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D. De Masi Telelavoro

Telelavoro

DOMENICO DE MASI

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“Abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell’invenzione delle macchine; in ciò sia mo stati idioti, ma non c’è ragione per continuare ad esserlo”. Bertrand Russell

Il coronavirus, costringendo mezza umanità agli arresti domiciliari, ci ha crudelmente imposto la paura della morte e indirettamente offerto l’occasione di un corso accelerato di convivialità con cui riformulare la gerarchia dei nostri bisogni e la strategia delle nostre azioni. In poche settimane ci ha costretto a riconoscere evidenze che, in tempi normali, cocciutamente rifiutammo.

Evidenze

Facciamo un rapido elenco di queste evidenze. Dopo il compiaciuto corteggiamento dell’idea strampalata secondo cui “uno vale uno”, dopo il trionfo dell’incompetenza, dei negazionismi e terrapiattismi, abbiamo dovuto ammettere rapidamente che, di fronte a un pericolo incombente come la pandemia, nessuna opinione è più affidabile di quella espressa scientificamente dagli esperti.

Abbiamo constatato che, per quanto organizzati e progrediti possano essere gli enti locali, di fronte a un disastro nazionale

occorre una superiore cabina di regia, unica, autorevole, dotata di saperi e poteri eccezionali per tempi eccezionali. Dunque, uno stato nazionale deve coordinare le regioni e i comuni; un’autorità europea deve coordinare gli stati nazionali; un potere mondiale deve coordinare i continenti.

Grazie a questa drammatica esperienza del coronavirus abbiamo constatato che il welfare è necessario. Inventato dai liberali alla fine dell’Ottocento e semi-affossato dai neo-liberisti alla fine del Novecento, comunque esso consente a quasi tutti gli italiani di essere curati e di studiare. In questi giorni stiamo ricordando che, a differenza dell’Italia, negli Stati Uniti, cioè nel paese più ricco del mondo, 30 milioni di americani, privi di assicurazione, sono cinicamente respinti dagli ospedali se non hanno i contanti per pagarsi le cure. Ci stiamo anche rendendo conto di quanto sia sciagurata la decurtazione di fondi subita dalla sanità e dalla scuola negli ultimi dieci anni, e quanto demenziale sia il numero chiuso nelle facoltà universitarie – prima fra tutte quella di medicina – in un paese che ha appena il 23% di laureati, contro il 66% della California.

La reazione efficiente degli ospedali pubblici, dei medici e del personale sanitario ha reso evidente che la sanità e le altre funzioni pubbliche dispongono, ben più del settore privato, di specialisti che sommano preparazione professionale e dedizione personale a dispetto della diffusa immagine di “servitori dello Stato” sciatti e demotivati.

La dialettica tra scienziati, politici ed economisti, con reciproche accuse di inadempienze e imprecisioni, ha reso evidente che anche le cosiddette “scienze esatte” non sono del tutto esatte e che, a seconda delle circostanze, è prudente che prevalga la durezza della cultura scientifica o la morbidezza della cultura umanistica.

Le incertezze, le titubanze, i contrordini che hanno incrinato le prime operazioni anti-virus rendono evidente che, di fronte a un nemico inedito, minaccioso, incombente e misterioso, la prudenza, la gradualità degli interventi e il procedere by trial and error valgono più di uno sventato decisionismo perché, in casi inediti e improvvisi come questo, l’unica regola sta nella capacità di “apprendere ad apprendere” facendo tesoro di ogni indizio

per scovare le soluzioni giuste e di ogni consiglio offerto dagli esperti di decison making.

Per non ingenerare confusione, le decisioni, una volta prese, vanno comunicate secondo i crismi delle scienze della comunicazione; la loro esecuzione va affidata ad amministrativi di qualità; la loro esecuzione e i loro effetti vanno controllati scrupolosamente.

La pervasività della pandemia, che proprio da questa caratteristica trae il suo nome, dimostra che, alla faccia dei sovranismi, il mondo è ormai compiutamente quel “grande vicinato globale” di cui parlava McLuhan, dove il bene e il male si propagano in tempo reale accomunando tutti nello stesso destino e postulando un’alleanza di tutti contro i tre comuni nemici rappresentati dal del virus, dal riscaldamento del pianeta e dalle disuguaglianze crescenti.

