Op.cit. 157

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settembre 2016

numero 157

La Lebenswelt popolare



Selezione della critica d’arte contemporanea


rivista quadrimestrale di selezione della critica d’arte contemporanea Direttore: Renato De Fusco

Comitato scientifico Philippe Daverio Kenneth Frampton Giuseppe Galasso Vittorio Gregotti Juan Miguel Hernández León Aldo Masullo Vanni Pasca Franco Purini Joseph Rykwert

Comitato redazionale Roberta Amirante Pasquale Belfiore Alessandro Castagnaro Imma Forino Francesca Rinaldi Livio Sacchi Segretaria di redazione Emma Labruna

Redazione: 80123 Napoli, Via Vincenzo Padula, 2 info: +39 081 7690783 - +39 081 2538071 e-mail: rendefus@unina.it - elabruna@unina.it Amministrazione: 80128 Napoli, Via B. Cavallino, 35/G info: +39 081 5595114 - +39 081 5597681 e-mail: info@graficaelettronica.it Abbonamento annuale: Italia e 25,00 - Estero e 28,00 Un fascicolo separato: Italia e 9,00 - Estero e 10,00 Un fascicolo arretrato: Italia e 10,00 - Estero e 11,00 Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione commerciale imprese - Napoli C/C/P n. 1012060917 Grafica Elettronica La rivista si stampa con il contributo di Generali Meccatronica Applicata Zona ASI Giugliano (NA)

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R. De Fusco, Editoriale 5 F. Rinaldi, Una “ipostasi” della forma-tatuaggio 11 V. Pagnini, Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi 22 L. Sacchi, Lebenswelt e architettura 33 C. Martino, Design vs Lebenswelt 43 Libri, riviste e mostre 55 Le pagine dell’ADI Campania 85

Alla redazione di questo numero hanno collaborato: Marcella Camponogara, Jacqueline Ceresoli, Alessandro Ippoliti, Carla Langella, Jacopo Leveratto, Maria Giovanna Mancini, Francesco Pasquale, Viviana Saitto



Editoriale RENATO DE FUSCO

In qualche precedente occasione, la nostra rivista è stata pubblicata come fascicolo monografico. Lo abbiamo fatto in presenza di originali formulazioni teoriche, quale la «Riduzione culturale» o di circostanze politico-culturali, come quella sul tema «Architettura italo-europea». Il presente numero speciale si occupa di un fenomeno non del tutto nuovo, «l’arte nel mondo della vita (Lebenswelt)», ma che si manifesta oggi in maniera particolare. Di tale fenomeno tracciamone i precedenti. Il termine Lebenswelt fu introdotto da Husserl nella Krisis per designare «il mondo in cui viviamo intuitivamente, con le sue realtà, così come si dànno, dapprima nella semplice esperienza poi anche nei modi in cui esse diventano oscillanti nella loro validità (oscillanti tra l’essere e l’apparenza ecc.)» (Krisis, § 44). Trasferito nella sfera delle arti, e di quelle visive di cui ci occupiamo, il concetto di «mondo della vita», che include molti fattori delle tendenze dell’avanguardia, deriva o è associato a un altro assunto ricorrente nello stesso genere di letteratura, quello della «morte dell’arte», dando luogo ad un indissociabile binomio. Il che è spiegabile, al di là di ogni caso specifico, col fatto che, essendo l’ideologia dell’avanguardia una esasperata esagerazione, non può trovare riferimento che con l’atto estremo della vita, la morte appunto. Sulla «morte dell’arte» da Hegel in poi si è sviluppa-

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ta una vasta letteratura a opera di filosofi, critici, militanti e manifesti d’artisti. Dicendo che l’arte è morta o sta morendo non si dichiara avvenuta o prossima la “morte dell’arte” preconizzata da Hegel come finale risolversi della conoscenza intuitiva dell’arte nella conoscenza scientifica o filosofica. […] Neppure può parlarsi di morte dell’arte nel senso con cui Nietzsche parlava della morte di Dio: l’arte non è un’entità metafisica, ma modo storico dell’agire umano. L’arte ha avuto un principio, può avere una fine storica. Come sono finite le mitologie pagane, l’alchimia, il feudalesimo, l’artigianato, così può finire l’arte […]. Ciò che storicamente conosciamo come arte è un insieme di cose prodotte da tecniche differenziate, ma aventi tra loro affinità per cui costituiscono un sistema: precisamente, il sistema che inquadra l’esperienza estetica della realtà. In tutta la storia della civiltà l’esperienza estetica costituisce una componente necessaria dell’esperienza globale. […] Per la prima volta, tuttavia, si ha una crisi simultanea di tutte le tecniche artistiche1. Per Mondrian l’arte tradizionale, connessa alla natura e al lirismo, non assolverebbe in pieno al suo compito, cioè quello di eliminare il tragico dalla vita, e scomparirà il giorno che la bellezza si realizzerà nella vita stessa. Intanto, in attesa che ciò si verifichi, la nuova arte astratta assolverebbe meglio il compito suddetto: L’arte, perché astratta e in opposizione con il naturale concreto, può precedere la sparizione graduale del tragico. Più decresce il tragico e più l’arte acquista purezza2. Un’altra interpretazione della «morte dell’arte» viene da alcune tendenze dell’avanguardia russa; segnatamente quelle che optano per un’«arte utile». Nata nel clima marcusiano del ’68, è la posizione di Filiberto Menna: se il progresso e la civiltà tecnica hanno dovuto sacrificare allo stato di necessità e alla sopravvivenza biologica la struttura psichica profonda dell’uomo, sublimandola in principio di prestazione, è giunto il momento di procedere in senso inverso, dalla “civiltà” alla “natura”, recuperando quest’ultima come momento


autonomo e originariamente positivo della persona umana. In questa operazione l’attività artistica subisce una reinterpretazione radicale sulla base di alcune premesse dell’avanguardia e del movimento moderno: l’arte, come attività separata dalla vita, perde ogni significato e ogni valore. In questi modelli utopici di esistenza, quel che interessa, al limite, è […] il passaggio dell’arte in esteticità generale e in vivente bellezza. Si ripropone di nuovo la nozione della morte dell’arte: ma, questa volta, con una fondamentale differenza rispetto alla morte hegeliana, poiché l’arte non va incontro a un processo di sublimazione (o sedicente tale) nella assolutezza dello spirito, bensì va incontro a un processo di dispersione, di dissipazione vitale. Fino a morire, certo, ma questa volta non di ragione, ma di vita3. Di questa generosa utopia si è realizzata l’intima connessione tra piacere, sensualità, ecc., ma non in nome della bellezza, dell’arte e della libertà, bensì in quello del più smaccato malcostume e della violenza, donde la formula marcusiana «Eros e civiltà» è rimasta ancora sconfessata dall’amara constatazione freudiana del «Disagio della civiltà». Notiamo per inciso che tutte le preconizzate morti dell’arte non si concludono mai con la dichiarazione di una sua vera e propria fine, bensì con il risolversi dell’arte in qualcos’altro, a partire dallo stesso Hegel. Tra le più sofisticate interpretazioni della «fine dell’arte» è quella del filosofo americano Arthur C. Danto; egli si collega a una curiosa tesi sulla fine dell’arte che cerca di portare avanti ormai da diversi anni; è un modo piuttosto teatrale per dire che le grandi narrazioni che definirono prima l’arte tradizionale e poi quella moderna sono giunte al capolinea, e che l’arte contemporanea non si lascia più rappresentare da nessun genere di grande narrazione. Queste infatti hanno escluso alcune tradizioni artistiche decidendo che “ricadevano al di fuori della storia”, per mutuare un’espressione hegeliana che ho ormai fatto mia. In un altro punto Danto ribadisce È questo

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che intendo quando parlo di “fine dell’arte” la fine di una storia dell’arte che si dispiega nella forma di una narrazione razionale. La mia idea era che non ci fosse più una direzione prestabilita in cui l’arte dovesse procedere, non c’era risposta alla domanda dei giornalisti «Dove sta andando l’arte?». Chi abbia letto il mio saggio del 1984 After the End of Art sa bene che questo stato di cose non suscitava in me particolare entusiasmo. Non mi piaceva l’idea che quella che consideravo una grande e nobile epica fosse giunta al termine. Ma negli anni che seguirono imparai a convivere con il pluralismo; compresi che il crollo della grande narrazione della storia del­l’arte era stato liberatorio, e che dovevamo accostarci al presente senza l’ausilio di quella, o quelle, narrazioni che avevano reso un così buon servizio ai nostri predecessori, da Vasari a Gombrich4. Altro assunto dell’autore citato è che alla fine degli anni sessanta era già chiaro che qualsiasi cosa poteva diventare un’opera d’arte, donde il fatto che la vecchia domanda «cos’è l’arte?» andava sostituita con una nuova: «cos’è che distingue un’opera d’arte da un semplice oggetto nel momento in cui essi siano visivamente indistinguibili?». Conclusiva della sua posizione è l’affermazione: viviamo oggi in un’epoca di grande pluralismo e assoluta tolleranza, almeno nel mondo dell’arte e forse solo in esso. Niente è escluso5. Ritornando al nostro tema, sorge la domanda: posto che il destino dell’arte d’oggi, sia in tutto o in parte, il risolversi nella vita, qual è la Lebenswelt del nostro tempo? Questa non riguarda più la poetica del concretismo, lo sfociare della pittura nell’architettura e nel design, il Bau­ haus, il Vchutemas, l’Hochschule für Gestaltung di Ulm, bensì qualcos’altro che implica il gusto popolare, l’effimero, l’usa-e-getta, il kitsch e simili. Che da qualche decennio l’arte contemporanea non proponga solo edifici, sculture, quadri, mobili e altri beni culturali è esperienza comune; ma da qualche anno quest’arte fuori da musei e gallerie è venuta assumendo aspetti ancor più insoliti.


Certo, da tempo immemorabile, gli uomini hanno messo in piedi strutture, riempito i muri di scritte e disegni, manipolato il paesaggio, ricoperto il proprio corpo di tatuaggi e di piercing, attività che l’avanguardia del XX secolo ha chiamato happening, Land art, Body art e simili. Il fenomeno di cui si occupa il nostro fascicolo va ben oltre queste categorie. Ovviamente non ci entusiasmano tutte le scritte sui muri, i tatuaggi, i piercing, i jeans strappati da finti poveri, la tendenza degli uomini a non radersi e quella delle donne a scoprirsi la pancia o il fondoschiena, come d’altro canto la ripetitività politica e pubblicitaria, il volgare sia tecnologico che artigianale, ma non possiamo ignorare quel che dice Adorno: persino nel falso bisogno dei viventi sussiste un moto di libertà: ciò che la teoria economica ha chiamato valore d’uso in contrapposizione all’astratto valore di scambio. Perché si rifiuta di dare agli uomini ciò che così fatti – e non altrimenti – essi vogliono e di cui hanno magari bisogno, l’architettura legittima appare loro necessariamente nemica6. Ora, accantonando la nostra formazione elitaria, il buon gusto, le belle maniere, non ci troviamo per caso proprio di fronte a nuova vivente forma d’arte, il termine inteso nel­ l’accezione più ampia? Che in questi fenomeni «popolari» esista una valenza estetica è dimostrabile col concetto stesso di «mondo della vita». Nella Lebenswelt, scrive Enzo Paci, non solo gli uomini si comunicano delle nozioni ma si incontrano, si riconoscono, vivono uno nell’altro, si convincono e si persuadono. Il loro mondo più che comunicante, è intersoggettivo. Gran parte del mondo precategoriale intersoggettivo è fondamento dell’arte, così come è persuasione senza dimostrazioni astratte. Una società viva è sempre una società estetica e l’arte come tale è fondamento di ogni uomo nell’altro: di ogni uomo come soggetto in modo che nessuno sia reso oggetto o sfruttato da un altro. Così l’arte vivente è continua fondazione e riproduzione di vita sociale7. L’essere precategoriale non significa che la Lebenswelt non abbia anche una

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sua storicità, donde la sospensione di giudizio sul bello delle citate forme dell’arte d’oggi, che, senza alcun moralismo, vanno intese come il gusto, definibile come convenzione storico-estetica, di una popolare maggioranza. Ancora una volta vale l’aforisma di Spinoza: non ridere non lugere, neque detestari, sed intelligere.

1  G.C. Argan, L’arte moderna 1770-1970, Sansoni, Firenze 1970, pp. 605-6. 2  P. Mondrian, «De Stijl», III. 3  F. Menna, Profezia di una società estetica, Lerici, Roma 1968, p, 151. 4  A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. XIII. 5  Ivi. 6   Th. W. Adorno, Parva aesthetica, Feltrinelli, Milano 1979, p. 121. 7  E. Paci, Intervento sulla Proposta di comportamento di Enzo Mari, in «NAC», nn. 8-9, agosto-settembre 1971.

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Una “ipostasi” della forma-tatuaggio FRANCESCA RINALDI

Al concetto di Lebenswelt, o mondo della vita posto come antinomico a quello dell’artificio, può ricondursi una densa galassia di esperienze estetiche contemporanee dirette alla riappropriazione spontaneista del gesto creativo, a una sua re-integrazione nel mondo del vissuto individuale. Si tratta di uno slittamento della sfera estetica al soggettivo assoluto, atto dimostrativo di affrancamento rispetto alla cul­tura dell’Arte ufficiale con i suoi impalcati teorici. È immediato chiedersi se la presunta genuinità di queste esperienze estetiche – nelle quali il soggetto agente viene conoscitivamente deresponsabilizzato1 – sia da considerare un azzeramento delle sovrastrutture consolidate o non, piuttosto, l’asintoto di queste rispetto ad una mutazione radicale dei contenuti e delle forme d’Arte, un trasferimento della Cultura dalle regioni della speculazione critica a quelle della percezione sensoriale, priva di mediazioni logiche e, per certi versi, realmente popolare, una sottocultura in contrasto con la cultura e la moda ‘istituzionali’ [in cui] gli stili di strada si sono trasformati in quello che Ted Polhemus chiama il “supermarket dello stile”2. A questo proposito il fenomeno dilagante del corpo tatuato vale a dimostrare come si senta il bisogno non semplicemente di vestire un abito culturale sopra quello naturale, ma di riuscire a incarnare la fluidità della vita, di

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donare all’arte gli stessi ritmi dell’esistenza. I tatuaggi non […] sono più rappresentazioni di tappe del vissuto quanto piuttosto materializzazioni temporanee della memoria. Sono immagini che fungono da mediazione nel rapporto tra il soggetto e la vita3. Il Lebenswelt, qui, è una regressione del rapporto soggetto-realtà allo stadio del puramente emozionale, volontaria negazione di quella universalità cui ogni ente sensibile può essere ricondotto ed alla quale si accede tramite le facoltà del pensiero concettuale4. Ora, in merito alla distinzione di categoria tra estetico e artistico, la forma ‘tattoo’ ricadrebbe nella seconda per il suo dare piacere indipendentemente dalla cultura e dalla preparazione e si giustificherebbe nel quadro della più generale Crisi del Moderno dove, se tutto è vertigine5 e vacilla all’esterno del soggetto, ciò che invece vale resistendo al Nulla è il contesto del sensibile, antipolare ai linguaggi frutto di astrazione. In altre parole, la forza del Lebenswelt inverte il processo di allontanamento dall’oggetto concentrando – ed esaurendo – nel Senziente il doppio ruolo della esperienza e della rappresentazione metaforica. Nell’impossibilità di dare risposta al quesito su quale sia oggi l’ultima identità del fatto artistico, l’attore della Crisi ricorre all’analfabetismo primordiale rifondando i modi e i contenuti del suo Kunstwollen. Se, infatti, per accedere al senso complessivo dei linguaggi dell’arte […] dobbiamo conoscere […] la loro grammatica, la loro sintassi, il loro vocabolario6 in assenza di un sapere artistico il sentimento individuale del mondo7 assume altre forme così che nell’immagine tatuata la ‘forma esistenziale’8 finisce per sovrapporsi alla ‘forma effettuale’9 finché la coincidenza di significato e significante non innesca la definitiva scomparsa della cornice (“isolatore dell’artisticità” per Ortega) con un conseguente cortocircuito tra il committente, il contenuto, il contenente, il destinatario. È allora che la pertinenza della critica d’arte rischia di confondersi con la sociologia quando non, in casi estremi ma non rari, con la psicopatologia.


Attualità e fortune del fenomeno tattoo Nel luglio 2016 per la prima volta un museo di arte contemporanea ha ospitato una mostra tematica sul tatuaggio. Il direttore del Macro di Roma se ne è compiaciuto sostenendo che se le opere pittoriche e scultoree sono considerate arte contemporanea, anche il tatuaggio deve essere ritenuto tale poiché cambia solamente il tipo di supporto utilizzato, che in questo caso è la pelle10. L’affermazione si allinea con la diffusa adiaforizzazione dell’arte ovvero la sua estensione a qualsiasi forma d’espressione che includa azioni creative del nuovo o modificatrici dell’esistente. Ma mentre altri fenomeni di mass-moda11 si archiviano per il loro evidente carattere effimero, risulta in verità improprio, a proposito del tatuaggio, parlare di moda, in quanto se la moda tende al cambiamento per statuto, il segno tatuato sulla pelle è per eccellenza ciò che non si può cambiare […] una pratica per molti difficile da condividere, decisamente iniziatica nei suoi significati12. Dopo averne delineato i caratteri essenziali, proveremo allora, alla luce di alcune teorie critiche contemporanee, a valutarne l’inclusione nel campo dell’Arte. Va premesso che il termine ‘tatuaggio’ indica in modo ambivalente sia una tecnica di decorazione corporale che il suo contenuto. Il verbo to tattoo, di origine polinesiana, vuol dire disegnare, marcare con segni13 e, nella sua forma comune, consiste nell’incidere la pelle ritardandone la cicatrizzazione con sostanze particolari o nell’eseguire punture con l’introduzione di sostanze coloranti nelle ferite. La tecnica del tatuaggio, introdotta per la prima volta in Europa nel quindicesimo secolo ma subito confinata sulle navi e nelle galere, vi è stata praticata per secoli in modo più o meno clandestino14 fino alla stigmatizzazione conclusiva di Loos che, ad inizio secolo, considerò l’uomo moderno che si tatua come un delinquente o un degenerato15. Ma da una angolazione funzionalista la sentenza loosiana trova radice in un clima di esaltazione dello sviluppo industriale che esclude dall’apprezzamento estetico le ester­nazioni su-

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perflue di horror vacui. Dunque, prima di assumere il teorema loosiano quale criterio discriminante, in una riflessione sulla valenza artistica della decorazione corporale vanno affrontati alcuni livelli di approccio: motivazionale, storicoantropologico, semiologico. La differenza esibita La massiccia diffusione trasversale della pratica tatuativa può attribuirsi a un’esigenza di differenza rispetto alla omologazione della massa: in un’epoca che esalta l’individualismo e l’unicità dell’uomo e allo stesso tempo frustra il suo raggiungimento spingendolo verso l’omologazione, la scelta del proprio corpo come luogo primario del processo di individuazione potrebbe spiegare il perché questo fenomeno antichissimo sia oggi così ampiamente diffuso16. Si intende cioè realizzare un abbellimento arcaicizzante che virtualmente restituisce una identità mancante all’individuo in formazione: i ragazzi che oggi si fanno dipingere o forare il corpo […] sono individui che attraverso la decorazione cercano di esibire una differenza17. Il Lebenswelt è qui rivendicazione individuale all’autorialità d’arte: l’opera la contengo in me, essa coincide con il mio io, fisico e spirituale e per renderla astante io confeziono me stesso al modo di un quadro, di una scultura, di una performance. In altre parole, come già detto, il Lebenswelt trasfigura un atto privato, sussunto nella propria fisicità: la trasformazione del corpo equivale ad una trasformazione della propria immagine psichica18 in maniera per certi versi complementare a quella della chirurgia estetica19. La contraddizione insorge quando da marcatore di una differenza il tatuaggio si fa moda indifferentista, imitativa, deprivata di referenti culturali, ennesima versione di massificazione. L’attribuzione di senso

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Il gesto autoreferente del tatuaggio sottrae terreno alla Cultura decidendo di nuovi, insindacabili valori: la carne è


solo il punto di partenza, la tela bianca, il pretesto per l’abbellimento di parti del corpo visibili e invisibili […], il corpo ‘comunica’ solo se la sua nudità viene arricchita, trasformata, vivificata da un linguaggio20. Il corpo scritto diventa corpo leggibile21 e guadagna valore aggiunto: il Lebenswelt fornisce un codice di senso sostitutivo a quello artistico tradizionale, elitario: liquidati parametri e preconcetti di natura accademica, esso elabora un universo finzionale22 affidato all’arbitrio soggettivo. Si definiscono così un nuovo paesaggio e un nuovo linguaggio23 una nuova trascendenza in cui la crisi del Moderno, nel deserto dei suoi valori e miti, viene contrastata da una ridondanza artificiale di senso ostentata sul corpo vivo, unico baluardo opponibile al vuoto del Progresso. Nel millennio digitale la scena vergine dell’abito dermico appare come la sola in grado di ospitare una narrazione resistente, contraccolpo al nichilismo e traduzione della condizione postmoderna in eccesso di iscrizioni e di scrittura. Il tatuaggio neutralizza l’astrazione di arte e letteratura trasferendole in una dimensione de-civilizzata che contesta l’apollineo per ristabilire il tragico. Se, infatti, il sapere tragico è il sapere che mette in questione ogni sapere, l’estetica della crisi non può che rivolgersi alla verità arcaica del primitivo che non conosce teorie ma metaforizza attraverso la propria carne. In controtendenza rispetto all’etica novecentesca che scopriva la nudità come rivelazione del Vero, l’ultra-ornamentazione del XXI secolo realizza uno scambio anarcoide, sovrabbondante, in cui il corpo della comunicazione si identifica con il corpo stesso di colui che comunica: medium e metafora coincidono nell’indifferenza tra superficie segnica e sostegno significativo. Il tatuaggio perciò […] è un’apertura significativa poiché […] ripropone la scrittura corporea […] nel paradosso di una superficie resa significativa dalla superfluità delle grafie24. Un paradosso interessante in cui il soggetto-artista si sgancia dall’eso-sistema per ripiegare nel Mondo della Vita modellando sull’organismo corporeo gli esiti formali della materia e riferendo alla sua morfogenesi la stessa

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creazione artistica25. In altre parole, l’ornamento, considerato come luogo della relazione psicologistica che si instaura tra soggetto e oggetto, […] è il “supplemento d’anima” che reagisce alla condizione di disincanto del mondo realizzata dalla tecnica26. La pelle che si sostituisce alla tela diventa Bekleidung, sorta di vestiario, strumento di significazione, canale di nuove potenzialità conoscitive ed espressive27 riversamento della cultura in natura sotto forma di Endoxa28 (ovvero di un sapere approssimativo e stereotipato). Ciononostante, in un quadro semiologico, l’immagine tatuata è inespressiva perché selezionata entro un repertorio figurativo spesso incongruo rispetto all’individuo inteso come realtà-sorgente. D’altro canto, all’accusa che il segno rappresentato sia segno seriale, assunto in forma polivalente e quindi devitalizzato della sua aura, si obietta che, al contrario, ogni tatuaggio è […] un pezzo unico […] e la natura mortale del supporto è al contempo forza e debolezza di questa forma d’arte, che necessita di documentazione fotografica per sopravvivere al disfacimento del corpo29. La rivendicazione sociale

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In un modello sociale primitivo, la nudità senza ornamenti impedirebbe […] di leggervi l’appartenenza al gruppo e il rango raggiunto al suo interno. […] Il nudo assoluto, senza ornamenti, va rimosso perché cadaverico […] e, proprio come la morte, in sè la nudità non significa nulla ma anzi cancella ogni significato30. Ecco perché il Papua loosiano non è un delinquente: egli fa della sua neutrale nudità un supporto idoneo all’integrazione socioculturale perché esiste un codice altamente strutturato e complesso di tatuarsi per comunicare messaggi ben precisi rispetto alla propria provenienza, alle proprie “opere”, al proprio ruolo31. In più, l’atto decorativo che comporti dolore sul corpo dimostra altresì la forza d’animo dell’individuo al cospetto della comunità potenziandone,


oltre ad una presunta bellezza, anche un carisma magico: la sofferenza fa parte del processo di identificazione dell’individuo perché produce in un colpo solo identità e differenza; se sopportare il dolore senza lamentarsi è segno di forza, il piercing, come il tatuaggio o la circoncisione, fa parte dei riti di appartenenza alla tribù32. Una appartenenza che contraddice, tuttavia, l’esibizione di quella differenza di cui si è detto in precedenza. Tra no-global e bellezza postmoderna In chiave politico-culturale la scelta di agire il proprio corpo quale scena del dolore rappresenta, come già fu per la Body Art, anche una contestazione della virtualità cibernetica e dell’intelligenza artificiale, ‘sfida’ alla manipolazione digitale del mondo. La fisicità che l’Arte ha bandito dalla sua visione metaforizzante torna come pre-Logos per rinegoziare i miti consumati dal Progresso33. Questa affinità modale con la Body Art, catarsi attraverso la via crucis del brutto crudamente esibito34 non asservita alle ideologie dominanti35 è scontro tra Consistenza arcaica ed Effimero, esaltazione di una anti (sotto?)-cultura che liquida secoli di dialettiche fallimentari. Il corpo così inteso diventa un campo che dev’essere completato con l’orecchino (o con il tatuaggio) e così modificato, il che vuol dire che non vi è alcuna bellezza naturale, in sé, del corpo, ma che essa è frutto dell’artificio, o meglio dell’arte con cui l’uomo lo adorna36: si introduce una sorta di complicazione plastica, postmoderna del concetto classico, ‘naturale’, di bellezza, un’idea barocca di bellezza come deformazione grottesca, sovraccarico, scrittura cifrata o riproduzione dell’arcaico37. In sintesi, la forma tattoo è fenomeno estetico di massa che: denuncia l’omologazione sociale rimarcando l’identità individuale attraverso una differenza; reagisce alla Crisi del Moderno con una sovrabbondanza di senso, veicolata sul ‘corpo antico’; esibisce il coraggio della sofferenza fisica per contestare la virtualità dominante; rivendica la sfera privata

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del corpo come alternativa democratica al circuito snobistico dell’arte accademica; liquida l’arte tradizionale sostituendole una espressione sintetica in cui l’Autore, il Fruitore, il Supporto, la Forma e il Significato coesistono e coincidono; impone una narrazione di tipo autobiografico; adotta segni iterati, inautentici, solitamente privati di aura originale; realizza una Bellezza post-moderna di tipo anti-classico, fatta di sovraccarichi ornamentali e scritture cifrate. Un valore d’arte

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Il teorema su cui fonda l’ambizione artistica della forma-tattoo è grosso modo il seguente: quando si presta il proprio corpo per imprimervi un tatuaggio diventiamo “tele umane” al servizio dell’artista, un supporto sopra il quale egli esprime il suo genio. I tatuaggi quindi sono arte perché c’è creatività, studio, abilità, inventiva, passione e fatica. Sono arte perché i tatuatori sono artisti esperti, abili disegnatori e pittori che creano, plasmano e trasformano la pelle. Artisti contemporanei che introducono l’arte nella vita. Sono arte perché emozionano38. Una tesi centrata sull’abilità esecutiva del tatuatore congiunta alla qualità emozionale della sua creazione, valori che, da soli, non basterebbero tuttavia a sdoganare la forma tattoo alle frontiere dell’Arte, o almeno di quella dei circui­ ti ordinariamente accreditati. Rapportiamo allora l’estetica del tattoo alle maggiori posizioni teoriche contemporanee che hanno esplorato i confini tra artistico ed extra-artistico, estetico ed extra-estetico. Nell’approccio élitista di Clive Bell nel quale l’arte è pura forma significante sganciata dalla rappresentazione, dalla Storia e dai contesti, in grado di indurre emozioni estetiche39 la forma tattoo non troverebbe spazio per l’inadeguatezza del suo supporto e la dequalificata deperibilità della forma; in una teoria procedurale che fa riferimento a pratiche sociali […] piuttosto che a caratteristiche intrinseche dell’opera40 tatuaggi, piercing e graffitismo sarebbero ammessi al piano di artisticità per la loro stessa


qualità di esposizione visiva all’apprezzamento di un pubblico dal momento che chiunque pensi a se stesso come a un artista appartiene per questo stesso fatto al mondo dell’arte41; nell’ottica istituzionale di Dickie, che considera il mondo dell’arte una vera e propria istituzione sociale42 avente il compito di conferire ad un artefatto lo “status” di opera d’arte, il tatuaggio risulterebbe inaccettabile in quanto estraneo ai circuiti criticamente accreditati a valutarlo e perché del tutto autoreferenziale rispetto al pubblico cui le opere si rivolgono per elezione; in una visione relazionale come quella di Danto dove le opere d’arte […] hanno a che fare con la storia e con la storia dell’arte43 e dove la bellezza artistica non è un prodotto naturale ma intellettuale, il tatuaggio sarebbe relegato al rango di socializzazione estetica priva di valenze artistiche; nella posizione intenzionale di Levinson44 dove l’arte è qualcosa di concepito per essere considerato un’opera d’arte45 a prescindere dalle strutture e dalle convenzioni sociali le intenzioni degli artisti sono centrali per stabilire la differenza tra arte e non arte, tuttavia non si può rendere arte ciò che non ci appartiene46 e questo ‘diritto di proprietà’ taglierebbe fuori il tatuaggio dallo status di artisticità. Dal punto di vista critico, quindi, due binomi definiscono il fenomeno tattoo: 1. il rapporto committente / esecutore che, se in un’opera d’arte è solitamente sbilanciato in favore dell’abilità del secondo, nella pratica del tatuaggio riporta invece il peso sul ruolo del committente che è, in questo caso, promotore di una «volontà d’arte» e supporto stesso dell’opera; 2. la singolarità del supporto: l’immagine tatuata (forma significante) viene esternalizzata sul corpo del solo soggetto che se ne adorna, solo attraverso di lui si giustifica e muore. Senza autonomia significante del prodotto artistico il corpo non solo diventa un trasmittente figurativo permanente, ma la sua partecipazione attiva alla diffusione dell’immagine muta la sua stessa percezione47. Il luogo di esposizione e scambio culturale dell’opera si circoscrive a un corpo vivente così che potremmo dire che i musei di tatuaggi […] sono dei musei erranti.

