenziale: il risultato della mia vita sfuma in un nulla, in un’impressione, in un solo colore. Il mio risultato ha una somiglianza con la pittura di quell’artista che doveva dipingere il passaggio degli ebrei del Mar Rosso e a questo scopo dipinse tutta la parete in rosso spiegando che gli ebrei erano già passati e che gli egiziani erano tutti annegati. Così Bacon accoglie l’eco di un grido di disperazione, di morte e di finitezza giunto da chi, prima di lui, lo aveva già lanciato nell’etere, ma soprattutto dalla vita stessa. Scrive Georg Simmel nel suo Diario postumo17 che l’assurdità e la limitatezza della vita spesso afferrano uno come qualcosa di così radicale e privo di vie d’uscita, che si deve completamente disperare. L’unico mezzo per sollevarsi è riconoscere questa situazione ed esserne disperati.
31
32
La prima traccia seguita per questo breve percorso nel ritratto del Novecento ha prediletto la via dell’espressione forte, quella che potremmo definire, per usare un’immagine “corrente”, il recto della medaglia: la deformazione e la dissoluzione della figura come immagine della condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo. La medaglia, come sappiamo, ha un verso: su di esso è invece iscritta la tendenza opposta, quella rivolta alla definizione iperformale e iperreale del volto e del corpo umano. Essa prende il nome degli artisti del Realismo Magico, della Nuova Oggettività, come Casorati, Donghi, Cagnaccio di San Pietro, Schad, lo stesso Dix negli anni Venti, solo per citarne alcuni, e, più tardi, dell’Iperrealismo: di tutto quel mondo che tende invece alla più totale chiusura formale. Se avessimo scelto tale strada saremmo tuttavia giunti alla medesima conclusione: il “processo di disumanizzazione” cui è sottoposto l’uomo nel ritratto del Novecento. In questo secondo caso per via di “oggettivazione”: egli diventa “cosa tra le cose”, così plasticamente perfetto e realisticamente esatto da apparire assurdamente inalterabile, privo di respiro vitale e teso perciò al medesimo nulla, in segno opposto, delle deflagrazioni baconiane, poiché il mistero della vita non è soltanto appannaggio dell’uomo, nel momento in cui egli è “ridotto ed elevato” al ruolo di suo custode. Proviamo perciò a percorrere, ancora una volta “per via d’icone”, questa strada alternativa. Tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti Felice Casorati dipinge una serie di ritratti18 d’ambientazione metafisica: figure principalmente femminili, in interni dalle prospettive scivolanti, assorte ed enigmatiche come lo spazio geometrico che le circonda. Uno tra questi: il Ritratto di Anna Maria De Lisi, del 1918. Il rapporto tra la donna e la sua effigie scultorea è l’elemento che colpisce di primo acchito l’attenzione di chi si fermi a osservare il dipinto: la prima non è più viva della seconda, ed essa ne rispecchia la nostalgia dell’infinito, nel cavo profondo delle sue mandorle scure, occhi di un’icona del XX secolo che non possono più rifulgere nell’oro, ma sprofondano nelle tenebre di un
abisso metafisico senza risposta. Una scultura, una testa, il simulacro di un volto diventato oggetto, drammaticamente consegnato al mondo e alla sua spietata legge di “insensata cosalità”. La mia anima è così pesante che nessun pensiero è capace di portarla, nessun colpo d’ala che possa sollevarla verso l’etere. Se essa si muove, non riesce che a sfiorare la terra come il volo basso degli uccelli quando minaccia l’uragano. Sulla mia anima incombe un’oppressione greve, un’angoscia che fa presentire il terremoto19. La pesantezza dell’anima, di cui scrive Kierkegaard (Aut-Aut, 1843), è un’immagine filosofica che calza perfettamente alle poetiche del Realismo Magico e del l’Iperrealismo: non è possibile librarsi oltre il fatto fisico, oltre l’oggettualità della presenza materiale di uno spirito trattenuto nella «carne del mondo» (Merleau-Ponty, L’oc chio e lo spirito, 1960): l’uomo è prigioniero di un eterno presente eppure è destinato, paradossalmente, alla corruzione del tempo che passa. Ancora Kierkegaard in Aut-Aut: Il tempo passa, la vita è un fiume, dice la gente ecc. Io non posso avvertire questo, il tempo (per me) sta fermo e io con esso. Tutti i piani ch’io progetto, ripiombano cadendo su di me; quando voglio sputare, io mi sputo in faccia. Circa mezzo secolo più tardi rispetto alla “metafisica del quotidiano” dipinta da Casorati e dai pittori del Realismo Magico, tale condizione di prigionia nell’“assurdo eterno” dell’hic et nunc, sarà espressa dalle iperreali e immobili presenze create dagli scultori americani John De Andrea e Duane Hanson: manichini20 entrati in scena e rimasti vittime del loro stesso atto di comparizione, apparsi con silenziosa prepotenza nel presente spazio-temporale della vita in movimento dello spettatore. Nelle loro opere la dialettica tra la persona ritratta e la scultura, tra la figura umana e l’oggetto è condotta al limite delle possibilità espressive di un linguaggio aderente al vero. Se nella pittura italiana degli anni Venti era prevalsa la dimensione metafisica, con riferimento alla scultura, all’oggetto aulico o comunque di retaggio classico, l’adesione al realismo tout court, che poi sarà condotta alle conseguenze più radicali
33
34
nell’Iperrealismo appunto, si era espressa nei pittori della Nuova Oggettività tedesca. Ritorniamo a Otto Dix, doppio testimone in questo nostro excursus sul ritratto del Novecento: la sua presenza su entrambe le facce della medaglia è una spia dell’unità profonda di senso dei due opposti linguaggi. Sono i suoi numerosi ritratti degli anni Venti che ci parlano in questa nuova e diversa lingua adottata dal pittore tedesco: filosofi, poeti e ballerine, ma anche i più “borghesi” geometri, medici, commercianti, accompagnati dagli oggetti del mestiere, loro alter-ego nello spazio della vita sociale. Tra di loro, il fotografo Hugo Erfurth21, ritratto da Dix nel 1925, con l’obiettivo della macchina fotografica simbolicamente stretto tra le sue mani. La fotografia: altro immenso varco che si apre nel panorama dell’arte del Novecento; e in particolare della ritrattistica, come immagine della memoria che, per definizione, arresta in un istante le trasformazioni che il tempo imporrà a ogni cosa, nel suo inesorabile trascorrere. Il realismo di Dix s’intensifica a livello metaforico nell’immagine del fotografo, con l’iterazione del tondo dell’obiettivo della macchina nei cerchi delle lenti dei suoi occhiali, che definiscono uno sguardo acuto rivolto alla realtà. L’uomo e l’oggetto: moneta interscambiabile nella specularità tra l’anima e il mondo. Scrive Jacques Lacan nel Libro XI di Il seminario. I quattro con cetti fondamentali della psicoanalisi22: Io non vedo che da un punto, ma nella mia esistenza sono guardato da ovunque … Io non sono solo l’essere puntiforme che si reperisce nel punto geometrale da cui è presa la prospettiva. Senza dubbio in fondo al mio occhio si disegna il quadro. Il quadro, certo, è nel mio occhio. Ma io sono nel quadro. L’obiettivo che accompagna il fotografo ne è l’emblema e anche laddove l’oggetto non è così esplicitamente simbolico permane la medesima sensazione di uno “sguardo delegato”, passato dall’occhio antropocentrico a una molteplicità di riflessi possibili, in un mondo irriducibile all’Io dominante. A questo punto, sorge spontanea un’interrogazione: perché, proprio nel processo distruttivo di tale posizione privi-
legiata, sia Bacon sia alcuni iperrealisti, come lo statunitense Chuck Close23, mettono al centro della loro ricerca proprio l’uomo? In questo l’americano è ancor più radicale: il soggetto delle sue opere si riduce alla gigantografia pittorica di un volto (lui stesso o qualcuno che conosca “da vicino”, condizione imprescindibile) prima fotografato e poi riportato, ingigantito, sulla tela. Attorno ad esso il nulla, un nulla candido, non abissale come quello baconiano, pur sempre un nulla. Questi volti enormi che campeggiano nel vuoto assumono un aspetto totemico24, nella dialettica assoluta del bianco e del nero; quello di Chuck Close è un uomo che ritorna al centro ma non come “dominatore” e l’aspetto isolato della testa-oggetto lo rivela: è l’iperbole dell’effimero, dell’espressione momentanea catturata dallo scatto e la rivelazione di un paradosso dichiarato dall’artista stesso: «i quadri assomigliavano alle persone più delle fotografie»25. Si tratta di quel tipo di somiglianza definita da MerleauPonty come una «rassomiglianza efficace», più profonda, a suo modo sempre deformante nella sua irriducibile soggettività. Quasi un incantesimo di cui l’artista è prigioniero, come il filosofo secondo Kierkegaard, che scrive, sempre in Aut-Aut: la mia concezione della vita è completamente senza senso. Io penso che uno spirito maligno mi ha messo sul naso un paio di occhiali di cui una lente ingrandisce a dismisura mentre l’altra rimpicciolisce anch’essa a dismisura. Lo straniamento delle proporzioni è un altro elemento espressivo forte di questi linguaggi, che mina e compromette dall’interno l’eccesso di realtà dell’immagine e la rende appunto smisurata, non riconducibile alla sua reale dimensione oggettuale e perciò fruibile e dominabile. Per assurdo ciò che avviene è l’oggettivazione dell’uomo in un mondo che si rivendica non oggettivo, non mercificabile: in ciò risiede la forza del ritratto iperreale, nella sua efficace contraddizione interna. Il decentramento dell’uomo e la sua disumanizzazione sono le chiavi di lettura per il ritratto del Novecento, sia che si tratti dell’una sia dell’altra scelta stilistica: in ogni caso l’uomo è detronizzato dal suo ruolo e deve fare i con-
35
ti con tale condizione, questo almeno gli rivelano l’arte e la filosofia. Un caso limite nell’ambito dei linguaggi oggettivanti e iperreali, al punto da divenire surreale, è quello del pittore tedesco Konrad Klapheck26 che a partire dagli anni Cinquanta ha dipinto traslucide geometrie di iperboliche macchine celibi, come espressioni di sentimenti e veri e propri ritratti: la vittima, la nonna paterna, la fidanzata etc. La vita diventò la materia della quale mi nutrivo per servire l’arte … Decisi di creare un sistema utilizzando i temi della macchina per raccontare la mia biografia … Ho dipinto la macchina per creare l’eccezionale, per eternizzarmi in modo impareggiabile. Invece di tutto ciò, la macchina mi ha insegnato la vanità dell’esistenza e della mia stessa persona. Dovrei rimproverarglielo? Penso di no, perché prendere coscienza della vita significa sapere sopportarla. Le sue parole non sono molto lontane da quanto scriveva Simmel a proposito della disperazione cosciente cui l’uomo del XX secolo è destinato circa la possibilità di venir a capo delle ragioni del suo esistere. La macchina, l’oggetto, la definizione realistica delle cose e dell’uomo non sono alcune delle chiavi che aprono la porta della salvezza, mettendo l’uomo al sicuro nelle stanze dell’indubbia coscienza di sé e del mondo. Egli deve uscire nei pascoli impervi della vita e custodire l’essere, affrontando il rischio che ciò comporta, come Heidegger ricorda nella sua Lettera sull’umanismo da cui siamo partiti. Chiudiamo con un’immagine letteraria, nata alla fine del XIX secolo, ma che racchiude la premonizione di tale consapevolezza dell’uomo contemporaneo. Dal celeberrimo Dracula27 scritto da Bram Stoker nel 1897: ora che la pietra scolorita dal tempo, la malta incrostata di polvere, il ferro rugginoso e opaco, gli ottoni appannati e le argentature abbrunate, si riflettevano alla fioca luce di una candela … incontenibile era l’immagine che tutto ciò suscitava: la vita, la vita animale, non è l’unica cosa che trascorre.
36
M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1995. 2 Georg Simmel scrive qualcosa di analogo, con parole diverse, proprie della sua “filosofia della vita”: «Per il mio esserci io non sono che un luogo vuoto, un brandello strappato all’essere. Ma con ciò è anche dato il mio dovere e il mio compito, riempire questo luogo vuoto. Questa è la mia vita». G. Simmel, Diario postumo, a cura di Massimo Cacciari, Nino Aragno Editore, Torino 2011, p. 70. Per un’indagine approfondita del pensiero di Georg Simmel, in relazione alla tematica del ritratto, rimando al cap. 3 di Milena Cordioli, Il rapporto tra singolarità e universalità nel ritratto, Sentieri Meridiani Edizioni, Foggia 2012. 3 L’opera è conservata a Denzlingen, in collezione privata. Pubblicata in E. Karcher, Dix, Taschen, Colonia 2010, p. 16. 4 La valenza simbolica e la potenza espressiva del fumo non sono una novità che compare nell’Autoritratto di Dix: al 1895 risale il celebre Autoritratto con sigaretta di Edward Munch, preludio all’esplosione delle fiamme infernali che avvolgono il suo corpo, ormai denudato di qualsiasi orpello sociale (l’abito borghese come forma di difesa), nel suo Autoritratto all’inferno del 1903. L’inferno esistenziale del quotidiano ha preso il posto del compiacimento narcisistico tardobohémien. Edvard Munch. L’io e gli altri. Ritratti e autoritratti, a cura di Giorgio Cortenova e Arne Eggum, catalogo Verona Palazzo Forti, 15 settembre 2001 - 6 gennaio 2002, cat. n. 17, p. 182. 5 Nell’analisi successiva del Ritratto dell’amico Joseph Roulin e dell’ultimo Autoritratto di Van Gogh ritroveremo la stessa drammatica espressione d’incomunicabilità del proprio dolore: nel primo caso nella dialettica ascolto/parola (orecchio/bocca), nel secondo in quella sguardo/parola (occhio/bocca). Entrambi, paradossalmente, denunciando l’impossibilità di esprimere il proprio sgomento esistenziale, lo comunicano silenziosamente in pittura, con «inconfutabile», per citare Antonin Artaud, evidenza. 6 G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1999, p. 52. 7 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, a cura di Mauro Carbone, Bompiani, Milano 1993. 8 Più avanti sarà analizzato proprio l’Autoritratto con orecchio mutilo di Van Gogh, del 1889, il penultimo da lui dipinto. Come ben noto, la violenta lite con l’amico e compagno di sorte artistica Gauguin, avvenuta la notte del 23 dicembre 1888, ha come conseguenza per Van Gogh la mutilazione di un pezzo d’orecchio. Come siano andate realmente le cose, non è dato saper con certezza. Come scrive Francois-Bernard Michel nel suo libro dedicato agli ultimi anni di Van Gogh: «Di quella sera di Natale una sola cosa è indiscutibilmente certa: Vincent era angosciato da una delusione terribile, la fine di un sogno, quello di una comunità di amici legati dalla pittura». Francois-B. Michel, Il volto di Van Gogh. Il folle, l’artista, l’uomo, Garzanti, Milano 2001, p. 13. Ciò che conta in questa sede è il valore simbolico 1
37
38
assunto dall’evento nell’opera di Van Gogh, nello specifico nei suoi autoritratti, ribadito, come si vedrà, nel successivo omaggio di Bacon. 9 La versione qui presa in esame è quella oggi conservata presso il Kunstmuseum di Winterthur, in Svizzera. Pubblicata in Vincent Van Gogh: Arles, febbraio 1888 - Auvers-sur-Oise, luglio 1890, a cura di Ingo F. Walther, Rainer Metzger, Taschen, Colonia 1990, p. 468. 10 Van Gogh citato in F.-B. Michel, Il volto di Van Gogh. Il folle, l’artista, l’uomo, cit. 11 Il penultimo autoritratto di Van Gogh si trova oggi presso la Nasjonalgalleriet di Oslo. Pubblicato in Vincent Van Gogh: Arles, feb braio 1888 - Auvers-sur-Oise, luglio 1890, cit., p. 536. 12 A. Artaud, Van Gogh. Il suicidato della società, a cura di Paule Thévenin, Adelphi, Milano 2006. 13 Il dipinto è conservato presso il Göteborgs Konstmuseum, in Svezia. Pubblicato in La creazione ansiosa. Da Picasso a Bacon, a cura di Giorgio Cortenova, catalogo Verona Palazzo Forti, 13 settembre 2003 - 11 gennaio 2004, cat. n. 62, p. 77. Per un’ulteriore analisi dell’opera rimando alla scheda in catalogo, M. Cordioli, Omaggio a Van Gogh, p. 205. 14 Van Gogh dipinge due autoritratti con l’orecchio bendato: la versione cui si rifà Bacon è quella appunto con pipa, che si trova oggi a Chicago, in collezione privata, dipinta ad Arles nel gennaio del 1889. Pubblicata in Vincent Van Gogh: Arles, febbraio 1888 - Auvers-surOise, luglio 1890, cit., p. 478. L’orecchio ferito è in realtà il sinistro ma, guardandosi allo specchio per ritrarsi, Van Gogh rovescia la propria immagine (e, simbolicamente, la visione della realtà stessa), cosicché sulla tela ci appare essere il destro l’orecchio bendato. Nel penultimo autoritratto, del settembre 1889, qui analizzato, invece la ferita, senza benda, oramai cicatrizzata all’esterno ma ancora aperta nel l’anima, torna sull’orecchio sinistro: il “guanto” si rovescia per l’ultima volta. 15 Per una visione molto ricca dei numerosi autoritratti di Bacon si consiglia il volume di F. Borel, Bacon. Portraits and Self-Portraits, introduzione di Milan Kundera, Thames and Hudson Ltd, Londra, 1996; per un riferimento più preciso a quanto scritto nel testo ci si soffermi sui trittici degli anni Settanta, per esempio Tre studi per au toritratto del 1979, conservato al Metropolitan Museum of Art di New York, pubblicato alle pagine 140-43. Vedere inoltre Bacon, presentazione di David Sylvester, coll. I Classici dell’Arte - il Novecento, Rizzoli/Skira, Milano 2004, pp. 156-57. 16 S. Kierkegaard, Aut-Aut estetica ed etica nella formazione della personalità, Oscar Mondadori, Milano 2000. 17 G. Simmel, Diario postumo, cit. 18 G. Bertolino, Francesco Poli, Felice Casorati, catalogo ge nerale: i dipinti 1904-1963, U. Allemandi & C., Torino 1995. 19 Potremmo dire che ci troviamo nella condizione di chi è rimasto alle soglie di quel terremoto devastante che esplode nei linguaggi opposti: da Van Gogh a Bacon, analizzati nella prima parte del saggio.