La massa di sciocchezze che ci è toccato ascoltare in questi giorni negli estenuanti dibattiti televisivi dove più di un commentatore si è avventurato in spericolate scorribande fuori dalle proprie conoscenze, ha impreziosito il monito di Leopardi secondo cui “il modo migliore per celare agli altri i confini del proprio sapere consiste nel non superarli”.

Archeologia del telelavoro

La paura del contagio, costringendo molte aziende e tutte le scuole a chiudere i battenti, ha costretto a telelavorare e tele-apprendere dimostrando quanto sia facile e utile quel telelavoro (o, come usa dire con termine più sexi, quello smart working) che si sarebbe potuto adottare da anni, con evidente benefico per i lavoratori, le aziende, i sindacati e il territorio.

Vale la pena di soffermarci su questa particolare evidenza perché, se il telelavoro – che, come vedremo, è poi evoluto in smart working – perdurasse nel tempo, rivoluzionerebbe la vita professionale e familiare di milioni di persone, modificando la struttura delle abitazioni, degli uffici e delle città.

Di telelavoro si parlava in Italia fin dalla fine degli anni Sessanta. Poi sono state tentate sperimentazioni, sono stati organizzati convegni e corsi di formazione ma, al primo gennaio di

quest’anno, meno di 600mila – su 14 milioni di potenziali telelavoratori – operavano in remoto.

Credo che il primo articolo uscito in Italia su questo argomento risalga al 1983. Dirigevo allora la rivista Scienza Duemila, avevo già partecipato a qualche convegno sull’argomento e mi illudevo che gli evidenti vantaggi del telelavoro ne avrebbero presto decretato il trionfo. Pubblicai perciò la traduzione di un saggio di Jean-Pierre Durant con un richiamo in copertina, lo intitolai Il telelavoro anche se questa parola era praticamente sconosciuta in Italia e scrissi come occhiello: “La telematica sta per apportare una profonda rivoluzione nel modo di vivere delle società industrializzate. Per larghi strati della popolazione il luogo di lavoro coinciderà con la propria casa. Non ci saranno più spostamenti massicci di impiegati, né vaste aree urbane destinate unicamente ad ospitare uffici”.

Da allora, gli articoli e i libri sull’argomento uscirono con il contagocce, al ritmo di uno ogni paio d’anni. Poi il problema fu ripreso con alcuni convegni, qualche ricerca e decine di articoli persino sui quotidiani: “La Repubblica” gli dedicò ben due puntate a tutta pagina e Piero Angela mandò in onda un servizio nella sua trasmissione di prima serata, decretando così l’ingresso della parola “telelavoro” nel vocabolario quotidiano dei manager e persino del grande pubblico. Solo l’Inps, nel 1990, grazie al coraggio innovativo dell’allora presidente Gianni Billia, mise in telelavoro centinaia di ispettori.

A quel punto fondai la SIT, Società Italiana per il Telelavoro, senza scopo di lucro ma con il duplice intento di spingere il governo a emettere una normativa consona al telelavoro e di indurre almeno le grandi aziende e la Pubblica Amministrazione ad adottarlo su vasta scala. I risultati furono deludenti e resta interessante esplorarne le ragioni. Ma, prima ancora, bisogna rievocare il concetto e la consistenza del lavoro remoto.

Alla base di questa grande rivoluzione professionale ed esistenziale, che rimescola le carte del lavoro e del tempo libero facendone un tutt’uno in cui è difficile distinguere quando finisce l’uno e quando inizia l’altro, vi sono le nuove tecnologie, la globalizzazione, la scolarizzazione di massa. In altri termini, vi è il passaggio epocale dalla società industriale a quella postindustriale.

Il lavoro separato dalla vita

Se si eccettuano i militari e i trafficanti, durante i secoli della società pre-industriale, centrata sull’agricoltura e sull’artigianato, gli uomini hanno sempre identificato il loro luogo di vita con il loro luogo di lavoro, la loro casa con la loro bottega o con il loro studio. Il tempo scorreva in modo più equilibrato, la vita rionale era più intensa e l’arredo urbano più curato, proprio perché i cittadini vivevano e lavoravano nel medesimo quartiere, considerandolo come il prolungamento della propria casa e tutt’uno con essa.