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Le opere sono in continuo movimento, incise sulla pelle delle persone48. Anomalia, questa, che solleva a sua volta una vecchia, irrisolta questione: a chi appartiene davvero un’opera d’arte? In bilico tra questioni antropologiche, socio-politiche e filosofico-estetiche, nessuna sentenza conclusiva può dunque essere pronunciata in merito allo status artistico della forma tattoo. Essa continua in fondo a offrirsi alla critica come alternativa sfuggente, beffarda provocazione di un Lebenswelt in cui Arte e Vita (finalmente?) tendono a identificarsi o grottesca espressione di una sottocultura pretenziosa che aspira alla comunicazione emozionale tramite un prèt-à-porter di segni stereotipati. Con ironia Warburton sug­gerirebbe forse che usare l’arte come veicolo che ci conduca alle emozioni della vita è come usare un telescopio per leggere le notizie del giorno49.

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1   Cfr. F. Rella, Miti e figure del Moderno, Feltrinelli, Milano 2003, p. 22. 2   Cfr. P. Calefato, Mass moda: linguaggio e immaginario del corpo rivestito, Universale Meltemi, Roma 2007, p. 23. 3  Cfr. E. Albanesi, Per una storia dell’arte del tatuaggio, in «404: file not found», rivista online. 4   Cfr. K. Fiedler, Realtà e arte, in AA.VV., I percorsi delle forme. I testi e le teorie, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 71. 5   Cfr. F. Rella, op. cit., pp. 2 e sgg. 6   Ivi, p. 208. 7   Ivi, p. 207. 8  A. von Hildebrand, Forma esistenziale e forma effettuale, in AA.VV., I percorsi delle forme. I testi e le teorie, cit., p. 86. 9   Ibidem. 10   Cfr. D. Michielin, I tatuaggi diventano arte contemporanea, in «Wired», giugno 2016. 11   Cfr. P. Calefato, op. cit., p. 78. 12   Ivi, p. 79. 13   Cfr. E. De Conciliis, La decorazione del nudo: note sociologiche su piercing e tattoo, in «Kainos», n. 8, 2008. 14   Ibidem. 15   A. Loos, Parole nel vuoto, Adelphi Edizioni, Milano 1972, pp. 217 e sgg. 16  G. Radi, Il sigaro di Freud, psicologia della vita quotidiana, http: //www.ilsigarodifreud.com. 17   Ibidem.


Ibidem.   Ibidem. 20   Ibidem. 21   Cfr. P. Calefato, op. cit., p. 77. 22   Ivi, p. 30. 23   Cfr. F. Rella, op. cit., pp. 2 e sgg. 24   Cfr. L. De Santis, Body Building, Il corpo, l’abito, l’architettura, La Città del Sole, Giugliano in Campania (Na), 2002, pp. 81 e sgg. 25   Ibidem. 26   Ibidem. 27   Ibidem. 28   Cfr. R. Barthes, Mythologies, citato in P. Calefato, op. cit., p. 22. 29   Cfr. D. Michielin, op. cit. 30   Cfr. E. De Conciliis, op. cit. 31   Cfr. G. Radi, op. cit. 32   Ibidem. 33   Cfr. F. Rella, op. cit., pp. 26. 34   Ibidem. 35  R. Bodei, Le forme del bello, Il Mulino Edizioni, Urbino 2000, p. 115. 36   Cfr. E. De Conciliis, op. cit. 37   Ibidem. 38  Cfr. P. Gaboardi, Il tatuaggio è arte, http://www.allaroundkaarl.com/il-tatuaggio-e-arte, ottobre 2015. 39   Cfr. N. Warburton, La questione dell’arte, Einaudi, Torino 2004, p. 3. 40   Ivi, p. 78. 41   Ivi, p. 87. 42  Cfr. George Dickie: La definizione istituzionale dell’arte, in http://alkahest.it, 19 maggio 2014. 43   Cfr. A.C. Danto, Il mondo dell’arte, trad. it. in F. Bollino, a cura di, Estetica analitica, numero monografico di «Studi di estetica», 2003-2004, vol. I, pp. 65-86. 44  P. D’Angelo, a cura di, Introduzione all’estetica analitica, Editori Laterza, Roma-Bari 2008, p. 25. 45   Ibidem. 46   Ibidem. 47   Cfr. E. Albanesi, op. cit. 48   Cfr. D. Michielin, op. cit. 49   Cfr. N. Warburton, op. cit., p. 5. 18 19

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Aspetti e intenti del graffitismo d’oggi VALERIA PAGNINI

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Personaggi dai volti corrucciati, mani che reggono cartelli di protesta, scritte, simboli e slogan coloratissimi… Non c’è grande metropoli o piccola cittadina che non mostri sulle facciate dei suoi palazzi le tracce di queste «vernici sovversive», e la loro presenza è ormai così consolidata nell’immaginario collettivo che il paesaggio urbano si caratterizza (anche) per le sue superfici, coperte da questa molteplicità di forme e parole. Ma, a dispetto della penetrante visibilità dei graffiti, o forse proprio a causa di essa, questa pratica diffusa non permette una sua facile «lettura». Si tratta, infatti, di un fenomeno ricco di sfaccettature e, per molti aspetti, difficile da definire, perfino quando si cerca di individuarne le origini, ancora oggi non del tutto chiarite. Secondo gli studiosi, il graffitismo, come pratica ideologicamente determinata, è nato nella New York degli anni settanta del Novecento, ma, provando ad analizzare il legame tra le forme storicizzate di arte nello spazio urbano e manifestazioni come il writing e la street art, i prodromi di questa pratica possono individuarsi in tempi molto meno recenti: l’osservazione delle prime forme di arte urbana che vedono la luce nell’Ottocento, quando l’espansione territoriale delle prime metropoli e la contemporanea invenzione del tempo libero cambiano la percezione del dato urbano, si rivela particolarmente utile. Le affiches parigine di fine Ottocento sono spesso considerate come


uno dei primi esempi di arte urbana degni di nota, sia per il supporto cartaceo su cui venivano stampate – che ricorda i poster del ’68 parigino come anche i paste-up di artisti come Faile o Shepard Fairey –, sia per il caos visivo che generarono in un’epoca in cui le affissioni pubblicitarie non erano ancora regolamentate1. In realtà, applicando i criteri di ricerca alla semplice pratica del disegno sui muri si potrebbe arrivare ancora più indietro, ma è chiaro che il graffitismo come fenomeno non si caratterizza esclusivamente per le tecniche e i contesti di espressione: la strada è certamente parte del suo codice linguistico, ma non ne definisce compiutamente i contorni. Il writing è, nell’accezione comune, il segno grafico che invade lo spazio, che occupa un luogo che non gli appartiene: è una forma di provocazione, il più delle volte schierata contro il sistema, genericamente inteso. Ogni parola è anche forma, e ogni segno è anche concetto: fondamentalmente, i writers nascono per trasmettere un messaggio (nella maggior parte dei casi, di protesta), e, rifiutando la società e i suoi meccanismi, preferiscono esprimersi sulle facciate dei palazzi, nelle piazze e sulle strade per fare in modo che la loro battaglia, disegnata e non combattuta, sia presa in considerazione da tutti. In poco tempo, i graffiti conquistano anche i treni, e non è un passaggio da poco, tantomeno sorprendente, forse, dal punto di vista storico. […] Il treno, nel suo movimento, è il mezzo perfetto per allargare gli orizzonti e conquistare nuove storie. Il writer che pone la sua firma su un treno consegna la sua visione a sguardi concettualmente lontani e diversi, ribadendo quel bisogno di condivisione del pensiero, e viaggio, che è primo requisito per una cultura alla ricerca di dialogo2. Ma subito prima di cercare di comprendere e categorizzare gli aspetti peculiari di questa manifestazione, le domande che nell’ambito di questo articolo si vogliono porre, e che sorgono spontanee nell’analisi di questo tema, sono: intesa come una forma di espressione della società contemporanea, questa pratica del graffitismo è ascrivibile a un fe-

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nomeno artistico? Si può leggere come l’innere Sprachform del nostro tempo, una nuova forma d’arte che rispecchia le esigenze estetiche degli uomini di oggi? E ancora: quale grado di innovazione ha rispetto alle manifestazioni artistiche del passato? È possibile applicare i criteri della teoria dell’arte allo studio del graffitismo? Non si vuole qui proporre una risposta a queste domande, ma si tenta, piuttosto, di individuarne le invarianti e di problematizzarne le questioni, soprattutto alla luce del generale assenso che, in particolare negli ultimi anni, sembra dilagare nei confronti di questo fenomeno, nonostante, almeno all’inizio, il graffitismo nascesse come atto vandalico, e come tale fosse considerato da amministrazioni e pubblico che invece oggi ne acclamano i risultati. In primo luogo, occorrerà fare una fondamentale distinzione tra graffitismo e street art, specificando che è il primo di questi due fenomeni che si intende principalmente analizzare. Ciò che oggi si configura come una pratica accettata e addirittura richiesta su commissione da privati ed enti pubblici è principalmente la street art, da alcuni considerata l’evoluzione del graffitismo: ciò non toglie che i confini tra l’una e l’altra tendenza sfumino con grande facilità, se non nelle intenzioni e nelle tecniche, senza dubbio nei risultati della fruizione da parte del pubblico, e in molti casi appare difficile individuare le motivazioni e i criteri che definiscono «arte» l’una o l’altra manifestazione. Si potrebbe pensare che la principale differenza tra i due fenomeni, o almeno nella loro percezione da parte del pubblico, risieda, ancora una volta, nel grado di apprezzamento esplicitato dalla critica: il nuovo millennio si apre all’insegna della street art. Dopo anni di dura repressione, gli interventi urbani vengono sdoganati, applauditi e ricercati, e gli street artist sono portati in trionfo. Lo fa il “pubblico”, ma lo fanno anche la critica, il mercato, i media. L’estetica è mutata, e l’arte ha avvicinato le sue forme a quelle della strada, rendendo le incursioni sui muri più facilmente comprensibili3. Una volta segnato questo nuovo confine, cambia in parte l’atteggiamento degli artisti, che, a


differenza dei loro predecessori, come si vedrà più avanti, cercano contatto e scambio, anche e soprattutto attraverso la rete. Alla luce di queste considerazioni, mi sembra necessario, dunque, individuare lo ‘spazio di pertinenza’ di questo fenomeno, definendone i confini e rinegoziandone le posizioni rispetto alle altre manifestazioni del passato. L’assunto relazionale È stato osservato che al giorno d’oggi la cultura, intesa come complesso delle conoscenze dell’uomo in quanto essere sociale, non è più legata al «possesso» di un bene o di un’informazione, ma alla loro «fruizione». Nell’età contemporanea, la cultura si esprime in una prospettiva relazionale e reticolare: lungo questa linea, l’antropologo svedese Ulf Hannerz afferma che in quanto sistemi collettivi di significato, le culture appartengono innanzitutto alle relazioni sociali e ai network di queste relazioni4. In questa prospettiva, il bene culturale non è più inteso unicamente come bene in sé da conservare o valorizzare, ma come fonte di informazioni multiple, che trovano tra le loro principali ragion d’essere lo scambio dei dati e la loro interpretazione, prima individuale e poi condivisa. Anche nel campo dell’arte, le operazioni più vivaci che si manifestano in questo settore si svolgono all’insegna di nozioni interattive e sociali. Nicolas Bourriaud parla, a questo proposito, di arte relazionale: un’arte che assuma come orizzonte teorico la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale, piuttosto che l’affermazione di uno spazio simbolico autonomo e privato5. Secondo lo stesso autore, dopo un intenso periodo in cui l’arte ha lottato per l’affermazione dell’espressività e autonomia del singolo, la cultura contemporanea vuole reinvestire sull’idea del plurale, proponendo nuove modalità di interazione sociale e comunicazione interpersonale: sarebbe questa la nuova ‘aura’ dell’opera d’arte, la capacità di portare alla luce la dimensione relazionale dell’esistenza.

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Si possono inscrivere in questa analisi gran parte delle pratiche artistiche e delle tendenze che portano l’arte al di fuori dei limiti imposti dalle gallerie: si pensi agli happenings o alla land art, forme di espressione che puntano l’attenzione sul confronto con il pubblico, attribuendo allo spettatore un ruolo attivo e significativo nell’elaborazione della performance. Anche il graffitismo può essere letto, per certi versi, come un fenomeno di questa tendenza, sia per le sue modalità di realizzazione che per quelle di diffusione dei suoi esiti. Uno dei principali scopi di questa pratica è, infatti, il dialogo, vera e propria parola d’ordine degli interventi urbani. Come nota Valeria Arnaldi, in realtà, agli esordi del fenomeno, la condivisione delle idee, esaltata dal graffitismo, era solo propria dei gruppi di writers: il writing era fatto per chi lo sapeva leggere, riconoscere e decodificare, e anche i «grandi messaggi» trasmessi al mondo venivano adeguatamente criptati. I writers parlavano tra loro e di loro, costruivano comunità nelle comunità – le crew – e con quelle si rapportavano, senza riconoscere altre regole, in una sorta di referenzialismo selettivo apparentemente in contrasto con la logica democratica di questa tendenza. Resisteva, in ogni caso, l’impatto immediato del loro messaggio, disponibile alla vista di qualunque passante, ed esplicito del sentimento di ribellione e di denuncia tipici di questo fenomeno. L’istanza rivoluzionaria

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Come si è detto, l’esplosione di questa pratica negli anni settanta del Novecento è il risultato di una reazione ai modelli «vincenti» proposti dalla società, sempre più incline a misurare il valore delle persone dalla capacità di rispondere alle sollecitazioni della produzione e del profitto. In questo contesto, gli emarginati restano del tutto esclusi dal sistema poiché non sono capaci di partecipare all’arricchimento collettivo. Queste considerazioni, accanto alla diffusione di un modello comportamentale di eversione e ribellione nei confronti dei poteri forti, hanno definito le finalità e moda-


lità del fenomeno del graffitismo, un’espressione di disagio «gridata» sui vagoni delle metropolitane o sui muri dei palazzi delle periferie da quanti rifiutavano la società dei consumi o si sentivano esclusi da essa. In questa prospettiva, la firma sui muri denuncia il disagio e pretende l’attenzione del pubblico, ribadendo al contempo il diritto alla riappropriazione degli spazi collettivi, che per i writers sono anonimi, privi di connotazioni sociali, e sovraccaricati – tramite i cartelloni pubblicitari – da un’iconografia imposta dal mondo capitalista. Il muro si fa, quindi, «manifesto» di una campagna per la salvaguardia dei valori della civiltà, e la trasgressione è lecita, poiché il fine – la felicità degli uomini che si riconoscono nei luoghi che abitano – giustifica il mezzo. Nel corso degli anni si avvicendano sempre nuovi writers, e i graffiti si sovrappongono l’uno sull’altro alternando tecniche espressive e messaggi di accusa: l’unica invariante è il conflitto con l’autorità, contestata di volta in volta per le diverse e stringenti problematiche di attualità. Nell’ambito della già nota distinzione concettuale tra artistico ed estetico, volendo attribuire il fenomeno a uno di questi due poli, si potrebbe affermare che il graffitismo pertiene maggiormente alla sfera dell’estetico, perché è connaturata a questa pratica una certa «istintualità», configurandosi il writing come una forma che nasce ‘in reazione’ a qualcosa. Non solo: come è noto, l’estetica opera nello spazio sensibile della collettività, e lo riconfigura. Come scrive Jacques Rancière, l’estetica oggi denuncia il disagio nato dallo scontro irrisolto di arte e vita: lo scandalo di un’arte che accoglie nelle proprie forme e nei propri luoghi il “qualunque” degli oggetti d’uso e delle immagini della vita profana; promesse esorbitanti e menzognere di una rivoluzione estetica che voleva trasformare le forme dell’arte nelle forme di una vita nuova6. Nella storia di questo intricato rapporto si alternano, secondo l’autore, due grandi concezioni “postutopiche” dell’arte: della prima fanno parte i movimenti d’avanguardia per la loro missione di rottura con il mondo dell’equivalenza delle merci; la secon-

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da si realizza in un’estetica relazionale che respinge le pretese di autosufficienza dell’arte, così come rigetta i sogni di una trasformazione della vita per mezzo dell’arte7, ribadendo, in tal modo, la necessità di riprogettare materialmente e simbolicamente uno spazio comune. La rivendicazione dello spazio pubblico

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Come si è visto, se il primo referente del messaggio ribelle dei writers è la società, il secondo è la proprietà privata che la regge. La tesi fondamentale è che lo spazio pubblico è un diritto imprescindibile di cui è necessario riappropriarsi, poiché va difeso dalla noncuranza di un’autorità che non riesce o non vuole rappresentare altro che se stessa. Poiché le strade, le piazze, i quartieri appartengono ai cittadini, i writers non riconoscono il senso legale delle autorizzazioni e licenze concesse dalle pubbliche amministrazioni. I luoghi urbani sono di tutti, e lo deve essere anche la bellezza, che diventa il mezzo per riappropriarsi di questi spazi. Si assiste, in questo modo, a una rilettura della città che è vista, inoltre, come un luogo saturo di messaggi non richiesti, e che vive e comunica attraverso un sovrapporsi non regolato di parole. Il problema è, evidentemente, di immediata risoluzione: ai messaggi pubblicitari e ai sistemi imposti della società dei consumi si sovrappongono i segni dei writers, che agiscono da specchio per la collettività che in quelle polemiche e in quel desiderio di una bellezza alternativa si può riconoscere. In realtà, però, questi artisti che si vestono di concetti come collettività e uguaglianza innescano, di fatto, fenomeni di forte individualismo: il sistema non è ritenuto capace di creare bellezza e armonia, quindi ci si appropria «dal basso» degli spazi collettivi. Ma la democrazia dell’arte rischia di diventare demagogia, e il risultato è, in ogni caso, la firma di un singolo: è – comunque – l’imposizione di un decoro che, nella maggior parte dei casi, la collettività non ha scelto. In ogni caso, quello che fino agli anni novanta era ritenuto vandalismo, nel corso del tempo ha acquisito spazi di


legalità, e le istituzioni hanno cominciato a richiedere l’esecuzione di murales e graffiti finanche per riqualificare interi quartieri. Ma ogni conquista richiede un sacrificio, e chi accetta di seguire il percorso indicato dalle amministrazioni perde inevitabilmente il carattere sovversivo che era requisito fondamentale di questo anti-sistema. Il fenomeno è così ricercato da generare veri e propri circuiti turistici: si moltiplicano nel tempo i viaggi ad hoc per visitare i graffiti di una città e, ovviamente, le offerte mirate, a partire dai tour alla ricerca dei diversi interventi. Le città sono viste come musei a cielo aperto. Anche la tecnologia collabora: Google street view consente di vedere le opere in loco, e sono in generale molti i siti e i forum che lavorano come ‘localizzatori’ di arte urbana, sfruttando le comunità web per tenere costantemente aggiornati i propri archivi fotografici. La socialità e la condivisione assumono un nuovo significato, di cui la rete diventa strumento e moltiplicatore, per dare ai writers l’eco che prima era offerto dai treni8. La concezione dello spazio urbano collettivo come strumento mediante il quale giungere all’unione tra arte e vita, tra sublime e quotidiano era stata introdotta dai dadaisti: la città faceva da teatro alla passeggiata, intesa come operazione estetica inscritta direttamente nello spazio e nel tempo reale e non su supporti materiali. Con il ready made urbano, Dada passa dal portare un oggetto banale nello spazio dell’arte al portare l’arte in un luogo banale della città […]. È un rivoluzionario appello della vita contro l’arte, che contesta apertamente le tradizionali modalità dell’intervento urbano, campo d’azione tradizionalmente di pertinenza dei soli architetti e urbanisti9. Nel compiere questa operazione, però, i dadaisti non intervengono sul luogo con alcuna operazione materiale, senza lasciare tracce fisiche se non la documentazione legata alla manifestazione – i volantini, le foto, gli articoli. La città era stata da loro trasformata in un luogo in cui scorgere il banale e il ridicolo, in cui smascherare la farsa della città borghese e come luogo pubblico in cui provocare la cultura istituziona-

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le. La città banale dei dadaisti diventa città ludica per i situazionisti: giocare significa uscire deliberatamente dalle regole ed inventare le proprie regole, liberare l’attività creativa dalle costrizioni socioculturali, progettare azioni estetiche e rivoluzionarie che agiscono contro il controllo sociale. […] Così facendo, l’uso del tempo e l’uso dello spazio sarebbero sfuggiti alle regole del sistema e si sarebbe arrivati ad autocostruire nuovi spazi di libertà, si sarebbe attuato lo slogan situazionista «abitare è essere ovunque a casa propria»10. In riferimento alla situazione odierna, ci si potrebbe chiedere se la sovrabbondanza dei segni lasciati, invece, dai writers non comporti una percezione distorta dei messaggi che vogliono portare, se, cioè, non si rischi di arrivare, per dirla con Benjamin, a un’assuefazione dei segnali che si perdono nel caos del paesaggio urbano che loro stessi hanno contribuito a generare. La massa è una matrice dalla quale attualmente esce rinato ogni comportamento abituale nei confronti delle opere d’arte. La distrazione e il raccoglimento vengono contrapposti in un modo tale che consente questa formulazione: colui che si raccoglie davanti all’opera d’arte vi si sprofonda; penetra nell’opera […]. Inversamente, la massa distratta fa sprofondare nel proprio grembo l’opera d’arte. Ciò avviene nel modo più evidente per gli edifici. L’architettura ha sempre fornito il prototipo di un’opera d’arte la cui ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività. Le leggi della sua ricezione sono le più istruttive. […] La ricezione nella distrazione si fa sentire in modo sempre più insistente in tutti i settori dell’arte e costituisce un sintomo di profonde modificazioni dell’appercezione. […] Il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto11. Anonimia/pseudonimia

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Tra i caratteri più originali del graffitismo c’è la scelta da parte dei writers di firmare sotto pseudonimo – o di non


firmare affatto – le loro creazioni: le tags, infatti, sono identità virtuali, sorta di avatar in 2d, in cui il segno traduce – e trasforma – la persona, rendendola immediatamente riconoscibile e identificabile alla comunità di seguaci e virtuali complici. Sono una performance e un manifesto, richiami per i propri simili12. Come è noto, nel sistema dell’arte la reputazione dell’artista e della sua opera è strettamente legata alla sua firma: secondo il sociologo statunitense Howard Becker, le opere e i loro artisti si trovano intrecciate in una reputazione reciproca, in base alla quale quando ci troviamo in una galleria d’arte tendiamo a prestare maggiore attenzione alle opere di cui conosciamo l’autore. In questa prospettiva, la firma degli artisti ha assunto storicamente il carattere di una convenzione, poiché è entrata a far parte di quel sistema di codici, interni alle opere, che ne rendevano leggibile la valenza artistica. L’uso di convenzioni può essere considerato alla base della distinzione tra artisti ‘integrati’ e artisti ‘ribelli’ nei confronti del mondo dell’arte: dall’operazione dissacrante eseguita da Duchamp, furono messe fortemente in discussione le regole di questo gioco, a partire dalla considerazione per cui la reputazione dell’artista coincideva con la creazione stessa dell’opera d’arte. L’autore invisibile, che sceglie di non mostrarsi al pubblico, utilizza una maschera che, secondo François Jost, coincide con la sua firma. L’invisibilità assicura una comunicazione a senso unico, mediante la quale l’artista sceglie cosa far parlare e cosa escludere dall’analisi e interpretazione delle sue opere. L’assenza dell’artista comporta, in sé, una figura attentamente costruita, un’immagine identificata per sottrazione. In questo modo, il creatore di un’opera non è più una persona fisica, ma un simulacro, che acquisisce dalla sua invisibilità una forma di autorità diversa da quella tradizionale, ma ugualmente costruita. Si tratta di un altro, certamente non ultimo, aspetto problematico di questo fenomeno, che allo stato attuale resta un’incognita e lascia ancora inevasa la domanda sul suo rapporto con il mondo dell’arte. Le linee interpretative che si aprono a questo punto sono due: o ipotizzare, come Du-

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champ, che è arte tutto ciò che gli uomini chiamano arte, oppure lasciare la questione ancora in sospeso, perché, per dirla con Robert Koch, la domanda è troppo bella per sciuparla con una risposta.

1   Ch. Omodeo, L’arte allo stato urbano, in AA.VV., Street art. Banksy & Co. L’arte allo stato urbano, catalogo della mostra 2016. 2  V. Arnaldi, Che cos’è la street art?, Red Star Press, Roma 2014. 3   Ivi. 4  U. Hannerz, La complessità culturale, Il Mulino, Bologna 1998. 5  N. Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia, Milano 2010. 6 J. Rancière, Il disagio dell’estetica, ETS, Pisa 2009. 7   Ivi. 8  V. Arnaldi, op. cit. 9  F. Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino 2006. 10   Ivi. 11  W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, (edizione originale, 1955), Einaudi, Torino 2000. 12  V. Arnaldi, op. cit.