20 Seppur reali in ogni dettaglio, dalle unghie ai capelli, alla peluria più sottile e alle imperfezioni meno visibili, non sono in fin dei conti dissimili dai manichini che popolano la Metafisica: “fantasmi concreti” dell’enigma del tempo e della vita. 21 Il ritratto si trova a Monaco di Baviera, presso la Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Staatsgalerie moderner Kunst. Pubblicato in E. Karcher, Dix, Taschen, Colonia 2010, p. 128. 22 J. Lacan, Scritti, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002. 23 Si veda come esempio il celebre Grande autoritratto del 1968, oggi conservato al Walker Art Center di Minneapolis. Pubblicato in K. Stremmel, Realismo, a cura di Uta Grosenick, Taschen, Colonia 2004, p. 41. 24 Anche Bacon «come ritrattista è un pittore di teste, non di volti», in G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, cit., pp. 51-52. 25 Riportato in R. Kanz, Ritratti, a cura di Norbert Wolf, Taschen, Colonia 2009, p. 92. 26 Per l’approfondimento della sua opera si rimanda a: Klapheck, presentazione di Arturo Schwarz (con contributi di André Breton, Annie Le Brun, Werner Schmalenbach), Gabrius, Milano 2002. 27 B. Stoker, Dracula, Oscar Mondadori, Milano 2007.
39
Il Grande Fiume del design italiano GIOVANNI CUTOLO
Oltre il prodotto
40
Il design italiano non può che trarre giovamento dalla crescente conoscenza e dalla susseguente maggiore accettazione e diffusione dei valori che caratterizzano la pratica del buon design, tanto da parte dei produttori quanto dei consumatori. Valori che devono essere intesi innanzitutto come alternativa progressista contro la pratica della copia e contro la perniciosa quanto preponderante tendenza a produrre per reiterazione, rifacendosi a collaudati stilemi e ripetendo continuamente le stesse cose, in una sorta di coazione a ripetere di stampo marcatamente regressivo e conservatore. Io credo che lo sviluppo internazionale del design italiano si possa meglio raggiungere spiegando agli altri ciò che caratterizza il design italiano; dobbiamo aiutare gli stranieri a capire ciò che ne rappresenta la vera e più caratteristica originalità. Dobbiamo far loro intendere che, per riuscire a ripetere i nostri successi, non devono guardare esclusivamente ai nostri prodotti, per poi magari copiarli, ma devono invece lavorare per riprodurre nei loro paesi un modello originale che, pur ispirandosi al “modello italiano”, riesca a riprodurlo, in contesti assai diversi, senza imitarlo pedissequamente e soprattutto senza limitarsi a imitarne soltanto i prodotti. La grande originalità del modello italiano è quella di
avere edificato un grande e duraturo movimento culturale, un vero e proprio “Sistema design” che è riuscito ad andare oltre i prodotti, senza peraltro negare l’importanza che essi hanno avuto e ancora continuano ad avere. Sappiamo bene che i prodotti sono i migliori ambasciatori e promotori di se stessi. Basti pensare all’enorme capacità di comunicazione della quale è depositaria la Collezione storica del Compasso d’Oro, con la sua raccolta di oggetti accumulati nell’arco di quasi sessant’anni, dal 1954 a oggi. Ma i prodotti, da soli, non sarebbero mai riusciti a trasformare il design italiano in quel fenomeno sociale, economico e culturale che il mondo intero contempla ammirato, invidiandocelo. Per perpetuare il successo del nostro design anche negli anni a venire, noi italiani dovremmo non solo continuare a impegnarci per esportare sempre di più i nostri prodotti in giro per il mondo ma, utilizzando tutte le nostre istituzioni pubbliche e private, dovremmo anche impegnarci alla diffusione delle ragioni che hanno consentito al design del nostro paese di diventare uno degli elementi caratterizzanti la cultura materiale e l’economia della nuova Italia. Tocca a noi spiegare che il successo del design italiano non è dovuto soltanto alla qualità dei suoi prodotti, quanto piuttosto al complesso reticolo di azioni convergenti che si è andato trasformando in un affascinante racconto, in quella narrazione che è l’essenza stessa della epifania laica costituita dal design italiano. Per ritrovare le ragioni del successo del nostro design occorre risalire agli elementi costitutivi del suo originale percorso e comprenderne le singolari e fortunate convergenze. Quello che è sicuro è che i prodotti non riescono, da soli, a spiegare le ragioni di questo singolare fenomeno, dato che di queste ragioni essi rappresentano esclusivamente gli esiti, i risultati finali, quelli visibili a tutti. Alle sorgenti del design italiano Il design italiano può essere paragonato a un grande fiume che si è andato formando nello spazio e nel tempo. Un
41
grande fiume la cui portata e il cui corso imponente si sono andati arricchendo grazie all’apporto di numerosi affluenti. Tra questi rami adduttori, quello dei designer, quello dei produttori e/o editori, quello dei distributori, quello degli addetti alla comunicazione, e poi quello della formazione e quello delle associazioni, che hanno contribuito a formare il Grande Fiume del Design Italiano, così come noi lo vediamo oggi. Dire se il design sia nato prima nella testa di un designer che è riuscito a incantare e sedurre un potenziale produttore, oppure nella testa di un produttore che si è poi posto alla ricerca di un designer è tanto difficile quanto stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina. Se mi si chiedesse di spiegare la nascita del fenomeno design nel settore dell’arredamento, mi verrebbe di rispondere che l’incontro tra mamma azienda e papà designer fu favorito dalla lungimirante intuizione di un prosseneta virtuoso come Dino Gavina, un sensale appassionato e geniale, di accoppiamenti e matrimoni tra business e cultura materiale. Dai quali nacquero poi innumerevoli pargoletti in forma di prodotti, quei prodotti di design che i distributori e i comunicatori, assumendosi il compito e il ruolo di tutori e promotori, aiutarono a diffondere e a far conoscere nel mondo intero. Sia come sia, i due principali affluenti sono certamente da individuare nel grande fiume dei designer e contemporaneamente in quello, non meno importante, dei produttori e/o degli editori. I designer
42
I primi designer sono, in larga maggioranza, intellettuali e architetti che si fanno carico di reinventare il paesaggio domestico e quello urbano, progettando e dando vita a quella “foresta artificiale” che l’homo faber è andato costruendo per integrare e sostituire la primigenia foresta naturale. Sono i designer a progettare i nuovi prodotti, ma anche ad avviare l’elaborazione di quella narrativa raffinata e colta che
è divenuta il tratto maggiormente distintivo del design italiano. Quella narrativa che, sin dall’inizio, si sviluppa a partire dai prodotti ma non si ferma a essi, aprendosi anche ai processi, ai materiali, ai modi d’uso, ai comportamenti, ai modelli di comunicazione e di consumo e via andando, nella intelligente costruzione di un “Sistema Design” fondato sulla parola e impegnato a definire e diffondere un nuovo e originale “linguaggio”. I produttori Il fiume affluente dei produttori e/o editori è guidato all’inizio da un pioneristico manipolo di capitani coraggiosi che trova nella fiducia per l’innovazione e nella comune passione per il cambiamento il terreno d’incontro con i designer. E dietro questi capitani coraggiosi una selva di piccolissime, piccole e medie imprese – i cosiddetti terzisti – competenti e intraprendenti, capaci di interpretare con entusiasmo il determinante ruolo di fabbricanti di parti componenti, ma anche quello di instancabili sperimentatori e realizzatori di forme innovative, utilizzando materiali e processi di avanguardia. Resta ancora da scrivere una storia del design italiano che riveli il ruolo determinante delle molte centinaia di queste sconosciute imprese “terziste” rimaste discretamente nell’ombra, ma che hanno però consentito al design italiano di raggiungere risultati altrimenti impossibili senza la loro fondamentale collaborazione. I distributori Altro apporto di grande momento quello offerto dai distributori, vale a dire da tutti gli addetti alla distribuzione e alla vendita. Tra costoro vanno ricordati innanzitutto quella manciata di negozianti pionieri che hanno saputo trasformare i loro spazi commerciali, normalmente destinati esclusivamente alla vendita, in vivaci luoghi aperti all’incontro con i prodotti offerti dalle aziende protagoniste antesignane
43
della nuova stagione. Showroom aperti alla nuova cultura materiale, interessati alla presentazione degli autori e dei designer e al dibattito sui nuovi prodotti di design; ma aperti anche alla presentazione di opere plastiche, letterarie e artistiche in genere. Esercizi normalmente destinati alla vendita, ma animati da questa innovativa disponibilità volta a evidenziare e comunicare al grande pubblico i valori culturali delle nuove merci e non soltanto quelli commerciali. Spazi commerciali capaci di adeguare le loro modalità di presentazione ai modi in uso nel mondo dell’arte, contribuendo in tal modo a dotare dei suoi riti e dei suoi miti, anche il mondo nuovo del design. Coraggio e spirito pioneristico, eclettismo e passione che hanno guidato anche molti addetti alla distribuzione o preposti ai servizi di informazione al cliente, dirigenti e quadri, agenti e rappresentanti, impegnati dalle aziende produttrici in altri ruoli, interni ed esterni. I comunicatori
44
C’è poi la comunicazione, all’inizio soprattutto quella dei mensili di architettura e di arredamento, ma poi anche quella dei libri e degli altri media che sviluppano, attraverso la parola scritta, ma anche con le immagini, quel discorso critico che da sempre accompagna e amplifica il design illustrandone le caratteristiche di fenomeno moderno e complesso, affacciato tanto sul mondo dell’economia quanto su quello della cultura. Questi comunicatori sono grafici, fotografi, allestitori di vetrine e di spazi espositivi, e poi giornalisti, critici, storici, insegnanti. Da sottolineare l’importanza comunicativa di taluni eventi divulgativi e promozionali che si sono andati sviluppando sino a divenire appuntamenti periodici come il Salone del Mobile di Milano, che ha superato i confini consueti tipici delle Fiere divenendo un movimento corale che durante quei giorni trasforma ogni anno la città in un grande spazio di comunicazione, un continuum dedicato a illustrare e promuovere gli ultimi progressi dell’innovazione e del design.
I formatori Di grande importanza il ruolo della formazione, che registra l’apparizione delle prime scuole di design nei primissimi anni sessanta e che cresce rapidamente con la costituzione nei maggiori atenei del paese dei Corsi di Design prima e delle Facoltà di Design a seguire. I formatori sono professori di ruolo ma anche professionisti – designer e architetti in maggioranza, ma anche esperti di mercato e di comunicazione – coscienti del fatto che non tutti i diplomati e laureati in Design da loro abilitati potranno trovare lavoro come designer. Ma fiduciosi del fatto che comunque si immettono sul mercato del lavoro ogni anno migliaia e migliaia di laureati che sanno cosa sia il design e che oltre a fare i designer potranno trovare lavoro nella comunicazione, nella distribuzione o all’interno delle aziende produttrici e che, al limite, potranno almeno utilizzare le competenze acquisite per divenire consumatori qualificati, edonisti virtuosi, persone capaci di effettuare scelte di acquisto avvedute. Va infine ricordata, last but not least, la funzione svolta – a cavallo tra formazione e comunicazione – da alcuni organismi come il Cosmit, organizzatore del Salone del Mobile di Milano, e dalle Associazioni come AIAP, AIPI e in particolare ADI, l’Associazione per il Disegno Industriale. Da quasi sessant’anni quest’ultima riunisce insieme come suoi soci, designer, produttori, distributori, ma anche giornalisti, insegnanti, critici e storici, scuole, università, enti e editori, mettendo insieme parti del sistema design che nel mercato vivono una dialettica di confronto talvolta anche vivace, mentre all’interno dell’Associazione hanno imparato a lavorare congiuntamente per lo sviluppo della loro comune passione e professione: il design. All’ADI (1956) si deve poi l’organizzazione del Premio Compasso d’Oro (1954) e la cura, gestione e conservazione dei prodotti premiati – oltre duemila pezzi in totale – che nel 2004 sono stati dichiarati “beni di interesse nazionale” e che vengono custoditi dalla Fondazione ADI Col-
45
lezione Compasso d’Oro (2001). Questa collezione si arricchisce poi, ogni tre anni, dei prodotti premiati con il Compasso d’Oro e di quelli insigniti della Menzione d’Onore. La cultura materiale a supporto di una economia aperta
46
Il design italiano è tutto questo. Non può pertanto essere rappresentato esclusivamente dai prodotti che ne rimangono comunque gli autorevoli ambasciatori silenziosi, nel grande mercato globale che è il mercato naturale di tutte le merci, anche di quelle di design. Il fascino discreto del design risiede nel fatto che il design è un linguaggio universale, comprensibile da tutti e ovunque, come la musica e come l’arte, come un bel panorama. Un linguaggio universale perché accessibile a tutti e comprensibile da tutti, anche se, ovviamente, non provoca in tutte le persone il medesimo apprezzamento e le medesime emozioni. Ai risultati economici raggiunti grazie alla internazionalizzazione del design italiano e comprovati dalla presenza dei nostri prodotti in tutti i mercati del mondo, deve adesso seguire il consolidamento della nostra leadership culturale, la sola in grado di garantirci il mantenimento di quella economica. L’affermazione e il riconoscimento della nostra leadership sarà possibile solo attraverso la diffusione delle articolate ramificazioni culturali che sono all’origine del fenomenale esito del design italiano. La cultura, anche quella materiale, non deve erigere barriere, ma deve piuttosto lottare per abbatterle, ovunque esse si trovino. Ecco perché dobbiamo spiegare che il Grande Fiume del Design Italiano si è sviluppato grazie al fatto che ha saputo andare oltre la pura e semplice manifattura dei prodotti. Ed è oggi più forte che mai, perché se i prodotti possono essere copiati, non è invece possibile riprodurre l’“Unicità d’Italia”, quella fantastica fusione di creatività diverse che ha visto il design italiano, proprio grazie alla sua “unicità”, essere eletto a simbolo ed emblema della nuova Italia e chiamato nel 2011 a celebrare, con due grandi mostre allestite a Roma, l’“uni-
tà” del paese in occasione del centocinquantesimo anniversario della sua fondazione. Come suggerito dal primo pannello, quello titolato Le Fonti, si può ipotizzare che esista una relazione tra la storia che si è svolta sul territorio italiano, anche nei secoli che hanno preceduto la sua unità politica (1861), e gli esiti del design nel nostro paese. Si tratta più che altro di una intuizione piuttosto che di una tesi riconosciuta e condivisa, una intuizione che meriterebbe forse di essere verificata da un lavoro di ricerca sul frammentato paesaggio estetico ed economico offerto dal nostro eccezionale paese. Materia per una interessante tesi di laurea o di dottorato in storia o in design. Resta ancora molto lavoro da fare per promuovere e diffondere i valori positivi del buon design italiano, che resterà italiano anche se sarà coniugato, come già avviene, da designer stranieri e fabbricato all’estero da produttori stranieri. Perché nella dialettica futura tra locale e globale si esporteranno sempre meno manufatti e sempre più conoscenza, realizzando in tal modo quella trasformazione necessaria per superare le anguste prospettive dell’attuale crisi economica e finanziaria, che è anche e soprattutto crisi di modelli e di valori. Dobbiamo impegnarci a favore di un mercato globale del futuro aperto alla conoscenza e dovremo batterci affinché questa conoscenza non si apra soltanto alla innovazione tecnologica ma anche a quella più sofisticata di un design da intendersi come il portabandiera di un neo-Umanesimo industriale e post industriale, portatore e promulgatore di valori estetici ed etici insieme.
47
48
Il grafico che segue è nato, dopo alcuni viaggi in Brasile e in Cina, nell’intento di mettere a punto uno strumento capace di facilitare la comunicazione e la spiegazione della complessa genesi del design italiano e della sua articolata struttura sistemica. Esso è stato immaginato come un murales di 7,20 metri, ottenibile con la sequenza di otto pannelli ciascuno di 90 × 180 h centimetri, montati a 20 cm da terra. Ovviamente le dimensioni potrebbero essere cambiate così come potrebbe essere diverso l’utilizzo (p.es. un pieghevole a stampa o una slide da proiettare). Lo scopo, dichiaratamente ed evidentemente esemplificativo, è quello di illustrare il sistema design italiano onde renderlo comprensibile con più facilità. L’autore non ha assolutamente inteso rappresentare una classifica né tantomeno una graduatoria stilata in base ai meriti di questo o di quello e si assume tutta intera la responsabilità delle probabili lacune, scusandosi con tutti coloro, persone, aziende o istituzioni, che la sua fallace memoria e i limiti di spazio non gli hanno consentito di menzionare.