La bottega artigiana, che rappresentava il modello più diffuso di organizzazione del lavoro, era caratterizzata appunto dalla forte coesione dei suoi elementi costitutivi: l’abitazione e l’opificio convivevano sotto lo stesso tetto; le mansioni domestiche e quelle professionali si intrecciavano e si confondevano tra loro.

La diffusione della grande industria moderna, soprattutto nella prima metà del Novecento, è intervenuta pesantemente in questo assetto, rivoluzionandolo: il luogo di lavoro è stato separato dal luogo di vita extra-lavorativa e spesso, tra i due, si è interposta una distanza enorme, che ha richiesto ore di pendolarismo quotidiano. Si sono così create le condizioni per cui milioni di lavoratori si sono sentiti estranei sia ai quartieri in cui producevano che a quelli in cui consumavano; la catena di montaggio ha finito per rappresentare il simbolo dell’officina, dell’azienda, dell’intera società industriale; le attività domestiche, affidate alle donne, sono state scisse rigorosamente da quelle professionali, riservate agli uomini.

Nella città, che Le Corbusier chiamò “funzionale”, ogni ruolo e ogni classe aveva i propri luoghi deputati: la zona industriale per produrre; il quartiere dormitorio per riposarsi e riprodursi; il quartiere commerciale per comprare e vendere; il quartiere burocratico per le faccende politico-amministrative; il quartiere dei loisir per il tempo libero. I quartieri di lusso per la borghesia; le periferie malandate per il proletariato. In questo assetto urbano ciascun cittadino si è spostato quotidianamente da una zona all’altra a seconda delle funzioni da svolgere di volta in volta. Con spreco enorme, una parte della città è rimasta vuota nei giorni

lavorativi e un’altra nei giorni festivi; i quartieri dormitorio sono rimasti vuoti di giorno, quelli industriali e direzionali di notte; le metropolitane e gli altri mezzi di trasporto si sono incaricati di smistare masse di cittadini da una parte all’altra della città per far fronte alla sincronizzazione richiesta dalla “catena di montaggio globale”, che voleva tutti presenti sul lavoro alla stessa ora, tutti in ferie lo stesso giorno.

Il trionfo dell’ubiquità

Per fortuna, dopo due secoli di questo assetto industriale, si è andato determinando un nuovo tipo di società, che possiamo chiamare postindustriale, dove il lavoro ripetitivo ed esecutivo è affidato alle macchine mentre ai lavoratori restano soprattutto i compiti che impegnano il cervello e che, per loro natura, consentono di lavorare dove meglio si crede. Un pubblicitario, un giornalista, un imprenditore, uno stilista, un manager alle prese con la necessità di ideare qualcosa di nuovo, portano con sé – ventiquattro ore su ventiquattro – il gioioso assillo della creazione e spesso finiscono per trovare la soluzione giusta fuori dell’ufficio, magari sotto la doccia o nel dormiveglia.

Le circostanze che rendono sempre più possibile lavorare a casa propria, lontano dall’ufficio, sono molteplici. Le tecnologie disponibili (cellulare, posta elettronica, mass media) riescono ormai a realizzare l’antico sogno umano dell’ubiquità. La materia prima del lavoro d’ufficio – le informazioni – sono suscettibili, per loro natura, del massimo spostamento in tempo reale e a costo irrisorio. Le differenze culturali tra capi e dipendenti si attenuano sempre più consentendo il passaggio da forme gerarchiche a forme funzionali di leadership. L’organizzazione per obiettivi e l’autonomia professionale dei lavoratori rendono sufficiente che i capi di controllino i risultati piuttosto che i processi.

D’altra parte, il caos urbano rende i cittadini sempre più insofferenti verso il caos metropolitano e verso gli spostamenti quotidiani che corrodono in misura ormai intollerabile il tempo libero, le finanze personali e l’equilibrio psichico. Appare sempre più chiara l’inutilità di centralizzare il lavoro in un unico luogo; si diffonde l’aspirazione soggettiva verso una gestione autono-

ma, flessibile, personalizzata e decentrata dei propri compiti; si prende coscienza delle opportunità sempre più rivoluzionarie offerte dal progresso tecnologico, capace di annullare i vincoli spazio-temporali.