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Lebenswelt e architettura LIVIO SACCHI

Diversamente da quanto avviene per l’arte o il design, il concetto di Lebenswelt non è, a nostro giudizio, meccanicamente trasferibile all’architettura (né alla città) se non con qualche precisazione e qualche adattamento al diverso specifico disciplinare. D’altra parte, se c’è un carattere che sembra segnare con evidenza la condizione architettonica contemporanea, questo è proprio la Lebenswelt di cui monograficamente si occupa questo numero di “Op. Cit.”, Lebenswelt intesa, nel nostro caso, come architettura nel mondo della vita, come ritorno dell’architettura alla vita (di chi la abita) o, meglio, come suo vero e proprio risolversi (o dissolversi) nella vita (senza per questo essere necessariamente costretti a parlare di morte o fine dell’architettura). Cosa intendiamo dire affermando che l’architettura si è, in questi ultimi anni, avvicinata o riavvicinata alla vita, se non risolta o dissolta nella vita? Il tramonto delle stagione delle star, simbolicamente segnato dalla prematura scomparsa di Zaha Hadid, e il protrarsi di lunghi anni di crisi della professione, hanno determinato, non senza ritardo, ciò che veniva annunciato dal titolo della Biennale di Venezia di Massimiliano Fuksas nell’anno 2000, Less aesthetics, more ethics: una riflessione sui fini dell’architettura e sul senso di un mestiere che appariva, e sotto molti punti di vista era, sempre più lontano dai bisogni della gente, sempre meno capace di cogliere le aspettative degli abitanti delle

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città e sempre meno in grado di incidere efficacemente sul loro incontrollabile sviluppo. All’avanguardia formale si è così sostituita, a mano a mano, una nuova avanguardia che non punta più al rinnovamento linguistico, francamente difficile da gestire oltre una certa soglia di sperimentalità, ma sposta il ragionamento architettonico su tematiche, ambiti e piani di ricerca diversi. Prevedibilmente, in tempi di globalizzazione, l’attenzione della critica si è allontanata dal mondo occidentale o, meglio, occidentalizzato (Europa, America settentrionale e Giappone), per guardare con crescente attenzione ai Paesi in via di sviluppo, dal Medio Oriente all’Asia, e, in particolare, al continente africano. Ma anche in Australia o in Sud America, sotto i riflettori non sono più gli imitatori del modello occidentale quanto piuttosto quegli architetti che si sono rivelati in grado di trasformare in edifici il portato di sensibilità culturali radicalmente alternative. L’Africa e altre periferie

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Sul fatto che l’Africa sia il continente del futuro non ci sono molti dubbi. Per l’architettura e soprattutto per la città esso costituirà, nei prossimi trenta/cinquant’anni, ciò che l’Asia ha rappresentato dagli anni Ottanta a oggi. Le città sono esplose dal punto vista demografico, territoriale, edilizio, infrastrutturale: l’emergere di un classe media, che esprime nuovi fabbisogni in crescita esponenziale, sta determinando cambiamenti vistosissimi. La nuova architettura africana è in primo luogo naturalmente sostenibile. Uno slogan che si è consumato in Occidente senza riuscire ad assumere, almeno nel nostro Paese, significati concreti, costituisce invece la cifra di quanto di meglio è stato realizzato negli ultimi due decenni dalla Namibia al Sudan, dal Sud Africa al Mali. Si tratta, in particolare di ospedali, centri socio-sanitari, scuole e case, costruiti a costi contenuti, con volumi e tecnologie estremamente semplici, facendo uso di materiali di recupero come lamiere, copertoni d’auto ecc., con o senza l’aiuto di progettisti europei ma sempre con il


diretto coinvolgimento dei futuri utenti. Del continente africano, non a caso, si è occupata una mostra ospitata nel 2014 dalla Triennale di Milano: Africa, Big Change, Big Chance. Al centro sono le persone e la loro vita: si è parlato di “città della gente” e di “people as infrastructure”, slogan coniato da Abdou Maliq Simone, che ipotizza una infrastrutturazione urbana fatta di uomini e donne1. In tale ambito di studi, soprattutto rivolti alle città e alla loro incontenibile crescita, si insiste molto sulla vita dell’uomo come elemento caratterizzante la condizione urbana: se c’è una costante nella produzione spaziale africana è quel tessuto fatto di corpi e di merci che compongono un’architettura, tanto effimera quanto ripetitiva, nel tempo e nello spazio, che accompagna e traduce spazialmente ogni situazione di scambio. Questo tessuto flessibile riempie, trasforma, occupa qualsiasi superficie, qualsiasi struttura preesistente e, in sua assenza, la produce affinché divenga luogo di mercato. Questo strato fatto di gesti e di oggetti, in qualche modo mette in crisi la struttura stessa, la consuma, la fa scomparire, fa ombra allo spazio pianificato, riempiendolo di usi, modificandolo attraverso la pratica e quello che ci ricorderemo del centro di Marrakech, Nouakchott, Dakar, Bamako o Kankan è soprattutto quello che succede dentro, intorno e attraverso lo spazio2. È la vita stessa che, con modalità anarchiche e talvolta aggressive, si appropria dell’architettura, dello spazio pubblico, della città, li fa suoi e ne permea la vicenda scavalcando ogni teoria e ogni forma di pianificazione. Questa qualità fisica, popolare, corporea e vitalissima non è, a ben guardare, limitata al continente africano ma segna i quartieri, più o meno periferici, di tante città europee, da Château Rouge a Parigi a Dalston a Londra a Matonge a Bruxelles, ma anche centri storici come quelli di Napoli o Palermo, dove la vita della gente sembra sovrapporsi alla città fisica e alle sue architetture con uno strato vibratile, mobile, creativo, rivoluzionario e popolare, al cui interno non è difficile riconoscere un notevole paradosso: da un lato è pensabile una sorta di «arte povera», dall’altro è evidente l’esigenza

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di una più diffusa decorazione. Che questo si trasferisca in architettura è provato da una riduzione alla pittura, all’orgia di colori e disegni; emblematiche di questo barocco popolare sono, tra le numerose altre espressioni, le serrande delle botteghe che, una volta abbassate di notte, diventano facciate di edifici e comunque fattore di colore ambientale. È la gente a fare le città: si tratta di città “la cui unità elementare è il corpo umano”3. La Biennale di Venezia

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L’ultima Biennale esemplifica bene i cambiamenti in atto. Il direttore Alejandro Aravena, architetto di talento formatosi presso l’Università cattolica del Cile, figlio di una cultura progettuale molto avanzata, anche dal punto di vista tecnologico, ma al tempo stesso maturata in un Paese geograficamente ai confini del mondo, afflitto da povertà e frequenti calamità naturali, in un contesto segnato da sensibili disuguaglianze socio-economiche, non poteva che proporre una mostra internazionale d’architettura che, abbandonando la classica esposizione antologica della produzione offerta dai grandi studi e dai nomi più noti, puntasse tutto sulle progettualità emergenti, sulle esperienze di nicchia, sulle sperimentazioni sociali più anarchiche e meno controllabili. Il prezzo da pagare, oltre a un calo di spettacolarità, è stato il sensibile allontanamento dallo specifico disciplinare: se non è facile, come esseri umani, fare concretamente qualcosa per ridurre il numero di vittime sul confine fra Afghanistan e Pakistan o sulla striscia di Gaza, ciò è ancor più vero per tutti noi in quanto architetti. Un discorso analogo merita la mostra ospitata dal Padiglione italiano: Taking care, Progettare per il bene comune. I curatori, Tam Associati, sono noti per la dimensione in primo luogo sociale della loro architettura: ricerca – non tanto formale né tecnologica – delle potenzialità del progetto d’architettura per intervenire in maniera significativa in realtà difficili. Di qui la selezione delle esperienze esposte, in larga misura frutto di lavoro collettivo e socialmente condiviso e di fi-


nanziamenti alternativi a quelli classici, pubblici o privati, spesso originati da operazioni di crowd funding, esteticamente figlie di una poetica che viene dalla base, da minoranze finora estranee al discorso architettonico e urbano quali centri sociali, ONG, organizzazioni umanitarie religiose e non, insomma da chi, per motivi diversi, non ha avuto voce e che ora si contrappone nei fatti, con le proprie realizzazioni, a ogni ufficialità come a ogni precostituita progettualità. Il Pritzker Prize e altri segnali Il Pritzker, che è stato a lungo il premio delle star, il riconoscimento offerto ad architetti di fama mondiale consacrati dai media e dalla critica più qualificata, da qualche anno ha inaspettatamente dato segnali di cambiamenti di rotta. La sua giuria, che ha sensori evidentemente attenti al nuovo, ha iniziato a premiare una serie di personaggi fuori dal consueto circuito mediatico, provenienti da paesi geograficamente altri, autori di ricerche anarcoidi, defilate se non marginali rispetto ai grandi interessi del capitale internazionale. È il caso, con venature evidentemente diverse, dell’australiano Glen Murcutt (2002), del brasiliano Paulo Mendes da Rocha (2006), del cinese Wang Shu (2012), del giapponese Shigeru Ban (2014), dello stesso Aravena (2016). Murcutt è il poeta della sostenibilità in aree climaticamente e socialmente difficili se non estreme, spesso abitate da aborigeni, come le regioni del continente australiano in cui ha prevalentemente lavorato; Mendes da Rocha, all’interno della scuola paulista, in una città dove la vita non è un gioco ma dove piuttosto è la vita stessa a essere spesso in gioco, è stato portatore di un messaggio architettonico ideologizzato e socialmente aggressivo; Shu, in controtendenza con quanto avviene nelle megalopoli cinesi, si è segnalato per l’attenzione ai materiali tradizionali e al recupero paziente del patrimonio costruito, con un atteggiamento rivoluzionario che lavora palesemente contro le politiche architettoniche e urbane di Pechino; Ban per l’architettura

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legata alle catastrofi che hanno messo violentemente in crisi la vita di uno dei Paesi più avanzati e organizzati del mondo; Aravena infine per la sperimentazione sull’edilizia sociale ed emergenziale in Cile. La Elemental S.A., di cui egli è direttore dal 2006, è un’organizzazione a fini sociali associata alla Università cattolica del Cile (oltre che alla compagnia petrolifera COPEC) il cui principale progetto operativo è il Do Tank, un Think Tank orientato, più che al pensare, al fare e interamente dedicato a realizzazioni di edilizia sociale, all’interno del programma VSDsD, Vivienda Social Dinamica sin Deuda, approvato dal Ministero per la Casa e l’urbanistica. Wang Shu, in particolare, si è a lungo interrogato su che cosa sia l’architettura e su come possa e debba essere riportata ai suoi originali valori, alla vita di chi la abita: È possibile – si chiede in un saggio in cui esplicita la sua cultura di architetto e, prima ancora, di uomo – dare vita a un prodotto della cultura architettonica a scala normale, lontano da simboli e icone, attingendo dalla vita quotidiana e dall’esperienza personale?4. Qualcosa di simile è accaduto con l’Aga Khan Award, il principale premio d’architettura del mondo islamico, che, non a caso, nel 2013 era dedicato al tema Architecture is life e, in particolare, alla diretta interazione fra l’architettura e la vita di chi la abita. O con l’enciclica di papa Francesco Laudato si, centrata sul tema della sostenibilità e del rispetto dell’ambiente e del pianeta sul quale viviamo, che, pur non occupandosi direttamente di architettura, testimonia anch’essa questo radicale e rivoluzionario cambio di paradigma. O con libri, certamente discutibili, come quelli di Franco La Cecla – Contro l’architettura e Contro l’urbanistica – che, al di là del palese intento di cavalcare editorialmente lo scontento, sono tuttavia indice di una critica violenta, generalizzata quanto talvolta superficiale, nei confronti della recente teorizzazione sull’architettura e sulla città, esplicitamente accusata, da Koolhaas in giù, di non essersi dimostrata in grado di comprendere le necessità dei loro abitanti e di avere, pertanto, contribuito al progressivo allontanamento dell’architettura e dell’urbanistica dalla vita vera,


quella che uomini e donne quotidianamente vivono all’interno delle loro case e delle loro città. Il BIM Il BIM - Building Information Modeling è un processo solitamente associato all’operatività delle grandi società d’ingegneria e delle imprese di costruzione. Sembrerebbe dunque avere poco o niente a che fare con il nostro discorso. Ma sappiamo anche che esso impone un sostanziale cambiamento di mentalità e un diverso modus operandi, modificando in maniera radicale molte delle prassi progettuali consolidate e anteponendo logiche strategiche, organizzative, contrattuali, finanziarie, tecniche, cantieristiche, gestionali ecc. a quelle, prevalentemente compositive, utilizzate finora. L’architetto, com’è noto, non compare più al centro del processo progettuale e costruttivo, non ne è più l’unico regista: il suo primato è condiviso con altri comprimari: ingegneri strutturisti e impiantisti, costruttori, fornitori di materiali e componenti, committenti, developers, investitori, esperti di marketing e operatori immobiliari, gestori, manutentori ecc. Ma non solo: ci sono, o almeno dovrebbero esserci, anche gli utenti finali. A un atteggiamento creativo individualistico si sostituisce il potenziale arricchimento derivante dall’ascolto di tutti i soggetti coinvolti; alle possibili contraddizioni rimedia, ovviamente, l’interoperabilità del processo. Ciò determina conseguenze diverse: la prima delle quali è la perdita di autorialità e il graduale avvicinamento a forme di creatività open source. Si tratta di dinamiche complesse, sia in termini di tempo sia di impegno: un disegno di lungo periodo, Client- e User-Centred, che pone cioè al centro dell’attenzione cliente e fruitore. L’autorialità come proprietà intellettuale dell’opera va in crisi, approssimandosi alle nuove, diverse forme di condivisione proprie della contemporaneità più recente (in contrapposizione al concetto di copyright, è stato coniato il neologismo copy­ left). L’architettura del nostro futuro potrebbe così diventare il frutto di uno sforzo intellettuale e creativo collettivo e

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aperto, come lo è già un’opera enciclopedica quale Wikipedia; e il ruolo svolto dagli investimenti pubblici e privati, almeno in alcuni casi, cedere il passo a inedite, rivoluzionarie strategie di crowd-funding sociale. Siamo, forse, agli esordi di un nuovo paradigma progettuale in cui l’architettura capovolge le proprie consolidate logiche operative e si trasforma in un fenomeno open source, secondo una logica ampiamente sperimentata e condivisa fra i creatori di soft­ ware. Si sta forse davvero inaugurando una rinnovata stagione democratica e popolare come non avveniva da secoli, in cui l’interazione creativa sarà aperta a tutti, come già sta peraltro accadendo nel campo delle arti visive e del design?5. Non sappiamo se tutto ciò preluda a una diversa concezione della progettualità architettonica, meno individualistica e più prodotto collettivo di un’età in cui l’informazione circola liberamente, in cui il senso della proprietà (anche intellettuale) si è indebolito e in cui sempre più spesso sono estesi gruppi sociali a collaborare a sfide creative a una scala che non ha precedenti storici: Kazys Varnelis, direttore del Network Architecture Lab di Columbia University ha scritto di recente: Se le nuove generazioni sembrano avere un diverso senso del proprio io rispetto a quello delle generazioni precedenti, non possiamo che incoraggiarle nella ricerca di forme progettuali che siano condivise e messe in rete piuttosto che frutto del lavoro solitario di un singolo individuo. Il vecchio, stanco detto di Ezra Pound “Make it new!” può forse essere sostituito da “Make it better, make it smarter, make it together!6. Il concetto di liveability

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Strettamente collegata al tema della Lebenswelt, anche dal punto di vista etimologico, è poi la questione della liveability, la “vivibilità” vista come organizzazione spaziale di persone e luoghi: un tema, questo della “qualità della vita”, fra i più importanti per il nostro futuro. Pur trattandosi di nozione che contiene un certo grado di soggettività (cui puntualmente si appellano gli amministratori delle città ul-


time in classifica per provare a difendere il proprio operato), il consenso sui fattori che la determinano è sempre più circoscritto. In generale, ciò avviene quando sono rispettate alcune condizioni in almeno tre ambiti fondamentali: la qualità ambientale, la piacevolezza alla scala di quartiere o di vicinato, il benessere individuale degli abitanti. Ne emerge l’importanza di garantire una buona governance. La crescente complessità degli attori in gioco (si pensi alla rilevanza assunta dalla partnership fra pubblico e privato nei meccanismi di trasformazione della città) impone un orizzonte di riferimento più ampio di quello tradizionale, quello appunto garantito da una governance che non è “governo” ma va invece intesa come sistema di reti auto e inter-organizzate in grado di definire e implementare gli obiettivi politici pubblici con processi che mirano al dialogo, al compromesso e alla negoziazione fra soggetti governativi, amministrativi e privati, comunità, ONG, associazioni nonprofit ecc. Fattori che si ritrovano, più o meno fedelmente, fra quelli utilizzati dal Gallup World Poll, che prevede sette indicatori del grado di felicità, di cui cinque di base: legalità e ordine, cibo e alloggio, lavoro, economia, igiene; due, più soggettivi e pertanto difficili da identificare, che hanno senso solo quando i precedenti sono soddisfatti: benessere personale e sociale e grado di motivazione dei cittadini. La vivibilità non è dunque soltanto legata a una più o meno piacevole percezione del paesaggio urbano, non è questione sovrastrutturale: è dimostrato che la competizione globale in atto fra le città, sostenuta da flussi migratori sempre più consistenti e che spesso coinvolgono anche classi culturalmente qualificate (in grado quindi di scegliere dove abitare), è battaglia dalla quale escono vincitori e vinti. Dai suoi esiti dipende il futuro delle città e dei loro abitanti. Ancora due osservazioni supplementari: la prima è che lo spazio pubblico gratuitamente a disposizione dei cittadini è fra i fattori più importanti per la qualità della vita; la seconda è che il grado di felicità personale è meno legato al denaro di quanto si possa superficialmente pensare, quanto piuttosto alla capacità di soddisfare tutta una serie di condizioni

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“post-materiali”: alla fine è meglio vivere più modestamente in una città che offre una elevata qualità della vita che viceversa. Conclusione All’inizio si accennava alla difficoltà di trasferire all’architettura ciò che la Lebenswelt popolare manifesta nelle arti visive e nel design. Ora, da tutto quanto s’è detto, ci sembra che emerga con chiarezza il ri-orientamento dell’architettura verso la sua essenza più popolare, vitale e rivoluzionaria, in una parola verso ciò che serve alla vita di chi la abita, verso ciò che la gente vuole, verso ciò di cui, banalmente, gli uomini continuano ad avere bisogno, verso tutto ciò che infine, se non viene dato loro, viene comunque prima o poi, in un modo o nell’altro, preso.

Cfr. J.-Ch. Lanquetin, La città contemporanea brulica di idee nascenti. Oltre la città bomba, in Africa, Big Change, Big chance, a cura di B. Albrecht, La Triennale di Milano, Editrice Compositori, Bologna 2014, pp. 261-265. 2  M.A. Palumbo, Instant Cities, o della capacità a riprodurre lo spazio, e il tempo di una situazione urbana di scambio, in Africa, Big Change, Big chance, cit., p. 265. 3   Ibidem. 4  W. Shu, Il potere delle idee, in “The Plan”, n. 87. 5   Cfr. C. Ratti, Architettura open source. Verso una progettazione aperta, Einaudi, Torino 2014. 6  K. Varnelis, Architecture After the Individual, in Common Ground, Venice Biennale of Architecture, a cura di D. Chipperfield, K. Long, S. Bose, Marsilio, Venezia 2012, p. 288. 1

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Design vs Lebenswelt CARLO MARTINO

La definizione di una fenomenologia del rapporto tra Design e “Mondo della Vita” – traduzione del termine tedesco Lebenswelt – è attività alquanto complessa e articolata, essendo il Design un ambito che accoglie al suo interno espressioni che vanno dall’artefatto fisico a quello immateriale, dal prodotto alla comunicazione visuale, per approdare oggi a ambiti applicativi che integrano l’informatica, le scienze sociali o quelle economiche, e il Lebenswelt, il contesto in cui molte delle azioni progettuali del design si svolgono, si alimentano, si attuano, e che a sua volta presenta una grande complessità, dovuta dalla differenza dei soggetti, dei tempi, degli ambienti culturali e geografici in esso implicati. Nel 2010 De Fusco sosteneva che la grande maggioranza dei prodotti attualmente sul mercato non reca tracce di design1 riferendosi ad un mancato incontro tra cultura del design e gusto di massa. Di fatto, quanto affermato dall’autore avvalora la tesi secondo cui il “mondo vitale” produce artefatti – materiali e immateriali – che non risentono di un approccio colto, ma è altrettanto vero che nella realtà, molti prodotti di design prendono spunto da artefatti iconici del mondo della vita, così come questi ultimi vengono spesso concepiti in emulazione di prodotti più sofisticati, frutto di una progettazione colta. Il rapporto tra Design e Lebenswelt, trova quindi nelle dinamiche di scam-

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bio un suo senso profondo, lì dove il Design attinge a piene mani dalle manifestazioni spontanee del “mondo della vita” – dalle subculture urbane alle tribù giovanili – dalle sue icone popolari, dalle sue tecniche, mentre il Lebenswelt, a sua volta, fa suoi alcuni masterpiece del Design – artefatti, loghi, ecc. – rielaborandoli con un approccio creativo spontaneo e/o partecipato, a volte low cost, o ancora secondo una logica fake, di pura contraffazione o addirittura di rielaborazione simbiotica o parassitaria. All’interno di queste dinamiche, resta aperta la questione centrale della qualità estetica degli scambi tra Design e Lebenswelt. Se da un lato si tende ad attribuire un “cattivo gusto” a molte delle manifestazioni spontanee del “mondo della vita”, dall’altro ci si aspetta che le rielaborazioni fatte dal mondo “colto” del design siano garanzia di “buon gusto”. In realtà l’attenta osservazione di alcuni esempi contraddice spesso le aspettative e rimette in discussione gli assunti settecenteschi e ottocenteschi di bellezza o di bruttezza. Dal Lebenswelt al design

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Un buon progetto non è solo quello che passa dall’ufficio brevetti, non è solo quello che nasce negli studi di architettura e design davanti a un computer…, non è solo quello che si fa nelle grandi aziende, ma è anche quello che si fa nella semplicità e nel candore della vita di tutti i giorni, e che vive delle geniali intuizioni della “gente comune” dei progettisti anonimi2. L’affermazione di Beppe Finessi, condivisa da molti altri autori che si sono occupati di design anonimo, motiva la dinamica che vede il Design osservare con grande attenzione le espressioni spontanee del “mondo della vita”, alla ricerca di spunti progettuali. Guardare alle espressioni spontanee della Lebenswelt significa individuare delle soluzioni di design anonimo ben riuscite dal punto di vista dell’innovazione tipologica, poiché esito di un percorso deduttivo più che inventivo3 con


un risultato estetico non intenzionale, e delle quali c’è stata, tra la gente comune, una lunga sedimentazione nel tempo. Per il marketing, accogliere o citare espressioni spontanee e diffuse di cretività dal mondo della vita, può rappresentare una garanzia di legittimazione commerciale, di successo e di accettazione di un nuovo prodotto da parte del mercato, una sorta di pre-metabolizzazione delle forme, da parte del pubblico, con una buona possibilità di vendita. Il Design è quindi alla continua ricerca di icone contemporanee, espressione di un gusto popolare diffuso. Ne è testimonianza il proliferare di studi e analisi visuali di tipo sociologico o di mercato, cui fanno spesso riferimento le aziende prima di definire le caratteristiche di un nuovo prodotto. Si pensi per esempio all’anonima poltroncina bianca in plastica per esterni, monoblocco e impilabile, divenuta, nelle sue numerose varianti, un’icona dell’arredo da giardino degli ultimi quarant’anni. Un artefatto semplice da produrre – è, infatti, realizzata in polipropilene attraverso uno stampaggio unico a iniezione, con un ciclo tempo brevissimo – e con un costo che oggi equivale a un panino di McDonalds. Il suo essere prodotto di massa, e quindi oggetto presente nell’immaginario collettivo legato ai paesaggi artificiali degli esterni e indubbio simbolo della Lebenswelt, ha spinto numerosi designer a tentarne una rielaborazione, sia con esplicite finalità commerciali, mutuandone i pregi – l’essere monoblocco, monomaterica e a basso costo – sia, invece, con un atteggiamento critico e interlocutorio, a volte anche sovversivo. Il designer inglese Jersey Seymour, per esempio, nel 2004 ha disegnato, su brief dell’azienda Magis, la Easy Chair, una rilettura colta della poltroncina in plastica impilabile, rispondendo all’obiettivo dell’azienda di sviluppare il progetto di una sedia per esterni che avesse quella dignità estetica che solitamente manca alle sedie in plastica da giardino4, cui si aggiunge una maggiore resistenza meccanica, ideale per il mercato contract. La forma arrotondata della sedia è quella che Seymour

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ritiene più consona al materiale plastico: Plastic just like to flow in easy shape, and not have sharp corners because they cause stress and weak points5. Per cui il suo restyling ha motivazioni forti nella rispondenza tra nuova forma e materiale. Qualche anno più tardi Paolo Ulian nel progetto/prototipo Matrioska del 2008, riprende la poltroncina monoblocco come pretesto per reinterpretare oggetti esistenti6. Nel suo caso infatti, la poltroncina diventa un archetipo su cui sperimentare una variazione sul tema dell’impilabilità, attraverso l’altezza differenziata delle gambe. Dieci sedie impilate e contenute nel volume di una sola. Sempre sullo stesso soggetto si è cimentato l’artista e designer inglese Rolf Sachs7 “ripensandolo” sia nel 2001 con la Dirty Chair, la poltroncina in plastica “sporcata” da macchie di vernice, sia nella versione “Second Thoughts Chair” del 2008 in cui la popolare poltroncina è deformata e non finita, secondo canoni estetici della indeterminatezza e della casualità. Altri simboli della Lebenswelt cui il design “colto” ha guardato con attenzione, vengono dal mondo delle merci di massa e soprattutto dal food e dal suo packaging. Se, infatti, come afferma Riccardo Falcinelli, nei supermercati la spesa quotidiana è improntata alla messa in scena e i prodotti arredano, mostrano, raccontano), l’imballaggio dei prodotti è il vero campo di gioco di questa rappresentazione8. Emblematico in tal senso è il progetto “Estetico Quotidiano” del 2006, del designer Alessandro Zambelli per la Seletti. È una linea di stoviglie da tavola in porcellana e vetro borosilicato le cui forme riprendono il packaging dei prodotti monouso normalmente realizzati in plastica, carta, latta, tetrapack, vimini o in altri materiali non pregiati.
 La filosofia del progetto vuole trasmettere una valenza estetico/culturale superiore all’oggetto “povero”, modificandone lo status9. Il packaging denudato dalla grafica e tradotto in nobile ceramica bianca e vetro, nel progetto di Zambelli, da un


lato sembrerebbe contrastare il pericolo denunciato da Renato De Fusco e cioè quello di avere una civiltà [dell’usa e getta] che non lascia dietro di sé alcun segno della sua cultura materiale, avendo quasi elevato a reperto, il packaging di massa; dall’altro diventa oggetto che incuriosisce, che parla un linguaggio popolare e per queste ragioni si trasforma in un oggetto di grande successo commerciale. Molti altri prodotti “colti” del design contemporaneo hanno attinto agli artefatti popolari del “mondo della vita”, operando delle manipolazioni in linea con le più recenti tendenze morfologiche. Tra questi, la manipolazione scalare, l’Off-Scale10, tipica del linguaggio Pop dei tardi anni Sessanta, operata recentemente sull’icona della molletta da bucato, dallo studio Baldessari e Baldessari con la panca “Molletta” del 2012 per Riva 1920, nel quale il materiale utilizzato, il legno, e l’affinità tra l’archetipo/icona e il nuovo oggetto – compresa l’aspettativa di invecchiamento – hanno giocato un ruolo centrale. Altro trasferimento morfologico ispirato agli oggetti del “mondo della vita” è quello realizzato qualche anno prima dalla designer Bruna Rapisarda che nel termoarredo Graffe per l’azienda Scirocco del 2007, ha manipolato sempre in una logica Off-Scale, la tipica graffetta da ufficio. Il design, però, non attinge al Lebenswelt solo per immagini popolari di prodotti, ma da questi, mutua anche tecniche artistiche spontanee, come possono essere, per esempio, l’arte del tatuaggio o le diverse espressioni della Street Art, prime tra tutte il graffitismo, nonché le cromie che derivano dal pervasivo mondo contemporaneo del digitale. Il Fashion Design, il Graphic e il Multimedia design molto hanno preso e continuano ad attingere dal mondo della vita. Mood e Trend stagionali della moda, per esempio, guardano da sempre al modo spontaneo di abbinare indumenti, colori e accessori della gente comune nelle diverse aree geografiche del mondo – si pensi alla mission del magazine Colors, voluto da Benetton. Il noto grafico americano Stefan Sagmeister è, per esem-