Libri, riviste e mostre
La Città Nuova oltre Sant’Elia. Cento anni di visioni urbane (1913-2013), a cura di Marco De Michelis, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo Milano 2013. «Per architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito. Da un’architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi». Questi gli ultimi due punti con cui Antonio Sant’Elia chiude il suo Manifesto dell’Architettura Fu turista, pubblicato l’11 luglio 1914. Proclami che meglio di altro chiariscono quanto l’ineffabilità sia alla base della serie di di-
segni intitolati La Città Nuova e allora esposti nella mostra milanese di Nuove Tendenze dall’architetto comasco. La velocità e la corsa contro il tempo che guidavano il movimento futurista furono tradotte nel manifesto in un vorticismo antistorico che travolse ogni permanenza e qualsiasi soluzione tangibile per la trasformazione urbana, compresa la propria proposta, perché «ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città», concluse Sant’Elia, acquisendo emotivamente e reinterpretando in chiave architettonica le teorie e le esperienze delle avanguardie artistiche. Sopraffatti dall’imperante processo di industrializzazione che aveva soffocato la città nel corso dell’Ottocento, si apriva per gli architetti una stagione eroica di rottura e di rinnovamento culturale contro la tradizione e la consuetudine accademica. Sperimentazioni, visioni e utopie prendono sempre più
49
50
corpo e impegnano numerosi architetti a uscire fuori da una crisi significativa della professione, proiettando verso il futuro il tema ineludibile della nuova forma urbana, se non anche a scala maggiore. Sempre nel 1914, infatti, Paul Scheerbart scriveva in Glasarchitektur: «La superficie della terra cambierebbe moltissimo se l’architettura di mattoni venisse eliminata e ovunque sorgesse al suo posto l’architettura di vetro». Una rincorsa verso la luce, una fiducia verso il progresso tecnologico e un auspicio di alleggerire che non mancherà di avere ripercussioni sul l’Alpine Architektur di Bruno Taut e sull’Espressionismo tedesco. Prendendo avvio dal Fondo Antonio Sant’Elia, il più consistente e importante nucleo di disegni dell’architetto custodito presso la Pinacoteca Civica di Palazzo Volpi, è in corso a Como presso Villa Olmo una mostra a cura di Marco De Michelis, prima iniziativa di un progetto concepito in tre tappe che si svilupperanno nel prossimo triennio. L’esposizione illustra e offre lo spunto per analizzare un secolo di visioni urbane attraverso cento opere, alcune inedite, tra dipinti, modelli, filmati, installazioni di artisti, architetti e registi. Testimonianze di un secolo in cui si succedono ininterrottamente continue visioni urbane, di cui la Città Nuova rappresenta l’incipit in-
ternazionale e ora sottoposte a una rilettura critica. Una particolare attenzione al contemporaneo che è possibile riscontrare in diverse mostre e pubblicazioni, in cui è evidente una ricontestualizzazione, nata da una rinnovata prospettiva storica dopo la caduta del Muro di Berlino, che non ha mancato di influire sulle diverse storiografie dell’architettura. Il catalogo si avvale di diversi contributi critici sulle opere in mostra, ricchi di stimoli per l’interpretazione delle teorie e delle storie della città contemporanea. Architetti e artisti che hanno reagito diversamente al problema ineludibile del governo della trasformazione urbana, manifestando tutto il loro disagio verso una soluzione che non può essere né immediata né prevedibile. In sintesi, Esther da Costa Meyer contestualizza l’ambiente culturale in cui prende forma e si sviluppa sin dalle origini la fortuna della Città Nuova, che trova la sua forza nella retorica «sia virtuale che verbale, […] libera dalla tradizione e dagli strumenti della professione, e ancor più adatta a sopravvivere nel futuro, perché mai verificata, dunque immacolata». Antonello Negri e Antonio Costa analizzano rispettivamente la relazione tra la visione futurista di Sant’Elia e La città che sale (1910) di Umberto Boccioni e Metropolis (1927) di Fritz Lang. Anna Rosellini ripercor-
re la storia della Ville Contem poraine, «la prima grandiosa natura morta concepita da Le Corbusier», poi messa a punto con Pierre Jeanneret e presentata al Salon d’Automne di Parigi nel 1922. A questa fa da contraltare Broadacre City, proposta urbana di Frank Lloyd Wright teorizzata per la prima volta nel 1932, il cui progetto «permetteva di attirare l’attenzione del pubblico e di collegare architetture concepite in maniera autonoma», come sottolinea Jean-Louis Cohen in riferimento al libro The Living City (1958), di cui la mostra ospita il modello ligneo costruito da George Ranalli nel 1997. Ai saggi sulle sperimentazioni del primo Novecento fanno seguito quelli sulla seconda metà del secolo, in cui si incontrano opere che reinterpretano in chiave artistica le teorie delle avanguardie e le nuove utopie urbane, legate da quella potenza delle immagini che precedono la costruzione del racconto e di cui si fanno manifesto. Quindi, Aya Lurie illustra la videoinstallazione Things to Come, 1936-2012 (2012) di Jan Tichy, con cui si evoca la ‘città del futuro’ immaginata e ritratta da László Moholy-Nagy, la quale «getta uno sguardo dal cuore dell’era virtuale-digitale verso la prima metà del Novecento […] e proietta sulla nostra epoca un debito e uno smarrimento nei confronti delle nuove tecnologie».
Proprio sull’aspetto propriamente tecnologico si concentrano i restanti contributi, con cui l’ineffabile prende sempre più corpo negli anni in cui si avvia l’inarrestabile sviluppo della computerizzazione. A cavallo tra i due mondi è New Babylon, vasto progetto del poliedrico artista olandese Constant Nieuwenhuys e sviluppato tra il 1957 e il 1972, in cui «la forma urbana diventa una sorta di clima», come afferma Mark Wigley. Manuel Orazi analizza l’interesse per le abitazioni temporanee di Yona Friedman, le cui idee circolarono prima attraverso un ciclostilato spillato privatamente tra il 1958 e il 1963 e poi nel libro L’architec ture mobile, vers une cité con çue par ses habitants nel 1970. I principi dell’architettura mobile confluiranno velocemente nei lavori delle neoavanguardie dell’architettura radicale. Più di tutti gli Archigram auspicavano la riscoperta del Futurismo e, allo stesso tempo, anticipavano le tematiche del l’high-tech, non senza tradire l’influenza dei fumetti e della corsa alla conquista dello spazio, ancora guardati con qualche diffidenza dalla maggioranza degli architetti più tradizionalisti in quegli anni di forte contestazione. Come Sant’Elia, Peter Cook sottolineava il carattere transitorio dell’architettura, corredando i progetti sulla sua città con annotazioni sulla durata dei suoi componenti. In
51
52
tal senso, «Plug-in City – dice Simon Sadler – evidenziava le qualità più intangibili dell’esperienza architettonica (come il movimento, il divertimento e il consumo), come un mezzo per trovarne la più drammatica messa in scena». In Italia, gli Archizoom Associati e Superstudio portano alle estreme conseguenze il rapporto conflittuale con la storia, percepito come una zavorra di cui liberarsi per procedere diversamente dalle consuetudini lavorative della professione, trait-d’union delle utopie del Novecento. Roberto Gargiani nota quanto il processo di definizione della No-Stop City (1970) abbia dapprima puntato «a ottenere il grado zero della forma urbana, che gli Archizoom individuano nella sostituzione della griglia di strade e isolati con un piano continuo, illimitato e indefinito come un “campo neutro”, per poi procedere nell’immaginare le forme di vita rese possibili da quel particolare piano». Gabriele Mastrigli, invece, ricorda il potere esplorativo del Monu mento Continuo (1969), da cui emerge «un qualcosa che sfugge alla ragione e che, tuttavia non può essere affrontato altrimenti, tramite un’esaltazione della ragione attraverso la quale meditare sui limiti della ragione stessa». In anni più recenti, è emersa con maggiore evidenza la questione della identità e della riconoscibilità dell’architettura
contemporanea, caratterizzata dalla internazionalizzazione dei linguaggi e dalla smaterializzazione degli spazi della socialità. Peter Pakesch si sofferma con acume sulla costruzione di Piz za City (1991-1996), «una reazione alla vita di Los Angeles» come la definisce lo stesso autore Chris Burden, la cui complessità richiama alla mente altre realizzazioni, come il Merz bau di Kurt Schwitters. Second life è un fenomeno in cui risalta ancora di più la dimensione virtuale della realtà odierna e l’artista cinese Cao Fei lo esemplifica chiaramente in RMB City (2009), «di fatto costruita con le miniature della città “già vecchia”», mettendo a nudo le contraddizioni di un’architettura che va in pezzi, in quanto «cresciuta secondo logiche e piani di sviluppo surreali e completamente alternativi alla pianificazione urbana di tradizione moderna, ma piuttosto legata alla navigazione sui media, e alla cultura visiva da “melting pot”». Infine, Joseph Grima chiude con la Città vo lante (1928) di Georgij Tichonovic Krutikov, a cui lavorò a partire dal 1914, cioè l’anno in cui Sant’Elia espose la sua Cit tà Nuova a Milano. L’architetto russo «fu tra i primi a reclamare lo spazio come territorio di pratiche sperimentali nelle quali l’arte e l’architettura […] potessero operare liberamente». M. V.
Louis Kahn: The Power of Ar chitecture, Vitra Design Museum, 9 marzo-25 agosto 2013, a cura di Jochen Eisenbrand e Stanislaus von Moos. Catalogo edito da Vitra Design Museum, Weil am Rhein, 2013. Per alcune persone vicende private e pubblici destini tendono a intrecciarsi, anche solo per via indiretta. In un certo senso è stato il caso di Louis Kahn, il cui miglior ritratto professionale, probabilmente, è rappresentato dal racconto personale girato dal figlio Nathaniel a trent’anni dalla sua morte (My Architect, 2003); non tanto, però, per la descrizione del l’uomo privato, quanto per quella di un percorso postumo di avvicinamento, attraverso le sue opere, a un padre schivo e distante, quasi sconosciuto. La ricerca di un punto di riferimento, di un’identità chiara, che ricorda quella intrapresa da una parte della cultura architettonica del secondo Novecento – tra il fallimento dei CIAM e le nuove formulazioni metodologiche della fine degli anni Sessanta – giunta al bivio tra continuità e crisi nei confronti di una tradizione «senza padri». Kahn, infatti, malgrado un cor pus di opere limitato a una carriera di poco più di quindici anni e una produzione teorica tutt’altro che accessibile, ha rappresentato il soggetto di un processo di agnizione inversa
per tutta una generazione di architetti in cerca di natali d’elezione. Una paternità, anche in questo caso, non sempre consapevole, quando non apertamente riluttante. Jaap Bakema, per esempio, che in una lettera del 1962 ad Alison Smithson lo definì «il padre del Team X», vide in lui il promotore di un tentativo di riforma culturale che, in realtà, non aveva mai pensato di innescare; Robert Venturi, dal canto suo, gli attribuì il merito, da lui spesso disconosciuto, di aver iniziato il superamento del metodo Moderno (Complexity and Contradiction in Architecture, 1966); Aldo Rossi, invece, nell’introduzione al trattato di Etienne-Louis Boullée (Architettura: Saggio sull’arte, 1967), in lui riconobbe il tramite di un razionalismo di matrice illuminista che solo parzialmente si adattava alla sua opera. Kahn, in un certo senso, ha rappresentato ognuna di queste figure, ma non solo; e comunque non intenzionalmente. La sua esperienza architettonica ha costituito un caso unico e personalissimo nell’architettura del XX secolo, in cui si sono trovati a convivere innovazione tecnologica e tradizione, monumentalità e contestualismo. E sono state proprio la ricchezza dei suoi riferimenti disciplinari, la chiarezza sintetica con cui ha saputo dosarli e la sua ritrosia nel seguire o fondare scuole di pensiero a farne, an-
53
54
che dal punto di vista della fortuna critica, il fenomeno più significativo della transizione fra il Moderno e la situazione postmoderna. Ogni lettura della sua opera è sempre stata una sorta di esegesi, destinata a rinvenire nuove relazioni tra presente e passato; e in quasi cinquant’anni, la cultura architettonica, da Vincent Scully a Kenneth Frampton, ha progressivamente composto un mosaico di micrologie costantemente in bilico tra confronti incrociati: Lodoli e la scuola BeauxArts, Piranesi e Boullée, Le Corbusier e Van Eyck. Paradossalmente, ogni racconto su Kahn ha rappresentato un’opera di contestualizzazione temporale in grado di dire molto di più dell’ambito culturale in cui è nata che del suo soggetto. Così, se la prima mostra a lui dedicata (Dokumentation Arbeits prozesse, ETH Zürich, 1969) era focalizzata sulla riforma del metodo compositivo modernista, la seconda, la grande retrospettiva curata da David De Long e David Brownlee (In the Realm of Architecture, Los Angeles Museum of Contemporary Art, 1992) era implicitamente – anche se non volutamente – dedicata alla celebrazione del primo maestro postmoderno. Nemmeno oggi, la mostra organizzata dal Vitra Design Museum, in collaborazione con gli Architectural Archives del l’Università della Pennsylvania e il Nederlands Architectuurin-
stituut, riesce a sfuggire a questo destino in qualche modo «strumentale», ma prova a renderlo esplicito anche nella sua struttura, sommando diversi punti di vista. La retrospettiva, infatti, che espone il più vasto assortimento documentario mai raccolto in merito, non è tanto una mostra su Kahn, quanto una mostra sulle ricerche aperte a proposito della sua opera. Per questa ragione l’esposizione si basa sull’articolazione quasi esclusiva del materiale d’archivio – modelli in scala, schizzi di studio e tavole di progetto – in sei sezioni tematiche piuttosto eterogenee, corredate da due videoinstallazioni e dai ritratti fotografici di Thomas Florschuetz. L’unico filo conduttore è rappresentato dal l’allestimento di Dieter Thiel che, negli spazi ristretti del museo progettato da Frank Gehry, gioca con l’estetica dell’accumulo ricostruendo gli interni di un grande atelier, in cui l’accostamento di libri, disegni e quadri vive di relazioni inaspettate. Così come inaspettate sono, quasi sempre, le tematiche affrontate, o almeno il loro sviluppo teorico. La prima sala apre la mostra con una questione insolita per la storiografia su Kahn, quella propriamente urbana. In questa lettura la città – il laboratorio urbano rappresentato dalla Philadelphia dei primi del Novecento – è la dimensione della sua infanzia, della sua forma-
zione accademica e dei suoi primi esperimenti, il luogo dove un bambino, camminandovi attraverso, può vedere qualcosa che gli dirà cosa vuole fare per il resto della sua vita (Louis Kahn, catalogo della mostra, p. 273). Ma è anche la dimensione meno riconciliata, dove è più difficile rinvenire un approccio personale in equilibrio fra i suoi maestri; fra la visione urbana di Paul Cret e del movimento City Be autiful e l’estetica ingegneristica del modernismo. La stessa estetica che permea la sezione dedicata al rapporto con la scienza, fisicamente dominata dal modello in legno alto quattro metri del progetto per la Ci ty Tower di Philadelphia (1952). Un tema pretestuoso, se si esclude il progetto per il Richards Medical Research Building (1957), il cui sviluppo planimetrico dovrebbe richiamare la forma di un processo di aggregazione cellulare; la selezione dei progetti – come la Yale Art Gallery (1951) o la Exeter Library (1965) – e del corredo iconografico di questa sezione sembra, infatti, dispiegare maggiormente il discorso sull’influenza che l’elementarismo geometrico di Josef Albers e gli studi tecnologici di Richard Buckminster Fuller – entrambi suoi colleghi all’università di Yale – hanno avuto su queste prime architetture istituzionali. Davvero preziosa risulta, in-
vece, la sezione dedicata all’architettura domestica di Kahn, sia per i materiali esposti – come il modello al vero di una porzione della Fisher House (1960) – sia per i temi trattati, che in genere vengono reputati pertinenza esclusiva della disciplina degli interni. Quello che sembra emergere è un’idea di flessibilità basata sul rifiuto di ogni predeterminazione funzionale che, però, non rinuncia a una ricca articolazione formale; è la riattualizzazione di alcuni topoi classici degli interni, come il muro abitato; ma è anche l’attenzione al dettaglio costruttivo che coniuga il razionalismo internazionale con la tradizione artigianale del l’American Arts and Crafts Movement e della comunità Shaker. Il tutto attraverso una serie di progetti di singole abitazioni – come la Goldenberg House o la Esherick House (1959) – che raramente trova spazio nelle pubblicazioni di architettura. Il discorso si fa, invece, più faticoso nel passaggio fra casa e insediamento. Non il discorso di Kahn, che prende coerentemente forma dall’identità fra la strada e la piazza, ma quello dei curatori che hanno deciso di affrontarlo attraverso il tema dell’assemblaggio e con un paragone diretto all’opera di Aldo Van Eyck. E qui la lettura diventa opinabile non perché non esistano delle similarità nell’uso comune di forme archetipiche, ma
55
56
perché la logica della loro composizione deriva esplicitamente dall’idea di articolazione, che dell’assemblaggio è l’esatto opposto. Le ultime due sezioni, infine, trattano temi più consolidati della poetica di Kahn, riallacciandosi alla sua interpretazione più classica. Una riprende l’idea del «passato come amico» declinandola in una sorta di estetica «operativa» della rovina molto lontana dalle teorie romantiche; un’interpretazione in grado di strutturare una sorta di forma atemporale di composizione volumetrica basata sul l’erosione quasi naturale di una massa compatta, che sembra accomunare i suoi schizzi dei resti archeologici romani – realizzati nel 1950 durante un periodo di residenza all’Accademia Americana – e i modelli di studio per il parlamento di Dhaka (1962). L’ultima sezione, supportata quasi esclusivamente da una serie di schizzi inediti, mette a fuoco l’uso degli elementi naturali nel suo processo compositivo, alludendo all’influenza che l’amico paesaggista George E. Patton dovette esercitare su di lui, in particolare per i progetti del Salk Institute (1959) e del Kimbell Art Museum (1966). Probabilmente, però, ciò che rappresenta meglio la struttura e lo spirito di questa mostra sono le due videoinstallazioni, il documentario del figlio e una sequenza di interviste sul signi-
ficato che l’opera del padre ha rivestito per tutta una serie di architetti contemporanei, da Frank Gehry a Renzo Piano, da Mario Botta a Herman Hertzberger. Ognuno con un ricordo diverso, ognuno a riproporre una specie di destino frattale nell’avvicinamento alla sua architettura e alle sue idee, come pura ricerca personale; come continua attribuzione di senso alle parole di un maestro riluttante. E la mostra, per rappresentare quel maestro, rappresenta questa ricerca, la sua relatività e la sua intenzionalità; moltiplicando le chiavi di lettura di una composizione storiografica che tenta di mettere assieme percorsi trasversali, microstorie, sezioni inesplorate e significati diversi. Così, contro ogni pretesa di giungere a una nuova definizione sintetica del l’opera di Kahn, la mostra si limita ad aggiungere alcune tessere a quel mosaico composito che, in fondo, rappresenta ancora il suo miglior ritratto. J. L.