Tipologia dei lavori

Nell’attuale società postindustriale, l’elettronica, i nuovi materiali, le fibre ottiche, i laser, l’intelligenza artificiale hanno conferito alle macchine una duttilità, un’intelligenza, una domesticità ignota ai grandi opifici manifatturieri dell’epoca industriale. Oggi è possibile delegare all’automazione e all’informatica migliaia di mansioni faticose, rumorose, pericolose che prima inchiodavano il lavoratore a tempi precisi e a luoghi separati dalle abitazioni. Solo un numero decrescente di mansioni – dalle catene di montaggio metalmeccaniche ai call center telefonici – restano di natura parcellizzata, fisica, ripetitiva, che richiede un luogo preciso e un tempo preciso per l’esecuzione. Nella maggior parte dei casi si tratta di lavori fisicamente pesanti, non ancora automatizzati ma fortemente e fortunatamente minacciati dalla progressiva automazione, che prima o poi li trasferirà ai robot, liberandone gli operatori in carne e ossa.

Le restanti mansioni sono di natura intellettuale e richiedono duttilità, flessibilità, intelligenza, professionalità, creatività squisitamente umane. Alcune di esse (come, ad esempio, quelle chirurgiche o infermieristiche) esigono la compresenza fisica di tutti i soggetti implicati. Altre consentono una parziale separazione tra l’attore e il destinatario (come quando il prete predica per radio o l’artista recita in televisione). Altre, invece, non richiedono alcuna interazione tangibile tra i vari soggetti implicati, possono essere esplicate a distanza e sono abbastanza indifferenti al tempo in cui vengono eseguite. Così, ad esempio, è del tutto inutile che un giornalista si rechi in ufficio per scrivere un articolo o un professore si rechi all’università per preparare una lezione. Basta che l’uno spedisca alla redazione, per posta elettronica e in tempo utile, il suo articolo; o che l’altro sia pronto a istruire i suoi alunni quando scocca l’ora della lezione frontale.

I lavori di natura prevalentemente fisica, parcellizzata, ripeti-

tiva, come quello del metallurgico, del minatore o del tornitore, richiedono mezzi di produzione (l’altoforno, la miniera, il tornio, ecc.) pesanti, ingombranti, fragorosi, nettamente separati dalla mente del lavoratore e inadatti ad essere decentrati nella sua abitazione. Quando suona la sirena di fine turno, il lavoratore abbandona il suo luogo di lavoro e si separa dai suoi strumenti di produzione. Anche se volesse, non potrebbe continuare a lavorare durante il tempo libero.

Invece i lavori di natura prevalentemente intellettuale, flessibile, creativa, richiedono come strumento di lavoro il cervello del lavoratore, con il semplice e leggero supporto di uno smartphone e di un personal computer. Quando il giornalista, il pubblicitario, il manager escono dai loro uffici, portano con sé il cervello nella propria testa, il cellulare nella propria giacca, il computer nella propria borsa. Tutti gli strumenti di produzione restano con loro notte e giorno, ovunque essi si spostino. Se la loro mente è assillata da un problema di lavoro, l’assillo li perseguiterà anche mentre mangiano, amano, dormono; l’idea risolutiva potrà scattare ovunque e in qualsiasi momento: mentre guardano un film, mentre passeggiano e persino mentre dormono. Per la maggioranza dei cosidetti knowledge workers il lavoro è spalmato su tutto il tempo, dovunque ed ovunque. Per essi l’orario di lavoro, la separazione tra casa e ufficio, tutto l’inutile rituale dei controlli all’entrata e all’uscita delle aziende appartengono a una liturgia obsoleta, inutile, costosa, sadica, demotivante che serve solo a ridurre il senso di appartenenza dei professionisti nei confronti dell’impresa, a demotivarli, ad assicurare i posti di lavoro a un esercito superfluo di guardiani, contabili, capi e addetti al personale.