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pio, un grande sperimentatore di segni e tecniche mutuate dalla street e dalla body art. Suo il famoso poster per il congresso AIGA di Detroit del 1999, in cui ha utilizzato il suo corpo come “spazio pagina” per farsi incidere sulla pelle i testi che comunicavano il suo intervento alla conferenza. Un modo cruento per destabilizzare e per prendere le distanze da un approccio esclusivamente digitale alla professione a favore di un segno personale del designer. Dodici anni di progettazione assistita dal computer [attraverso questo progetto] subirono un contraccolpo in favore della prova evidente di un creatore, provocando una risposta egualmente fisica, di repulsione11. Sua anche l’immagine del poster con il ritratto di Lou Reed segnato sulla pelle dai testi delle sue canzoni, realizzata per il lancio dell’album “Set the twilight reeling” del 1996, mutuato dal lavoro di Body Art e di denuncia dell’artista iraniana Shirin Neast. Tra gli ultimi la­ vori di Sagmeinster, contaminati questa volta dalla Street Art, due graffiti contrapposti per un sottopasso della linea Brooklyn-Queens, realizzati in collaborazione con l’illustratore giapponese Yuko Shimizu del 2013. I linguaggi della Street Art e lo Storytelling del loro comporsi, grazie alla diffusione della tecnica di ripresa in Time-Lapse, hanno influenzato fortemente l’estetica dei video e del cinema di questi ultimi anni. I tatuaggi, infine, intesi sia come segni della nostalgia di un affratellamento primordiale e quindi come una esasperazione del corpo personale12, di una sua esibizione per rafforzare il corpo sociale, sia come rappresentazione del peso di se stessi e della propria visione del mondo13 sono un’altra pratica contemporanea tipica della Lebenswelt da cui il design, soprattutto nell’ambito del Fashion, ha attinto. Emblematica la collezione J’Adore del 2004, di John Galliano, con decori mutuati dal mondo dei tatuaggi stampati su fondo trasparente, tali da decorare come finti tatuaggi il corpo, operazione sperimentata anche al maschile dal brand Dsquared; mentre lo stilista Alexander Mcqueen, recentemente, ha utilizzato i classici tattoo navy, come veri e


propri temi decorati per camicie, pigiami e giubbotti maschili. I progetti riportati, anche se non esaustivi della dinamica che vede il Design attingere al bacino infinito di soluzioni presenti nel “Mondo della vita”, fanno comprendere come tutte le articolazioni del design, stiano oggi guardano sistematicamente alle espressioni popolari, dimostrando una volontà, che potrebbe sembrare più commerciale che culturale, di riavvicinare la disciplina ai principi fondativi del Design qualità, quantità, giusto prezzo. Dal design al Lebensewelt Se, come visto, il “mondo vitale” da un lato, offre spunti al Design per la rielaborazione di artefatti di più facile legittimazione popolare, nelle dinamiche che vogliamo ana­lizzare è possibile affermare che a sua volta il Lebens­ welt è artefice di elaborazioni originali, intorno ai prodotti del design. Tra le prime espressioni spontanee, indicatrici di una volontà scorretta di appropriazione da parte di alcune fasce di pubblico meno abbienti, è possibile annoverare le copie, i falsi, i prodotti contraffatti di artefatti ad alto valore aggiunto: La copia è facile, non richiede dispersioni di energia e di denaro, sfrutta la ricerca e gli investimenti altrui, corre sul filo di tendenze e bisogni già individuati, si muove su un terreno agevole e si appropria, di riflesso, di tutti i benefici prodotti dall’originale, seguendo una strada tracciata e conosciuta14. Il fenomeno delle copie del design è una pratica diffusa, indubbiamente da condannare, ma che qui interessa solo citare in quanto parte integrante delle dinamiche che vedono il “mondo della vita” appropriarsi – indebitamente – delle innovazioni apportate dal design. Tanti i casi conosciuti nel­ l’ambito dell’arredamento e dell’illuminazione, basti ricordare le vicende della collezione “I maestri” di Cassina, citate nel volume di Rotelli e Scarzella, ma altrettanto numerosi sono i casi nel mondo degli oggetti di lusso, moda e oro-

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logeria, per finire ai più recenti falsi nel mondo dell’elettronica. Il fenomeno della contraffazione resta comunque un’attestazione del riconoscimento popolare indiretto della qualità, del valore estetico e del significato simbolico dei migliori prodotti che il Design è in grado di elaborare. Altro indicatore della dinamica che vede il mondo degli oggetti quotidiani guardare al Design, è quello dei prodotti simbiotici che trovano la loro ragione d’essere intorno ad altri più complessi e costosi, come possono essere ad esempio, le cover per telefonini e tablet, o tutti i corredi di accessori nati intorno a prodotti di brand di prestigio, dalle automobili alle motociclette ai nuovi status symbol dell’elettronica. Prodotti pensati fin dall’inizio per un uso limitato, usa e getta, e per tale ragione anche più esasperati nelle scelte materiche e decorative. Questo genere di prodotti ascrivibili alla sfera del gadget, negli ultimi venti anni è stato elevato al rango di prodotto degno di essere accolto nel campo del Design, e molte sono le collezioni di prodotti e i brand che recentemente si sono cimentati con il progetto di questi gadget. Un terzo scenario nella dinamica di un Lebenswelt che guarda al design, è quello figlio di un atteggiamento sovversivo, o in alcuni casi di necessità, che reinterpreta la forma o la funzione dell’artefatto seriale, o di alcune sue parti, per costringerlo a diventare componente di un nuovo artefatto. Un ready-made, molto praticato dai giovani designer, ma anche dalla gente comune, che trova terreno fertile in contesti in cui domina la scarsità di mezzi e di risorse; come sostiene Daniele Pario Perra: siamo circondati da migliaia di oggetti e strutture che non seguono le regole della progettazione convenzionale, questi non sono solamente prodotti dell’ingegno, ma indicatori culturali della progettualità collettiva15. In questo contesto, si sono inserite alcune recenti ricerche che vedono nel riuso o nella reinterpretazione degli artefatti o di alcune loro componenti, una prospettiva di sostenibilità ambientale dovuta al prolungamento della vita degli oggetti, così come, nelle pratiche collettive di autocostru-


zione dei prodotti ready-made si sono specchiate soluzioni strategiche del design per l’innovazione sociale. Non essendoci intenzioni progettuali predefinite, in molte delle espressioni che vedono il Lebenswelt copiare, emulare o reinterpretare i prodotti o le immagini del design, e soprattutto non essendo presenti tutte le componenti della “teoria del quadrifoglio”, che vede implicati nel design il progetto, la produzione, la vendita e il consumo, manca spesso quell’equilibrio indispensabile per creare prodotti corretti ed esteticamente accettabili. Derive estetiche tra Design e Lebenswelt Secondo il canone critico, la condizione fondativa della bellezza e del gusto (…) è quella dell’equilibrio – rispetto alla quale il cattivo gusto si decifra in negativo per eccesso o per dismisura16. Sia guardando il panorama dei prodotti colti, sia quello degli artefatti spontanei del “Mondo della vita”, non è difficile incorrere in esempi di artefatti visuali o di manufatti di cattivo gusto, con un accentuato squilibrio estetico. Come sostenuto più volte da Carmagnola, siamo nell’era della Fiction Economy, dell’economia finzionale, in cui domina la forza comunicativa dell’opera e il suo senso, la sua durata non contano, come conferma anche De Fusco: usiamo le cose soprattutto per il tempo che la convenzione di una linea del gusto riesce a durare17. Nel Lebenswelt, lo stesso rapido pulsare e mutare della vita delle diverse comunità nel mondo, sembra assecondare finalità diverse del design, in cui la velocità, la molteplicità e la superficialità non risultano essere più sinonimi di negatività. In questa dialettica tra Design e Lebenswelt, noti designer contemporanei hanno colto segnali di mutamento antropologico, perseguendo un design emozionale spesso improntato alla trovata, ad una progettualità cioè, ironica e provocatoria. A iniziare da Philippe Starck che nel 2000, per il progetto di interior di un hotel di Londra, riprende la tradizione popolare del nani da giardino, e la trasforma in

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un prodotto di design, Gnomi, per la nota azienda Kartell, operando un’inversione di gusto secondo cui: il nuovo cattivo gusto perverso è il buon gusto ricavato per citazione dal cattivo gusto all’antica. Proprio qui [nel progetto Gnomi] il gioco mediale e istituzionale ha fatto il suo lavoro esemplare, c’è una prima generazione di nanetti, quelli diciamo autenticamente kitsch. Poi c’è una seconda generazione, mediata dal postmoderno. È quella finzionale, quadratica, ironica di Starck che li riscatta grazie al gioco delle virgolette, e li legittima per un nuovo “buon gusto”. Ecco che già la contrapposizione vero/ falso, autenticità/contraffazione, si capovolge a favore del falso. Il buon gusto risiede ora proprio nella contraffazione stessa18. Un’inversione di gusto perseguita anche da Fabio Novembre che, usando la forza più esplicita del richiamo al sesso, riprende icone del design del novecento come, per esempio, è avvenuto per la sedia Panton, per attribuirgli una declinazione di genere, attraverso l’impressione di un corpo e di un sedere maschile nella sedia Him e femminile in Her, per l’azienda Casamania, portando il design colto e i suoi masterpiece, verso un gusto più popolare e più immediato. E ancora, l’americano Karim Rashid, autore di migliaia di prodotti, che usa a piene mani le cromie digitali per contaminare prodotti e immagini, fino al paradosso di distillare una infoestetica da tatuare sul corpo a ricordare i suoi prodotti/icona e i luoghi in cui sono stati concepiti, prodotti o esibiti. Agli incerti esiti estetici della commistione tra Design e Lebenswelt, contribuisce anche tutto il nuovo mondo dei Makers19, dei nuovi artigiani digitali. Se il movimento che intorno ai giovani artigiani si sta coagulando, ha acquisito in questi ultimi anni una rilevanza metodologica, economica e tecnologica, finora non è riuscito a fare altrettanto sul fronte “estetico”. Preso dal virtuosismo tecnologico e dalla potenza dell’accelerazione data dall’integrazione dell’informatica, il movimento non si è ancora impegnato


nella ricerca di linguaggi estetici originali, coerenti e innovativi. Forse ad una futura lettura storica, l’indeterminatezza, l’essere non finito, tipico di alcuni frutti della stampanti 3d, potranno apparire cifre estetiche distintive dell’epoca che stiamo vivendo. Ad oggi sembrano l’esito di macchine non ancora precise, e soprattutto il risultato di processi di progettazione che eccedono sulla componente tecnologica. Concludendo, le dinamiche di scambio tra il Design e il Mondo della vita sono oggi più che mai attive, diffuse e vivaci, con esiti che oscillano con estrema disinvoltura tra i poli opposti del buono e del cattivo gusto. Più che esprimere finalità di gusto specifiche, il mondo della progettazione, sia esso spontaneo o colto, tende a mischiare le carte, a sovvertire percezioni ed aspettative scontate, a favore dell’apertura di nuovi scenari e di nuove esperienze estetiche plurisensoriali.

1  R. De Fusco, Il gusto come convenzione storica in arte, architettura e design, edizioni Alinea, Firenze 2010, p. 149. 2  B. Finessi, Il progetto è ovunque. Ovvero la necessità è sempre madre dell’invenzione, in «Low Cost Design», Silvana Editoriale, Milano 2010, p. 7. 3  A. Bassi, Design anonimo in Italia. Oggetti comuni e progetto incognito, Mondadori Electa, Milano 2007, p. 16. 4  http://www.magisdesign.com/wpcontent/uploads/2015/01/ easy_chair_it.pdf. 5  A. Wiltshire, Jersey Seymour laptop is a mess, in «Icon», n. 22, 2005, p. 105. 6  E. Mari (a cura di), Paolo Ulian. Tra gioco e discarica, catalogo della mostra, Triennale Mondadori Electa, Milano 2009, p. 45. 7  http://www.rolfsachs.com/furniture/dirty_thoughts. 8  R. Falcinelli, Critica portatile al Visual Design. Da Gutemberg ai Social Network, Giulio Einaudi Editore, Torino 2014, p. 140. 9  http://www.alessandrozambelli.it/designstudio/?portfolio= estetico-quotidiano. 10  C. Martino, Design. Scenari morfologici della contemporaneità, «Op.Cit.» n. 154, 2015. 11  P. Hall, Sagmeister, Made you look, Booth-Clibborn Editions, London 2001, p. 191. 12  M. Maffesoli, Icone d’Oggi, Sellerio Editore, Palermo 2009, edizione originale Édition Albin Michel, Paris 2008, p. 204.

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13  A. Castellani, Storia sociale dei Tatuaggi, Donzelli Editore, Roma 2014, p. 6. 14  E. Rotelli, P. Scarzella, In difesa del design. La questione dei falsi nella produzione industriale, Lybra edizioni, Milano 1991. 15  D. Pario Perra, Low Cost Design, Silvana Editoriale, Milano 2010, p. 15. 16  F. Carmagnola, Come salvarsi dal cattivo gusto. Brevi riflessioni sul kitsch contemporaneo, in G. Dorfles, Kitsch, oggi il Kitsch, catalogo della mostra, Editrice Compositori, Bologna 2012, p. 22. 17  R. De Fusco, op. cit., p. 159. 18  F. Carmagnola, op. cit., p. 24. 19  C. Anderson, Makers. Il ritorno dei produttori. Per una nuova rivoluzione industriale, Edizioni Rizzoli Etas, Milano 2013.

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Libri, riviste e mostre

La Biennale di Venezia - 15ª Mostra Internazionale di Architettura, Venezia, 28 maggio 27 novembre 2016. Nel 2006 la decima edizione della Biennale, dal titolo “Città, Architettura e società” a cura di Richard Burdett (1956), attraverso filmati, fotografie, grafici, mise a confronto 16 metropoli del pianeta, con l’obiettivo di individuare le relazioni tra l’architettura, da intendere come progetto urbano, e la trasformazione della società. Dieci anni dopo, molte cose sono cambiate e altre inquietanti e paradossali realtà nel­ l’epoca della connessione rapida non aiutano a ipotizzare la forma della città di domani. Ma, in questo caotico contesto, la domanda è: siamo davvero in grado di stilare rapporti sul fronte occidentale delle condizioni delle città contemporanee? Ha un senso misurare, classificare il livello del fallimento dell’architettura che ab­ biamo raggiunto, lontano da certi esercizi formali o di omologazione? E ancora, siamo in grado di definire qualche linea guida

nell’ambito di una società globale che deve fare i conti con realtà sempre più complesse, dalle articolazioni contraddittorie e imprevedibili e lo sviluppo di città difficilmente pianificabili, data la velocizzazione di trasformazioni politiche, economiche, culturali, religiose, antropologiche tutt’ora in corso? Il panorama non è edificante; va detto che gli architetti non sono gli unici artefici del fallimento dell’architettura, dato il degrado raggiunto in alcune capitali, basti in Italia l’esempio di Roma, ma il 90% delle responsabilità è di chi ci “malgoverna”. Il tema della riqualificazione non è una novità, dato che là dove c’è una metropoli inevitabilmente sorgono aree ai margini dai centri, e fino a quando queste non diventeranno autonome e funzionali, proponendosi come un modello di riscatto sociale all’insegna della vivibilità, siamo votati al fallimento non soltanto urbano ma umano. Smart City (città intelligenti) a parte, entriamo nel merito delle tematiche della quin­ dicesima edizione della Biennale Internazionale di Architettura, af­

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fidata quest’anno al carismatico architetto cileno Alejandro Aravena, cinquantenne, noto per il suo impegno sociale, per la progettazione di spazi pubblici e progetti di edilizia low-cost, vincitore del prestigioso premio Pritzker 2016, l’oscar di architettura. Nel titolo Reporting from the front, della Biennale di Venezia, c’è il messaggio: include una volontà di ricognizione delle catastrofi dell’umanità, degli esclusi, dei senza tetto. Dai Giardini all’Arsenale si mettono in scena storie di ordinaria incompiutezza di un’architettura che da anni ama poco le città e per niente i cittadini, non considera i migranti, e le aree emarginate degradate come opportunità di riqualificazione soprattutto sociale che gli architetti devono affrontare per immaginare nuove soluzioni. An­ che se è presto per capire se la proposta di un’architettura intesa come bene pubblico, al servizio del cittadino, partecipata, inclusiva e giusta, più che bella, senza retorica o posizioni moraliste o ideologiche scontate, sarà condivisa a livello politico globale, lo vedremo vivendo. La proposta di Aravena di un’architettura non asservita al profitto, alla speculazione immobiliare, “social” eticamente corretta non stupisce, è una necessità reale, ma fatica ad essere percepita o condivisa come obiettivo intellettuale e politico dai paesi ricchi dominanti. In ogni caso ci fa bene una ricognizione su chi siamo e dove stiamo andando partendo dai punti deboli, dagli errori più che da sterili celebrazioni del glorioso passato. Di interessante tra un padiglione e l’altro da notare c’è che in molti casi non viene mostrata l’archi-

tettura in sé, una città dal modello unitario, ma proposto il processo di costruzione, di trasformazione, partendo dal contesto sociale, culturale e antropologico, dai materiali locali, con un’analisi basata sulla conoscenza e sensibilità per il rispetto ambientale del progetto, in cui le emergenze diventano un‘opportunità per un’urbanistica necessaria, pensata per risolvere problemi complessi. Alla base di questo rapporto non troppo ottimistico, ma onesto, dovremmo prima possibile convertire le città concepite come agglomerati di edifici, parcheggi, ghetti periferici in aree vivibili, con meno strade e più parchi o giardini, dovremmo pensare a condivisioni di appartamenti in maniera razionale, inventare starp-up che segnalano spazi, appartamenti vuoti che potrebbero essere utilizzati per emergenze, quasi a costo zero, semplicemente mettendo in rete gli spazi disponibili, eccetera, ma queste sono ipotesi. Attualmente siamo stretti dalla morsa del consumo energetico e dall’inquinamento, e anche se le forme delle città di domani non cambieranno poi tanto, l’obiettivo che la Biennale di Aravena si pone è di lavorare su nuove dinamiche relazionali, partecipate e inclusive. Dal fronte veneziano contro l’archistar, è bandito il mostrare il già fatto; qui si percepisce un altro modello non di urbs, bensì di civitas, di una comunità solidale, consapevole del futuro comune, impegnata nel laboratorio delle idee, anche grazie alle reti e alle loro interconnessioni, sempre più aperta e articolata. La nuova architettura si edifica sulle macerie dei fallimenti, partendo


da una rigenerante critica delle utopie, come si è visto nella Biennale delle arti visive del 2015 a cura di Okwui Enzewor. Questa Biennale dal­ l’imperativo etico ci informa sulle emergenze, sui conflitti etnici e religiosi, sull’atavica insopportabile disparità tra nord e sud del mondo, sulle disuguaglianze eco­ nomiche e sociali dell’umanità, monitorizza causa ed effetto del capitalismo globale, affronta inquinamento, spreco, la massiccia ondata di migrazione, le catastrofi naturali, e ancora la segregazione, le carenze di alloggi, le periferie del mondo; in sintesi dà forma a diritti umani violati, e voce a una qualità di vita non per tutti scontata. Queste irrisolte problematiche del nostro tempo dagli scenari complessi sono le fondamenta per immaginare un’ar­chitettura a servizio della società. Prima però dobbiamo riformare il pensiero dell’architettura, intendere la città strettamente dipendente dal­ l’individuo, dalla società su questa Terra, che per il momento è l’unica abitabile. Dovremmo riformare il pensiero dell’architettura partendo dal contesto, dagli esclusi dei sud del mondo, proporre modelli di vivibilità. Fluttuiamo come naufraghi in un’epoca satura di contraddizioni che non ha ancora trovato soluzioni per far fronte a cambiamenti radicali, e che nel­l’incapacità di risolvere condizioni difficili come guerra e fame di futuro da gestire, si rifugia nell’espulsione o emarginazione dei più deboli e coltiva le paure delle differenze, erigendo di nuovo muri e frontiere presidiate dall’esercito, e questo non è un segno di sviluppo sociale. Inoltre vi sono intere popola-

zioni ammassate in campi profughi, quasi “detriti” umani in attesa di chissà quale ubicazione, istituiti ufficialmente o sorti spontaneamente, ai limiti della sopravvivenza. Ghetti, bidonville, favelas, periferie degradate, e altre tematiche sociali irrisolte che se unite agli effetti dello sfruttamento dell’ambiente dalla biosfera già seriamente compromessa, sono l’eredità del Novecento e il problema globale per i prossimi cinquant’anni. Questa Biennale, è una doccia fredda, ci richiama a doveri più che ai diritti, alla consapevolezza e alla responsabilità, non piace a molti e presuppone uno sguardo etico e un’idea di città non unitaria, articolata, mobile e in progress. Sul fronte veneziano, il messaggio è chiaro: si rilancia l’idea di un’architettura intesa come lavoro collettivo, sociale e quindi politico, non partitico ma piuttosto a favore della polis, si torna ai materiali umili come la terra, la pietra, il mattone, il bambù, si punta sul riciclo in sintonia con i tempi. All’edificio di lusso, si preferisce la scuola, ospedali, il rifugio, un centro comunitario, che contempla come utenti il lavoratore, il rifugiato, il migrante, il povero, proponendo soluzioni sostenibili e possibili grazie alla collaborazione di realtà locali. Per esempio, il Padiglione della Germania ai Giardini intitolato Making Heimat, che ha ottenuto dalle autorità il permesso di abbattere alcune parti del suo edificio, costruito dall’architetto di Hitler, Albert Speer nel 1938, come simbolico atto del fare patria e senza barriere, fare comunità all’insegna dell’accoglienza, dell’integrazione contro i muri e

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le paure, come simbolica spinta alla costruzione di un’Europa unita negli obiettivi umanitari e sociali. Attenzione all’ingresso del­ l’Ar­ senale: c’è un’installazione CO2 realizzata con lastre di metallo e altri materiali di recupero della Biennale 2015, è un segno; come a dire nel riciclo c’è il futuro dell’architettura sostenibile necessaria. La sostenibilità comprende il buonsenso, in un contesto in cui la tecnologia tende a dominare l’ambiente, e l’opera Local Identity-Exploring a forgotten resource di Transsolar, nel mezzo delle Corderie all’Arsenale, incanta per poetica semplicità con un ampio soffitto con piccoli buchi che rendono visibili una pioggia di luce attraverso un sofisticato effetto ottico. Una via di fuga dallo sfacelo umanitario, esiste: quella di valorizzare le piccole cose, la capacità di trasformare un’ordinaria necessità in un modello di vita, come propone l’università di Lima di Yvonne Farrell e Shelly Macnamara, (Grafton architects) con un budget “sociale” risolto con ambienti luminosi e funzionali. Convince il Padiglione Italia, politicamente corretto, dalla grafica pop alle tese delle Vergini, dove il gruppo TAMassociati presenta Taking Care. Progettare per il bene comune, dove cinque team di architetti, accoppiati ad altrettante associazioni, propongono architetture mobili in grado di attivare servizi in contesti difficili. Tra gli obiettivi del padiglione nazionale, primo modello di crowdfunding dedicato alle pe­ riferie nell’ambito di Taking Ca­re-Periferie in azione (www. periferieinazione.it) brillano le

buone idee: un BiblioHub alla Ba­rona, a Milano, di Alessandro Partners con l’Associazione Italiana Biblioteche, un ambulatorio mobile ideato da Matilde Cas­sani con Emergengy nel quartiere Ponticelli, a Napoli, un’unità di monitoraggio ambientale al Casilino, a Roma, per la Lega Ambiente, un presidio sociale nel cuore di un bene confiscato alle mafie a Cerignola, una sede di cittadinanza e sport nel Parco Dora. È intelligente la soluzione delle unità mobili, che hanno una funzione sociale a servizio delle periferie che include programmi di riqualificazione contestualizzati. Per effettuare la raccolta fondi è stato fondato un comitato, che si scioglierà al termine della campagna, dopo aver donato i fondi alle cinque associazioni partner (Aib, Emergency, Legambiente, Liberae Uisp). Questi progetti al momento sono sulla carta, ma convincono anche gli scettici perché non sono impossibili. La centralità delle periferie diventa una sfida sociale, è il luogo del fallimento dell’architettura intesa come progetto sociale, che può rigenerarsi se decidiamo di prendercene cura. Il progetto di Renzo Piano sul “rammendo” delle periferie da lui nominato G124 (dal numero della stanza che occupa in Senato), è modello pilota per trasformare questi luoghi dello scontento in cantieri creativi di sperimentazione di riqualificazione urbana, che funzionerà soltanto se diventerà un affare di stato, altrimenti è votato al fallimento. Piano, nel progetto di riqualificazione del quartiere a Kallithena, distante pochi chilometri dal centro di Atene, ha dimostrato che recuperare una bel-


lezza insita nei luoghi periferici è possibile. Il mestiere dell’architetto è un rischio, se si sbaglia nessuno si prende la responsabilità del fallimento e l’opera resta per sempre. Sarebbe quindi il caso di ripensare l’architettura in relazione all’individuo, alla società e al pianeta. Per riformare la vita, il pensiero, la politica, l’economia secondo Egdar Morin, (Morin 2011) è necessario progettare in termini di rispetto dell’ambiente, ragionare sul consumo energetico da contenere il più possibile e sull’inclusione sociale. Tornando a questa Biennale, piace il fatto che per la prima volta non spicchi per nomi di architetti star, ma perché valorizza nomi di svariati professionisti sconosciuti, africani ed europei. Tra le nuove partecipazioni nazionali merita attenzione la Nigeria, ospitata alla Giudecca in uno degli angoli di cult dell’intera laguna. Tra i nomi premiati si segnala il Leone d’Argento allo Studio Nlé di Amsterdam, del nigeriano Kunlé Adeyemi, poetico e funzionale al tempo stesso con la sua scuola galleggiante, una struttura leggera, ariosa, di pali a due piani che sarebbe piaciuta a Italo Calvino, semplice ma non priva di grazia, concepita per servire Lagos, una metropoli ingestibile sul piano urbanistico, caotica e in fase di crescita incontrollata, fluida, gremita di umani come un alveare. È una scuola. Zattera che può spostarsi dove serve, indifferente alle piene causate dai cambiamenti climatici e all’urbanizzazione che occupa freneticamente gli spazi liquidi, come nelle baraccopoli di Makako. Attualmente è espo-

sta nelle acque ferme dell’Arsenale veneziano; dopo la chiusura della Biennale (27 novembre) verrà smontata e successivamente rimontata in qualche parte in Africa, dove c’è tutto da fare e il problema è anche nostro. In bilico tra la consapevolezza del fallimento, la concretezza dell’emergenza e la speranza di un futuro migliore, ai Giardini è efficace il padiglione degli Stati Uniti (a cura di Monica Ponce de Leon e Cynthia Davidson, la moglie di Peter Eisenman), dove si vedono dodici progetti per riqualificare aree degradate della Detroit post-industriale, dove non ci sono solo parole o proposte astratte, bensì architetture ambiziose, anche fuori scala in qualche caso, ma stimolanti perché senza quel poco di visionarietà il mondo non cambia. Da non perdere sono i padiglioni incentrati sulla necessità dell’accoglienza, come quello dell’Au­stria, oltre a quello della Ger­mania, Greci in primis e anche Finlandia. I paesi dell’America Latina spingono l’acceleratore sulle cause dell’inquinamento ambientale. Brasile e Perù in particolare, con un lavoro sulla foresta amazzonica. Il Giappone vince, nella sua poetica capacità di narrare le sua condizione di densità urbana, con una parata di case delle bambole su grande scala davvero emozionante, che spia gli spazi interni delle case dagli arredi che riflettono concept di vita. Il padiglione della Polonia pia­ cerebbe a Ken Loach, con un’installazione-inchiesta sulla condizione della vita in cantiere; poi c’è il Regno Unito con la proposta di quattro soluzioni abitative all’insegna di un’economia do-