Marc Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino 2012. Dieci anni fa la casa editrice Bollati Boringhieri pubblicò la traduzione italiana di un agile volume che l’antropologo ed etnologo Marc Augé aveva consacrato al senso del tempo (2003, Le Temps en ruines,
trad. it A. Serafini Rovine e ma cerie). Augé sosteneva che gli antropologi sono «in equilibrio, fra passati molto remoti e un futuro incerto», dal momento che sotto i loro occhi si trovano simultaneamente «un campo di rovine», di cui devono comprendere l’ordine iniziale, e «un cantiere», di cui devono immaginare l’evoluzione. Le rovine, e il loro passato, sovrapposte a un cantiere, e al suo futuro, descrivevano sinteticamente e metaforicamente un dilemma epistemologico, che seppur rivolto agli antropologi, non poteva non esercitare un suadente richiamo sugli architetti, grazie anche all’implicita assonanza con l’Angelus Novus di Walter Benjamin. La fortuna di un testo di Augé nel campo del progetto architettonico e urbano non era, per questi motivi, una novità nemmeno nel 2003. Da antropologo attento ai mondi contemporanei, Augé aveva fatto irruzione nel dibattito architettonico fin da 1992, l’anno di uscita della versione originale di Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmo dernità (1996, trad. it di D. Rolland). Presidente de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi dal 1985 al 1995, Augé ha sempre praticato un attento presidio dei confini disciplinari, ma ha anche coltivato il gusto di osservare da vicino le linee di faglia tra
diversi saperi da cui sprigionano potenti energie intellettuali; energie rivelatisi feconde anche per Fernand Braudel e Jacques Le Goff, suoi predecessori al l’EHESS. Da questa stimolante e complessa posizione Augé non ha mai smesso di rivolgere uno sguardo attento, e per questo coerentemente ricambiato, verso l’architettura e la città contemporanea. Le ragioni di questa fertile relazione si spiegano con la chiarezza con la quale Augé ha collocato al centro della sua vasta produzione scientifica e letteraria i concetti di spazio e di tempo e il complesso transito che questi compiono nella contemporaneità. I titoli della sua produzione letteraria recente ne sono testimonianza. Augé si è dedicato allo spa zio (attraverso il filtro del tem po) riflettendo sull’instabilità dei confini (2007, Tra i confini: città, luoghi, integrazioni, Milano, Bruno Mondadori e 2010, Per un’antropologia della mo bilità, Milano, Jaca Book), tessendo l’elogio delle virtù democratiche ed ecologiche della bicicletta (2009, Il bello della bicicletta, Torino, Bollati Boringhieri), riconoscendo nella metropolitana il vettore privilegiato della contemporaneità (2009, Il metrò rivisitato, Milano, Raffaello Cortina). Con altrettanta cura si è dedicato al tempo (attraverso il filtro dello spazio) ponendosi pressanti interrogativi scaturiti da implici-
57
58
te negazioni delle aspettative comuni (2009, Che fine ha fat to il futuro?: dai nonluoghi al nontempo, Milano, Eleuthèra) o descrivendo nuove forme di nomadismo metropolitano attraverso un genere letterario di sua invenzione, l’etnofiction (2009, Diario di un senza fissa dimora, Milano, Raffaello Cortina). Futuro è l’ultima fatica di Augé (2012, traduzione italiana di C. Tarantini). Messosi sulle tracce del «presente in movimento» con il testo del 2008, l’autore approfondisce qui la sua ricerca indagando i modi con i quali le società contemporanee hanno tradito il significato del pro-gettare, rinunciato all’idea di riscatto e alimentato ansie, timori e paure. Per Augé il mito del futuro, speculare a quello delle origini, deve essere costantemente alimentato, solo in questo modo è possibile sfuggire alle visioni precostituite, che fissano il tempo della storia e ne impediscono il cambiamento. Il testo esprime una tesi che viene fatta coincidere con un programma educativo basato sul l’esempio offerto dalla scienza contemporanee: bisogna rivolgerci al futuro senza proiettarvi le nostre illusioni, dar vita a ipotesi per testarne la validità, imparare a spostare progressivamente e prudentemente le frontiere dell’i gnoto. Futuro ha una struttura ricorrente nei libri di Augé. Vi si
trovano echi autobiografici (le esperienze da «etnologo di soggiorno», la condizione di «viaggiatore nel tempo»), la critica senza quartiere ai miti contemporanei (la comunicazione, la tecnologia, il mercato) e l’approfondimento dei contributi offerti al dibattito attuale da grandi figure della cultura francese (in questo caso Sartre e Flaubert). L’autore alterna lunghe dissertazioni (come le pagine dedicate alla «messa in intrigo») a brucianti paradossi (la modernità è ancora da conquistare e siamo nel bel mezzo di una crisi di cui sbaglieremmo a trascurare la dimensione ideologica). Nei capitoli centrali del libro, Augé tratta direttamente questioni che riguardano l’arte, l’architettura e la città contemporanee. Passando in ricognizione le «nuove paure» (cap. 5) l’auore mette in evidenza gli effetti di alcuni «cambiamenti di scala». Il primo è di natura «estetica e culturale». Il pianeta si urbanizza, si attrezza, si riorganizza e, parallelamente, il paesaggio urbano si trasforma in maniera radicale: le grandiose architetture delle downtowns americane e dei quartieri d’affari europei perennemente illuminati ne sono i simboli. Teatro di «nonluoghi empirici» il «contesto» assume perciò una dimensione esclusivamente «globale», al cui interno si inscrivono «le osservazio-
ni locali». Questa relazione di reciprocità lega indissolubilmente i destini del capitalismo globalizzato a quelli dell’ecologia. Il secondo cambiamento di scala è di tipo «fisico e metafisico». Ha per protagonisti la «metacittà virtuale» (le megalopoli del mondo, le reti di scambio, di comunicazione e di informazione che le collegano, descritte da Paul Virilio) e l’«immagine di marca» (patrimonio dell’umanità, capitale culturale europea, sede delle Olimpiadi o di campionato del mondo) che ne sostiene il ciclo immobiliare anche grazie alla firme apposte sui suoi simboli dalle star dell’architettura. Mentre sperimentiamo il «primato dell’istantaneità e dell’ubiquità» e il «tempo reale uccide lo spazio reale» (altre formule care a Virilio, citate in Futuro) il grande pubblico ha la sensazione che «in arte così come in architettura tutto si assomigli». Secondo Augè, infatti, le forme dell’arte contemporanea, proponendoci ciò che vediamo ogni giorno, ci disturbano: trasformano gli oggetti comuni e familiari in oggetti di riflessione e, di conseguenza, non sublimano il reale ma lo sovvertono, contribuendo così all’interiorizzazione dei dubbi e delle paure. Il riconoscimento di intrinseche debolezze nel rapporto
tra il pubblico e le arti e la crisi di sistema derivata dalla constatazione che il «mondo è piccolo» offrono lo spunto per riflettere senza alibi intorno al concetto di «innovazione» (cap. 6) e al suo costituirsi come «fatto sociale totale» (secondo la celebre definizione di Marcel Mauss). Coniato da Joseph Schumpeter nel 1912, il termine innovazione descrive l’inserimento dell’invenzione nel circuito sociale, nel regime giuridico e nelle attività economiche. Al centro di questa triplice introduzione si colloca la trasformazione di un’idea in un oggetto reale (invenzione) e quindi la sua diffusione nella società sotto forma di prodotto (innovazione). A favore dell’irresistibile successo di questo concetto la società globalizzata mobilita svariati argomenti: l’elogio della diversità, della partecipazione, dell’interdisciplinarità, della relazione tra l’ambito tecnico e sociale, della ricerca, della formazione continua. Ne deriva una vasta opera di sostituzione del senso (per l’autore del tutto affine alle pratiche magiche) alla fine della quale «il mondo delle imprese avrà preso il posto del mondo tout court». Le implicazioni di queste affermazioni nel campo del design sono evidenti anche se Augé si astiene dal praticare affondi sul tema. L’oggetto delle sue critiche resta il contesto generale nel quale si innovano i
59
60
prodotti e i processi: la «globalizzazione». Abbiamo tutti la sensazione di essere colonizzati ma non sappiamo da parte di chi, se non che si tratta di entità dall’apparenza astratta ma dall’azione terribilmente concreta, il mercato, la borsa, la crisi, la crescita, l’occupazione, gli investitori e gli agenti economici. Per Augé si tratta di «entità», che «hanno sostituito il destino o il fato» e che l’autore contesta con argomenti che si possono utilmente opporre a tesi come quelle espresse da Rem Koolhaas (2006, Junkspace, Quodlibet, Macerata). Stretta in un campo d’azione reso angusto dalle sue stesse osservazioni, la vocazione progettuale di Augé si manifesta attraverso una «scommessa» («per il futuro», cap. 7) e «un’utopia» («della conoscenza», cap. 8). Entrambe contribuiscono a identificare come modelli esemplari le comunità scientifiche autenticamente senza frontiere e concretamente collaborative (l’autore porta ad esempio il CERN di Ginevra e il Fermilab di Chi cago). Nonostante la rapidità con cui giunge alla propria meta, il «programma educativo» di Augé non soffre di ingenuità e prende le mosse da due constatazioni. La prima riconosce che «la scienza si sviluppa a ritmo accelerato» e che «la nostra immaginazione non riesce a rappresentarsi quale sarà il suo
futuro»; la seconda che «le disparità sul piano scientifico sono ancora più considerevoli di quelle economiche». Si tratta di ulteriori «paradossi della mobilità spaziale e temporale», derivati dall’accelerazione delle conoscenze, delle tecnologie di comunicazione e del mercato, che rende omogeneo il «mondo-città» e frammenta le «città-mondo». Questo duplice volto dei processi di urbanizzazione esprime una verità sociologica e geografica infinitamente più complessa rispetto all’immagine della globalità senza frontiere che serve da alibi per alcuni e da illusione per altri. Per Augé non è casuale che le nostre città più spettacolari fanno sempre più pensare alle navicelle spaziali della fantascienza o alle strutture che, un giorno ancora lontano, l’uomo costruirà su altri pianeti. È come se, ormai, ci sforzassimo di predisporre le scenografie per i nostri incontri futuri. La questione posta da Augé è se queste fantasmagorie siano rappresentative di un modo coerente di «prendersi cura dello spazio» e di «riprendersi il proprio tempo»: la fuga solo apparente da un passato troppo profondo e radicato da sola potrebbe non bastare a mettere in moto il presente verso più legittime aspirazioni. A. G.
M. Raitano, Dentro e fuori la crisi Percorsi di architettura italiana del secondo Nove cento, Libria, Melfi 2012. Da più parti si continua ad indagare sulla crisi dell’architettura italiana: numerose e recenti pubblicazioni, dal denominatore comune, pur articolate con artifici diversi, cercano di sviluppare tematiche legate al divario sempre maggiore tra l’architettura e la società, alla crisi che caratterizza la disciplina, alle possibili strade da percorrere per l’auspicata risoluzione. Tali quesiti vengono affrontati da Leonardo Benevolo nel recente volume L’archi tettura nell’Italia Contempora nea, da Carlo Olmo in Architet tura e Novecento. Diritti, con flitti, valori da Eric J. Hobsbawm che nel Il secolo breve, in qualche modo segna l’incipit della questione. Come ha notato Massimo Visone, in una recensione al libro di Olmo pubblicata su questa rivista, (n. 140 del gennaio 2011) l’autore statunitense ha reso inevitabili riletture critiche per le diverse specificità storiografiche, che, nel caso della storia del l’architettura, si sono concentrate sulle origini della radicale trasformazione della produzione in età contemporanea. Guidata dagli stessi intenti, pur trascurando Hobsbawn, Manuela Raitano imposta il suo recente libro con una struttura chiara e distinta in due parti
ben articolate con capitoli caratterizzati da una efficace sintesi. Nella prima, definita Le ragioni della crisi. Questioni Generali scrive: il tema della crisi, intorno al quale questo lavoro si spiega per coglierne le ragioni e superarne i limiti, non è nuovo nel dibattito che ha riguardato l’architettura italiana del Novecento; in particolare, esso si è imposto in due momenti storici: nel periodo compreso tra i due conflitti mondiali e nell’immediato secondo dopoguerra. Cosi attraverso richiami a Eduardo Persico a scritti di Ernesto N. Rogers su Casabella, di Giò Ponti su Domus, di Bruno Zevi, affronta la messa in crisi piuttosto che la “messa in scacco” come stimolo a valutare possibilità operative differenti dalla strada segnata dal Movimento Moderno. Si interroga ancora sui temi della crisi prima e dopo la guerra, sulla condizione superflua dell’architettura italiana, sugli anni ’90 e sull’affondamento della cultura architettonica, e si chiede se esista davvero un’architettura nazionale. L’Italia, rimanendo attaccata strenuamente a un’idea di unicità e intangibilità della sua storia, si arroga un falso primato che non fa onore alle sue tradizioni; chi potrebbe infatti negare che Parigi – o Londra o Berlino – abbiano un’identità? C’è dunque una profonda malafede in noi italiani quando ci
61
62
sentiamo portatori di una tradizione che non ha eguali, da cui emerge che questo nostro sentirci speciali tradisce solo il fallimento di un’ipotesi di modernità per il nostro paese. Pertanto non si può né si vuole, in questa sede, riprendere il discorso sull’architettura italiana a partire da un’idea di identità intesa come sostanza storica; per sua natura, questo genere d’identità è accentratrice, come è confermato dalla stessa nozione di periferia come di ciò che è fuori dal centro. La Raitano si avvale nella sua tesi di un recente contributo storiografico di Franco Purini, del 2008, La mi sura italiana dell’architettura nel quale l’autore cerca di tracciare il profilo di un’identità sovra-storica della nostra architettura, ma tralascia due fondamentali contributi al dibattito e segnatamente quello di Giuseppe Galasso nel suo saggio La questione dell’identità Europea pubblicato in L’architetto in Europa nel 2001, e quello di Renato De Fusco che partendo dal saggio del primo pubblica nel 2005 un volume con la Franco Angeli dal titolo Archi tettura Italo-Europea in cui l’autore cerca di delineare attraverso un policentrismo sistematico, il contributo che l’Italia può dare all’architettura europea con una specifica tendenza architettonica legata alla tradizione progettuale e storiografica nazionale. Grande attenzio-
ne pone l’autrice sull’analisi e le individuazioni delle ragioni della crisi con il carattere ideologico dell’architettura italiana. Passando in maniera sintetica ma esaustiva dai concetti di Argan – che considera la compromissione politica un dato necessario alla buona architettura […] infatti individua il limite del razionalismo che non consiste certamente nella sua accentuata politicità, ma nella insufficiente chiarezza e risolutezza della sua vocazione politica – a quelli di Tafuri che per alcuni architetti come Quaroni segnala come limite della sua architettura la mancata esplicitazione del nucleo ideologico del suo pensiero. Nella seconda parte del volume vengono trattati dei percorsi di architettura italiana secondo letture tematiche legate all’ambiente, alla teoria e alla città, rilevando il nichilismo inteso come il portato estremo del pensiero ideologico e quindi affronta l’ondata di pessimismo generalizzato avviato dalla critica tafuriana. Il saggio, approfondisce ancora il primato del disegno, dell’architettura di carta, progettata e mai realizzata. Un grande contributo propositivo si trae dall’epilogo intitolato Dentro e fuori la crisi dove Manuela Raitano conferma la sua tesi, dichiarata nell’in troduzione, secondo cui ad una profonda conoscenza del particolare momento storico attraversato e vissuto occorre abbi-
nare un fenomeno propositivo, creativo di rielaborazione, necessario per la riscrittura dei linguaggi. Insomma, il campo di gioco è aperto a tutti e la partita, si direbbe, è appena cominciata. Al momento siamo pari; sta a noi – attraverso il nostro lavoro critico e progettuale – modificare il risultato. Il libro, in formato tascabile, è sviluppato con una ricchezza di eventi, riferimenti, modelli storiografici, autori, – un’indice dei nomi avrebbe agevolato la consultazione – con prosa accattivante che rende la lettura invitante; rappresenta quindi un interessante apporto al dibattito critico propositivo e necessario. L’intento di Manuela Raitano secondo cui il volume vuole essere un tentativo di inquadrare la scena cambiando la prospettiva, mettendo l’architettura italiana sul lettino dello psicanalista e lasciandola articolare un racconto di sé dal quale ripartire per elaborare il passato in modo utile al presente è stato raggiunto in pieno e con il suo contributo è andata ben oltre. A. C.