Vantaggi e svantaggi

In Italia vi sono 23.200.000 occupati di cui 16 milioni svolgono mansioni di tipo intellettuale. 14 milioni, composti da impiegati, funzionari e professionisti, potrebbero lavorare full time o almeno part time. E in gran parte, senza rendersene conto, lo hanno fatto anche negli anni passati: intorno a noi – per strada, nei treni, nei ristoranti, negli aeroporti, sulle spiagge – c’è gente incollata al cellulare, che telefona con i capi, i collaboratori, i

clienti, ascolta informazioni, prende e trasmette decisioni, comunica consulenze, compra e vende merci, assume e licenzia persone, intrattiene pubbliche relazioni, intreccia lobbies.

D’altra parte, in un paese come il nostro, dove ogni dodici persone (bambini e vecchi compresi) vi è un’impresa e dove le imprese sbucano come funghi, molti giovani neo-imprenditori non hanno i capitali sufficienti per impiantare sedi con tante stanze quanti sono i soci e gli impiegati. Ricorrono perciò a un piccolo ufficio d’appoggio, dove una segretaria smista la corrispondenza e le telefonate, tiene i libri aziendali, predispone le riunioni saltuarie. I soci, intanto, se ne stanno a lavorare in casa, in giardino o battono il mercato in automobile, comunicando tra loro con lo smart phone.

Come il personaggio di Molière che parlava in prosa senza sapere di essere un prosatore, così tutti questi moderni lavoratori, armati di computer e di cellulare, telelavorano senza accorgersi di essere dei telelavoratori. Mentre sul piano informale il telelavoro ha stravinto fin da quando si diffusero i primi cellulari, sul piano formale è rimasto in stallo fino all’arrivo del coronavirus.

Ovviamente gli effetti del telelavoro non sono tutti positivi anche perché, da duecento anni a questa parte, ci siamo abituati a lavorare lontano da casa. Le numerose ricerche svolte sul campo hanno messo in evidenza svantaggi come l’emarginazione dal contesto aziendale; lo stress da videoterminali; il disagio per la necessità di ristrutturare gli spazi, mutare le abitudini, reimpostare i rapporti familiari; la confusione e fatica del doppio lavoro, professionale e domestico soprattutto per le donne; la contrazione del tempo libero e della vita sociale; la difficoltà nel partecipare all’organizzazione sindacale e alle azioni collettive; la minore forza contrattuale; la sensazione di maggiore precarietà lavorativa; il timore di essere retribuiti meno dei lavoratori normali. Altri svantaggi vi sono per l’azienda: minore senso di appartenenza all’impresa da parte dei dipendenti e sensazione di perdere il controllo su di essi. Altri svantaggi, in fine, vi sono per il territorio e la collettività: spese per le infrastrutture comunicative; abbandono in cui cadono le aree degli uffici dismessi dalle aziende; riduzione della dimensione sociale del lavoro; atomizzazione sociale.

Ma i vantaggi sono di gran lunga maggiori degli svantaggi tant’è vero che solo pochissimi recedono dal telelavoro. Per i lavoratori aumenta, con l’autonomia, la possibilità di autoregolare tempi, luoghi e ritmi; si riduce la separatezza tra lavoro e vita; migliorano sia le condizioni di lavoro che la gestione della vita familiare e sociale; si risparmia il tempo, la fatica, la spesa e i rischi del pendolarismo. Per l’azienda si riducono le spese degli edifici e dei servizi, diminuisce la microconflittualità, aumenta la produttività. Per la collettività si riduce il traffico, l’inquinamento e le spese per manutenzione stradale; si eliminano le ore di punta; si deconcentrano le aree superaffollate; si porta il lavoro anche nelle zone periferiche, isolate o depresse; si estende il lavoro alle casalinghe e agli invalidi; si creano nuove occupazioni e nuove professioni.

Telelavoro, lavoro agile, smartworking

In un libro del 1993, prodotto dalla S3.Studium, si dava questa definizione del telelavoro e della sua semplicità applicativa: “Con il telelavoro, è il lavoro che si allontana dall’ufficio per ricollocarsi in prossimità del luogo di residenza o nella stessa abitazione del lavoratore. Il telelavoro può essere realizzato in forme assai semplici (trasferendo a casa le pratiche da sbrigare con i soliti supporti cartacei, su dischetto elettronico, per telefono, ecc.) o con l’aiuto di più sofisticate tecnologie dell’informazione (fax, telex, posta elettronica, ecc.)”.