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mestica, tra cui una grande palla gonfiabile dotata di wifi che evoca le fantasie degli Archigram (anni Sessanta). Da non perdere è il padiglione irlandese che propone edifici per malati di Alzheimer, come il Respire Centre di Dublino riproposto per far vivere al pubblico un’esperienza simile a quella dei malati che hanno perduto la memoria e l’identità. Da vedere è anche il padiglione Venezia che presenta Up! Mar­ ghera on stage di giovani architetti (studio O.r.ma Officine Riuso Marghera) coordinato da Luca Battistella con uno staff di curatori diversi, convincenti nel proporre una riqualificazione sostenibile di questo ex quartiere industriale. Questo progetto è rientrato negli interessi di Renzo Piano e del suo gruppo di lavoro G124 incentrato sulla ricucitura del territorio e il rammendo delle periferie, di cui abbiamo già scrit­ to. L’architettura sarà uno strumento di civiltà umanistica, arteria pulsante della vita sociale e politica? Non possiamo saperlo ora, e nell’attesa tanto vale peccare di ottimismo; ne abbiamo bisogno per dare forma alla speranza di un avvenire migliore in questo momento d’incertezza che edifica inquietudini sul fragile terreno della paura delle conseguenze delle diversità. In questa Biennale non ci sono installazioni multimediali fantasmagoriche, hashtag, giochi vir­ tuali, ma tanti progetti e manifesti, alle pareti, carichi di social, pensieri scritti a mano, il tutto presentato con semplicità e chiarezza. Il monito è chiaro: l’estetica è una parte del lavoro e la bellezza da sola non fa architettura,

bisogna avere una visione più am­ pia, interdisciplinare, agire dentro alla società. Vincono le interazioni non virtuali, le relazioni che possono trasformare il senso di una città, prevalgono legno e materiali biodegradabili, e ovunque c’è l’uomo che racconta come vive il proprio ambiente ripensato su scala umanistica, partendo dalla cura delle poche e semplici cose che si ha a disposizione, con la consapevolezza che questa Terra non è “cosa nostra” ma un bene di tutti. J. C. D. Carrier e J. Pissarro, Wild Art, Phaidon, New York 2013. Alla Wild Art e cioè alla «vasta proliferazione di forme d’arte» che si sviluppano oltre i confini costituiti del mondo dell’arte, gli storici dell’arte David Carrier e Joachim Pissarro hanno dedicato un corposo volume patinato pubblicato dalla casa editrice Phaidon e un tour accademico su scala globale che ha portato David Carrier a contatto del pubblico napoletano nel dicembre del 2015. Wild art ha l’ambizione di raccogliere sotto alcune tipologie l’enorme proliferazione di immagini, oggetti e pratiche creative che si sviluppano, assumono dignità artistica e vengono fruite al di là dei confini del mondo del­ l’arte contemporanea. Le opere di wild art, spettacolari, provocatorie, dirette e immediate, non sono vicine al concetto di naïveté e allo stesso tempo male si adatterebbero al contesto sofisticato e autoreferenziale del mondo uffi-


ciale dell’arte. Nel volume dei due autori trovano spazio i graffiti, i tattoo, le automobili autoprodotte, gli interventi negli spazi pubblici con stoffe lavorate e a maglia (knitted art), la body paint­ing e le modificazioni del corpo. Ad arricchire l’elenco sterminato di una categoria tanto aperta quanto onnicomprensiva come quella della wild art, potremmo aggiungere noi stessi, seguendo il metodo degli autori, qualsiasi pratica creativa che mostri quanto il range delle possibilità dell’arte sia molto più ampio di quanto abitualmente troviamo nelle gallerie e nei musei. In breve possiamo affermare che la Wild art si contraddistingue nel panorama contemporaneo, consapevolmente o spontaneamente, come un’eterogenea forma d’arte che si sviluppa «sen­ za alcun bisogno di essere riconosciuta dal sistema ufficiale del­ l’arte». Il tema di fondo del volume è la possibilità di accesso libero alle esperienze dell’arte, sia nella fase della produzione sia in quella della fruizione. Il superamento della mediazione del sistema dell’arte che si risolve, nella maggior parte dei casi accolti nel volume, in pratiche che scelgono la strada quale luogo espositivo privilegiato, contribuisce non tanto a connotare le esperienze selezionate in termini antagonisti al sistema mainstream dell’arte, ma piuttosto a sottolinearne l’informalità della circolazione e la libertà creativa. I graffiti, a cui i curatori del volume dedicano un’ampia sezione, probabilmente sono gli esempi più efficaci per riflettere sul cambiamento del punto di vista proposto da Carrier e Pissarro. Infatti, fin dagli

anni ’80 negli Stati Uniti i graffiti sono stati oggetto dell’interesse del sistema dell’arte capace di risucchiare letteralmente la pratica dall’ambito pubblico per trasformarla, in alcuni casi, in una pratica assolutamente autonoma e istituzionalizzata. A questo proposito si pensi agli esordi di artisti come Keith Haring e JeanMichel Basquiat, solo per citare i casi più famosi, a cui potremmo aggiungere il generale interesse per il fenomeno graffitista che trovò un’eco interessante anche in Italia con il progetto espositivo di Francesca Alinovi (Arte di frontiera: New York Graffiti, Maz­ zotta, 1984). Già allora la critica bolognese riservava particolare enfasi al concetto di confine, la frontiera che separava gli ambiti dell’arte ufficiale e l’underground, le gallerie acquartierate a Chelsea e i movimenti del Lower East Side. Nonostante il tentativo di istituzionalizzazione della pratica del graffito, ancora oggi per ragioni antropologiche, per la collocazione nello spazio pubblico e per l’eterogeneità dei segni e delle funzioni che interpretano, i graffiti conservano immediatezza e potenza nella relazione aperta con il fruitore. Lungo questa direttrice i curatori del volume selezionano gli esempi per la potenza creativa che mantengono nello spazio pubblico. Per esempio, nella sezione Adorning the Self, Carrier e Pissarro affiancano le fotografie del corpo tatuato di un uomo originario delle Isole Samoa, il ritratto di una donna occidentale, “The illustrated Lady”, il cui corpo è quasi interamente tatuato, il ritratto di una giovane donna che ha inserito impianti sottocutanei a for-

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ma di stelline per adornare le braccia e la celebre foto documentativa dell’azione dell’artista-performer Stelarc che interagisce con l’orecchio tecnologico connesso a internet che si è fatto impiantare nel braccio sinistro. Ciò che appare interessante nell’analisi di Carrier e Pissarro, che si realizza nella possibilità di giustapporre esempi assolutamente eterogenei, non è solo l’individuazione di una linea di confine che separa ciò che appartiene a un ambito ufficiale dell’arte e ciò che pertiene a uno sviluppo spontaneo della creatività nella società, ma piuttosto è la duttilità della categoria Wild Art nel raccogliere proposte che non si legittimano attraverso il riferimento a una norma disciplinare ma si sviluppano invece in termini informali nello spazio pubblico della città o della comunità, intesa in termini assolutamente allargati. Carrier e Pissarro selezionano tutti quei fenomeni che si sviluppano lontani dalle gallerie, dai musei e dall’egida degli operatori del sistema del­l’arte e che sono interpreti di necessità e direzioni, gusti ed estetiche contemporanee. Tali forme di creatività sfuggono alla definizione del kitsch, ancora pensato come fenomeno deteriore di forme alte d’avanguardia e sperimentali. Inoltre la teoria critica aggiornata agli strumenti offerti dai Cultural Studies ha permesso, da tempo, di superare l’idea che tali forme di espressione siano da definirsi paccottiglia sotto-culturale. L’idea che guida il volume Wild Art è assolutamente distante dall’opposizione tra arte d’avanguardia e arte popolare: piuttosto raccoglie esempi di creatività e verve

artistica che si sviluppano spontaneamente nella vita reale e che non ambiscono in alcun modo a conquistare un posto, separato e autonomo dallo scorrere della vita, in una collezione museale. In misura maggiore va evidenziato il debito teorico, in particolare di David Carrier, nei confronti delle posizioni filosofiche di Arthur Danto. Il volume, infatti, sembra assumere come viatico la tesi di fondo del celebre articolo di Arthur Danto sul mondo dell’arte (The Artworld, in «The Journal of Philosophy, vol. 61, 1964). Nel 1964 Arthur Danto nel tentativo di rispondere con una teoria essenzialista, cioè che individuasse le condizioni sufficienti e necessarie per il riconoscimento di un oggetto comune come opera d’ar­te, alla domanda sulla natura del­l’arte, in particolare nel­ l’indagine sull’opera Brillo Box di Andy Warhol, ha affermato l’importanza di una specifica teoria dell’arte e di una cornice istituzionale come tratti essenziali per connotare l’oggetto artistico. Il saggio, e più in generale la tesi di Danto sulla questione degli indiscernibili estetici, hanno agito come premessa alla teoria istituzionale di George Dickie (Art and the Aesthetic, An Institutional Analysis, Cornell University Press, 1974) che indagava la rete (il sistema dell’arte formato dalle istituzioni museali, dalle gallerie, dalle riviste, dalla critica, dalla curatela) entro cui fosse possibile il riconoscimento del­l’arte stessa. Carrier e Pissarro, di contro, pur non essendo interessati a costruire una teoria essenzialista, procedono ad analizzare, inserendoli nella categoria della Wild Art, le esperienze creative e le pratiche


artistiche informali che si sviluppano all’esterno delle dinamiche di attribuzione del valore di artisticità del mondo dell’arte. Il volume Wild Art, che sembra non portare argomenti particolarmente problematici nel dibattito critico, è invece un oggetto ineludibile, perché ripropone seppur per certi versi semplicisticamente, il tema della “definizione” dell’arte che nel­la ricca tradizione di studi americani dal secondo Novecento è emersa come centrale. Si pensi alla celebre posizione di Harold Rosenberg che accomunava le tendenze sotto il suffisso privativo della dematerializzazione. Seppur nella pulviscolarizzazione di pratiche specifiche, analizzando earth­ works e arte concettuale – che a metà degli anni ’70 avevano dato un colpo di grazia all’univocità della teoria formalista di Clement Greenberg – Rosenberg aveva individuato nella de-materializzazione e nella de-estetizzazione dell’oggetto ar­ tistico la tendenza comune del­ l’arte. La riduzione, l’assenza di tracce è la peculiarità su cui il critico americano faceva leva per orientarsi, con gli strumenti della letteratura e della poesia, nella quanto mai ambigua natura del­l’arte. Il metodo di Rosenberg, che faceva fede all’approccio strutturalista nel rifiuto del soggetto come origine del significato – «nessuno può dire con certezza che cosa sia o, quel che più conta, che cosa non sia un’opera d’arte» (La s-definizione del­l’arte, trad. it., Feltrinelli, 1975) – pone ancora oggi il problema dell’interpretazione del­l’arte al di là di un processo piano di definizione. Molto più di recente Joseph Margolis,

consapevole della difficoltà di stilare un elenco dei tratti definitori dell’opera d’arte, ha avvertito i suoi lettori che sia l’arte che ogni teoria dell’arte sono denotati culturali storici e ha sottolineato la necessità di considerare le categorie (quali il modernismo e l’arte post-storica, facendo riferimento alle teorie di Greenberg e Danto, in particolare) «come costruzioni dalla funzione specifica» (Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?, Mimesis, 2011). Nel volume sulla Wild Art non vi è accenno a tale dibattito; eppure la riflessione ontologica sull’arte sembra essere il presupposto da cui gli autori partono. L’urgenza di Carrier e Pissarro – a cui, tra le righe, sembrano fare riferimento – è quella di una definizione debole, condotta non tanto con l’enucleazione dei caratteri necessari per il riconoscimento dell’opera d’arte, ma piuttosto catalogando i fenomeni che eccedono il sistema ufficiale dell’arte con il risultato, da un canto, di affermare la validità di una forma istituzionale dell’arte e, dall’altro, di aggiungere la nuova categoria della wild art all’archivio – ideale – dell’arte. M. G. M. S. Mazzucotelli Salice, Arte Pubblica. Artisti e spazio urbano in Italia e Stati Uniti, Franco Angeli, Milano 2016. Con il termine Arte Pubblica si fa riferimento a tutti gli interventi artistici collocati nello spazio pubblico, al di fuori di luoghi istituzionalmente deputati al ruolo di mero contenitore: l’arte

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uscendo dal museo si trasforma da oggetto per esposizioni in veicolo di riqualificazione dello spazio urbano, svolgendo un ruolo attivo nelle dinamiche sociali e culturali del luogo in cui è collocata. Il termine fa riferimento a una forma d’arte, nata negli anni Sessanta, «un terreno scivoloso, sul quale [molto spesso] ci si muove nel formulare definizioni parziali capaci di cogliere soprattutto differenze formali». Il testo Arte Pubblica. Artisti e spazio urbano in Italia e Stati Uniti non nasce come interrogativo sullo stato contemporaneo dell’arte, sebbene la conoscenza dell’evoluzione delle dinamiche alla base dell’Arte Pubblica sia fondamentale per comprenderne le tendenze attuali. È la sintesi dei risultati di una ricerca sociologica svolta nel mondo dell’arte contemporanea con l’obiettivo di indagare, da diversi punti di vista, i processi alla base di questa particolare tipologia di interventi. La struttura del volume è una matrioska di sette capitoli che parte da un’analisi delle relazioni tra città e arte e, ripercorrendo le tappe fondamentali del «fenomeno» Public Art, analizza casi studio italiani e americani con l’intento di verificare la capacità che questi processi hanno di «stimolare la partecipazione a forme più ampie di vita urbana e governance». Il problema dell’Arte Pubblica, come Giulio Carlo Argan ha sottolineato in Storia dell’arte co­me storia della città (1983), è automaticamente inserito nei problemi relativi all’abitare urbano, direttamente legato alla dimensione stessa della città e al­ l’imprescindibile rapporto con

l’altro. Silvia Mazzucotelli Salice parte da un’attenta analisi sul rapporto tra città e spazio pubblico ed evidenzia come i processi «di trasformazione urbana caratterizzati da alto valore estetico, sono gli esiti visibili di rigenerazione fondate su risorse di tipo culturale». I casi di riqualificazione che hanno investito le città post-industriali negli anni Ottanta, le politiche di sviluppo territoriale degli anni Novanta, gli edifici «icona» in grado di riqualificare contesti degradati, testimoniano come lo stimolo culturale sia sempre più spesso alla base di un processo di spettacolarizzazione dello spazio urbano. L’enfasi della dimensione culturale della rigenerazione del territorio dipende in larga misura dai correnti dibattiti sulla relazione tra cultura, creatività e città: il successo della rigenerazione urbana è intrinsecamente legato alla capacità delle città di farsi creative e attrarre professionisti di talento. I temi delle creative cities e delle culture-led regeneration po­ licies sono chiamati in causa a ricordare che il processo creativo – vero e proprio processo produttivo – attraversando tutte le «discipline formali» trasforma lo spazio urbano in luogo di sperimentazione, di partecipazione attiva, rompendo il processo di uniformità e di pianificazione tipico delle nostre città. Le pratiche legate all’arte visiva, all’architettura, all’urbanistica e al design costruiscono oggi una sorta di koiné, un nuovo modello linguistico supportato da basi teoriche provenienti dalla sociologia, dalla filosofia e dalla politica in grado di trasformare il territorio


pubblico in un luogo condiviso, nel quale identificarsi attraverso il linguaggio dell’arte. Con i suoi caratteri, le sue mescolanze, la sua storia, la sua cultura, la città è diventata la metafora privilegiata dell’esperienza del mondo moderno, uno spazio su cui intervenire e nel quale elaborare il rapporto sincronico con l’altro, proponendo una lettura diacronica della memoria dei luoghi. Lo spazio pubblico si rivela una lente potente attraverso cui leggere le trasformazioni delle città contemporanee e, nello specifico, la tendenza della spettacolarizzazione che le riguarda. Esso è infatti, un terreno sul quale si proiettano, in maniera evidente, le trasformazioni e le tensioni della cultura storica e degli atteggiamenti politici. In esso si condensano, secondo l’autrice, almeno due problematiche: la «rappresentazione della comunità», entità simbolica e politica, e la «necessità di garantire relazioni». Da un lato lo spazio pubblico oggi ha perso la sua funzione di luogo di incontro, dall’altro l’avvento delle nuove tecnologie ha portato a una progressiva modificazione della città, svincolata dal tempo e dallo spazio, e ha trasformato i legami sociali. Sebbene non sia possibile parlare di «era della fine dello spazio pubblico» – l’ibridazione tra interno e esterno nella contemporaneità ha dato vita a nuovi luoghi di incontro e a nuove forme di socialità – è necessario oggi intervenire con strumenti in grado di rispondere alle domande che la città esprime. A tal proposito vengono individuate tre «logiche» differenti, tre lenti attraverso cui leggere le

dinamiche analizzate: la logica della celebrazione della civitas, la logica dell’embellissement, la logica della produzione dello spazio collettivo. Sin dall’antichità l’arte ha avuto la capacità di essere direttamente a servizio della città e dell’individuo, progettata come parte integrante del­ l’esistente e non come successiva integrazione o elemento di abbellimento: «L’arte rende leggibile la vita, la storia e il pensiero di chi li abita, attivando nel cittadino un senso di appartenenza a […] frammenti del tessuto urbano». Nell’Ottocento il valore simbolico dello spazio urbano diminuisce e l’estetica della civitas lascia il posto a quella dell’embellissement. Gli interventi artistici perdono il loro valore perché esclusivamente funzionali alla bellezza decorativa: non solo assistiamo alla scomparsa di un rilevante numero di simboli storici, ma alla perdita di valore del loro ruolo nello spazio collettivo. Il Novecento è il teatro di un rinnovato rapporto tra arte e città, è un periodo di sperimentazione e di fuga da quella che era stata, per tutto il secolo precedente, una visione della cultura del tutto settoriale e specializzata, in grado di limitare la conoscenza trasversale e il sapere interdisciplinare. In particolare, a partire dagli anni Cinquanta, gli artisti ricercano un nuovo rapporto con la città e il territorio urbano e, in linea, con la situazione europea e americana, dialogano con l’ambiente, abbandonando finalità decorative o meramente celebrative. Il primo capitolo è un punto di cerniera, un’introduzione, a tratti non esaustiva, a quello dedicato

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al «fenomeno» Arte Pubblica e suscita un interrogativo: perché quando l’arte occupa uno spazio museale, o più in generale un luogo destinato al ruolo di contenitore, è «arte» senza alcun aggettivo e quando, invece, incontra lo spazio urbano è denominata Arte Pubblica? Il dibatto critico attorno alla relazione opera/ spazio/fruitore è stato nel tempo piuttosto serrato e ha visto l’attività artistica spostarsi, a partire dagli anni Settanta, verso una direzione «relazionale» aperta e sensibile al contesto urbano e al fruitore. Vista la moltitudine di ricerche artistiche, Mazzucotelli Salice restringe il campo di indagine alla definizione di Public Art e di New Genre Public Art (termine coniato da Suzanne Lacy nel 1995) entrando nel merito delle differenti pratiche e delle diverse tradizioni da cui queste prendono origine. Interessanti sono i due sottosistemi con i quali identifica e tiene insieme le esperienze che fanno capo alle due correnti di pensiero: Arte nello e come spazio pubblico, Arte nel pubblico interesse. La publicness, infatti, chiama in causa l’urbano secondo due modalità: se da un lato l’arte occupa lo spazio pubblico con interventi permanenti in grado di servire una logica di «gentrificazione», dal­ l’altro penetra nella sfera pubblica rappresentando un processo e non un esito. L’America, con le città di Seattle e Chicago, e l’Italia, con Bologna, Trieste e Torino, costituiscono i casi studio selezionati per comprendere le potenzialità e i limiti delle politiche e degli orientamenti analizzati. In America i progetti di Arte

Pubblica sono generalmente sostenuti da Public Art Program, in grado di promuovere la realizzazione, anche se in maniera discontinua, di interventi artistici nello spazio urbano grazie all’utilizzo del Percent for Art, che stabilisce che una parte dei costi sostenuti per la realizzazione degli edifici pubblici sia destinato alla realizzazione di opere d’arte collocate in prossimità dell’edificio stesso. In Italia, invece, nonostante l’esistenza della Legge del 2% (nata nel 1949 e ancora presente nel panorama legislativo nonostante le successive abrogazioni e modificazioni) solo il programma Nuovi Committenti, promosso dalla Fondazione Adriano Olivetti, trasposizione del modello francese Nouveaux Commandataires, è riuscito, con non poche difficoltà, a realizzare numerosi progetti, solo in parte riportati nel volume. Sebbene la rassegna di casi non sia esaustiva dell’argomento, permette di rilevare come in un Paese come il nostro, con un sistema legislativo che sostiene dagli anni Quaranta questo tipo di operazioni, siano raramente stati realizzati progetti finanziati con tali dispositivi e come, a differenza delle città americane, difficilmente pubbliche amministrazioni promuovano e sostengano direttamente interventi artistici nello spazio urbano. Altrettanto importanti sono le pratiche grazie alle quali l’opera viene realizzata. Progetti d’artista, concessioni private, progetti comunitari, residenze d’artista e design team offrono un quadro completo delle attuali possibilità di intervento. Il quarto capitolo ha lo scopo di evidenziare come


le pratiche artistiche rintracciabili all’interno del sistema del­l’Arte Pubblica, per quanto eterogenee, siano […] azioni accomunate dalla capacità di innescare dinamiche interattive tra artista e pubblico. Nel processo che dal progetto conduce al momento della concreta realizzazione, l’Arte Pubblica si manifesta come uno specifico ambito di interazione organizzata al cui interno la collaborazione tra artista e pubblico è condizione necessaria per la definizione in campo. La natura sociologica del volume risulta qui evidente per modalità di indagine e contenuti. Nell’ultima parte, dedicata agli attori coinvolti, sintesi delle interviste realizzate nelle città descritte, particolare attenzione è data alla figura del public artist a partire dalla nozione di campo di Pierre Bordieu (1983) e quella di mondo dell’arte di Howard Becker (1982). Il public artist – celebrità, opportunista, equilibrista, impegnato, radicale – è una figura sociale e pubblica non facilmente inquadrabile, che opera in collaborazione non solo con la comunità alla quale l’opera sarà destinata, ma con una pluralità di protagonisti tra cui curatori, pubbliche amministrazioni, architetti e designer. Il testo, corredato da un’ampia bibliografia e un’interessante appendice metodologica, si conclude evidenziando le ricadute del­ l’Arte Pubblica sulla società. L’arte è, oggi, uno strumento di riqualificazione urbana e svolge un ruolo attivo nelle dinamiche culturali locali pur essendo ancora, troppo spesso, calata dall’alto, legata ad una prospettiva di

decorativismo urbano e non pensata con e per la comunità alla quale destinata. Il termine pubblico, associato alla parola arte, acquisisce quindi un peso determinante e il suo significato non va, come è accaduto in passato, associato alla libertà fruitiva del manufatto artistico, quanto al suo essere pensato e costruito in funzione di un’esigenza, per una specifica collettività e per un determinato luogo. La relazione che corre tra arte e pubblico, parte proficua del processo creativo, è quindi quella che corre tra artista, audience e attori coinvolti: un difficile rapporto che oggi sembra ancora dover raggiungere un equilibrio. V. S. A. Boschi - G. Croatto, Filosofia del nascosto. Costruire, pensare, abitare nel sottosuolo, Marsilio Editori, Venezia 2015. Le associazioni mentali che scattano in ognuno di noi non appena ci avviciniamo all’idea di ipogeo derivano da un bagaglio culturale e di esperienze sicuramente precedente ai nostri percorsi progettuali: miti, leggende, luoghi comuni che affondano le proprie radici negli albori della civiltà umana e ancora oggi permeano la cultura contemporanea. Lo sanno bene gli autori di questo interessante saggio, Antonello Boschi e Giorgio Croatto che, prima di entrare nel merito di limiti e opportunità del costruire nel sottosuolo, fanno una disamina precisa quanto ampia degli autori e dei testi che hanno in-