Il transitorio ‘mondo che abite remo’, Salone del mobile, Milano, 9-14 aprile 2013. Un titolo piuttosto pretenzioso ha siglato quest’anno, dal
9 al 14 aprile, il 52° il Salone internazionale del mobile di Milano: ‘Il mondo che abiteremo’. Un’asserzione sibillina che avrebbe probabilmente meritato un punto interrogativo finale per la prevedibile incapacità di evocare alcunché che non sia abitualmente presagibile dai professionisti del settore e immaginabile da quell’esteso e articolato popolo cultural de sign che conquista Milano per una settimana. Stabilire in quale società albergheremo nel tempo breve di un futuro che dura al massimo dodici mesi, è pressoché impossibile se non inutile al cospetto di una tale concentrazione di proposte che rende velleitaria ogni ipotesi di sintesi. Molto più prosaicamente la fiera di Milano continua ad essere una grande e qualificata mostra mercato italiana con una straordinaria connotazione internazionale che include “attività finalizzate alla promozione e all’incremento e al potenziamento dei sistemi produttivi, allo sviluppo del commercio con l’estero e della cooperazione internazionale”. Negli ultimi anni, viceversa, non è più il crocevia di soluzioni inattese e innovative in grado di fronteggiare affermazioni così complesse come quella richiamata nella titolazione del salone. Le riforme del design avvengono ovunque soprattutto da quando il design, come sostiene Andrea Branzi, è diventato una professione di massa e
63
64
il termine industriale ha perso di precisione e ha consumato il suo perimetro ideologico. Ciononostante, a Milano, si ricostituisce annualmente il più autorevole luogo fisico e metafisico d’incontro della fenomenologia contemporanea del design. Un mix di cultura, economia e ricerca non replicabile altrove. Ed è questa rara sintesi che rende esclusivo quanto si rigenera tra le strade milanesi, secondo un procedimento osmotico, tra spazi del progetto e spazi abitati. Da questa combinazione discende la moltiplicazione di palcoscenici urbani che teatralizzano, non senza una certa superficialità, il design e il suo sistema che, al netto del superfluo, spiega comunque come sia in crescita la sua domanda. Un design a cui spetta sempre meno risolvere quesiti di natura estetica, quanto invece concepire nuovi manufatti, nuovi mercati, nuove economie che hanno la necessità di essere illustrati e, in un certo qual modo, celebrati. Non a caso, chiunque a diverso titolo partecipi al Salone, procede attraverso liturgie che hanno luoghi, compiti e riti ben definiti. Alla fiera di Rho, ad esempio – vale a dire Salone internazionale del mobile, Euro luce, Salone internazionale dell’illuminazione, Salone ufficio, Biennale internazionale del l’ambiente lavoro, Salone internazionale del complemento di arredo, Salone Satellite –
spetta un particolare ruolo contabile non separabile da quello culturale. Quest’anno ha accolto 2.500 espositori e più di 324 mila visitatori provenienti da 160 paesi, di cui il 68 per cento stranieri. La percezione, osservando i risultati della ricerca condivisa tra impresa e progetto, è stata quella del persistere di un clima favorevole e pragmatico soprattutto considerando le ricadute dirette sul piano delle professioni e dell’occupazione. Per Milano e per l’Italia il Salone del mobile è contemporaneamente la più rilevante fiera di settore in termini di indotto economico e la manifestazione evento più radicata all’idea di qualità delle manifatture italiane e di chi vi la vora. È pressoché impossibile descrivere l’insieme delle proposte presenti nei padiglioni, tuttavia, tra le quantità di metri quadri offerti ai visitatori, segnaliamo i circa 1200 metri quadri dedicati alla visione di Jean Nouvel su come saranno gli spazi di lavoro che ci attendono. Nessuna soluzione particolarmente inesplorata: tipologie e forme basate su criteri di open space e convivialità ampiamente prevedibili, così come la presenza prezzemolo di archistar. Dove, almeno in apparenza, si è accolto esclusivamente il nuovo e il meno noto, è nel Salone Satellite. Da quando è nato nel 1998 rende possibile il
confronto tra giovani designer provenienti da tutto il mondo con il mondo delle imprese e con quell’universo variegato di persone e personaggi che presidia la cultura del design. In questi anni questo spazio indipendente, crescendo costantemente, ha reso possibile attribuire alla fiera il ruolo di osservatorio sul tema della creatività diffusa democraticamente distribuita. Dai timidi e imprecisati inizi, dopo 15 anni, il Satellite ha raggiunto una sua precisa caratura in equilibrio tra opportunità di mercato e libero pensiero progettuale, sempre meno, però, al suo interno, emerge la possibilità di osservare linguaggi o contenuti imminenti. Quest’anno gli under 35 si sono (più o meno) esibiti sul tema ‘Design e artigianato: insieme per l’industria’. Per scelta o per necessità, chi si appresta alla professione di designer generando idee e prototipi, è consapevole che il saper fare deve coniugare pensiero colto e manualità sperimentale. E il contesto della bottega, con tutte le possibili e attuali varianti (senza escludere la dote retorica ma necessaria della tradizione), rende pienamente l’idea di cosa voglia dire oggi essere moderni imprenditori di se stessi senza dover negare le proprie origini. L’interrogativo su come, dove e quando il design possa incontrare fattivamente l’artigianato si replica da anni. Ogni iniziativa in questa
direzione va fortemente incoraggiata considerando la specificità del patrimonio italiano. Sono da evitare, ma questa è una considerazione extra salone, astratti terreni neutri, mentre bisogna proporre il modello di un ‘design leggero’, che non si priva del confronto tra le prerogative della produzione seriale e la necessità del pezzo unico, ma che si affianca e non precede la cultura artigiana. Un pezzo di questo confronto si è svolto ulteriormente in quattro stand che hanno accolto un artigiano del legno e uno del ferro, un maestro vetraio e un tecnico di un’officina digitale. Laboratori real time, per sperimentare con il pubblico torniture, fresature, saldature e stampanti 3D, parzialmente riuscito. Non molti i designer italiani e tanti gli asiatici, un esercito non più silenzioso che ha interpretato al meglio lo slogan più abusato tra le letture dei giornali nel pre e post salone: think local, act global. Tutti insieme almeno hanno espresso la consapevolezza della complessità di un mestiere e la capacità di promuoversi in un apparato che oramai conoscono a sufficienza e del quale sanno interpretarne umori e previsioni. L’eventuale sottile filo rosso che ricorre tra i 700 designer under 35 ammessi si è tradotto nelle sensazioni del valore transitorio del progetto, dell’incalzare scoperte minime ma eticamente soste-
65
66
nibili, del sottrarsi dal peso del codici stilistici. Il Satellite, di in anno in anno, è sempre più anche la ribalta delle scuole internazionali di design. È questa certamente una delle circostanze più originali e significative che si materializza nel salone di Milano: osservare la sintesi tra formazione e ricerca che si sviluppa in più continenti tra accademie e università. In questa divinatoria settimana primaverile questo contraddittorio laico e a chilometro zero è avvenuto tra 17 scuole la cui varietà merita di essere elencata: le europee Tallin University of Technology (Estonia); Helsinki Metropolia University of Applied Sciences (Finlandia); l’Ecole Nationale Supérieure des Arts Decoratifs (Francia); Burg Giebichenstein e Karlsruhe University of Arts and Design (Germania); le asiatiche Beij ing University of Technology College of Art and Design (Cina); Osaka University of Arts (Giappone); National Taiwan University of Science and Technology (Taiwan); le americane Savannah College of Art and Design (Stati Uniti); Universidad del Desarrollo (Cile); Universidade de Caxias do Sul (Brasile); Escuela Internacional de Diseño (Portorico) e le italiane Accademia Italiana Arte Moda Design, Libera Università di Bolzano, Politecnico di Milano, Seconda Università degli Studi di Napoli, Univer-
sità Kore di Enna. Qui come altrove una teoria addizionale del design. Alla ricerca di giovani talenti certificabili, il Satellite assegna da quattro anni il ‘Salone Satellite Award’. Tania da Cruz, ventinovenne portoghese, ha riscosso i favori della giuria e di chi scrive, anche perché, al cospetto di centinaia di oggetti autoprodotti e di buona fattura, le sue pareti ispirate alle opere di Braque, ideate in sughero, un materiale diffuso nella sua terra d’origine, hanno espresso un coerente quanto efficace concentrato tra suggestioni pittorico-plastiche e requisiti acustici e termici. Se tra i padiglioni di Rho il Salone indossa il vestito ‘buono’, come si usa per le feste comandate, in tutta Milano va in scena il Fuorisalone: un avvenimento privo di limitazioni che ‘glorifica’ il design nella sua versione di progetto multiverso. Per comprendere quanto questa iniziativa comunemente chiamata Design Week coinvolga la città, e per amor di statistica, basta un dato: nella settimana fra il 7 e il 14 aprile i musei civici hanno registrato 84 mila presenze, contro le 26 mila della settimana precedente. Nato a partire dai primi anni ottanta, come contraltare all’ufficialità della fiera, negli anni a seguire il Fuorisalone ha dato la possibilità al design di esprimersi in ogni sua manifestazione, originando una sorta di algoritmo dell’evento che cre-
sce ogni anno annettendo strade, spazi urbani, store aziendali, atelier, negozi d’arredo, studi di progettazione, istituzioni, musei e persone. Tredici topograficamente le aree coinvolte dove si è esposto di tutto da tutte le parti del mondo esercitando il principio dell’ubiquità del design. Il tratto comune? Nessuno se non il vitalismo dell’esercizio del progetto che è uno dei valori più civili che comunque vi possa essere di questi tempi. L’impressione di una festa perpetua e ridondante che esalta la dilatazione dell’ingegno. Nel diluvio di proposte e installazioni presenti in zona Tortona, nel circuito VenturaLambrate, a Porta Romana, nella Design Week orientale di via Paolo Sarpi (proposte provenienti da Cina, Korea e Giappone), a Porta Venezia, Porta Genova, emblematicamente fissiamo due iniziative: la presentazione di un progetto inedito di Achille e Pier Giacomo Castiglioni del 1957, la poltrona Cubo, realizzato da Meritalia e ospitato presso la fondazione Achille Castiglioni, e la retrospettiva sui 60 anni di atti-
vità dell’architetto Angelo Mangiarotti presso la Galleria Carla Sozzani. Un po’ di storia tra tante ostentate e maliziose novità. Il luogo imperativo del Fuorisalone è comunque la Triennale. Tra le fin troppo numerose esposizioni e installazioni piccole, medie e grandi contenute negli spazi progettati da Giovanni Muzio nel 1933, segnaliamo la mostra ‘Gae Aulenti. Gli oggetti e gli spazi’, a cura di Vanni Pasca, una selezione dei suoi lavori tra il 1962 e il 2008; la mostra ‘Danish Chromatism’, che ha raccolto oggetti storici e contemporanei prodotti da 30 aziende danesi e, infine, la nuova edizione annuale, la VI in ordine di tempo, della Triennale Design Museum per interpretare la fenomenologia del disegno industriale in Italia. Con il titolo: ‘Design. La Sindrome del l’Influenza’, Pierluigi Nicolin ha raccontato l’esistenza del design italiano attraverso le influenze ‘trasmesse e ricevute’ dal dopoguerra in poi. V. C.
67
Sommario dei fascicoli pubblicati
N. 1. Le «Nuove Iconi» e la «civiltà del consumo» - Architettura utopistica - La sociologia dell’arte dei sociologi - Esperienze della Biennale - Tecnologia e poetiche contemporanee - Nouveau roman e arti figurative - Il Gaudi di Pane (fascicolo esaurito) N. 2. Design e mass media - Gestalt prima e dopo - L’estetica neonaturalistica di Romanell - Della Pop Art e di una mostra a Vienna - La poetica urbanistica di Lynch - Semantica dell’arte - Architettura come linguaggio (fascicolo esaurito) N. 3. Architettura e cultura di massa - Alcuni temi dell’Informale - Kunstwollen e intenzionalità in E. Panofsky - Dal pragmatismo alla fenomenologia - Libri, riviste e mostre N. 4. La critica discorde - S.K. Langer, L’influenza sociale del design - T. Munro, Recenti sviluppi dell’estetica in America - G. Veronesi, Sull’architettura del secolo - L. Vinca Masini, Le mostre dell’estate ’65 - Libri, riviste e mostre N. 5. I criteri di valutazione dell’arte contemporanea - Una politica culturale per i socialisti - Il visual design - Pareri sulla IX Quadriennale - Libri, riviste e mostre N. 6. Il disegno di architettura - J.P. Hodin, Esiste un’estetica dell’arte moderna? - Alcune voci dell’urbanistica contemporanea - Breve antologia delle ultime Biennali - Libri, riviste e mostre N. 7. Note per una semiologia figurativa - W. Hofmann, Gli inizi dell’attività formale - E. Garroni, 33a Biennale di Venezia: «jeu» e «sérieux» - Libri, riviste e mostre N. 8. Artisticità dei mass media - B. Jessup, Arte e storia - Il design scientifico di Alexander - Incontri di studi urbanistici - Libri, riviste e mostre N. 9. Il pensiero estetico di Adorno - 4 artisti scelti da Barilli - A. Vivas, Filosofia della cultura, estetica e critica: alcuni problemi - Libri, riviste e mostre
69
N. 10. Il premio IN/ARCH alla nostra rivista - R. Barthes, Semiologia e urbanistica - Nuove idee per la Gescal - Il metodo scientifico nella pianificazione - G. Veronesi, Su alcune mostre dell’estate italiana - Libri, riviste e mostre N. 11. G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? - Urbanistica e arti visive oggi - Valori ed obiettivi nella pianificazione - Libri, riviste e mostre N. 12. Tre contributi alla semiologia architettonica - E. Garroni, L’eterogeneità dell’oggetto estetico - V. Corbi, Questioni di estetica empirica - A. Perez, Riflessioni di uno scultore sul tema dello spazio - Libri, riviste e mostre N. 13. L’«environmental design» e il suo insegnamento - Per una teoria dell’architettura - L’estetica del «pensiero negativo» in Marcuse - Libri, riviste e mostre N. 14. La prossemica: un nuovo apporto all’architettura? - La poetica del l’arte povera - Note sull’Università e la professione - O. Ferrari, Una Biennale rimasta senza giudizio - Libri, riviste e mostre N. 15. I problemi dell’istruzione artistica - R. Segre, Presenza di Cuba nella cultura architettonica contemporanea - Architettura fra retorica e logica Libri, riviste e mostre N. 16. Significanti e significati della Rotonda palladiana - G. Dorfles, Valori iconologici e semiotici in architettura - Attualità della retorica - Libri, riviste e mostre N. 17. Il centro della città (definizioni) - M. Tafuri, Ambiguità del Guarini - Lettura storico-semiologica di Palmanova - Libri, riviste e mostre N. 18. L’architettura per l’Università - E. Garroni, Semiologia e architettura. Alcuni problemi teorico-applicativi - Recenti contributi allo studio dell’«environmental design» - Libri, riviste e mostre N. 19. Segni e simboli del tempietto di Bramante - Note sull’immaginario in Filarete - Philip Johnson: la funzione della maschera formale - Biennale/ricerca - Libri, riviste e mostre N. 20. Utilità storiografica di una dicotomia linguistica - Meaning in Architecture - La cultura di Le Corbusier - New Towns (definizioni) - Libri, riviste e mostre N. 21. Note per una epistemologia della rappresentazione visiva - G. Bonsiepe, Panorama del disegno industriale - Per una poetica del profondo: Blaue Reiter - Libri, riviste e mostre
70
N. 22. Nomi, luoghi, immagini di città nella «Recherche» di Proust - U. Eco, Analisi componenziale di un segno architettonico - Percezione ed esperienza estetica - Libri, riviste e mostre
N. 23. La «riduzione» culturale - Libri, riviste e mostre N. 24. «Arquitectura, historia y teoria de los signos» - Note di terminologia semiotica - Il design: processo e fruizione - Il «silenzio» dell’architettura contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 25. Note sull’arte concettuale - L. Benevolo, La recente storiografia della città - Lo storicismo e i confini della semiologia - Città-pubblicità: sul caso Las Vegas - Libri, riviste e mostre N. 26. La «riduzione» culturale nella progettazione architettonica - R. Barilli, Le due anime del concettuale - G. Morpurgo-Tagliabue, Commento alla «riduzione» culturale - L’antidesign - Libri, riviste e mostre N. 27. Altri aspetti della «riduzione» culturale - Interventi: G. Dorfles, Riduzione ad oggetto, riduzione a progetto - P. Fossati, Riduzione o trasformazione? - T. Llorens, Sul concetto di comunicazione estetica - Libri, riviste e mostre N. 28. Elementi semiotico-progettuali d’architettura - M. Krampen, Dalla semiologia della comunicazione alla logica degli strumenti - Libri, riviste e mostre N. 29. Per una lettura semiotica della prospettiva - Elementi di una tendenza dell’architettura italiana - XV Triennale - Libri, riviste e mostre N. 30. Problemi di semiotica dell’arte contemporanea - B. Zevi, Sei postille su «Il linguaggio moderno dell’architettura» - Alcune opinioni sull’iperrealismo - Libri, riviste e mostre N. 31. Elementi della progettazione scientifica - Il segno indefinito della semiologia urbanistica - Note sulla cultura a «mosaico» - Arbitrarietà e motivazione del linguaggio architettonico - Libri, riviste e mostre N. 32. L’eccentrismo, un momento della avanguardia sovietica - U. Eco, Chi ha paura del cannocchiale? - Nota sul segno urbanistico - I segni e le «figure» del Padiglione di Barcellona - Libri, riviste e mostre N. 33. Architettura come istituzione - Il «ritorno» alla pittura - Università: le parole e le cose - Libri, riviste e mostre N. 34. Dall’estetica alla semiologia - La teoria di Hjelmslev e l’architettura: alcuni problemi - Il «realismo» di Giuseppe Samonà - Libri, riviste e mostre N. 35. Attualità dell’iconologia: alcune questioni metodologiche - R. Barilli, Difficoltà di un approccio semiotico alla culturologia - L’editoria architettonica - Libri, riviste e mostre N. 36. I centri storici nella prospettiva semiologica - Le idee di teatro, oggi - Una riproposta del «multiplo» - Libri, riviste e mostre