In un primo momento – quando i collegamenti avvenivano tramite telefono fisso – il telelavoratore sbrigava a casa, negli stessi orari e con le stesse modalità, le medesime pratiche che avrebbe svolto in ufficio. Erano previste ispezioni e controlli dei locali domestici da parte dell’azienda per verificarne l’idoneità in termini di funzionalità, salute e sicurezza.

Nel 2002 fu stipulato a Bruxelles un accordo-quadro europeo sul telelavoro definito come “una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di

fuori dei locali della stessa”. Il tutto era finalizzato alla produttività e competitività delle imprese, garantendo il necessario equilibrio tra flessibilità e sicurezza. Inoltre, si intendeva contribuire alla transizione verso una società e un’economia basate sulla conoscenza.

Nel concetto di telelavoro era incluso che esso fosse svolto dal lavoratore presso il proprio domicilio ovvero in altro luogo fisso e predeterminato, esterno rispetto alla sede di lavoro aziendale. Il carico di lavoro e i livelli di prestazione dovevano essere equivalenti a quelli svolti in azienda.

Quanto stabilito a Bruxelles fu recepito in Italia con un accordo interconfederale del 9 giugno 2004 che rimarrà in vigore fino al 2017, quando fu introdotto il “lavoro agile”.

Allo “scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” il 22 maggio 2017 venne approvata la legge n. 81 che promuoveva questo nuovo tipo di lavoro a distanza, liberato da alcuni vincoli propri del telelavoro. La legge, che lo chiama “lavoro agile” lo definisce come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

Sotto l’emergenza del coronavirus, tra il 26 febbraio e il 17 marzo 2020, con un Decreto Legge e ben quattro decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, è stato raccomandato il massimo utilizzo, da parte delle imprese e della Pubblica Amministrazione, del “lavoro agile”, stabilendo che, per tutta la durata dell’emergenza, tale modalità può essere applicata a ogni rapporto di lavoro subordinato, compreso quello dei lavoratori disabili e dei loro familiari.

A sua volta, un avviso del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, parlando esplicitamente di smart working, lo ha inteso come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi… Una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.

Barriere

Se i vantaggi dello smart working superano di gran lunga gli svantaggi, perché non si diffonde con grande rapidità? Quali sono i principali ostacoli che caparbiamente si frappongono alla diffusione del lavoro agile anche là dove sarebbe possibile e conveniente? Quando non esisteva internet, i costi delle telefonate lo scoraggiavano. Ma ormai l’ostacolo economico è caduto: lo smartworking non solo riduce i costi ma eleva i guadagni dell’impresa e fruisce di una sufficiente affidabilità sia per la tenuta delle linee, sia per la qualità delle trasmissioni, sia per la riservatezza dei dati. Mentre le tecnologie hanno migliorato le loro prestazioni e ridotto i loro prezzi, è cresciuto il numero di lavoratori addomesticati al computer, all’informatica, alla telefonia mobile.

Insomma, non esistono più alibi di natura tecnica ed economica. Non esistono nemmeno alibi di natura giuridica e contrattuale. I sindacati italiani non si sono mai opposti al telelavoro e in alcuni casi lo hanno addirittura rivendicato. Non esistono, in fine, alibi di natura organizzativa: non c’è manuale, non c’è consulente, non c’è presidente, non c’è manager che non invochi termini salvifici come flessibilità, snellezza, autonomia, creatività, decentramento, competenze, obiettivi, deleghe, new economy, virtualità.

Se lo smart working, prima del coronavirus non ha avuto che una blanda applicazione, volutamente limitata, è soprattutto perché l’azienda è un sistema antropologico che non fornisce solo un lavoro e uno stipendio ma anche un sostegno morale, un campo da gioco per il proprio agonismo competitivo, delle vittime da sacrificare alla propria aggressività, dei capi cui dedicare la propria devozione infantile, una socialità a volte forzata, formale, distorta quanto si voglia, ma pur sempre socialità.

Nei confronti delle due categorie ancestrali su cui più profondamente ha inciso l’organizzazione industriale – il tempo e lo spazio – l’impresa rappresenta un sistema particolarmente conservatore e refrattario. È l’industria che ha creato la città industriale, ridotta ormai a un inferno di traffico, inquinamento, spreco e aggressività. E la fabbrica, insieme alla città industriale, ha creato la mentalità industriale, fatta di attività parcellizzate, di

lavoro separato dallo studio, di studio separato dal gioco, di gioco separato dalla vita.