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fluenzato la nostra percezione del mondo ctonio attraverso i secoli. In particolare i primi capitoli a firma di Boschi rappresentano una fondamentale premessa culturale all’azione contemporanea, con una straordinaria capacità – anche narrativa – di spaziare attraverso diverse epoche e discipline, dal mito della caverna alla metropolitana, da Platone a Freud, fornendo un quadro di riferimento completo. Sono infatti questi continui spunti a guidare il lettore attraverso la storia delle costruzioni ipogee, giustificandone le ragioni funzionali e sociali nelle comunità in cui hanno preso forma, in un racconto altrettanto preciso che parte dalle tombe pre-ellenistiche, per continuare con le cisterne romane, le cave, le urbanizzazioni sotterranee della Cappadocia, le prime metropolitane europee con le loro stazioni interrate, le teorie urbanistiche di Utudjian nella prima metà del XX secolo fino alla contemporaneità di città come Toronto e Helsinki. Gli aspetti multidisciplinari legati alla permanenza umana del sottosuolo vengono poi analizzati chiamando in causa scienze mediche che possano determinare la salubrità degli ambienti ipogei e studi psico-prossemici che indagano sull’attenuazione del senso di claustrofobia, spaesamento e perdita di senso del tempo. Ma questo saggio non intende limitarsi a una analisi di ciò che è o è stato fino a oggi, quanto piuttosto domandarsi quali siano il senso e le potenzialità di un uso del sottosuolo nel futuro del territorio. Le ragioni per porsi questo quesito sono di stretta attualità: in primis l’incessante crescita

demografica globale che ci costringe a una riflessione sulle strategie più adatte a un uso consapevole delle limitate risorse di suolo. Questo aspetto ambientale si declina poi in diversi ambiti, da quello dell’impatto visivo sul paesaggio di insediamenti produttivi e aree commerciali – tipologie edilizie che già di per sé non necessitano di luce diretta dalle facciate – all’efficientamento energetico derivante dalla temperatura costante del terreno al di sotto di una certa quota. Si delinea quindi uno scenario in cui la costruzione ipogea non è soltanto possibile, ma anzi per diversi aspetti vantaggiosa. Non viene tralasciato naturalmente tutto quanto riguarda le tecniche a disposizione per realizzare interventi di sempre maggiore estensione e ambizione, intesa non solo come fruizione e funzionalità, ma anche e soprattutto come possibilità di dare qualità ambientale e comfort agli spazi ipogei. La sensibilità degli autori si manifesta ancor più quando nei capitoli successivi si passa agli aspetti progettuali del tema, riconoscendo la specificità locale di ogni intervento. Questa consapevolezza nasce in seno a solide convinzioni culturali e si rafforza nello specifico ambito di attuazione, laddove le caratteristiche topografiche e geologiche di ciascun terreno costituiscono la materia prima del progetto. L’attività di ricerca si concentra dunque sulle realtà di Pisa e Livorno, partendo dall’attenta analisi delle esperienze pregresse nel contesto della città storica, come gli scali delle cantine realizzate a seguito dell’escavazione


del Fosso Reale. Le proposte, ben rappresentate da una serie di planimetrie, sezioni e fotomontaggi per ciascun progetto, si inseriscono dunque nel solco di una tradizione locale da riscoprire e valorizzare, con l’intento di dare un contributo fattuale all’identità del luogo. Dal punto di vista programmatico gli interventi sono sia di natura infrastrutturale, riguardanti parcheggi di scambio interrati, sia di luoghi dedicati all’intrattenimento, attraverso cui dare impulso all’offerta turistica, e riguardano sia la riqualificazione di spazi esistenti, come i sotterranei del Mercato centrale, sia nuove escavazioni. Dal punto di vista formale sono soprattutto in queste ultime che si possono riscontrare tutte le buone pratiche della progettazione ipogea nella sua concezione contemporanea: si possono dunque apprezzare l’utilizzo di partizioni trasparenti, soffitti più alti della media, lo sfalsamento dei livelli, la creazione di doppi volumi e l’inserimento di atrii di collegamento tra superficie e interrato. In conclusione il grande merito di questo volume è di dare un contributo realistico al ribaltamento del paradigma dell’ipogeo, da luogo dell’oscurità e dell’oblio a risorsa urbanistica tesa alla sostenibilità ambientale e alla conservazione paesaggistica, in un equilibrato mix di teoria e pratica. La bontà di questa intuizione è testimoniata dal fatto che, nello stesso anno della pubblicazione del volume, un’importante progetto di riqualificazione ipogeo quale la low-line di New York ha guadagnato la ribalta delle crona-

che, riportando tutte le tematiche affrontate a una esposizione mediatica che ha travalicato le riviste di settore per arrivare a un pubblico ben più vasto: proprio questo passaggio, ovvero convincere i potenziali fruitori al di là degli addetti ai lavori, viene individuato dagli autori come il maggiore ostacolo alla diffusione di architetture ipogee. Nella prospettiva di fare altri passi avanti in questa direzione auspichiamo che la ricerca non si fermi a questa pubblicazione, ma trovi ulteriori stimoli per esiti sia editoriali che progettuali. F. P. Studio Azzurro - Immagini sensibili, Palazzo Reale di Milano, 9 aprile - 4 settembre 2016. Inaugurata il 9 aprile a Palazzo Reale di Milano, la mostra “Immagini Sensibili” è un omaggio ai 35 anni di attività artistica di Studio Azzurro. Collettivo milanese nato agli inizi degli anni ’80, Studio Azzurro rappresenta uno dei migliori esempi di ricerca e sperimentazione che abbiamo in Italia non solo per l’uso originale delle nuove tecnologie, ma anche per la grande attenzione che rivolge verso quella che potremmo definire estetica relazionale del virtuale. Negli anni della “Milano da bere”, in un periodo di crollo di ideologie e di libertinaggio mediatico, Paolo Rosa (1949-2013), Fabio Cirifino e Leonardo Sangiorgi iniziano le loro installazioni conducendo le loro sperimentazioni artistiche su un doppio di

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binario, tecnologico ed etico-sociale, mettendo in atto una ricerca volta non solo a “guardare”, ma a ragionare sui cambiamenti che le tecnologie stavano apportando nel modo di percepire, di sentire, il mondo, il tempo e lo spazio. Il loro approccio è sempre stato sperimentale, innovativo e indirizzato verso la costruzione di un “pensiero comune” di una estetica delle relazioni; e coe­rentemente con questi principi, le loro opere si presentano come costruzioni di spazio pubblico partecipato. Nel corso di questi trentacinque anni i lavori di Studio Azzurro hanno spaziato dai “videoambienti” agli “spazi sensibili” fino alla curatela e alla progettazione dei “musei di narrazione”, passando anche per varie collaborazioni con teatro, cinema e danza; sempre con l’obiettivo di dare voce alle complessità del mondo attraverso una ricerca di nuove progettualità, capaci di interrogarsi alla ricerca di un’estetica, non di rappresentazione, ma espressione di una nuova poetica che fosse soprattutto etica, condivisa e partecipata. «Decidere una rotta, sia in mare sia nell’arte, dipende più dallo spirito che dalla logica razionale. Si sa che ogni rotta, inevitabilmente, nasconde un certo numero di incognite, (…) e dunque occorre fare un vigoroso sforzo di immaginazione per interpretare lo spirito con cui affrontarle prima di tracciare la traiettoria. In un percorso di ricerca, segnato dai linguaggi tecnologici della nostra epoca, la facilità di incontrare situazioni irrinunciabili o imprevisti depistanti è quotidianamente molto elevata. È un lin-

guaggio, un punto di vista che si può intrecciare con facilità a tanti ambiti differenti, artistici ma anche più divulgativi e commerciali. Dunque si possono incontrare anche sirene capaci di trascinarci definitivamente fuori dalla rotta. (…) Ma se non ascolti il canto e lo spirito è buono, le occasionalità e le circostanze possono diventare un arricchimento straordinario, gli incontri imprevisti, una rivelazione. Così, (…) si ha l’impressione di stare dentro una traiettoria coerente, in cui ricerca e sua applicazione sono parte di un unico disegno, dove sperimentazione e divulgazione accorciano le divergenze e si accentrano in un lungo gorgo espressivo» (F. Cirifino, Studio Azzurro, Immagini vive, Electa, Milano 2005, p. 156). La forza del lavoro di Studio Azzurro nasce dalla capacità di tessere relazioni, rapporti personali e spaziali, combinare filosofia e tecnologia, lavorare su un’arte che, nel virtuale, trova la possibilità di creare paradossi logici e spaziali, in grado di attivare lo spettatore (o meglio lo spett-attore) sia fisicamente che intellettualmente e di guidarlo in una esperienza attiva e attivante, generando in lui memorie intese «non come archivio statico da consultare ma come complesso plastico e dinamico in cui si integrano e amalgamano a livelli diversi modelli di integrazione; me­ moria come condizione di possibilità di azioni e prestazioni non riproduttive da parte del corpo del soggetto ben al di là della consapevolezza soggettiva; memoria della specie, fondamentalmente adattiva, memoria come origine di significato e genera-


zione di analogie, cioè costituzione di modelli per somiglianza di proprietà o di vincoli tali da orientare l’azione. La memoria, in questo caso non è una componente della mente (…) è invece una proprietà globale della nostra mente» (R. Diodato, Estetica del virtuale, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 60). Portando quindi lo spettatore in una condizione di immersività nel virtuale si crea un processo relazionale tra soggetto e oggetto che sfocia in una condizione empatica e di identificazione. La prima immersione che la mostra offre allo spettatore è attraverso l’incontro con “Il Nuotatore (va troppo spesso ad Heidelberg)”, ambientazione fatta nel 1984 a Palazzo Fortuny a Venezia. In tale occasione fu co­ strui­ta una piscina, entrando nella quale lo spettatore si trovava faccia a faccia, o meglio corpo a corpo, con una corsia occupata da dodici monitor nei quali un instancabile nuotatore passava (da schermo a schermo) ipnotizzando lo spettatore. Assieme a lui, piccoli e rapidi «microeventi della durata di pochi istanti gettati come una manciata di coriandoli nel corso dell’unico riferimenti temporale possibile, il modulo di un’ora determinato dalla lunghezza massima del nastro». Nella mostra a Palazzo Reale, i dodici monitor sono appoggiati a una parete nera, trattati quasi come un elemento archeologico: essi ci ricordano, allo stesso modo dei frammenti di statue o templi antichi, quali sono le nostre origini e attivano memorie che ci mettono a confronto con una real­tà (storica e digitale) passata. Solo da trentacinque anni.

Nella sala successiva si è accolti da sparuti pannelli che, in estrema ma piuttosto efficace sintesi, presentano la nascita e la progettazione dei videoambienti (1982-1992); questi appartengono ai primi anni di produzione artistica del gruppo e rappresentano non solo dei felici capisaldi di videoarte, ma soprattutto l’attenzione e una capacità di leggere e di riflettere (e far riflettere) sulla condizione sociale di quegli (e di questi) anni. È purtroppo solo attraverso un piccolo monitor e l’isolamento sonoro, dato dalle cuffie audio, che possiamo ammirare gli undici videoambienti proposti in mostra, luoghi di relazione tra fisico e virtuale, tra contenuto trattato ed esperienza vissuta dello spettatore. Sfortunatamente l’allestimento di questi spazi non ha la forza di trattenere gli spettatori che spesso vi si soffermano solo pochi istanti perdendo così materiali significativi e importanti. Il percorso del corposo allestimento si snoda in coerenza alle prime due sale: agli allestimenti polisensoriali di alcuni capisaldi dei diversi “periodi” di produzione artistica (videoambienti – immagini sensibili – mediterraneo – portatori di storie) seguono le sale più documentative, nelle quali si può conoscere il lungo e variegato percorso artistico e didattico (lo studio è da sempre legato ad attività e workshop con diverse istituzioni) degli artisti. Nel settore degli ambienti sensibili non si può non citare “TAVOLI (perché queste mani mi toccano)” realizzata per la Triennale di Milano nel 1995. Da questa risulta evidente come «negli ambienti sensibili la tecnologia si

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spoglia delle sue corazze, lascia sulle suppellettili solo l’impronta dei suoi effetti che devono essere toccati, calpestati, chiamati, soffiati, senza altre macchine di mezzo. La tecnica deve lasciare il campo all’espressione più che all’informazione, nella maniera il più possibile condivisa e partecipata, comunque estranea alla sua logica individualizzante e mediatizzata. Negli ambienti sensibili i tavoli hanno diritto a chiederti “cosa stai toccando? Un corpo di donna o la superficie venata di un legno?”. Spazio per immaginare» (F. Cirifino, op. cit., p. 84). La sezione “Mediterraneo” rac­­ conta lo stretto rapporto che Studio Azzurro ha instaurato nel tempo con il territorio: «Occuparsi di territorio significa vitalizzare e curare il suo paesaggio e la sua cultura ma anche generare un’etica del luogo stesso. Un’etica del bene pubblico che faccia ritrovare amore, cura e rispetto» (Studio Azzurro, Musei di Narrazione, percorsi interattivi e affreschi multimediali, Silvana Editore, Milano 2011, p. 18). È sempre all’insegna di que­ st’etica del bene e del rispetto che si giunge alla sala delle Cariatidi nella quale ci si immerge nell’installazione “Miracolo a Milano”, progettata proprio in occasione della retrospettiva milanese. Omaggiando il celeberrimo film di Vittorio de Sica, questo ambiente ci pone davanti alla nostra immagine vista attraverso grandi specchi. Qualche istante dopo, alla visione di noi stessi si sovrappone quella di uomini e donne, gli abitanti invisibili della città, che senza fissa dimora forse più di tutti si immergono in essa.

La loro presenza virtuale e quella fisica del visitatore entrano in contatto e si attivano reciprocamente: dopo aver raccontato qual­ che piccola cosa su di sé queste persone spiccano il volo e noi, alzando il nostro sguardo per seguirle le ritroviano (insieme a molte altre) in un sereno cielo azzurro, all’interno della stanza, dal quale, come dei putti, volando ci guardano. La retrospettiva che Milano ha dedicato alla lunga carriera (sempre attiva) di Studio Azzurro rappresenta un importante traguardo per il mondo della cultura e si inserisce in un più ampio programma di incontri, proiezioni, ed eventi (Ritorni al futuro). Tuttavia seppure i materiali presenti in mostra siano moltissimi e di altissimo livello, l’allestimento porta a privilegiare un approccio alla visita piuttosto riduttivo, perdendo così gran parte del lavoro e del pensiero di Studio Azzurro. Dobbiamo quindi sperare che l’iniziativa milanese sia solo il primo di una lunga serie di “sguardi” sul continuo lavoro di questa “bottega d’arte contemporanea” che diventino sguardi sempre più profondi e attenti. M. C. Idee in volo di Riccardo Dalisi, Museo Storico di Lecce dal 16 giugno al 31 dicembre 2016. All’esposizione, curata da Cin­ tya Concari e Roberto Marcatti, è unito un libro/catalogo oggetto della presente recensione - con immagini e testi di vari autori sull’opera di Riccardo Dalisi, edito da H2O edizioni.


Partendo dall’esperienza di Dalisi e dalla sua ricerca sulle intersezioni tra arte, artigianato, industria e sociale gli autori affrontano, dai loro diversi punti di vista, frammenti dell’immenso tema della cultura del progetto. Gli argomenti proposti nella mostra costituiscono le guide di questo testo. Tra di essi emergono: l’antesignana attenzione di Dalisi per i temi della sostenibilità ambientale; la contrapposizione di un “design povero”, fondato su materiali comuni e manualità artigiana, al “bel design”; la sperimentazione di azioni/animazioni nei quartieri degradati di Napoli che coinvolgevano bambini e anziani, la cooperazione tra ricerca e didattica; e il valore sociale e politico della vocazione artistica. La breve antologia si apre con uno scritto di Paolo Perrone, sindaco di Lecce, che rileva la capacità di Dalisi di anticipare con le sue opere scenari e approcci contemporanei come quelli della creatività diffusa e della contaminazione tra saperi. Segue un testo dell’assessore al Marketing territoriale, Turismo e Spettacoli del Comune di Lecce Luigi Coclite che sottolinea il legame profondo tra il lavoro di Dalisi, a tutte le scale, e la cultura tangibile e intangibile del Sud Italia che accomuna la città di Lecce, sede dell’esposizione, e Napoli, epicentro della sua attività. Il direttore del Museo Storico Nicola Massimo Elia ed il curatore del museo Toti Carpentieri firmano insieme un contributo dal titolo Riccardo Dalisi …Non solo caffettiera. Nuovi spazi e multipli percorsi in cui viene in-

trodotta la struttura della mostra in cinque temi: l’architettura, il design, il sociale, il disegno e i materiali, che costruiscono le categorie attraverso cui i curatori hanno tentato di “ordinare” il brulicante mondo di utopie, visioni, ipotesi, progetti e prodotti dell’artista-architetto-designer proposti nelle cinque sale del Museo, come reperti che raccontano l’uomo e la sua realtà. Elia e Carpentieri concludono il loro saggio con un’efficace sintesi che ben descrive l’approccio del­ l’esposizione e a «questo eclettico e geniale uomo del Sud che ha voluto e saputo esercitare la cultura del progetto, facendo dialogare in maniera quanto mai produttiva la ricerca artistica, il lavoro artigianale e la produzione industriale e consentendo alla caffettiera napoletana di abbandonare la sua dimensione oggettuale per divenire una sorta di manifesto aperto e antiaccademico». Seguono i testi dei curatori. Cintyia Concari inquadra l’esposizione in un più ampio percorso di collaborazione sinergica tra Riccardo Dalisi e l’Associazione no profit H2O, da lei diretta, sui temi della salvaguardia della risorsa acqua attraverso il progetto, utilizzato come principio di coesione sociale e sviluppo delle comunità. Secondo la Concari il tema del benessere sociale si pone come obiettivo ultimo di ogni sua operazione e di ogni sua ogni visione. Roberto Marcatti fa riferimento, invece, al contributo fornito da Dalisi alla cultura del progetto condiviso, da un punto di vista fortemente territoriale definito “a Sud del Design”, che inquadra in quella che definisce la “scuola

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napoletana del progetto”. Marcatti sottolinea la trasversalità del suo linguaggio iconico e allo stesso tempo generosamente fattivo che valica i confini tra design del prodotto, architettura, arte e progetto sociale. Nel contributo scritto da Marie-Ange Brayer direttrice della sezione Design e Prospettiva industriale del Centro Pompidou di Parigi, il lavoro di Dalisi viene inscritto in una dimensione architettonica legata alla spazialità sperimentale in cui la “geometria generativa”, da lui concepita, diviene un mezzo di transizione da una spazialità precostituita e univoca ad una più ricca e flessuosa spazialità intesa come luogo delle relazioni interpersonali e delle trasformazioni relative dello spazio ad opera delle diverse immaginazioni, percezioni e nature ma­ teriche delle persone che lo vi­vono. Come afferma la Brayer «gli esperimenti spaziali di Dalisi incarnano bene la quintessenza dell’architettura radicale come “architettura della relazione” tra l’individuo e il collettivo, tra l’og­ getto e il suo ambiente nel quale teoria e prassi sono inseparabili». Il testo di Andrea Branzi, con il suo consueto tono lucido e tagliente, rievoca il clima del Movimento Radical, di cui è stato un importante teorico e promotore, e della sua declinazione nella Global Tools in cui si innestò il contributo di Riccardo Dalisi come esempio di contro-scuola. Branzi intravede nella mostra curata da Concari e Marcatti un indizio di una seconda ondata di riscoperta dell’avanguardia radicale e post-radicale che si riscontra anche in importanti ricerche storiche e riletture critiche con-

dotte in alcune tra le più prestigiose università americane in questi anni. Una riscoperta che, secondo Branzi, contiene ancora una forza generativa non del tutto consumata dalla critica del progetto che in Italia «non è stata capace di elaborare una interpretazione evoluta dei movimenti di avanguardia di quel tempo (…)». Nel contributo di Renato De Fusco l’esperienza di Dalisi viene letta alla luce della sua derivazione dal lavoro di Germano Celant sull’“Arte povera”. De Fusco evoca l’atteggiamento tenace ed incantato di Dalisi, fedele negli anni ad un genius loci, che trovò il modo di indagare attraverso infiniti filtri. Un atteggiamento che lo ha portato a rimanere vicino agli artigiani ed ai bambini dei quartieri degradati di Napoli nonostante l’attenzione dimostratagli dal fenomeno avanguardistico dei “radicali” italiani ed in particolare Lombardi. De Fusco, pur ritenendo che le esperienze sperimentali di Dalisi con gli artigiani di Rua Catalana «contribuivano all’ipertrofia “artistica”, al gusto per l’estro e la trovata, all’idea di design come di un’arte minore, ar­ tigianale non senza una vena patetica» riconosce nell’incontro di Dalisi con la dimensione della produzione industriale, rappresentata da Alberto Alessi, una capacità di pervenire ad una sintesi risoluta e assoluta che ha superato con qualità e rigore le divagazioni e le ingenuità di alcuni strati del lungo percorso di sviluppo della famosa caffettiera che era iniziato nel 1979 per terminare nel 1987. Nella parte centrale del libro le immagini lasciano spazio alla poesia Il bambino del sotto pro-


letariato di Alessandro Guerriero che interpreta in versi gli ingredienti principali dell’attività di Dalisi (il bambino del sottoproletariato, la dignità dei diversi, l’artefatto dell’imprevedibilità, il produttivismo disperato, gli oggetti personaggi, il design ultrapoverissimo e l’amore, insieme a molti altri). Segue Dialogando con Riccardo. Diciannove domande proposte da Toti Carpentieri che esplorano i diversi paesaggi dalisiani, dalle geometrie generative ai programmi della Global Tools, fino alla capacità terapeutica dell’arte per le persone e per i territori. L’intervista si conclude con un selfiewords in cui Dalisi si definisce con nove parole: io, tu, l’altro, tutti, nessuno, ancora, an­cora, ancora, ancora. La ripetizione dell’ultima parola sembra voler esprimere, oltre a tante altre cose, quella perseveranza che ha accompagnato tutta la attività di Dalisi e che Branzi, a conclusione del suo pezzo, individua come “modello di intransigenza”. Ugo La Pietra nel suo testo fa riferimento soprattutto all’esperienza di “arte per il sociale” in cui Dalisi, superando la dimensione convenzionale che vedeva la collocazione delle opere negli spazi urbani, protende per una interpretazione più “umana” intesa come “attività che tende al coinvolgimento degli individui”. L’ultimo contributo di Alessandro Mendini indica come aspetto più fondativo del lavoro di Riccardo Dalisi «quella che egli già da tempo chiamò Geometria Generativa: una specie di criterio genetico-metamorfico da applicare alla progettazione, a grande scala e a piccola scala».

Mendini ricorda come anni fa su Casabella definì l’opera di Dalisi “tecnica povera in rivolta” in grado di sovvertire qualsiasi metodologia di progettazione rompendone i tempi, i criteri di riferimento e le tecniche di restituzione. Mendini ricorda anche l’intensa e faticosa esperienza di traduzione dell’amplissima ricerca sulla caffettiera napoletana in prodotto industriale di grande serie, ad opera dell’officina Alessi, a cui lo stesso Mendini partecipò in prima persona «il primo sposalizio fra le mentalità del design del Nord e del design del Sud». L’antologia si chiude con una rassegna di testi che descrivono alcune delle aziende con cui Dalisi ha collaborato definite Le imprese guidate dalle idee: Alessi (Alberto Alessi), Glas (Lorenzo Arosio), Kleis (Ruggero Frascio), Pimar (Giorgia e Giuseppe Marrocco), Promemoria (Romeo Sozzi), Slamp (Roberto Ziliani), Zanotta (Eleonora Zanotta) raccontano le loro storie e il loro approccio alla cultura del design e la loro identità di brand. Il fitto e variegato corredo iconografico del libro è tra gli elementi che lo rendono prezioso perché riflette la multicromia dei risultati del lavoro di Dalisi. Bellissime, in particolare, le immagini dei disegni autografi commentati da appunti scritti a mano, che più di ogni altra immagine, riescono a lasciare intravedere al lettore il suo modo di far sgorgare il pensiero attraverso tratti, geo­metrie e parole. Il libro emerge nel panorama dei cataloghi di mostre perché supera la dimensione di racconto accondiscendente di un’esposi-

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zione, come spesso accade, per conquistare una parziale autonomia critica. Nato per presentare l’esposizione Idee in volo diviene luogo di fervente discussione sui temi di tipo storico-critico, culturale e sociale che l’opera di Dalisi solleva. Dove grandi maestri del Design italiano come Andrea Branzi, Renato De Fusco e Alessandro Mendini colgono l’occasione per esprimere, con lucida consapevolezza e rinnovato vigore, il loro pensiero critico su questioni di profonda importanza per la storia del Design italiano e internazionale, come il fenomeno del movimento radical e post-radical a distanza; le relazioni tra arte, design e industria; il valore sociale della cultura del progetto. Questo fa di questo libro un utile supporto per una riflessione che appare ancora aperta ed appassionata. Una lettura interessante per chi questi fenomeni li ha vissuti personalmente, ma anche per tutti gli altri, che leggendolo potranno formarsi un’idea più chiara di come, alla luce dei molti anni trascorsi, le storie rievocate abbiano influito sulla storia del design italiano e sulla sua capacità di influenzare il design internazionale. In questo senso merita un approfondimento il riferimento di Branzi al grande interesse dimostrato negli ultimi anni dalle più importanti università statunitensi per il movimento radical, prevalentemente trascurato in tutti questi anni dalla critica italiana. Il merito principale di questa pubblicazione è la forza dei pensieri espressi. I grandi maestri coinvolti non hanno paura di esprimere il loro pensiero nel be-

ne e nel male e il valore dell’averli coinvolti non sta solo nella qualità critica dei loro contributi ma anche nel loro approccio alla critica, nel messaggio pedagogico che si rivolge ai colleghi più giovani istigandoli al coraggio di esprimere le proprie idee e di essere intellettualmente onesti con se stessi, con la propria storia e con il proprio contesto. Esempi preziosi per gli esponenti più giovani della cultura del design che trovano sempre occasione per essere blandamente pacifici e neutrali, meno disposti al confronto con i loro colleghi e con la storia, frenati da un perenne e “politico” (nel senso più anti-radical che ci sia) timore di essere schietti. Esempi preziosi perché di questa fragilità del pensiero risente la critica e risente il fare design in Italia. Dunque merito ai curatori per aver scelto di celebrare Dalisi e, insieme a lui, la forza del pensiero del design italiano. C. L. G. Ottolini, Architettura degli interni domestici. Per una storia dell’abitare occidentale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015. Da diverso tempo, ormai, sembra che ogni percorso critico interno a una specifica disciplina abbia sempre a che fare con il suo riposizionamento in un certo dominio, o con la ridiscussione del suo campo di applicazione. Non che sia strano, in realtà. Nel quadro del pluralismo epistemologico contemporaneo, infatti, non resta molto spazio per grandi


narrazioni e paradigmi incontestabili. Anche la storia, come scrive Ignasi de Solà-Morales, più che dedicarsi alla ricerca di nuovi modelli che permettano di giungere a una chiarezza totale, … tenta [invece] di mettere insieme percorsi trasversali, microstorie, sezioni inesplorate, alla ricerca di significati diversi (Decifrare l’architettura, Feltrinelli, Milano 2001, p. 153). In più, la consapevolezza della profonda «intenzionalità» di ogni narrazione storica rende così superflua l’individuazione di criteri di reciproca falsificabilità, che oggi, nella definizione di una specifica identità disciplinare, si trovano pacificamente a coesistere storie di segno opposto o di impostazione differente. Tutto ciò, ovviamente, rappresenta una ricchezza. L’unico rischio, però, è che, talvolta, la loro dichiarata parzialità le renda talmente autonome da non sentire più la necessità di «parlarsi». Come se l’assoluta relativizzazione delle storie ne potesse ratificare implicitamente la reciproca disconnessione; un rischio ancora più evidente se si tratta, poi, del rapporto fra «Storie» e «storie». In un certo senso, è proprio quello che sta succedendo nel settore dell’Architettura degli Interni, con il recente interesse mostrato dalla Storia – in particolare nell’ambito del design – nel colmare una supposta lacuna disciplinare. Lo stesso interesse che, però, sembra trascurare il fitto reticolo di storie che, soprattutto in Italia, ne ha progressivamente costruito il senso e l’identità; e non solo per opera dei più conosciuti maestri degli anni Cinquanta e Sessanta, ma soprattutto

grazie alle letture attraverso cui un’altra generazione di maestri – come Filippo Alison, Adriano Cornoldi e Gianni Ottolini – ne ha consolidato i presupposti teorici, ponendo le basi per la ricerca applicata e rilanciandone il ruolo nella formazione accademica. Il tutto, però, non a scapito di una nozione di architettura come arte dello spazio che alcuni vedono come prevaricante rispetto al problema degli interni (F. Irace, Storie d’interni, Carocci, Roma 2015, p. 9), ma proprio in virtù di essa; in virtù dello straordinario umanismo che dalle lezioni di autori del calibro di Bruno Zevi e Carlo De Carli filtra ancora oggi nelle pagine dell’ultimo di questi racconti – L’architettura degli interni domestici (2015) di Gianni Ottolini. Per l’autore, infatti, come si legge in apertura, ciò che fonda lo spazio architettonico, prima ancora di ogni sua determinazione figurale e fisica, è un moto dell’animo, un gesto di apertura agli altri e al mondo. […] Aperto all’accoglienza dei gesti di chi vi abita, circoscritto da un margine solido e attrezzato, lo spazio abitabile ci avvolge da tutti i lati, sia esso una nicchia o una stanza o un luogo urbano o un paesaggio aperto (col cielo come soffitto): ci siamo «dentro». Tutta l’architettura è di «interni». […] Le cosiddette «funzioni» dell’abitare, realizzate, o meglio facilitate, dall’architettura, si trasferiscono nella sua forma concreta tramite un processo di interpretazione simbolica e di traslazione materiale che ne illumina il significato. Da questa concezione nasce, quindi, l’idea di una storia di