71
N. 37. Dialettica del «piacere» e identità dell’architettura - Assenza-presenza: due modelli per l’architettura - La «storia dell’arte» nelle scuole - Libri, riviste e mostre N. 38. Le ricerche di architettura più attuali ed insolite - Dalla fotografia al videotape - Analisi di un corso di laurea: il Dams - Libri, riviste e mostre N. 39. La sociologia del gusto di Jean Baudrillard - Le posizioni di […] su alcuni temi della critica architettonica in Italia - Libri, riviste e mostre N. 40. «Aforismi» sui centri storici - Note sulla simmetria in architettura Bataille e la “svolta” di «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 41. Dipartimento e «architettura» - La «rappresentazione» tra storia del teatro e semiotica - La critica d’arte in «Tel Quel» - Libri, riviste e mostre N. 42. L’idea di pittura in Lévi-Strauss - Sul concetto di gusto - Alcuni contributi alla critica dell’inconscio - Libri, riviste e mostre N. 43. La post-avanguardia - Luoghi e luoghi comuni della recente critica d’arte - Narciso e «l’altro»: note sul dibattito architettonico - Libri, riviste e mostre N. 44. Architettura: la «rimozione del nuovo» - Ipotesi per il segno iconico - Storia dell’arte, storia delle cose - Libri, riviste e mostre N. 45. Topologia e architettura - La casa: norma e «deroga» - Artisti e cinema - Libri, riviste e mostre N. 46. I quindici anni della nostra rivista - L’Architettura all’Ecole des Beaux-Arts - La Storia dell’arte Einaudi - Una griglia che non sia una grata N. 47. Architetto e ingegnere - Le scuole di critica d’arte in Italia - L’immaginario nella cultura di massa - Libri, riviste e mostre N. 48. Prima e dopo il Post-Modernism - L’iconizzazione del mobile - Civiltà del ’700 a Napoli - Libri, riviste e mostre N. 49. Il restauro architettonico: ricchi apparati e povere idee - F. Menna, La Biennale di Venezia. Gli anni settanta: questi (mi)sconosciuti - Critica d’arte e processi produttivi - Libri, riviste e mostre N. 50. Fortuna critica della «Tendenza» - R. Bonelli, Storiografia e restauro - La fotografia: indice o icona? - Libri, riviste e mostre N. 51. Classicismo e razionalismo in J.N.L. Durand - Modelli interpretativi delle tendenze artistiche odierne - Architettura come testo - Libri, riviste e mostre
72
N. 52. L’espressione «Movimento Moderno» - Indagine su Carlo - Note sulla Transavanguardia - Libri, riviste e mostre
N. 53. Il design tra «radicale» e «commerciale» - Dalla «ruminazione» dei guerrieri greci all’«insonnia» dell’estate romana - Fortuna degli slogans Libri, riviste e mostre N. 54. Disincantamento e restaurazione - Lutyens fra storia e critica - Il Bauhaus e il teatro tedesco - Libri, riviste e mostre N. 55. Continuità e Protorazionalismo - Se questo è un quadro allora non è un quadro - Gli oggetti di domani - Design come motto di spirito - Libri, riviste e mostre N. 56. Dall’America. Warhol e Kosuth - Il design dell’«altra avanguardia» - L’International Style cinquant’anni dopo - Libri, riviste e mostre N. 57. Il mercato come opera d’arte - New York, reportage 1982 - La questione dei graffiti - Libri, riviste e mostre N. 58. E se Gutenberg fosse un designer? - I tre livelli logici nella comunicazione grafico-pittorica - L’Amsterdamse School - Libri, riviste e mostre N. 59. Per chi tanto design? - L’Espressionismo dopo Scharoun - Dall’Informale all’Informale - Libri, riviste e mostre N. 60. Il Neorevival - Dall’arte utile all’architettura «inutile» - Affermare o negare per immagini - Libri, riviste e mostre N. 61. Barilli, D’Amato, De Seta, Dorfles, Gravagnuolo, Irace, Koenig, Mendini, Menna, Trimarco: dieci interventi per i vent’anni della rivista N. 62. Hans Sedlmayr: verità o metodo? - Fashion & Design: la cultura del successo - Nuovi vecchi «ismi» dell’arte - Architettura: reportage dalla West Coast - Libri, rivisti e mostre N. 63. Architettura tra proibizionismo e abusivismo - Note su semeiotica e design - Automobile e cultura - Il New surrealism - Libri, riviste e mostre N. 64. Nove «figure» per il disegno d’architettura - Una terza via per il design - Arte e industria a Monza: 1923-1943. Note e documenti - Libri, riviste e mostre N. 65. Verso un nuovo «ismo» architettonico - Vanità della Fiera? Appunti sul salone del mobile - Le «riflessioni» dipinte - Libri, riviste e mostre N. 66. Tipologia e progettazione del mobile - Piano-progetto: i casi di Barcellona, Berlino, Parigi, Roma - L’arte di abitare alla Triennale Libri, riviste e mostre N. 67. Design: che cosa si venderà? - F. Purini, Parere su un nuovo «ismo» architettonico - Nietzsche e l’estetica - Arte oggi: concettualismo e tendenze costruttive - Libri, riviste e mostre
73
N. 68. Il punto sull’lBA - Design e riviste specializzate - Barthes e l’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre N. 69. Architettura per chierici e per laici - A cavallo del design - La necessità del caso nell’arte - Libri, riviste e mostre N. 70. Il design e la critica di sinistra - Architettura senza topos - La «militanza» futurista di Roberto Longhi - Libri, riviste e mostre N. 71. Verso un’ermeneutica dell’architettura - La nozione di informe - Design: dall’ingegnere all’edonista - Libri, riviste e mostre N. 72. Architettura e mimesi - L’arte contemporanea nella collezione Saatchi - L’arte applicata come «forma simbolica» - Libri, riviste e mostre N. 73. Architettura USA per gli USA - Morte a Venezia - Il designer, il bricoleur e l’ingegnere - Libri, riviste e mostre N. 74. Architettura, città e telematica - Abitare tra gli oggetti - Paradigma della critica d’arte - Libri, riviste e mostre N. 75. Architettura e decostruzione - Il « piacere » del design - Realismo e post-realismo nella pittura americana - Libri, riviste e mostre N. 76. I venticinque anni della nostra rivista - La critica architettonica: note per un dialogo - Deformazioni ai margini - La scena del design contemporanea - La scultura è noiosa? - Libri, riviste e mostre N. 77. Le arti s’insegnano, le arti s’imparano - Il parere di Enzo Mari - Note sulla didattica dell’architettura - Paris fin de siècle - Libri, riviste e mostre N. 78. L’architettura s’impara ma non s’insegna - Design come arte delle cose amabili - Formazione e «Belle Arti» - Libri, riviste e mostre N. 79. Il principe e l’architettura - Design: una teoria ermeneutica del progetto - In margine alla Biennale: sulla permanenza dell’oggetto - Libri, riviste e mostre N. 80. Il pensiero della mano - L’insegnamento della pittura - Didattica e design: tra pragmatismo e arte - Libri, riviste e mostre N. 81. Storicità dell’High-tech - Il «ritorno» della pittura alla storia - La Rinascente e la cultura del design - Libri, riviste e mostre N. 82. Paraphernalia di fine millennio - Arti visive e improbabili certezze Design: la forbice di storia e storiografia - Libri, riviste e mostre
74
N. 83. Museo e arte contemporanea: un binomio controverso - Design: dai punti di vendita ai punti di acquisto - Dall’avanguardia alla reazione: Waldemar George - Libri, riviste e mostre
N. 84. Progettazione: storia, storiografia ed epoca - Storici dell’arte e critici dell’avanguardia - Koenig e il design - Libri, riviste e mostre N. 85. Una tassonomia per il design - Iconoclastia sacra e profana - Per una teoria dell’arredo urbano - Libri, riviste e mostre N. 86. Architettura fra cielo e terra - Vie d’uscita per l’arte contemporanea - Tipi e segni per un codice dell’architettura - Libri, riviste e mostre N. 87. Riserve sull’insegnamento dell’architettura - Il «nuovo» nel design Una storia delle arti per le arti - Libri, riviste e mostre N. 88. L’etico e l’estetico in architettura - Per un’estetica della ricezione del design - Emergenze. «Aperto ’93» alla Biennale - Libri, riviste e mostre N. 89. Disegnare con il computer - In Italia, il design ha da essere italiano? - Affreschi metropolitani allo spray - Libri, riviste e mostre N. 90. L’estetica in sei idee - Architettura: i cattivi maestri - Mistero e problematica delle immagini - Libri, riviste e mostre N. 91. «Op. cit.» e trent’anni d’arte contemporanea - Restauro ed ermeneutica - Nuove idee in fabbrica - Ricordo di Manfredo Tafuri - Libri, riviste e mostre N. 92. Intervista a Steven Holl - San Gimignano e Cortona: il contemporaneo nell’antico - Tra arte e depressione - E il designer? - Libri, riviste e mostre N. 93. La trattatistica della trasgressione - Accademia di Belle Arti: proposte di riforma - Un concettuale al Palazzo della Ragione - Libri, riviste e mostre N. 94. Città e sistema delle comunicazioni - Identità ed Alterità alla Biennale - Alcuni generi di letteratura artistica - Libri, riviste e mostre N. 95. Ricordo di Arturo Carola - La crisi dell’architettura: un’autocritica Design e problema occupazionale - Libri, riviste e mostre N. 96. Architettura, le teorie «silenziose» - Il design dell’ascolto - La critica d’arte dopo la fine dei «Grandi racconti» - Libri, riviste e mostre N. 97. Progetto e previsione storiografica - Il restauro ante litteram - Le artiste contemporanee - Libri, riviste e mostre N. 98. Facoltà d’architettura: che fare? - Una Biennale per architetti - Design: ancora sullo sviluppo sostenibile - Libri, riviste e mostre N. 99. Il design nei tempi della storia - Internazionalismo vs regionalismo Case e studi d’artista - Libri, riviste e mostre
75
N. 100. Nostalgia dell’architettura industriale: il caso Olivetti - Gli oggetti «usa e getta»: l’ipertelia - Le grandi mostre in Europa - Libri, riviste e mostre N. 101. Gesamtkunstwerk - Design: trattatistica, storiografia, critica e poetica - Gusto e disgusto nell’arte contemporanea - La tutela europea del design - Libri, riviste e mostre N. 102. Architettura tra esperienze e aspettative - Interno e interiorità - L’arte contemporanea e i suoi scenari - Libri, riviste e mostre N. 103. Tre tendenze e due ipotesi sull’architettura di oggi - Cos’è la tettonica - Design, mobili ed economia - Libri, riviste e mostre N. 104. La storiografia è progettazione - Il fenomeno dei giovani artisti - Design: progetti possibili - Libri, riviste e mostre N. 105. L’euroarchitetto - Il video d’artista nello spazio del museo - Design e ergonomia oggi - Libri, riviste e mostre N. 106. Design: de gustibus est disputandum - La Bartlett School - La Biennale delle donne e dei video - La foto d’arte tra reale e virtuale - Libri, riviste e mostre N. 107. Un’etica per l’architettura - Le ultime frontiere della Pop Art - Strategia, design, piccola impresa - Libri, riviste e mostre N. 108. Reale surreale e virtuale nella storia dell’architettura - Storia, arte, movimento - Steven Holl o dell’architettura concettuale - Il design dei servizi - Libri, riviste e mostre N. 109. Architettura come paesaggio - Note sulla Stillehre - Il protodesign futurista - Libri, riviste e mostre N. 110. Surrealismo e virtualità - La definizione di «artefatto» nella cultura del progetto - Sul ritorno della pittura figurativa - Note sul design degli anni Novanta - Libri, riviste e mostre N. 111. Arti visive: un senso da ritrovare - Figure della storiografia architettonica - Il Design per l’usabilità - Libri, riviste e mostre N. 112. Internet non s’addice all’architettura - Nuova soggettività. L’architettura tra comunicazione e informazione - La creatività nel terzo millennio - Il dibattito italiano su design e ambiente - Libri, riviste e mostre N. 113. Manhattanismo - Per cucire lo strappo - Scripta volant - Libri, riviste e mostre N. 114. L’architettura italo-europea (fascicolo monografico)
76
N. 115. L’architettura «piccola» - Donne e design: il contributo dei Gender Studies - Il punto di rottura dell’arte tra il XIX e il XX secolo - Libri, riviste e mostre
N. 116. Design e crisi dell’auto - Case Study Houses: colonialismo modernista - Fautrier e l’Informale in Europa - Libri, riviste e mostre N. 117. Le architetture di Escher tra Surrealismo ed Op-art - Semiotica del design e durata - Attualità del pittoresco - Libri, riviste e mostre N. 118. Informazione materia prima dell’architettura - Tokyo: città e architettura - La grande svolta degli anni ’60 - La svolta del «volgare» - Tra sogni e conflitti: la contemporaneità della Biennale. Libri, riviste e mostre N. 119. L’architettura di vetro - Tecnica: necessità e caso - Veggenti e visionari, André Breton tra passato e presente - Libri, riviste e mostre N. 120. Insegniamo architettura - Sulla corporate image - Quando Mondrian e Webern sfidarono la natura - Libri, riviste e mostre N. 121. La rivista compie 40 anni: in questo numero alcuni dei suoi testi migliori N. 122. L’architettura delle 4 avanguardie - Le icone trasparenti e il museo della storia - Design: la legge distributiva 1101 - Libri, riviste e mostre N. 123. Il longevo eclettismo di Philip Johnson - L’arte di oggi. Oggi, l’arte? - Design: gli oggetti a più funzioni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 124. Ragionamenti sulla architettura - Il design per il marketing - La Biennale di Venezia tra dislocazione e direzione manageriale - Ragghianti e il linguaggio visivo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 125. Arbitrarietà e norma nella progettazione - Maniera e artifici per narrare l’arte - Design: dalla produzione al mercato - Panorami domestici, fra utopie moderne e visioni contemporanee - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 126. L’agenda della città - Design e Activity Theory. Il valore delle merci da reale a percepito - Un museo dell’immaginario nel cuore di Lisbona, tra realtà e scenari possibili - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 127. Normopatia, disincanto della Carta di Venezia - Tre scultori italiani - Artefatti fluidi - Verso una critica dello snobismo - Libri, riviste e mostre Le pagine dell’ADI N. 128. Vema - Design e ready made - Human Design, alias della moda e dintorni - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 129. Architettura e politica - Snobismo e arti visive - Il design dell’energia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 130. Architettura, arte applicata - Nuova galassia tipografico-digitale L’iconografia dell’estasi - Quando i designer erano architetti - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
77
N. 131. Città e architettura: ipotesi per il futuro - Il Design oggi - Neo-avanguardie visive? - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 132. Democrazia e architettura - Il futuro critico dell’arte - Traslitterazioni (visive) per l’oggetto d’uso e d’arredo - Moda e design: complicità e antagonismi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 133. Per un’architettura normale - Scatti d’autore: le nuove frontiere della fotografia contemporanea - La marca messa in vetrina - Furniture design & Exhibit - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 134. Abitare la razionalità - Per una nuova classificazione delle arti - Il design aeronautico, Filippo Zappata e la Breda - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 135. Costruire di nuovo - Il design ai tempi della crisi - Arte programmata e Manfredo Massironi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 136. Venustas blog cit. Dialogo su bellezza, architettura, mercato, democrazia - Piercing, tatuaggi, graffitismo: nuove frontiere d’arte? - Arredamento come arte decorativa - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 137. Le oscillazioni del digitale in architettura - Ricordo di Rogers - Torino 1969-2009: quarant’anni di design e sapere politecnico - Stile concettuale - AG Fronzoni: per un nuovo linguaggio grafico - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 138. Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del l’ADI N. 139. Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
78
N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI
Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998 «Grafica Elettronica» - Via Ferrante Imparato, 198/F4 - 80146 Napoli
Errata corrige Nel precedente fascicolo 146 l’autrice della recensione del saggio M. Ferraris, Lasciar tracce, a p. 61 è Paola Scala. Nello stesso numero l’autore della recensione del saggio K. Fallan, Design History, Understanding Theory and Me thod, a p. 65 è Dario Russo.