Tutti si lamentano del traffico che essi stessi creano e intasano; tutti si lamentano dello stress che essi stessi alimentano ed esasperano; tutti maledicono il lavoro che essi stessi dilatano e incrudeliscono. Tutti si adoprano ad ammobiliare questo inferno, rendendolo sempre più infernale, ma pochissimi si impegnano a riscattarlo e a riscattarsi.

Ogni mattina e ogni sera, milioni di persone incapsulate nelle loro macchine, ripercorrono le consuete strade e autostrade puzzolenti, logorando la loro pazienza e la loro salute, solo perché così hanno fatto i propri genitori e i propri nonni. Le imprese sono disposte a fare cose da pazzi pur di non fare cose da saggi. I policy makers delle imprese sono disposti persino a ridurre i profitti pur di evitare innovazioni organizzative che allentino la presa fisica, tangibile, sui dipendenti. Ciò che viene temuto più della stessa concorrenza è che la cultura aziendale possa diluirsi nella cultura sociale, che lavoro e vita possano mescolarsi in una mistura creativa ed esuberante dove la produzione di ricchezza, la produzione di sapere, la produzione di allegria e la produzione di senso si intreccino e si confondano superando, finalmente, la separazione alienante tra i diversi mondi vitali in cui transitiamo.

Pandemia

Fino al gennaio 2020, benché si continuasse a ripetere che il profitto dell’imprenditore è giustificato dal rischio che egli propende ad assumersi, pochissime imprese si sono dimostrate disposte a rischiare puntando sulla carta dello smart working. Persino quelle che ingrassano vendendo hardware, software e reti, cioè le aziende che per prime avrebbero tratto profitto dalla diffusione dello smart working e che, quindi, avrebbero avuto tutto da guadagnare se avessero dato il buon esempio, persino esse hanno miopemente recalcitrato. Persino le sedi italiane di multinazionali che all’estero sono pioniere dello smart working non hanno sentito alcun bisogno di mettersi al passo con le loro case-madri. Anche i manager più spregiudicati, rapidi nel mutare disinvoltamente gli organigrammi, i settori di investimento, i partner, i pro-

grammi produttivi, le strategie di marketing e gli uomini cui affidare decisioni cruciali per il destino dell’impresa, si sono dimostrati estremamente cauti quando gli sono stati proposti applicazioni anche blande di smart working e hanno preteso garanzie che nessuna sperimentazione può offrire a priori.

In altri casi, sia pure rarissimi, l’introduzione dello smart working è stata progettata in riferimento a settori che, per le loro intrinseche caratteristiche strutturali, ogni buon manuale organizzativo reputa assolutamente incompatibili con il lavoro a distanza. Sembrerebbe, in questi casi, che almeno inconsciamente si fosse desiderato e predisposto il fallimento della sperimentazione in modo da avere un alibi per evitarne l’estensione.

Se fino alla vigilia della pandemia, in base ai dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, solo 570mila lavoratori operavano in remoto, i motivi possono essere stati molti ma probabilmente ha prevalso quello che gli antropologi definiscono cultural gap: cioè un ritardo culturale che, in questo caso, io chiamerei “Sindrome di Clinton”. Ogni capufficio, per inconfessati motivi di potere, ha preferito tenere i propri dipendenti a portata di mano così come Clinton, per altri motivi, preferiva tenere la stagista nella stanza accanto.

In quattro settimane, sotto la sferza del coronavirus, i telelavoratori sono schizzati a otto milioni. Dietro quegli otto milioni vi sono almeno 800mila capi che, per anni, hanno ostacolato il telelavoro, impedendo così la crescita della produttività, il benessere dei lavoratori e del territorio. Come si comporteranno questi 800mila capi quando la pandemia sarà passata? Lasceranno che lo smart working continui o si adopreranno con ogni mezzo per ricondurre i telelavoratori dentro il recinto aziendale?

In Spagna, dove lo stesso virus ha generato un analogo sconquasso, circola un saggio proposito: “No volveremos a la normalidad porque la normalidad era el problema”. Ma siamo poi così sicuri che “no volveremos”?

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