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quelle forme dell’abitare, diverse nel tempo e nello spazio, che incarnano punti di vista diversi, individuali e collettivi, in cui l’abitare è sentito, fantasticato e ordinato nell’opera realizzata (p. 7). Certo, non è una storia in senso stretto; e il «per» che introduce il sottotitolo è significativamente cautelativo. È più una raccolta di materiali e di riferimenti utili per ulteriori approfondimenti di tipo critico. Gli Interni, però, rappresentano un settore particolare e una certa posizione teorica implica anche una specifica prospettiva storica. Se, infatti, si guarda a essi a partire dall’emergenza di una professione specifica – approccio tipico della storiografia anglosassone –, il campo di indagine viene limitato agli ultimi due secoli. D’altro canto, se si intende l’interno come elemento generativo e ragione ultima di ogni progetto spaziale, allora si deve tenere conto di quella trasformazione consapevole dello spazio abitato che prende forma con le origini dell’umanità. Ed è proprio da questo punto, dalla preistoria, che Ottolini parte per descrivere la specificità degli spazi e degli arredi domestici del mondo occidentale, nella loro evoluzione fino all’inizio di questo secolo. Perché qui, nella forma materiale della casa, si sono sempre intrecciati i bisogni, le aspirazioni e i modi di vita dei vari ceti sociali, le ideologie a essi sottese e le loro connessioni con specifiche teorie estetiche e tendenze del gusto, le forme e i tipi degli edifici e dei singoli elementi d’arredo, i materiali e le tecniche costruttive (p. 8). Tutto, cioè, concorre a definire

questo insieme finito e totale, di cui l’unità del fenomeno architettonico alle diverse scale informa ogni elemento, dai margini alle attrezzature fisse, dai mobili ai complementi di arredo. Ed è grazie a questa concezione che prende forma una storia del tutto particolare, che solo a prima vista può apparire ortodossa nella scansione tematica e implicitamente cronologica dell’indice. Una storia in cui Le Corbusier si contende il palco con Robert Mallet-Stevens e Eileen Gray; in cui Alexander Klein e Margarete Schütte-Lihotzky hanno pari dignità rispetto a Walter Gropius o Marcel Breuer. La stessa storia in cui all’analisi dei codici formali del razionalismo o dell’organicismo si affiancano disamine sull’importanza che la nascita di monotipi edilizi e di macro-oggetti di arredo o l’emergenza di nuove istanze legate all’ecologia e alla partecipazione hanno avuto per l’evoluzione dei modelli abitativi. Spazi, arredi e oggetti, cioè, vengono trattati con la medesima attenzione e la medesima profondità e, in questo senso, non stupiscono né le frequenti incursioni dell’autore nel­ l’analisi dei sistemi produttivi, né il ruolo preminente che la scuola italiana e quella scandinava assumono in questo racconto, proprio per quella capacità riconosciuta di gestire il progetto architettonico fino alla scala del dettaglio. Quello che emerge, quindi, è un panorama composito, fatto di straordinarie individualità – talvolta ignorate dalla storia dell’architettura – e processi di lunga durata; in cui la critica di un sapere tecnico ed estetico relativo a tutti gli spazi abitabili nella loro


integrale complessità si affianca alle grandi questioni teoriche sulla genesi e sull’essenza stessa del­l’architettura. Quello che caratterizza maggiormente questa storia, però, è la metodologia di indagine. Tutto è incentrato sul progetto, sulla sua complessità e sulla sua evoluzione, al di là di un indirizzo storiografico univoco. Per questa ragione, il racconto procede per «accumulo», attraverso un’imponente quantità di dati, di disegni e di riferimenti bibliografici, che le oltre millecinquecento illustrazioni a corredo del testo documentano solo in parte. Questo processo, però, non è mai neutrale, perché la ricerca di Ottolini sul progetto, in un certo senso, è anche una ricerca attraverso il progetto. Non si limita, cioè, a raccogliere informazioni e documenti, ma analizza a fondo molte di queste opere ricostruendole passo per passo, cercando di evidenziarne le ragioni produttive, simboliche e costruttive attraverso la logica del progetto; e non solo quella meramente compositiva, ma anche e soprattutto quella relativa alla distribuzione, la figurazione, il dimensionamento e la definizione materica con­creta dello spazio atmosferico, dei margini solidi, delle attrezzature e degli oggetti, compresi gli aspetti di comfort ambientale e quelli connessi alla luce naturale e artificiale, al colore e alle sottolineature espressive proprie della decorazione (p. 8). Il tutto, grazie a un archivio di ridisegni e modelli al dettaglio, costruito in oltre ven­ t’anni di didattica applicata, che copre secoli e secoli di interni costruiti, anche scomparsi o sola-

mente immaginati – come nel caso delle straordinarie restituzioni architettoniche degli ambienti domestici di alcuni dipinti rinascimentali. Certo, non tutto viene restituito compiutamente dal testo; un solo volume, d’altra parte, non sarebbe bastato. Ciò che è davvero significativo, però, è che questo approccio metodologico riesce a innescare un meccanismo narrativo che ha realmente qualcosa di diverso. Quella di Ottolini, infatti, non è una Storia scritta da uno storico, ma una storia «ricostruita» da un architetto e da un profondo cultore della materia. Qualcuno in grado non solo di comprendere e spiegare la stratificata complessità di un processo progettuale, ma anche di accompagnare il lettore alla scoperta della sua bellezza. Così, nelle sue parole, ogni casa che approfondisce diventa l’occasione per una visita guidata; non si limita a descriverla, ma vi entra letteralmente dentro. Racconta l’approccio all’edificio e i movimenti che si compiono nel percorrerlo, si sofferma su determinati dettagli o su studiate aperture visuali, ne spiega le ragioni e le particolarità. Guarda alle superfici, agli arredi, alle luci e ai paramenti, per costruire una particolare atmosfera immersiva in cui ogni aspetto, dal colore alla tessitura, assume pari dignità nel definirne la qualità ambientale. E, in questo modo, riesce non solo a descrivere come l’architettura ha interpretato nei secoli le «funzioni» dell’abitare, ma anche a rendere tangibile, anche solo per un attimo, l’«eterno presente» dell’arte, delle forme meditate e sensibili di abitazio-

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ni definite in risposta a un profondo desiderio di bellezza, […] [che] ci rendono vicini ed emozionanti i segni di civiltà anche perdute o «lontane» (p. 7). J. L. A. Roca De Amicis, C. Varagnoli (a cura di), Alla Moderna. Antiche chiese e rifacimenti barocchi: una prospettiva europea, Artemide, Roma 2015.

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Il volume curato da Augusto Roca De Amicis e Claudio Varagnoli raccoglie gli interventi di studiosi italiani ed europei presentati in occasione della Giornata di Studi del 4 ottobre 2013, all’Accademia di San Luca, sul tema del rinnovamento post-tridentino degli spazi liturgici e sul conseguente concetto di modernità che si sviluppa in architettura tra XVII e XVIII secolo; un «moderno» che è espressione del linguaggio architettonico ufficiale che la Chiesa diffonde su scala europea, mediante la realizzazione di interventi sulle preesistenze paleocristiane e medievali. I curatori, nell’introduzione al volume, rendono esplicito l’intento di collocare la tematica nel­ l’ambito del dibattito disciplinare tra storia e restauro, sottoli­ neando l’imprescindibile necessità, nell’una come nell’altra attività, di considerare gli ammodernamenti liturgici attuati secondo i dettami del Concilio, quali episodi caratterizzati da specifici significati culturali e precisi esiti formali, ancorché appartenenti all’ininterrotto processo storico che trae origine dalla genesi della

fabbrica e si sostanzia nel flusso continuo di trasformazioni più o meno significative sino all’attualità. L’insieme dei contributi offre un interessante e variegato panorama di respiro internazionale, suggerisce nuovi spunti di ricerca e risulta particolarmente interessante per le molteplici possibilità di lettura trasversale, rendendo possibile lo studio del tema secondo chiavi interpretative diversificate: la storia del rinnovamento post-conciliare degli spazi liturgici può, dunque, essere indagata come storia dei committenti, rappresentanti della Chiesa di Roma e fedeli attuatori dei dettami tridentini – Federico Borromeo a Milano, Cesare Baronio a Roma, Innico Caracciolo a Napoli e così via – o come storia degli architetti europei che quei progetti “alla moderna” sono chiamati a redigere – tra gli altri, Cosimo Fanzago, Francesco Fontana, Ventura Rodriguez – oppure come storia di architetture ove l’atteggiamento al rinnovamento ha portato ad esiti formali particolarmente eloquenti – Sant’Ambrogio a Milano, l’abbazia di Kaisheim in area danubiana, Santa Croce in Gerusalemme a Roma – ovvero, più estesamente, come storia dei paesi europei dove il dettato conciliare ha avuto le influenze più significative. Alle possibilità di lettura «non lineare» si aggiungono poi le sollecitazioni di carattere, per così dire, «monografico» che scaturiscono dai singoli testi. Nel contributo Riparare e restaurare: Confronto con la storia e interventi nelle chiese medievali a Milano nel primo Seicento


Irene Giustina focalizza l’attenzione sulla figura dell’arcivescovo Federico Borromeo, mettendo in evidenza quanto questi, pur mantenendosi sul medesimo percorso dottrinale avviato da Carlo Borromeo, abbia influenzato, con una nuova sensibilità storico-critica e una conoscenza diretta dei modelli classici, i progetti di rinnovamento liturgico di alcune chiese medievali milanesi: S. Babila, S. Sepolcro, S. Giorgio al palazzo, e S. Ambrogio che arrivano così ad adottare un linguaggio alla «romana». Augusto Roca De Amicis nell’affrontare il tema del Rinnovare le basiliche romane, prima e dopo San Giovanni in Laterano esplora le «origini» del restauro con alcune riflessioni sulle due figure tra le più influenti in ambito romano nel XVII secolo, Cesare Baronio e Francesco Borromini, e sul radicale processo di rivoluzione culturale che il loro atteggiamento nei confronti della preesistenza ha innescato, sia nel­ l’affinamento del concetto di antica testimonianza materiale come autentica espressione dei valori della cristianità, sia nella elaborazione di nuove formulazioni architettoniche fondate su differenti interpretazioni del rapporto antico-nuovo. In Architecture and Memory of Ancient Times: Renewal, ReUse, Restoration in Seventeenth Century Neapolitan Churches, Valentina Russo esamina il contesto napoletano, in cui gli interventi di rinnovamento liturgico risentono di un significativo rallentamento dovuto alla ricezione tarda della trattatistica borromeana; i cantieri della Basilica di Santa Restituta nel Duomo di

Napoli e di Santa Chiara sono gli esempi più eloquenti di una cultura architettonica, che dimostrerà per lungo tempo atteggiamenti diversificati nei confronti della preesistenza, oscillanti tra la necessità della conservazione del reperto antico e la libertà espressiva del linguaggio moderno. In ambito siciliano, come illustrato da Marco Rosario Nobile nell’intervento su Le cattedrali in Sicilia tra XVI e XVII secolo, le trasformazioni architettoniche attuate nelle principali architetture religiose, come per esempio la cattedrale di Palermo, di Catania o il Duomo di Monreale, costituiscono l’esito di un complesso sistema di esigenze liturgiche e culturali di cui le prescrizioni tridentine sono solo un fattore parziale. Un primo squarcio sulla realtà europea e sulle principali problematiche riscontrabili con il graduale allontanamento dal centro nevralgico del cattolicesimo, si apre con il contributo Arredi liturgici e interventi architettonici nella Francia del Settecento, in cui Jörg Garms pone in evidenza l’autonomia esercitata dalla dottrina gallicana e la persistenza di tradizioni architettoniche legate alla cultura del gotico, tanto radicate da dare luogo a rinnovamenti e ammodernamenti limitati, spesso relegati alla rivisitazione di apparati decorativi o di elementi dell’arredo liturgico. Nel capitolo Renovatio Ecclesiae Germanicae Nationis. The Baroque Renovation of Medieval Churches in the Holy Roman Empire, Meinrad von Engelberg riflette, con il supporto di un nutrito catalogo di esempi, sulle specificità dei diversi atteggia-

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menti che tra XVII e XVIII secolo si concretizzano nei cantieri di ammodernamento degli edifici di culto germanici, dimostrando che le necessità di rinnovamento liturgico da cui questi scaturiscono si intrecciano con motivazioni specificamente relazionate con l’assetto politico-religioso del Sacro Romano Impero. Per quanto riguarda le regioni dell’Europa centrale, in Continui­ ty and Innovation – Modes of Renewal in Medieval Danubian Churches during the Baroque, Ulrich Fürst porta ad esempio alcuni cantieri di rinnovamento liturgico austriaci – Basilica di Mariazell, Cattedrale di St Stephen a Vienna, le abbazie di Kaisheim e Kremsmünster, la Chiesa dell’Ordine Teutonico a Vienna – e germanici – Cattedrale di St Peter a Regesburg, Cattedrale di St Stephen a Passau – a testimonianza della varietà di esiti architettonici che, pur perseguendo l’unico fine dell’innovazione, scaturiscono dal confronto con un patrimonio medievale straordinariamente ricco ed eterogeneo. Pavel Kalina affronta il tema del rinnovamento liturgico in area boema con l’intervento Space and Time: Some Remarks on Restorations of Medieval Churches in 17th and 18th-Century Bohemia; l’autore, andando oltre la tradizionale storiografia incentrata sulla figura di Santini, esplora più compiutamente la tradizione architettonica boema tra XVII e XVIII secolo, illustrando la pluralità di atteggiamenti nei confronti dell’antico e la particolarità delle soluzioni architettoniche incentrate sulla fusione di elementi gotici e barocchi.

L’attività architettonica nei cantieri delle grandi cattedrali spagnole tra XVII e XVIII secolo è oggetto dell’interesse di Javier Rivera Blanco nel capitolo Renewal and Continuity in the Façades of Spanish Chathedrals during the Baroque: le tendenze operative individuate dall’autore oscillano tra il completo rifacimento «alla moderna» e la conservazione dell’unità di stile medievale, passando per lo sviluppo di forme eclettiche di fusione tra elementi antichi e barocchi. Il contributo di Claudio Varagnoli New Basilicas from the Ancient Ones: Rome and Central Italy in the Eighteenth Century accoglie le sollecitazioni di Augusto Roca De Amicis proseguendo l’approfondimento sui cantieri di rinnovamento delle basiliche romane nel corso del Settecento ed amplia la ricerca con episodi architettonici laziali ed abruzzesi, a dimostrazione della straordinaria influenza che la lezione borrominiana ebbe per tutto il secolo successivo, nel ricercare il più giusto equilibro tra innovazione e conservazione. Infine, per quanto riguarda la Toscana, Alessandra Marino tratta il tema dei Rifacimenti barocchi nelle chiese toscane: dagli interventi di rimozione alla ricostruzione storiografica esemplificando una problematica in verità diffusa in tutte le regioni italiane, quella della rimozione frequente degli interventi di ammodernamento sei-settecenteschi e delle conseguenti difficoltà per gli studiosi di poter documentare la situazione ex-ante. A questo esaustivo repertorio, riflesso della pluralità di punti di vista attraverso i quali è possibile


affrontare il tema di studio, fa da comune denominatore un’unica questione di fondo che offre una ulteriore prospettiva di riflessione sul tema dei rinnovamenti architettonici: la concezione del­ l’ar­chitettura come processo e del restauro come architettura sulla preesistenza. Per ciò che attiene il primo concetto, mi riferisco in particolare alle riflessioni che Arnaldo Bruschi sintetizzò in occasione della Giornata internazionale di Studi Architettura: processualità e trasformazione tenutasi a Roma dal 24 al 27 settembre 1999 nel saggio Architettura come processo e trasformazione. Problemi metodologici e critici (atti a cura di M. Caperna e G. Spagnesi, Bonsignori 2002, pp. 2932): lo statuto dell’architettura – specifico e distintivo della sola, tra le arti, a trarre senso dal costante adeguamento in funzione dei mutevoli bisogni umani – influisce radicalmente sulla metodologia di approccio alla ricerca storico-critica giacché la ricostruzione del processo formativo, la comprensione (e il giudizio) di ogni architettura studiata, vanno ripetute per ogni fase individuata, per ogni progetto e intervento operato nel tempo. Per ognuna di queste fasi ci saranno infatti scopi, programmi, soluzioni diverse, e ognuna delle fasi esigerà una conoscenza, una comprensione storica e un giudizio critico specifico. Riflessione questa, ben attinente all’intento espresso dai curatori di considerare i rinnovamenti architettonici compiuti tra la fine del XVI secolo e buona parte del XVIII come episodi di una fase ben definita, dotata o meglio do-

tabile, di una propria indipendenza storiografica e leggibile nelle sue specifiche peculiarità autonomamente rispetto all’ininterrotto processo trasformativo di cui è parte. Tanto più se di tale fase è possibile individuare una chiara coincidenza tra le durate dell’architettura fra cui, secondo Bruschi, c’è quasi sempre uno sfasamento di tempi: la durata fisica (legata alla firmitas) equivalente all’intero processo trasformativo e le durate funzionale (legata alla utilitas) e linguistica (legata alla venustas) che nel caso dei rifacimenti post-tridentini possono ragionevolmente ritenersi coincidenti, come questo libro vuole dimostrare. Il tema del restauro come architettura sulla preesistenza è altrettanto appropriato per tratteggiare l’ambito di riferimento metodologico: è noto il quadro d’insieme, ancora insuperato, che ne diede Guglielmo De Angelis d’Ossat nel saggio Restauro: architettura sulle preesistenze diversamente valutate nel tempo pubblicato nel 1978 (“Palladio”, s. III, XXVII, 2, pp. 51-68). Tra i diversi atteggiamenti che si manifestano con l’intervenire sulla preesistenza, De Angelis circoscrive l’ampio impressionante fenomeno delle innumerevoli trasformazioni operate dalla fine del Cinquecento in poi, e specialmente in età barocca, soprattutto negli edifici di culto che – in virtù dei rivestimenti decorativi in stucco – mutarono completamente di aspetto, collocandone gli esempi nella categoria delle trasformazioni di tipo formale, dettate da un mutato quadro esigenziale e in netto contrasto verso i lin-

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guaggi del passato. Tra gli esempi post-tridentini, la notevole inserzione autonoma della Cappella della Santa Sindone nel Duomo di Torino (Guarini, 1668), il completamento differenziato della cuspide barocca sull’edicola michelozziana nell’Annunziata di Firenze (Volterrano, 1674), le aggiunte non correlate alle preesistenze delle sequenze di altari cinquecenteschi nelle tante chiese monastiche medievali. La sensazione di sopraffazione decorativa che De Angelis d’Ossat coglie nell’intervento di Francesco Borromini a San Giovanni in Laterano può dirsi «attenuata» dalla rilettura che ne fa Roca De Amicis; oggi se ne potrebbe proporre la collocazione nella categoria delle innovazioni di compromesso sul preesistente con

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nuove ricerche espressive, alimentando ulteriormente la riflessione. Al di là dei riferimenti di scuola ed al portato critico dei singoli contributi sulle specifiche tematiche di studio, mi preme sottolineare il significativo valore di carattere storiografico che contraddistingue questa pubblicazione: è merito dei curatori aver ideato e coordinato un importante contributo nel campo degli studi sull’architettura controriformata ed aver rivelato un panorama pressoché inedito a scala internazionale fondamentale per capire, nella storia dell’architettura europea tra Cinquecento e Settecento, il significato del linguaggio «alla moderna». A. I.


Sommario dei fascicoli pubblicati

N. 138.  Bob Noorda e la grafica di sistema - Algoritmi per progettare - Celebrazioni del centenario futurista - Magritte e Kandinskij: la rappresentazione nell’arte contemporanea - Libri, riviste e mostre - Le pagine del­l’ADI N. 139.  Cinque voci sulla venustas in architettura - Biennale Internazionale del Design / edizione “0”. Laboratorio di idee per l’innovazione e il futuro L’immagine-processo. Media digitali e design del codice - Yacht design - Il Pneu World: immaginari artistico-architettonici tra XX e XXI secolo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 140. Venezia e Amburgo: la Biennale e l’IBA - L’archivio come “forma simbolica” del XX secolo - Dieter Rams progettista d’interfacce - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 141. Circolarità ermeneutica tra Theoria e praxis nel progetto di architettura - Il contributo della Biomimesi per un design sostenibile, bioispirato e rigenerativo - Fotografia e spettacolarizzazione del quotidiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 142. Nescio quid: riflessi del sublime nell’architettura contemporanea Continuando ad interpretare l’arte d’oggi - Le cose che contano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 143. Architettura: un riesame - Per il disgelo delle arti - Design: verso una riscoperta della cultura materiale - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 144. Architettura: due paradigmi tra ’900 e ’2000 - Contro l’arte d’oggi Radical design, Superstudio - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 145. Che cos’è la critica? - L’arte e la comunicazione dell’arte nell’era digitale - Quale storiografia per quale storia? Dalla storia universale alla scomparsa dell’Icar 18 - Edoardo Persico e il labirinto di Camilleri - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 146. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI

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N. 147. Architettura e identità islamica - Umano / disumano. Un percorso nel ritratto del novecento - Il Grande Fiume del design italiano - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 148. Innovazione e tradizione tra origine e inizio - La Biennale d’Arte di Venezia 2013: il Palazzo Enciclopedico e i padiglioni nazionali - A cinquanta anni dal moplen: l’eredità pesante degli oggetti leggeri - L’autore e la firma nel progetto di design - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 149. Maker - La finzione in architettura - L’impegno pubblico degli artisti in Olanda, oltre “il tempo dei manifesti” - Se la critica entra in crisi: il dibattito del ventennio ’60-’70 - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 150. Abduzione e valutazione - Per una teoria dell’arte relazionale e connettiva - Designscape. Processi istantanei del design contemporaneo - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 151. I primi cinquant’anni della nostra rivista - fascicolo speciale con una scelta dei saggi pubblicati e il sistema che comprende sia l’edizione cartacea sia quella digitale - Le pagine dell’ADI N. 152. Due modi di essere nel web - De mundo multiplo: pensare l’arte oltre la modernità - La crisi del prodotto nel “design del prodotto” - Libri, riviste e mostre N. 153. La fine del disegno? - Happening come rituale dell’interazione Confronto critico tra Victor Papanek e Alain Findeli - Libri, riviste e mostre N. 154. Historic Urban Landscape: un concetto in costruzione - Ancora sul rapporto tra arte e pubblico - Design: scenari morfologici della contemporaneità - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 155. Nuovo Realismo/Postmodernismo: dibattito aperto fra architettura e filosofia - Realismo sensoriale: per una diversa prospettiva fra Nuovo Realismo e Postmodernismo - Della omologazione in architettura - Arti visive: da zona franca a fronte comune - È del designer il fin la meraviglia - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI N. 156. Architettura in mostra: il caso «Comunità Italia» - Modern/post: un territorio in-between - «Mostrismo»: un’avanguardia globale per un paradigma espositivo - Moda: sistema e processi - Libri, riviste e mostre - Le pagine dell’ADI Campania

Direttore responsabile: Renato De Fusco Autorizzazione del Tribunale di Napoli n. 4967 del 29 maggio 1998

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Le pagine dell’ADI ASSOCIAZIONE PER IL DISEGNO INDUSTRIALE Campania a cura di Salvatore Cozzolino