Le pagine dell’ADI Associazione per il disegno industriale a cura di Dario Moretti
Un’occasione di ricerca La prima responsabilità di una collezione storica è la corretta con servazione nel tempo dei pezzi che ne fanno parte: per questo la Fonda zione ADI Collezione Compasso d’Oro, il cui obiettivo è la tutela della Collezione storica del premio (circa 2.200 oggetti di design originali, oltre alla documentazione accessoria) provvede anche al restauro degli oggetti di design. Un terreno relativamente nuovo del settore del restau ro, dal punto di vista tecnico come da quello documentale e organizza tivo, esplorato concretamente nel 2010 dal Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” di Torino. Dell’esperienza maturata nell’elaborazione della strategia di con servazione, documentazione e restauro della Collezione storica del Compasso d’Oro tratta l’articolo che pubblichiamo, che gli autori han no presentato il 17 febbraio 2012 alla 13ª Jornada de Conservación de Arte Contemporáneo, convegno internazionale organizzato annual mente dal Museo Reina Sofía di Madrid (che ADI ringrazia per la cor tese autorizzazione alla pubblicazione) dal Gruppo Spagnolo di Con servazione dell’International Institute of Conservation (GEIIC). La Collezione Compasso d’oro: una nuova prospettiva per la conservazione e il restauro degli oggetti di design di Sandra Vázquez Pérez, Elena Biondi, Alessandro Bovero La Collezione storica del Premio Compasso d’Oro ADI nasce dal celebre premio istituito nel 1954 a Milano, allo scopo di promuovere l’innovazione e la qualità del prodotto industriale. Nell’ottobre del 2010 il CCR, Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”, ha proposto una nuova impostazione metodologica per la conservazione degli oggetti di design tramite un progetto multidisciplinare, il cui obiettivo
era l’individuazione di nuove direzioni in un settore del restauro che aveva iniziato a svilupparsi negli anni più recenti. Lavorare su una collezione di design significa, di fatto, prendere in considerazione, otre all’importanza storica, sociale, artistica ed estetica, quella simbolica, funzionale ed ergonomica di oggetti che coesistono in uno stesso ambiente, il cui carattere effimero ha a che fare con la tipologia d’uso, con i materiali, con le tecnologie e con le loro dimensioni. Il Premio Compasso d’Oro ADI Il Premio Compasso d’Oro ADI, il più antico premio di design del mondo, fu ideato nei primi anni Cinquanta dal celebre designer milanese Gio Ponti ed è divenuto oggi uno dei premi più importanti nel settore del disegno industriale. Alla fine degli anni Quaranta i grandi magazzini milanesi la Rinascente istituirono un ufficio ricerca sul modello della direzione artistica Olivetti, attiva dal 1928. Per più di un ventennio questo ufficio rappresentò a Milano un centro d’eccellenza della cultura del progetto, occupandosi di grafica, di architettura e di comunicazione. Coordinatore del dipartimento pubblicità fu il celebre grafico Albe Steiner, che nell’ottobre del 1953 decise di organizzare la mostra Estetica del prodotto selezionando un gruppo di oggetti con il marchio la Rinascente. Come conseguenza del successo dell’iniziativa la direzione della Rinascente decise di istituire un premio che fosse un riconoscimento alla qualità degli oggetti nonché un incentivo e uno stimolo a nuove iniziative per la creazione di nuovi prodotti di qualità. Così, nel 1954, la Rinascente realizzò alla X Triennale di Milano la prima edizione del premio Compasso d’Oro. Le incertezze sul nome da dare al premio furono risolte da Steiner il quale, durante una riunione preliminare, estrasse dalla borsa il compasso di Adalbert Goeringer1, che la scultrice Genni Mucchi, moglie di Gabriele Mucchi, gli aveva donato. Nacque così il nome “Il Compasso d’Oro”. Lo stesso Steiner progettò il logotipo del premio, mentre toccò a Marco Zanuso e ad Alberto Rosselli tradurne il disegno in un compasso reale. Il logotipo del premio non è stato modificato da allora ed è oggi un marchio inconfondibile di qualità e di rigore. 1 In uso tra gli scultori, lo strumento non traccia circonferenze perfette ma serve a definire, tra due parti di un unico elemento, rapporti proporzionali armoniosi basati sulla sezione aurea, la più classica delle misure della bellezza.
Quindici furono i premi assegnati in quella prima edizione a varie tipologie di prodotto che usavano materiali e tecnologie differenti: dalla macchina per scrivere Olivetti Lettera 22 a vasi in vetro di Murano, a oggetti per lo sport e il tempo libero, a servizi di piatti, sedie, giocattoli, elettrodomestici… Per alcuni anni il premio fu organizzato dalla direzione commerciale della Rinascente; in seguito, nel 1962, il premio venne affidato all’ADI (Associazione per il Disegno Industriale) e da allora viene assegnato non tanto all’estetica del prodotto quanto esplicitamente al “disegno industriale”. Dal 1958 al 1964 il premio venne gestito in collaborazione con la Rinascente, ma dal 1964 l’associazione si fece carico dell’organizzazio ne e di garantirne l’imparzialità e l’integrità. Ogni anno l’Osservatorio permanente del Design ADI, formato da un gruppo di oltre 150 esperti, tra cui designer, critici, storici, giornalisti specializzati ecc. si incarica di selezionare i prodotti migliori che prima vengono pubblicati sull’annuario ADI Design Index, volume che rappresenta il meglio del design dell’anno di produzione precedente. I premi Compasso d’Oro sono assegnati ogni tre anni da una giuria di esperti internazionali in base alle preselezioni raccolte nei tre precedenti annuari ADI Design Index. La Collezione Compasso d’Oro e la Fondazione ADI La Collezione storica Compasso d’Oro ADI è il risultato dell’addi zione di gran parte degli oggetti e dei progetti che sono stati selezionati per il Compasso d’Oro dalla prima edizione del 1954 a oggi. In cinquant’anni di storia del premio e ventuno edizioni sono stati premiati oltre trecento progetti, cui si aggiungono i quasi duemila selezionati con una menzione d’onore. Nel 2001 la collezione fu ceduta alla Fondazione ADI, permettendo così la tutela del patrimonio e la promozione e la valorizzazione del disegno industriale. Nel 2004 la Collezione storica del Premio Compasso d’Oro è stata dichiarata “bene di eccezionale interesse artistico e storico”, parte del patrimonio nazionale tutelato dal ministero per i Beni culturali2. 2 Si era concluso nel 2003 un processo di catalogazione dei prodotti presenti nella collezione che portò alla dichiarazione di riconoscimento della collezione come patrimonio di eccezionale interesse artistico e storico” attraverso un decreto del ministero dei Beni culturali, Regione Lombardia, del 22 aprile 2004, che lo include nel patrimonio nazionale.
L’industria italiana del design Per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia il 30 maggio 2011 si inaugurarono a Roma due importanti mostre sul tema dell’industria italiana e del design: 1961/2011 Cinquant’anni di saper fare ita liano attraverso il premio Compasso d’Oro ADI (MACRO, Pelanda) e Made in Italy e identità nazionale (Palazzo delle Esposizioni). Il governo italiano segnalò il premio Compasso d’Oro come la più completa testimonianza per ricostruire la storia del disegno industriale in Italia. In questa occasione vennero esposti al pubblico quasi tutti gli oggetti premiati con il Compasso d’Oro e il CCR si occupò del restauro delle opere che presentavano evidenti segni di degrado. Il restauro fu complicato a causa della grande differenza dei materiali costitutivi; citiamo, tra gli altri, i casi della sedia Delfina di Enzo Mari, della sedia Luisa di Franco Albini e i freni a disco Brembo, premiati nel 2004. La conservazione del design In Italia il decennio 1960 vide la diffusione di una contestazione della tradizione e molti artisti e designer realizzarono le loro opere con materiali sintetici per ottenere forme espressive nuove, sperimentando così le differenti proprietà di questi materiali, che assunsero colori e forme differenti e contribuirono a realizzare numerosi progetti. Ma ciò che sappiamo con certezza, comunque, è che la produzione di oggetti di plastica, così spesso in rapporto con il design, non ha mai manifestato lunga durabilità e che il suo invecchiamento si verifica con rapidità molto superiore rispetto ad altri materiali. Mentre le caratteristiche dell’invecchiamento dei materiali tradizionali, come il legno e il metallo, sono ben note, i processi di degrado di questi nuovi materiali sono scarsamente documentati. Tali processi mettono in pericolo non solo la conservazione del valore delle opere d’arte e di design, ma anche la loro stessa esistenza. Non c’è dubbio che oggi sia compito dei musei e dei collezionisti conservare questi documenti significativi dei progressi della tecnica. Il ritmo e la naturalità dei processi di invecchiamento dei vari materiali sono estremamente complessi e vari, e dipendono soprattutto: – dalla composizione chimica del materiale (processi fisici); – dalla natura e dalla qualità del processo produttivo; – dalle caratteristiche della combinazione dei materiali di base;
– dalla storia dell’oggetto e dalla storia specifica della sua conservazione. Tra gli aspetti da tener presenti nel momento di intervenire su questi oggetti ci sono: – la corretta identificazione del materiale; – la conoscenza e la definizione delle funzioni; – lo studio delle caratteristiche tecniche ed estetiche del progetto iniziale; – la selezione dei materiali e delle misure di conservazione; – il controllo periodico delle condizioni climatiche del magazzino. Il progetto ADI L’obiettivo del progetto ADI, in collaborazione con la Fondazione Amici del Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” e con la Fondazione Elena Miroglio è provvedere alla conservazione degli oggetti di design della Collezione Compasso d’Oro. Nell’ottobre 2010 il CCR ha intrapreso un programma di studio e di ricerca in vista della conservazione di questa collezione storica di design3. Il progetto di conservazione degli oggetti di design si presentava in evidente sintonia con i caratteri di interdisciplinarità perseguiti dal Centro. Si è consolidato un intenso lavoro di gruppo che ha richiesto in particolare la convergenza di numerose e svariate competenze, riunendo conservatori, scienziati, storici, informatici e specialisti di progetto grafico e di fotografia, orientati in particolare alla definizione di una prospettiva metodologica adeguata al tema specifico4, e in gran parte inedito, del restauro del disegno industriale5, e alla creazione di un’adeguata documentazione. Da un punto di vista teorico il settore del design viene paragonato R. Verteramo, La collezione del Compasso d’Oro si cura a Venaria, in “Il Giornale dell’Architettura”, n. 89, novembre-dicembre 2010, pp. 29-30. 4 I principi generali relativi alla conservazione e al restauro di pezzi di design non godono ancora di una vera e propria letteratura di riferimento, né in ambito italiano né a livello internazionale. Il che non significa che, nella pratica, il mondo del restauro non si sia ancora confrontato con questo settore, già consolidato non soltanto nel gusto del collezionismo ma anche nella dignità museale. 5 In Italia si segnala la creazione del laboratorio di restauro interno del Triennale Design Museum: cfr. A. De Marco, S.O.S. Modernariato, in “Il Giornale del l’Architettura”, n. 57, dicembre 2007, p. 8. 3
a quello dell’arte contemporanea, con una sovrapposizione in molti casi impropria. Se, di fatto, tale paragone è inevitabile dal punto di vista dei materiali e delle tecnologie di elaborazione6, la presenza invece di un prodotto seriale7, funzionale e concepito per essere ‘consumato’ richiede un atteggiamento differente rispetto all’opera unica dell’artista8. Nei trattati di storia del design il tema della conservazione fa riferimento ai concetti di prodotto “usa e getta” e risulta quindi legato al consumo e alla prospettiva della durata. Ma ci si trovava tuttavia di fronte a una collezione tanto “storica” da essere musealizzata e, pertanto, è parso opportuno valutare una maggior complessità di aspetti. L’oggetto come documento Ciascuno degli oggetti che compongono questa collezione rappresenta una testimonianza almeno sotto due aspetti: – Documenta la storia del disegno industriale italiano e il ruolo del premio Compasso d’Oro attraverso i temi considerati di maggior importanza dalla sua giuria, riflesso di un determinato contesto storico e sociale. Sono temi che possiamo conoscere grazie alla varie motivazioni assegnate a ciascuno degli oggetti premiati (materiali sperimentali, nuove tecnologie produttive, qualità del design, estetica dell’oggetto, caratteristiche di innovazione…). – Documenta l’evoluzione dell’industria del design in Italia attraverso il merito e la natura del progetto, le caratteristiche produttive, i materiali e le loro tecnologie di trattamento, l’estetica del l’oggetto e il suo legame con la comunità degli utenti. Secondo tali principi la conservazione di questi oggetti deve tener conto dei motivi e degli obiettivi che hanno giustificato il riconoscimento, ristabilendo le corrette condizioni di leggibilità di tutti gli elementi che lo rappresentano. 6 Ci risulta attualmente una bibliografia di tipo tecnico, rivolta per lo più alla composizione dei materiali e al loro deterioramento, con una documentazione specifica comprensibilmente dedicata alle materie plastiche. 7 Gillo Dorfles comprende nel disegno industriale gli oggetti che rispondono alla condizione della serialità, produzione meccanica dotata di criterio estetico in fase di progetto. Cfr. Introduzione al disegno industriale, Torino, Einaudi, 1972 (1° ed. Bologna, Cappelli, 1963). 8 Senza per questo toccare, nel contesto di questa riflessione, il concetto di “oggetto unico” di design sostenuto da Gaetano Pesce.
La funzione come carattere distintivo Il disegno, la forma e la materia di un oggetto di design non rispondono solo a esigenze estetiche, ma soddisfano soprattutto una necessità funzionale. A che cosa serve un oggetto? In che modo risponde alle esigenze? Con quali caratteristiche? La funzione cui un oggetto risponde e, di conseguenza, il tipo e il modo d’uso per i quali è stato concepito non sono solo determinanti per la sua concezione, ma rappresentano anche lo stimolo principale per l’elaborazione del suo progetto. L’evoluzione delle componenti formali e materiali risponde alla necessità di soddisfare le caratteristiche d’uso dei consumatori. La scelta di ristabilire le condizioni di funzionalità deve prevalere rispetto ai dati di pura estetica dell’oggetto, e l’intervento di conservazione e restauro deve quindi garantire la fruizione completa di tutte le caratteristiche, ristabilendone la funzione d’uso, comprese le scelte di integrazione o il recupero dell’oggetto, quando necessario. La documentazione. La creazione di un data base Il progetto di intervento sulla collezione ha condotto necessariamente i restauratori a confrontarsi con vari tipi di materiale, con nuove tecniche di elaborazione e con nuovi deterioramenti estremamente differenti9. Ha visto una prima fase di studio preliminare e catalogazione delle opere nei magazzini di Cardano al Campo (Varese) e l’identifica zione dei problemi dello stato di conservazione. Attualmente gli oggetti sono conservati in questi magazzini, nella speranza di occupare uno spazio nella nuova sede espositiva prevista a Milano nel 2014. I problemi dello stato di conservazione di questa collezione sono costituiti principalmente dalle condizioni microclimatiche dei magazzini, dall’assenza o dal tipo dei materiali di imballaggio e dalla poco idonea collocazione degli oggetti nelle scaffalature. Come accade per le metodologie di intervento, neppure la documentazione degli oggetti di design si giova di strumenti condivisi. Il progetto ha incluso l’elaborazione e lo sviluppo ad hoc di un data base della collezione con l’obiettivo di riunire tutte le informazioni di tipo 9 Cfr. La conservazione del design. La Collezione Storica del Compasso d’Oro al Centro Conservazione e Restauro, in “Kermes”, n. 80, ottobre-dicembre 2010, p. 19.
storico10, tecnico, produttivo, relative allo stato di conservazione e a eventuali modalità di installazione di ciascuno degli oggetti premiati. Tutti i dati sono stati successivamente archiviati nel data base sotto forma di materiali e di chiavi di ricerca, azione e pianificazione degli interventi di restauro, basandosi soprattutto sulle priorità di conservazione e di identificazione delle opere, il tutto con la possibilità di registrare o modificare l’evolversi di questi elementi nel tempo. La progettazione di un data base permette di ottenere una serie di vantaggi: la possibilità di realizzare un ampio numero di ricerche tematiche e la possibilità di creare connessioni tra oggetti differenti grazie a motori di ricerca, oltre alla creazione di dizionari condivisi con la possibilità, in certi campi, di selezionare una voce tra quelle di un menu a discesa. Un problema da risolvere e superare a proposito del data base è stato quello dei casi in cui è presente una serie di oggetti differenti e tuttavia appartenenti a una stessa serie, gruppo o sistema, e i casi in cui nella collezione c’erano più repliche identiche dell’oggetto. Di qui la necessità di creare un formato che abbiamo chiamato “Opera” e un altro formato, chiamato “Oggetto”, tra loro collegati. La scheda “Opera” descrive in termini generali l’opera, mentre la scheda “Oggetto” analizza nei particolari ciascuno degli oggetti. Nel primo formato sono visibili dati come il nome, il numero di inventario, la tipologia dell’opera, il numero di oggetti, l’anno di produzione e quello del premio Compasso d’Oro, il produttore e il progettista, con una descrizione generale dell’oggetto. Abbiamo inoltre ritenuto opportuno creare un menu da cui si potessero facilmente visualizzare un elenco di tutti gli esemplari di un’opera conservati nella collezione, i dati sull’ambiente di conservazione, i dati sul progettista e sul produttore e così via. Nel formato “Oggetto” vengono visualizzati campi come i materiali, il colore o il numero dell’oggetto rispetto all’insieme dell’opera. La difficoltà di questi oggetti sta nel fatto che si tratta in molti casi di oggetti composti da più elementi realizzati con materiali distinti, la cui conservazione è molto differente. Perciò abbiano ritenuto opportuno descrivere l’oggetto attraverso gli elementi principali che lo costituiscono. Un menu a discesa permette di selezionare i materiali, nonché la 10 Non va dimenticato che spesso è più difficile reperire informazioni significative su pezzi di produzione di serie che non su pezzi unici. I beni prodotti in grande serie erano disponibili in grande quantità per un determinato periodo di tempo, e poi si verificava un cambiamento nella produzione e, con esso, un cambiamento di mentalità. Questi prodotti sono stati dismessi senza che nessuno se ne facesse più carico.