Le Vie del Compasso d’Oro Il Premio Compasso d’Oro ADI è giunto alla sua XXIV edizione, splendidamente celebrata nel giugno 2016 a Palazzo Isimbardi nel centro di Milano, e la Collezione Storica dei progetti premiati, bene e patrimonio culturale, conta un numero considerevole di oggetti che hanno meritato l’ambito riconoscimento aureo oppure una Menzione d’Onore lungo gli oltre sessant’anni di vita del premio. Tra l’evento di proclamazione dei vincitori, che dall’ultima edizione ha assunto cadenza biennale, le mostre internazionali e l’attesa dell’apertura della Casa del Design ADI, che accoglierà l’esposizione della Collezione storica, ADI Lombardia ha immaginato che ci potesse essere un’ulteriore possibilità per diffondere la cultura del buon progetto, sempre a partire dall’esito delle selezioni connesse alla prestigiosa competizione. È nato così il progetto de Le Vie del Compasso d’Oro: un’iniziativa che ribalta la logica espositiva della celebrazione concentrata in un unico luogo e che si fa manifestazione diffusa grazie alla partecipazione attiva e diretta degli attori connessi al premio. Un progetto che avvicina abitanti, turisti, imprese, progettisti e istituzioni accademiche verso una dimensione pubblica e sociale del progetto. Tra l’avanguardia rappresentata dai vincitori dell’ultima edizione del Compasso d’Oro e la stratificazione progressiva condensata nella Collezione Storica, che include anche oggetti ormai scomparsi dal panorama produttivo, si è pensato che potesse essere interessante valorizzare la contemporaneità costituita dai progetti che sono stati premiati nel


tempo e che oggi sono ancora in produzione, e tuttora parte del nostro quotidiano, a vantaggio degli addetti ai lavori, ma anche di quel grande pubblico attento alla qualità offerta dal buon design che trova nella vincita del Compasso d’Oro il punto di sintesi e di consistenza. Si è immaginato che fosse possibile dare voce direttamente ai protagonisti del premio, permettendo loro di raccontare in prima persona la nascita e l’evoluzione dei progetti laddove sono stati progettati, perfezionati o prodotti, nei luoghi in cui possono essere toccati, annusati, provati e acquistati. Le Vie del Compasso d’Oro sono prima di tutto dunque un progetto partecipato che ha coinvolto un gran numero di designer, architetti, imprenditori, uffici stampa, curatori di musei, direttori di showroom, professori e dirigenti accademici. Una call to action rivolta agli addetti ai lavori di tutta Italia con un duplice obiettivo universale e aggregante: da un lato condensare la dimensione sistemica offerta dal premio e dall’altro accrescere la conoscenza dei progetti riconosciuti meritevoli attraverso incontri informali di scoperta e di approfondimento. La XXI Esposizione Internazionale Design after design della Triennale di Milano è stata l’occasione raccolta dalla delegazione lombarda per dare corpo a Le Vie del Compasso d’Oro, ovvero per organizzare una serie di itinerari che hanno trovato nel Palazzo dell’Arte meneghino l’origine di possibili viaggi di ricerca dei luoghi più suggestivi in cui il design si manifesta: studi di designer e impianti di produzione, negozi, gallerie, università, musei e fondazioni, ma anche luoghi pubblici e di riunione informale, dove vivere e comprare il buon design. In assonanza con la XXI Triennale, l’iniziativa è nata condividendo con la manifestazione internazionale il carattere policentrico, la durata – dal 2 aprile al 12 settembre 2016 – e il perimetro territoriale espositivo che è stato incentrato sulla città di Milano e sulle aree di immediata prossimità. L’idea de Le Vie del Compasso d’Oro è tanto semplice nell’enunciazione quanto complicata nell’attuazione per


via del numero e delle specificità dei soggetti coinvolti. Il progetto prevede che ADI assuma il ruolo di elemento catalizzante di un sistema design articolato e complesso, attivando e coordinando il processo di adesione e predisponendo gli strumenti necessari per sviluppare le connessioni e per facilitare le visite, il tutto lasciando a ciascun attore la libertà di interpretare l’iniziativa secondo i tempi e le modalità che gli sono più propri all’interno di una finestra temporale e di poche regole condivise: i progetti devono essere presentati in una location di Milano o dintorni e devono aver meritato un Compasso d’Oro, una Menzione d’Onore o una selezione in una delle edizioni del premio nato nel 1954 oppure nella prima edizione del Premio ADI Compasso d’Oro International Award; ciascun attore può partecipare con una o più location. Così per esempio Poltrona Frau ha aderito alla rassegna da subito dedicando un’intera sala del suo showroom di via Manzoni per presentare la sedia Du30 di Gastone Rinaldi e il tavolo Titano di Pierluigi Cerri, progetti premiati nel tempo che oggi sono parte del catalogo aziendale. IFI ha invece scelto di affidare il racconto e la sperimentazione della Bellevue con Panorama Technology, a firma Marc Sadler e R&D IFI, direttamente alla degustazione del gelato al Love It Store, una gelateria nel cuore di Milano. Una strada simile a quella intrapresa anche dal Pastificio Fratelli Setaro che ha voluto permettere di apprezzare la pasta Canna di Fucile, premio Compasso d’Oro International Award, al Ristorante ’A Pazziella a cui ha affiancato l’esposizione presso l’Argenteria Dabbene dove ha presentato le peculiarità delle trafile progettate da Michele Cuomo. L’Istituto Europeo di Design ha deciso di valorizzare il giovane Bodin Hon e la sua pentola solare che ha meritato la Targa Giovani International; la Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano ha scelto di proporre dei laboratori per i più piccoli al Muba – Museo dei Bambini Milano per permettere la sperimentazione diretta delle Stampatelle – messaggi buoni da mangiare, il progetto di Mariagiovanna Di Iorio e di Ku-


no Prey premiato con la Menzione d’Onore all’ADI Compasso d’Oro International Award. Diverso l’approccio del Politecnico di Milano che ha preferito attendere la proclamazione dei vincitori della XXIV edizione del premio per allestire una mostra nell’atrio del Campus Bovisa e diffondere la conoscenza dei premi alla carriera, delle ricerche accademiche e delle Targhe Giovani meritati dai suoi docenti e dai suoi studenti. Numerose sono state le adesioni, appassionate ed entusiaste, che hanno permesso di sviluppare un programma di visita articolato su oltre novanta tappe, tutte interessanti e con specificità che per brevità non possono essere descritte in questa sede, ma che possono essere approfondite attraverso la guida scaricabile dal sito internet ADI a cui si rimanda. Oltre alla sede ADI, alla Triennale di Milano e a La Rinascente – che nel 1954 ha dato avvio al premio e che ha dedicato alla manifestazione un’area del Design Supermarket dove è possibile provare e comprare un gran numero di prodotti premiati –, hanno aderito, in ordine alfabetico di impresa: Acerbis International - Interni; Agape - Agape12; Alessi - Alessi Flagship Store; Alias - Alias Shop; Archivio Giovanni Sacchi; Argenteria Dabbene; Arper - Arper Showroom; Artemide - Artemide Showroom; Azzurra Sanitari in Ceramica - La Casa del Bagno; B&B Italia - B&B Italia Store; Baleri Italia by Hub Design - Hub Design showroom; Boffi - Boffi Solferino; Bonetto Design Center; Caimi Brevetti - Cardex; Caimi Brevetti - Matis; Casamania - Dilmos; Ceramica Flaminia - SpazioFlaminia; Cimbali Group MUMAC - Museo della Macchina per Caffè; Cinelli - Antonio Colombo Arte Contemporanea; Cini&Nils - Milano Design Store; Dada - Dada Flagship Store; Danese - Danese Showroom; Davide Groppi - Spazio Esperienze Davide Groppi; De Castelli - De Castelli Flagship Store; DepurArt Lab Gallery - H2O - Depuratore di Milano Nosedo; Desalto - Misura Arredamenti; Design Group Italia; Fantini Rubinetti - Fantini Rubinetti - Milano; Federico Delrosso Architects; Fedrigoni - Fabriano Boutique; Ferrari - Galleria Car-


la Sozzani; Fiam Italia - Galbiati Arreda; Flou - Flou Showroom; Fondazione Achille Castiglioni; Fondazione Pirelli; Foscarini - Foscarini Spazio Brera; Francesco Rota Studio; Fratelli Guzzini - Showroom Orlandi - iGuzzini; Hangar Design Group; Horm - Garavagliarredamenti; Ideal Standard - Fondazione Achille Castiglioni; IED Istituto Europeo di Design; Ifi - Love it Store; iGuzzini Illuminazione - iGuzzini Partner Assistance; Kartell - Kartell Flagship Store; Kartell Museo; La Murrina - La Murrina Showroom; Lago - Appartamento Lago; Lago - Lago Store; Lago - Open More than Books; Magis - Magis Showroom; Marazzi Marazzi Showroom; Martinelli Luce - Martinelli Luce Store; MDF Italia - MDF Italia Showroom; MH Way - MH Way Showroom; Molteni&C - Molteni&C Flagship Store; Moroso - Moroso Showroom; Museo del Design 18801980; Oikos - Spazio Oikos; Opinion Ciatti - Entratalibera - Showroom Opinion Ciatti; Paola Lenti - Ecliss; Pastificio Fratelli Setaro - Argenteria Dabbene; Pastificio Fratelli Setaro - Ristorante ’A Pazziella; Pedrali - Museo del Design 1880-1980; Politecnico di Milano - Scuola del Design; Poltrona Frau - Poltrona Frau Milano; Rapsel - Albed Store; Rexite - Avanguardia Arredamenti; Rexite - Moroni Gomma; Roberto Paoli Studio; RovattiDesign; Salvatori - Salvatori Showroom; San Lorenzo - San Lorenzo Showroom; Schiffini - Schiffini Space Milano; Seconda Università degli Studi di Napoli - Dipartimento di Architettura e disegno industriale - Studio Gino Finizio Design Management; Segis - Milano Design Store; SPD Scuola Politecnica di Design; Stilnovo - 10 Corso Como; Techogym - Technogym Showroom; Tecno - Tecno Showroom; Think:Water - Sede ADI; Unibz - Libera Università di Bolzano - Facoltà di Design e Arti - MUBA - Museo dei Bambini Milano; Unifor Unifor Showroom; Valextra - Valextra Flagship Store; Viceversa - Molino 48; Vortice Elettrosociali; Zucchetti - Kos Zucchetti - Kos Showroom. E anche il Comune di Milano ha risposto, concedendo il proprio patrocinio all’iniziativa.


Gli strumenti messi a punto per navigare lungo Le Vie del Compasso d’Oro sono stati tanto semplici, quanto efficaci: il viaggio è supportato dal sito ADI da cui è possibile raggiungere una mappa costruita in Googlemaps – attraverso la quale scoprire le tappe che danno corpo alla manifestazione e costruire diversi itinerari a piacere, orientati dalle informazioni di servizio o dalla semplice vicinanza territoriale –, consultare l’elenco delle tappe con le informazioni essenziali – logo dell’azienda, indirizzo della tappa, date e orari di apertura, link al sito aziendale e a quello della location per approfondimenti – e consultare la guida elettronica arricchita da immagini e da informazioni sull’azienda e sui progetti che si possono approfondire nelle diverse tappe. Ogni tappa lungo le vie di Milano e dintorni è identificata da una vetrofania posta all’ingresso e da un totem coordinato che segnala l’area dedicata alla manifestazione all’interno della location: Rosso ADI e giallo Compasso d’Oro i colori scelti per rendere immediato il riconoscimento dei segni che contraddistinguono la manifestazione. La rassegna è stata annunciata nella conferenza stampa di presentazione della XXI Esposizione Internazionale Design after design del 30 gennaio 2016 e ha trovato spazio nel catalogo e negli strumenti di comunicazione della XXI Triennale, annoverata tra i Progetti collaterali, così come le immagini delle diverse tappe sono rimbalzate sui siti aziendali degli aderenti e sui profili social che ne hanno amplificato l’evidenza. Nel corso del semestre di durata della manifestazione non sono mancate le diverse iniziative dedicate che sono state organizzate direttamente da alcuni degli aderenti al programma. Memorabile è quella della casa automobilistica del cavallino rampante che ha animato i giorni del Salone del Mobile esponendo in cima alla Galleria Carla Sozzani una Ferrari F12tdf – evoluzione della versione berlinetta che nel 2014 aveva meritato il Compasso d’Oro – e che ha organizzato l’incontro “Ferrari Design, il linguaggio della forma”. Nell’occasione, Flavio Manzoni, il designer alla


guida del Centro Stile Ferrari, intervistato da Enrico Leonardo Fagone, coordinatore della Commissione Tematica sul Design per la Mobilità dell’Osservatorio ADI, ha illustrato l’origine di alcune delle scelte progettuali caratterizzanti la meraviglia che ha sfidato i tetti di una delle zone della movida milanese per atterrare sulla splendida terrazza di Corso Como. Esemplare poi è l’impegno profuso dal Gruppo Cimbali e dalla pluripremiata Kartell; forti della prossimità territoriale dei due musei aziendali, le due imprese hanno organizzato due giornate di visita con tanto di invito e campagna stampa a cui hanno dato il titolo di “Prossima fermata: Kartellmuseo e Mumac!”. Nelle giornate di domenica 12 giugno e di sabato 9 luglio una navetta è partita dallo showroom Kartell di via Manzoni a Milano per raggiungere il Kartellmuseo e poi il vicino Mumac - Museo della Macchina per Caffè dove i numerosi avventori sono stati accompagnati lungo due visite guidate preparate ad hoc per condividere dettagli e curiosità sui progetti accomunati dal fil rouge del Compasso d’Oro. Ammirevole è poi l’entusiasmo di Giovanna e Carlo Castiglioni nell’organizzare “8+1+16” in Fondazione Achille Castiglioni: la piacevole serata dal titolo criptico che trova ragion d’essere nei numeri dei Compassi d’Oro, del Compasso d’Oro alla Carriera e delle Menzioni d’Onore conferiti all’Achille del design. Nella città delle tre F – Food, Fashion e Furniture –, a un passo dalla Triennale, sul tappeto rosso posto al centro del grazioso cortile della Fondazione, hanno sfilato sedie, tavoli, lampade, sanitari, letti per ospedali, appendiabiti e poi ancora macchine per caffè, termosifoni, posate, cuffie e orologi. I Castiglioni jr scelgono di lasciar parlare direttamente le cose: un esempio riuscito di personificazione degli oggetti che, ascoltata la voce fuori campo che declama le motivazioni della vincita, si sono presentati al cospetto di un pubblico attento, commosso e divertito, assumendo la cadenza francese nel caso del tavolino Cumano, mutuato dai bistrot parigini, oppure quella


milanese per sottolineare il gioco di riflessi all’origine della lampada Gibigianna. E poi birra per tutti, per alleviare la calura di luglio e celebrare insieme lo spillatore Spinamatic, Compasso d’Oro nel 1964. I luppoli selezionati dal Birrificio Angelo Poretti deliziano il palato, ma il tipico retrogusto amaro pare ricordare l’andato Splügen Bräu di Corso Europa. A conclusione della rassegna, si è infine organizzata una serata con Salvatori tutta dedicata alle proprietà del Lithoverde®, il materiale premiato con una Menzione d’Onore che nello showroom aziendale di via Solferino può essere ammirato nelle diverse applicazioni. Le Vie del Compasso d’Oro volgono al termine e con esse è tempo di salutare l’estate e la XXI Triennale: non un addio, ma un arrivederci. Nel testo di Luciano Galimberti, Presidente ADI, che apre il catalogo del XXIV Compasso d’Oro ADI si legge che “il Compasso d’Oro risulta legato indissolubilmente con l’azione che ADI svolge da sessant’anni: un’attività appassionata e strategica, calata nel quotidiano della vita affinché l a v ita p ossa e ssere m igliore per l’uomo che la vive”. È tempo di bilanci e l’attività appassionata e strategica di organizzazione di questa edizione zero ha dimostrato che il progetto può essere un format replicabile in altri anni e in altre città dove sarà possibile sperimentare nuovi contesti e appagare nuove curiosità. E, per dirla à la Castiglioni, “se non siete curiosi, lasciate perdere!”. Antonella Andriani L’utopia del Design Quando più di un anno e mezzo fa accettai la sfida e l’incarico di fare il Presidente ADI della Delegazione Puglia e Basilicata, sapevo di dovermi confrontare con un mondo e una mentalità diversi rispetto a quelli dei quali arrivavo per formazione e per studi. Questo è un territorio straordinario e con grandi artigia-


nalità e possibilità di crescita, ma il design è inteso come una disciplina in cui ognuno, artigiano, professionista, distributore e negoziante, consumatore dà una propria ed unica interpretazione senza volersi confrontare con quella degli altri. Per me, come anche per molti grandi personaggi del mondo del design nazionale ed internazionale, design è anche utopia, e mi sono interrogato più volte sul valore dell’utopia. Per Alessandro Mendini, ad esempio, l’utopia è sinonimo di sogno, per Ugo La Pietra che è stato invitato dalla nostra Delegazione per una lecture dal titolo “Abitare con Arte” ed una mostra dal titolo “Odori e sapori” che si è tenuta al MUST a Lecce, utopia è prima di tutto politica: il design come strumento per rendere il mondo migliore. Ciò mi rimanda ad una tesi precedente di Victor Papanek che nel suo straordinario libro del 1970 “Design for the real world” (Design per un mondo reale) aveva già dato indicazioni e soluzioni sul fare e sull’utopia, oggi quanto mai attuali ed aggiornate. Ma oggi in Puglia e Basilicata il design è una utopia, o una occasione intelligente di sviluppo e di confronto su temi quali la tecnologia, l’innovazione, la riconversione delle aziende, le reti di impresa, l’internazionalizzazione, le imprese sociali, un nuovo modo di pensare, progettare e produrre? Per quanto mi riguarda, ho pensato da subito che dovevo insieme al mio Direttivo mettere in atto una sorta di chiamata alle armi: Il DESIGN c’è e deve essere spiegato, letto, capito, interpretato, divulgato, comprato, e usato. Certo qui è più difficile far capire ad imprenditori e professionisti che il DESIGN può essere usato come un’arma culturale per lo sviluppo del territorio alla pari del cibo, del senso di ospitalità, delle bellezze ambientali e naturalistiche presenti in tutto il territorio pugliese. Ma anche qui ci sono tanti bravi ed intelligenti imprenditori che stanno sviluppando dei progetti straordinari ed


innovativi, e noi, siamo qui per portare a galla queste nuove idee, linfa vitale per il nostro Paese. È per questo che anche quest’anno abbiamo organizzato delle iniziative che fanno parte del programma Design Culture Lecture Series con Paolo Lomazzi al Politecnico di Bari, una lecture con Patrizia Pozzi al Must a Lecce, una lecture e un workshop al Palazzo Marchesale di Laterza con Cesare Castelli e Maria Cristina Hamel, la mostra Idee in Volo di Riccardo Dalisi e la lecture e la mostra già citata sempre di Ugo La Pietra al Must a Lecce, la presentazione del libro “Design e Mezzogiorno” di De Fusco e Rusciano prima ad Ostuni e poi a Napoli. Ed è per questo che abbiamo voluto partecipare agli eventi più diversi: al seminario presso l’HUB di Bari dal titolo “Acciaio materia tra architettura e & design”; al Cetma dal titolo “E se domani. Design per la crescita e per il benessere”; a Idea Academy a Bari, e sempre a Bari a Confindustria Bari e B.A.T.; al Distretto del Mobile Imbottito a Matera dal titolo “Il progetto: il vero valore del prodotto”; al seminario “Arredare” di Inden Cucine a Monteroni (LE), al Cheramie Open Day di Martina Franca. E ancora proseguiremo con un programma ricco di iniziative nei prossimi mesi. La CREA Summer Academy organizzata dal Prof. Francesco Zurlo del Politecnico di Milano, e Consigliere del Comitato Direttivo della Delegazione dal 5 al 17 Settembre ad Ostuni; la presentazione del progetto di Regione Puglia in occasione della Fiera del Levante a Bari dal titolo “DESIGN in Puglia 2017” dove ADI Delegazione siede al Tavolo Tecnico Scientifico, e poi ancora la partecipazione sempre alla Fiera del Levante con una lecture ADI all’iniziativa “IN ITALY/IN PUGLIA” dal titolo “ADI: cultura e una opportunità per crescere”; ci sarà anche una lecture a ottobre di Marco Ferreri dal titolo “Design in campagna”; e una serie di incontri a Lecce dal titolo “Le imprese guidate dalle idee” in collaborazione con MUST e Ordine Architetti di Lecce. La Delegazione ADI Puglia e Basilicata ha anche stretto una serie di accordi con


Puglia Design Store a Bari, e la Fondazione Matera 2019 sempre a fronte di un programma culturale condiviso che vede e crea visioni, scenari e opportunità economiche e di scambio per uno sviluppo sostenibile e partecipato del territorio. Non so se tutto questo lavoro fatto è una utopia o è un valore che il DESIGN sa e può dare in termini di ricaduta culturale, sociale, economica ed occupazionale del territorio, ma a me che ho cercato, e cercherò sino alla fine del mio mandato, di creare occasioni, eventi, seminari, e mostre, non resta che augurarmi che tutte queste attività lasceranno un segno tangibile nelle menti e nel cuore della gente di come sia importante e obbligatoria la cultura del fare parallelamente alla cultura del progetto. Roberto Marcatti Utopie di Terra-Cotta (It was love at first time) Ogni aspetto della società e dell’economia sembra essere oggi dominato dalla logica della rete. Senza addentrarci in quelli che sono gli aspetti caratterizzanti i diversi tipi di organizzazioni economiche, è indubbio che le imprese siano sempre più spesso inserite all’interno di sistemi d’interazione e scambio più densi e complessi che in passato, fino a formare in alcuni casi una vera e propria struttura capace di organizzare le relazioni tra imprese e tra imprese e individui. La rete è quindi l’immagine più efficace per definire il modello di organizzazione produttiva impostosi negli ultimi decenni, la cui caratteristica socialmente più significativa è probabilmente quel regime di accumulazione non specialistica e flessibile tipico delle nostra economia fatta di piccole e medie unità produttive largamente diffuse sul nostro territorio. Viceversa e proprio per questo motivo è assai problematico definire in modo univoco le “reti di imprese”, se con


questo intendiamo una aggregazione di aziende indipendenti che cooperano per il conseguimento di obiettivi comuni e le cui relazioni sono regolate da accordi espliciti, consuetudinari o, in alcuni casi, da forme di partecipazione e controllo. Le crescenti difficoltà dei distributori finali, a cui è demandato il rapporto con i consumatori a gestire e controllare una gamma sempre più ampia di tecnologie e competenze interdipendenti, gli elevati costi di ricerca e sviluppo, la conseguente necessità di instaurare rapporti di collaborazione che intervengono fin dalla fase d’innovazione del prodotto, hanno favorito l’emergere di organizzazioni a un livello superiore via via che entrava in crisi l’efficacia delle funzioni tradizionalmente sin qui adottate dal mercato, e cioè quelle di “produzione” e “acquisto”; ne è derivata la necessità di costruire e istituzionalizzare, rendendo stabili e continuativi, i rapporti di cooperazione interaziendale. Tuttavia, nonostante l’indubbio appeal dell’immagine del network, raramente le reti di impresa sono simmetriche e animate da attori “uguali”. Le reti, anche quando sono organizzate intorno a imprese dello stesso tipo, hanno quasi sempre uno o più “punti focali”. In alcuni casi chi presidia questi punti assolve una necessaria funzione di leadership, senza che per questo si stabilisca una gerarchia di compiti o di importanza relativa alla funzione, in altri casi sono imprese in posizione di capofila che organizzano sistemi di fornitura e servizi nei quali però ciascun attore detiene risorse importanti, ossia, quando ciascuna impresa è dotata di relativa autonomia. In altri casi ancora, infine, le imprese leader organizzano la catena di “commessa” in cui una parte o la maggioranza delle imprese che ne dipendono dispongono di limitato potere negoziale, sono facilmente sostituibili e rimangono agganciate alla “rete” sulla base della competitività dei costi. Se consideriamo che nel solo territorio di Vietri e Cava de’ Tirreni la Camera di Commercio di Salerno ha censito 252 imprese ceramiche, perennemente in competizione tra di loro, quasi sempre avendo come


unica discriminante il prezzo e con un fatturato pro-capite irrisorio, si capisce bene come il concetto stesso di “rete” sia quasi impossibile da affermare o spesso usato in modo indiscriminato, rischiando di occultare organizzazioni delle filiere produttive basate su scambi del tutto asimmetrici e regolati esclusivamente da una logica di mercato spicciola e di respiro breve. Tutto ciò premesso, perché si possa parlare di “rete di imprese”, la prima condizione è che i membri che ne fanno parte dispongano di risorse relativamente indipendenti e di un sufficiente grado di autonomia. La seconda è che le caratteristiche del territorio facciano si che questo sia anche un grande attrattore, tale da moltiplicare e amplificare la dotazione di risorse. Nello specifico il territorio di Cava e Vietri vede: – la presenza di un patrimonio paesaggistico e architettonico di assoluto rilievo, sia nel territorio dei due comuni che nel tessuto territoriale che li connette, con altissimi fattori di interferenza utili alla costruzione di itinerari di valorizzazione di grande pregio. Tale caratteristica diviene pertanto fattore determinante e motivo di sviluppo per l’intera area; – la presenza, particolarmente significativa lungo alcune fondamentali direttrici di risorse di carattere naturalistico di rilievo. Lungo le pendici delle colline che caratterizzano la geomorfologia dell’area, lungo tratti delle direttrici costiere, sono presenti aree naturalistiche di estremo interesse, alcune già sottoposte a vincolo di riserva naturale, quasi tutte sottoposte a vincolo paesistico; – la presenza di paesaggi antropici culturali connessi ad un uso tradizionale del territorio, si pensi ai paesaggi agrari o a quelli che ospitano le tradizionali attività di pesca ancora presenti, in cui i caratteri antropici e quelli naturali si fondono in sistemi complessi di paesaggi culturali particolarmente significativi;


– la diffusissima presenza di risorse etno-antropologiche di rilievo e di un vastissimo patrimonio immateriale, dalle feste popolari, alla letteratura, ai saperi locali, ai prodotti tipici della tradizione che trova significativi esempi in tutti i Comuni della costiera; – infine la presenza di alcuni poli culturali già affermati nei quali si sono riscontrati numerosi programmi di integrazione e valorizzazione delle risorse culturali tipiche del luogo, tra tutti Ravello e Giffoni Valle Piana. Per contro anche solo nello spazio concesso a un articolo, e quindi come già detto con i limiti di una non-analisi, possiamo rilevare fenomeni di rischio in relazione a: – problematiche relative a carenze conservative, che mettono a rischio il patrimonio archeologico, architettonico e urbano; – fenomeni naturali di carattere geologico, idrogeologico e sismico, agenti sul patrimonio naturalistico, sui siti archeologici e sul patrimonio architettonico e urbano, in situazione di carenza delle misure di salvaguardia; – espansione incontrollata delle aree urbane e abbandono delle aree urbane storiche, che innesca effetti di degrado notevoli sul patrimonio architettonico e urbano, fenomeno sufficientemente generalizzato in que­ st’area; – abbandono delle tradizioni locali e perdita delle memorie e dei saperi locali tradizionali che mette a rischio il patrimonio etnoantropologico per una sorta di effetto di banalizzazione che tralascia la vera sostanza della risorsa antropologica per rivolgersi al più ad oggetti a-significativi, quando non estranei a ogni tradizione: si pensi per esempio alla diffusa pratica di sostituzione del prodotto (spesso industriale) al processo divenuta la norma per esempio in riferimento ai prodotti locali, tanto che i souvenir si producono spesso altrove;


– scarso livello di integrazione tra le iniziative culturali e tra i poli culturali affermati con il resto del territorio, per cui spesso viene trascurata la possibilità di costrui­re utili sinergie creando circoli chiusi di comunicazione dei messaggi culturali. Da tempo tutto questo è per noi motivo di riflessione, da tempo siamo impegnati nella definizione e proposizione alla locale politica e alle entità preposte al governo del territorio, di quelli che ci sembrano i correttivi indispensabili perché si possa affermare con buone possibilità di successo una reale economia di rete nell’ambito che ci interessa che è quello della ceramica artistica. Riteniamo indispensabile il: – riconoscimento e definizione dell’ambito, l’individuazione dei legami concettuali e fisici tra le risorse, l’individuazione dei livelli di integrazione tra le stesse, la definizione delle potenzialità del sistema integrato, l’individuazione dei luoghi fisici della valorizzazione, quella della definizione dei fattori di rischio compresenti e della determinazione della sostenibilità da parte del sistema integrato di risorse, l’individuazione degli eventuali correttivi; – il recupero di identità e didattica. La realizzazione degli ausili alla trasmissione del messaggio ai visitatori, la costruzione di itinerari, circuiti, reti tra i luoghi fisici che costituiscono la peculiarità del territorio; – una ricettività orientata al recupero degli usi di accoglienza e abitativi tipici della tradizione locale; – monitoraggio e controllo dell’efficacia anche economica della promozione culturale, attraverso la valutazione della efficacia della trasmissione del messaggio culturale (numero di visitatori); – in sostanza, possiamo affermare che la costruzione dei progetti strategici si basa in primo luogo sulla possibilità di individuare luoghi fisici e percorsi concettuali che li connettono, che siano esemplificativi della profonda e stratificata realtà culturale dei luo-


ghi, in seconda analisi sulla possibilità di realizzare un generale recupero di identità da parte delle comunità locali attraverso la riacquisizione di tali memorie culturali, e infine sulla attivazione degli ausili alla generale comprensione e quindi alla trasmissione all’esterno del messaggio culturale. La ceramica è la nostra passione e il nostro impegno, il territorio su cui operiamo è l’unico possibile, l’unico capace ancora di dare un senso agli sforzi che per fortuna sempre più frequentemente, gruppi di persone coraggiose e volenterose si sono date come obbiettivo. Sistematizzare e riorganizzare l’indotto della ceramica è il nostro sogno e la nostra utopia, ma siamo consapevoli e orgogliosi che questa sia stata da sempre un fenomeno di estremo interesse e rilevanza tale da assegnare a sé parte rilevante dell’economia locale da tempi remotissimi. Le più antiche testimonianze della presenza di un artigianato ceramico si fanno risalire addirittura all’età neolitica. Fu la posizione nodale e lo sviluppo dei centri rivieraschi, ma anche la disponibilità di ottime cave d’argilla e di abbondante combustibile, a determinare qui la nascita di questa forma di artigianato, la cui continuità e qualità ha attraversato ogni secolo, caratterizzandosi attraverso i successivi e più svariati influssi, mode, apporti e dominazioni, lasciando testimonianze preziose, nelle città e nel territorio. Dario Palumbo (autore del progetto di produzione ceramica Future Village for ICS)



ISSN 0030-3305

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