tecnica e lo stato di conservazione generale. Il tutto è completato da un menu che permette di individuare le caratteristiche specifiche di ogni oggetto, come dimensioni e tipo di imballaggio. È stato aggiunto anche un campo che permette di collegare alla scheda dei file, con la possibilità di incorporare fotografie e documenti di ogni genere, tra cui per esempio immagini degli imballaggi. Particolare attenzione è stata dedicata alla rilevazione delle modalità e dei materiali d’imballaggio, in parte per essere in grado di individuare le possibili interazioni con gli oggetti, in parte per ottenere alla fine del lavoro una guida che per ogni esemplare comprenda specifiche modalità di manutenzione, trasporto, conservazione in magazzino ed esposizione. Un altro campo importante del formato “Oggetto” è stata la creazione di un portale con i vari condition report dell’oggetto, che permette di creare un collegamento con ciascuna informazione relativa allo stato di conservazione, venendo così a conoscerne la storia conservativa. È quindi possibile visualizzare un elenco di tutte le mostre in cui l’oggetto è stato esposto, con il titolo della mostra, il luogo, la data di inizio e di termine dell’evento. La documentazione in grafica digitale Nel contesto della documentazione un peso significativo è stato assunto dalla ricostruzione virtuale tridimensionale del Laboratorio Imaging, che ha costituito uno strumento di sostegno per lo studio, l’illustrazione del modo di funzionamento, la divulgazione e l’uso delle opere oggi perdute, permettendo al visitatore di esplorare l’interno degli oggetti, di comprenderne i meccanismi e le tecnologie costruttive e, soprattutto, di risalire al contesto e alle modalità d’uso, documentando l’origine estetica degli oggetti. In funzione del restauro, per studiare il progetto e la dinamica dei componenti, sono state ideate e sperimentate applicazioni che ripropongono per esempio il funzionamento dell’oggetto. Attraverso una documentazione esaustiva dello studio dei materiali e dei colori proposti dagli autori sono state realizzate ricostruzioni virtuali per riprodurre in modo fotorealistico il restauro sia di opere ancora conservate (oggetti di consumo e ambienti interni), sia di opere perdute di cui resta solo documentazione scarsa o incompleta (fotografie storiche a bassa risoluzione, pubblicazioni e disegni progettuali dell’autore con brevi descrizioni testuali). In quest’ultimo caso, in particolare, citiamo due significativi casi
di studio: Occultamento (1972) di Ugo La Pietra, e la cucina componibile SAFFA di Augusto Magnaghi. Per Occultamento è stata realizzata un’animazione fotorealistica in grafica digitale con l’obiettivo di documentare e rendere visibile la funzione principale che caratterizza l’opera, che riguarda il tema dell’efficienza dell’abitazione con un sistema di “occultamento” del letto, della scrivania e dell’armadio all’interno delle pareti e del pavimento di un semplice appartamento domestico. Più complicata è stata la ricostruzione in grafica digitale della cucina componibile SAFFA, premiata per l’essenzialità della forma e della struttura. Attualmente sono conservate solo due riproduzioni fotografiche in bianco e nero, che hanno richiesto un lungo lavoro di ricerca sulle riviste di design e d’arredamento d’epoca, e attraverso interviste. Lo studio dei colori e dei materiali ha permesso di realizzare una ricostruzione virtuale fotorealistica tramite la quale è possibile visualizzare le molteplici possibilità di modulazione, composizione e ambientazione della cucina, grazie alla ripetizione e alla combinazione dell’elemento modulare. Si è potuto alla fine realizzare un video che illustra una delle possibili composizioni della cucina, arricchita da oggetti di design d’epoca. Analisi dei materiali Dopo il lavoro di documentazione e prima di procedere alla realizzazione di ogni intervento di restauro sono stati essenziali per l’identificazione della tecnica e della composizione dei materiali gli studi fotografici completi, oltre al prelevamento di microcampioni. I laboratori scientifici hanno condotto una serie di analisi utilizzando questa strumentazione con le relative metodologie: – Fluorescenza a raggi X (spettrometro portatile Bruker ARTAX 200 µ-EDXRF). – Spettrofotometria infrarossa, spettrofotometro FT-IR Bruker Vertex 70. – Pirolisi-gas cromatografia/spettrometria di massa (gascromato grafo Agilent 5890a, spettrometro di massa Agilent GC 5970, pirolizzatore CDS Pyroprobe). Casi di studio Esempi di casi di studio della collezione e dell’intervento di restauro.
Sedia DU-30 Progetto di Gastone Rinaldi, vincitore del primo premio Compasso d’Oro nel 195411. Descrizione Sedia da ufficio, costituita da una base con quattro gambe in ferro trafilato, piegato e saldato, verniciato di nero, e da una struttura interna in lega d’acciaio che forma la seduta e lo schienale, con imbottitura di gommapiuma naturale rivestita di tela bicolore. Analisi dei materiali Le analisi FT-IR hanno indicato che l’imbottitura è di gomma naturale, poliisoprene e resina terpenica12; il tessuto di rivestimento esterno è bicolore, in fibra vegetale, la fibra gialla (ordito) è di lana, mentre la fibra marrone (trama) e il filo di cucitura sono di cotone. L’analisi condotta con la tecnica della pirolisi-gas cromatografia/ spettrometria di massa ha confermato i risultati ottenuti dall’analisi FTIR della composizione dell’imbottitura. La presenza di policloroprene tra le fibre del tessuto di rivestimento potrebbe indicare un’impermeabi lizzazione del tessuto. Con l’obiettivo di comprendere la meccanica della seduta, nell’am bito del lavoro di indagine sono state realizzate anche radiografie digitali. Inoltre, grazie ai dati acquisiti con lo scanner tridimensionale al laser, è stato possibile ricostruire un modello virtuale utile alla simulazione della condizione estetica originale dell’opera e alla definizione dell’intervento più idoneo.
11 Nel caso di oggetti provenienti dal mercato o di seconda mano, dove sono visibili le tracce dell’uso, queste ultime andrebbero prese in considerazione in quanto indizi della storia conservativa e/o del modo d’uso, così come andrebbero documentati tutti gli elementi che testimoniassero l’uso degli oggetti stessi. 12 I microcampioni del materiale ottenuto sono stati analizzati con test FT-IR realizzati dai laboratori scientifici del CCR, in collaborazione con l’Università degli Studi di Torino. La gomma è un materiale estremamente sensibile all’azione dell’ossigeno, perde elasticità irrigidendosi e fendendosi, per poi perdere ogni coesione e disgregarsi. Dalle prime osservazioni si è ipotizzato che l’imbottitura di gommapiuma fosse applicata direttamente sopra la struttura metallica come forma dello stampo originale.
Stato di conservazione La sedia DU-30 è stata scelta come caso metodologico a motivo del suo particolare stato di conservazione. Il problema principale della sedia era la disgregazione del materiale di imbottitura. La sola analisi tattile dell’imbottitura ha permesso di scoprire lo stato di avanzato deterioramento della schiuma, ridotta in polvere e in grumi di consistenza rigida. Il tessuto di rivestimento, quindi, poggiando su un’imbottitura degradata, dal punto di vista funzionale come da quello estetico, risultava mal teso, con numerose pieghe e deformazioni. Per quel che riguarda le gambe di ferro verniciato si notavano alcune ammaccature causate da urti accidentali e diffuse graffiature con caduta della vernice. Alcune aree presentavano inoltre tracce di ossidazione. Interventi Mentre qualche deterioramento dovuto all’uso dell’oggetto sarebbe stato tollerabile, non ci si poteva esimere dal sostituire l’imbottitura di gomma naturale. L’impossibilità di ripristinare la particolare seduta (e quindi il livello di comfort della sedia), in considerazione del pessimo stato di conservazione dell’imbottitura interna13, ci privava di fatto di una caratteristica essenziale dell’oggetto. Si decise di procedere allo smontaggio della sedia, in collaborazione con un tappezziere specializzato. Le delicate operazioni di smontaggio compresero in una prima fase la separazione delle gambe collegate alla base tramite perni. In seguito si procedette all’asportazione del tessuto di rivestimento, con la soppressione delle cuciture manuali lungo il profilo anteriore della sedia. Una volta smontati gli elementi del rivestimento tessile e dell’imbottitura, fu possibile documentare la struttura interna della sedia14: un’unica fusione in lega d’acciaio per seduta e schienale, divisa in due parti unite da un perno saldato che è stato necessario asportare interamente per lo smontaggio dei componenti. La parte posteriore della struttura metallica, dietro lo schienale, era imbottita d’ovatta di cotone rivestita da una teletta di fibra vegetale fissata lungo tutto il perimetro. Una volta analizzati tutti i materiali ottenuti e comprese le cause del deterio La schiuma si presentava estremamente ingiallita, ridotta a polvere e grumi. Lo smontaggio ha permesso di documentare e capire meglio la tecnica di montaggio e di fabbricazione della sedia, oltre che di completare l’analisi del materiale usato per l’imbottitura, sia dal punto di vista della composizione chimica sia da quello della comprensione dei fenomeni di deterioramento. 13 14
ramento, la struttura d’acciaio fu pulita con compresse impregnate d’acetone. Il tessuto di rivestimento fu sottoposto a un’accurata pulitura fisica e chimica tramite microaspirazione. Per eliminare i resti di colla nel perimetro interno fu utilizzato un Solvent Gel all’acetone. Sempre in collaborazione con il tappezziere la sedia fu poi rimontata in modo da ripristinarne le caratteristiche estetiche e funzionali. In considerazione delle caratteristiche e dei criteri da rispettare e della rapidità di alterazione della gomma naturale, fu deciso di usare un materiale che potesse garantire le stesse caratteristiche elastiche ed estetiche ma anche una maggiore stabilità nel tempo. Fu scelta una schiuma poliuretanica di tipo etere, molto simile alla schiuma originale. Un foglio di schiuma poliuretanica15 fu profilato e fissato ai bordi della struttura metallica con adesivo Bostik; per proteggere il poliuretano16 fu deciso di rivestire la nuova imbottitura con una prima copertura di Tyvek® e con un tessuto di protezione – una teletta di cotone di colore nero – tagliati e cuciti all’imbottitura per ridurre al minimo l’uso di adesivi. Il tessuto di rivestimento originale fu nuovamente inserito, come in origine, nel sistema di chiusura della fusione inferiore della seduta. Le cuciture manuali già asportate furono ricostituite con punti e fili idonei. L’intervento sulle gambe consistette nell’eliminazione delle ossidazioni, nella pulitura con ligroina e nel ritocco delle cadute di vernice nera con acrilico opaco. Televisore Doney Progetto di Marco Zanuso e Richard Sapper per Brionvega, vincitore del Compasso d’Oro nel 1962. Analisi dei materiali Gli spettri ottenuti con lo spettroscopio IR indicano che la parte esterna è realizzata con due semplici gusci gialli di polistirene17 ottenuti per iniezione, uniti con perni di ferro nella parte interna. Lo schermo trasparente, con funzione di protezione dello schermo di vetro, è di poliestere ottenuto per stampaggio sotto vuoto. I caratteri bianchi dei co15 Di circa 2,5 millimetri di spessore, lo stesso indicato dagli scarsi rimasugli della schiuma originale. 16 La schiuma di poliuretano risulta indubbiamente più stabile all’azione dell’ossigeno rispetto alla gommapiuma, ma può degradarsi se esposta direttamente all’azione della luce. 17 La documentazione reperita in un catalogo d’asta indica che potrebbe anche trattarsi di ABS.
mandi di regolazione (pure di polistirene) sono a base di polistirene e talco. Integrata al centro della parte superiore c’è un maniglia di rame e zinco con un trattamento superficiale a base di nichel e cromo. Ulteriori elementi metallici della base d’appoggio sono di ferro, con un trattamento superficiale a base di nichel. La struttura interna è di lamiera di ferro, probabilmente zincato. Stato di conservazione Si potevano notare depositi atmosferici incoerenti e sporcizia compatta sulle superfici esterne e soprattutto all’interno del televisore. Sui due componenti di polistirene si notavano numerose graffiature, oltre a tracce di ossidazione in prossimità dei perni metallici; inoltre in certi punti l’ossidazione era migrata all’interno del materiale plastico. Graffiature di lieve entità erano pure presenti sullo schermo di protezione trasparente. Le parti metalliche presentavano forme di corrosione circoscritta, con la perdita del trattamento galvanico superficiale. Mancavano il cavo di alimentazione e la parte terminale dell’antenna, e alcuni collegamenti elettrici erano dissaldati. Interventi Come per la sedia DU-30 anche per il televisore Doney, se non fosse stato possibile ricostituire i meccanismi di funzionamento18 gran parte del carattere innovativo sarebbe andato perduto19. La mancanza dell’antenna avrebbe impedito di sfruttare la qualità portatile dell’appa recchio, aspetto che accentuava definitivamente la distanza dell’oggetto televisore dall’idea di arredo decorativo. Per realizzare una pulitura profonda dell’oggetto ed eliminare i depositi incoerenti da tutte le sue parti esterne e interne si procedette a smontare il televisore fotografandone e documentandone ciascuna fase. Le parti esterne furono sottoposte a pulitura meccanica. In seguito – considerata la tenacia dello sporco nelle parti interne – dove era pene Sul tema della rifunzionalizzazione l’esperienza maturata in questi anni presso il Centro Conservazione e Restauro, soprattutto nel campo del restauro dei mobili, è quella che più ha contribuito a definire le direttrici metodologiche adottate per gli oggetti di design. 19 Cfr. A. Pansera, Storia del disegno industriale italiano, “Il progetto televisione”, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 180-184. 18
trato nel materiale plastico, si decise di realizzare una pulitura tramite compresse di cotone idrofilo inumidite con tensioattivo non ionico (Dehyphon al 2% in acqua deionizzata), seguita da risciacquo con acqua deionizzata. Per diminuire le tracce di ossidazione fu necessario usare tamponi di alcol isopropilico. Lo schermo di protezione di plastica fu delicatamente ripulito con un panno di microfibra inumidito con acqua deionizzata, mentre lo sporco coerente presente in modo generalizzato su tutta la superficie, localizzato soprattutto nelle graffiature, fu eliminato facilmente con lo stesso panno di microfibra inumidito con acqua deionizzata. Gli elementi interni (vetro dello schermo, componenti elettrici ecc.) furono puliti meccanicamente con spazzole e aspiratori; i depositi più coerenti furono eliminati con tamponi imbevuti di alcol etilico. Le parti metalliche ossidate furono pulite meccanicamente con micromotori e frese d’acciaio e con la successiva applicazione di un antiruggine (Owatrol®). I componenti dissaldati furono ripristinati mediante saldatura a stagno. Gruppo di lavoro – Laboratorio di restauro, Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”. Direttore: Pinin Brambilla Barcilon. Sandra Vázquez, Roberta Genta, Marco Demmerbauer, Bernadette Ventura, Paolo Luciani. – Laboratorio di Imaging, Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”. Elena Biondi, Alessandro Bovero, Daniele Demonte. – Centro di documentazione, Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”. Sara Abram, Elena Bozzo. – Università degli Studi di Torino. Tommaso Poli (Dipartimento di Chimica IFM). Anna Piccirillo. – ICN, Amsterdam. Anna Laganà
in collaborazione con – – – –
Fondazione ADI Collezione Compasso d’Oro. Enrico Morteo e Alessandra Fontaneto. Gruppo Miroglio. Associazione Amici del Centro Conservazione e Restauro “La Venaria reale”.
Bibliografia e sitografia S. Abram, Conservazione e restauro del design. La collezione storica del Compasso d’Oro come opportunità metodologica, in Unicità d’Italia
1961/2011. Made in Italy e Identità Nazionale [catalogo della mostra]. Fondazione Valore Italia, Venezia, Marsilio, 2011, pp. 357-361. Artribune: http://www.artribune.com/2011/07/compasso-doro-per-una-volta-a-roma/ [consultato il 5 febbraio 2012]. ADI Associazione per il Disegno Industriale: http://www.adi-design.org/homepage.html [consultato il 20 febbraio 2012]. A. De Marco, S.O.S. Modernariato in “Il Giornale dell’Architettura”, n. 57, dicembre 2007, p. 8. DNA Italia 2011. La conservazione del design e del modernariato: restauro, documentazione e formazione al “Centro Conservazione e Restauro” di Ve naria. Congresso organizzato dal Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale” nell’ambito di DNA Italia 2011: http://www.dnaitalia.it/it/salone/convegni/beni-immobili-e-mobili/1189-la-conservazione-del-design-edel-modernariato-restauro-documentazione-e-formazione-al-centro-conservazione-e-restauro-di-venaria.html [consultato il 15 novembre 2011]. G. Dorfles, Introduzione al disegno industriale, Torino, Einaudi, 2001. La conservazione del design. La Collezione Storica del Compasso d’Oro al Centro Conservazione e Restauro, in “Kermes”, n. 80, ottobre-dicembre 2010, p. 19. A. Pansera, Storia del disegno industriale italiano, Roma-Bari, Laterza, 1993. R. Verteramo, La collezione del Compasso d’Oro si cura a Venaria, in Il Giornale dell’Architettura, n. 89, novembre-dicembre 2010, pp. 29-30. Sandra Vázquez Pérez ha lavorato come restauratrice in importanti musei in Spagna e all’estero, tra cui la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel 2003 si è trasferita in Italia e dal 2006 è coordinatrice del settore arte contemporanea e restauratrice presso il CCR “La Venaria Reale”. Elena Biondi è coordinatrice del laboratorio di Imaging del CCR “La Venaria Reale” e realizza progetti di ricerca in collaborazione con società di tecnologia dell’informazione, università e altri centri internazionali di ricerca nel settore della diagnostica e della simulazione applicate al patrimonio culturale. Alessandro Bovero nel 2007 ha iniziato a collaborare come esperto di fotografia, multimedialità e 3D con il CCR “La Venaria Reale” e con il CSI Piemonte (il Consorzio per il Sistema Informativo regionale). È docente di Documentazione grafica presso il corso di studi di Conservazione e Restauro dei Beni Culturali dell’Università di Torino. Traduzione di Dario Moretti. La versione originale dell’articolo in spagnolo e la traduzione italiana, com plete delle immagini che non è stato qui possibile pubblicare, sono sul sito web di ADI (www.adi-design.org), nella sezione dedicata alla Fondazione Collezione Compasso d’Oro.
ISSN 0030-3305
Spedizione in abbonamento postale / 70% Direzione commerciale imprese - Napoli