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F. Del Sole Quando i Giganti cadono. Fenomenologia
from Op.cit 168
by Op. Cit.
Quando i Giganti cadono. Fenomenologia della Memoria
FRANCESCO DEL SOLE
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Il Gigante è colui che riesce a vedere tradotta la propria visione del mondo in un modello architettonico, a plasmare il territorio con monumenti che testimoniano il potere di autorappresentarsi ed esibirsi in un’immagine. Quando si usa la parola monumento, di solito si ha in mente l’immagine di una “cosa degna di esser vista”, distinta dal resto dei manufatti artistici, poiché possiede alcune caratteristiche specifiche: è solitamente un oggetto di grandi dimensioni; appartiene allo spazio pubblico, occupandone un posto ben preciso; è realizzato in materiali durevoli; è destinato a commemorare un evento o un personaggio importante per la comunità in cui è inserito [R. Koselleck, I monumenti: materia per una memoria collettiva?, in “Discipline filosofiche”, 13, 2, pp. 9-33 ].
Sironi definisce il monumento “una voce sopra ad altre voci”. [M. Sironi, Monumentalità fascista, in La rivista illustrata del popolo d’Italia, pp. 84-93 ]. Questa definizione è utile per risalire al significato più profondo di questo termine, che deriva dal latino monere, rimandando al senso del ricordare, far presente, ammonire ed esortare 1 . È il fulcro di uno spazio che diviene luogo di memoria, posizionato in modo da essere una fonte diretta della storia, prodotta volontariamente dalla società secondo un processo di intenzionalità diretta della memoria [P. Nora, a cura di, Les Lieux de Mémoire, Gallimard, Parigi 1997 ].
Il monumento pubblico deve essere analizzato in relazione al suo ambiente, non solo nella sua componente scultorea, ma anche nello spazio costruito attorno ad esso, per mezzo del quale
assume un suo significato specifico. La scelta, da parte dei governi di impronta più o meno dittatoriale, di costellare i territori di monumenti pubblici (per la maggior parte di natura colossale) a propria immagine e somiglianza, si configura quindi in relazione alla capacità del monumento di dialogare con le tre sfere del Passato, del Presente e del Futuro.
Il Passato / La scelta del fuori-scala
Leggendo gli scritti di Albert Speer, uno degli artefici del programma estetico del Terzo Reich, si capisce quanto il dittatore dipinga se stesso come un “grande architetto” che si appresta a ridisegnare il mondo a propria immagine. [ A. Speer, Memorie del Terzo Reich (1969), New York, The Macmillan Company 1970, tr. it. Mondadori, Milano 1971 ].
L’architettura, scrive Sudjic, “attrae i fanatici e li induce a costruire sempre di più, su di una scala sempre più vasta”. [D. Sudjic,
Architettura e potere. Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mon do, Laterza, Bari 2011, p. 13]. In un regime dittatoriale dove, ai fini della costruzione dell’identità nazionale, assume sempre maggiore rilevanza una convincente coreografia di Stato, anche l’architettura è fondamentale. Essa può essere considerata un vero e proprio linguaggio con cui si veicolano messaggi, una sorta di uniforme militare, strumento potente per segnalare fedeltà e aspirazioni, per tenere uniti i propri sostenitori e relegare in un angolo i propri nemici. Il monumento pubblico non si limita quindi ad essere un orpello; è considerato simbolo di un’intera epoca e costituisce una delle fibre più profonde del potere totalitario. Il connotato che lo caratterizza sotto il profilo architettonico è la filosofia del grandissimo 2 , fatta di imponenti progetti, da taluni definiti “architetture da megalomani” [Cfr. E. Pirazzoli, Disumana e quotidiana. La scala monumentale del nazismo, in G.P. Piretto, Memorie di pietra. I monumenti delle dittature, Cortina, Milano 2014, pp. 117-136 ].
A questo carattere colossale dell’architettura si va accompagnando anche una prospettiva di durata ugualmente smisurata. Questa ricerca di eternità si concretizza soprattutto nella scelta di materiali durevoli, quali la pietra, il marmo o il granito, in modo da poter sfidare i secoli e mostrare ai posteri la grandezza del re-
gime, così come hanno fatto gli imperi dell’antichità, a cui lo sguardo è sempre rivolto soprattutto per quanto riguarda le imprese architettoniche 3 . Nella Germania nazista Hitler e i suoi architetti arrivarono a progettare gli edifici del Terzo Reich anche in funzione del loro futuro decadimento, seguendo la cosiddetta teoria delle rovine proposta dallo stesso Speer. Secondo tale “teoria”, il monumento dittatoriale doveva esser costruito con materiali atti a garantirne un decadimento rovinoso. Anche secoli e millenni dopo la loro edificazione, i monumenti del Reich – sotto forma di rovina, non di maceria – avrebbero dovuto conservare intatto il senso di grandezza e di austerità della società che li aveva realizzati [J. Fest, Dialoghi con Albert Speer, Garzanti, Milano
2008; J. Petropoulos, Artists UnderHitler: Collaboration andSurvival in Nazi Germany, Yale University Press, 2014 ]. Quando pose la prima pietra (riferendosi alla costruzione della Kongresshalle), Hitler, facendo eco a Speer, affermò che «anche se la voce del nazionalsocialismo dovesse essere ridotta al silenzio, queste vestigia susciteranno ancora meraviglia» [D. Sudjic, op. cit., pp. 52-53].
Nel momento in cui il dittatore acquista sicurezza, la manifestazione più eclatante del suo ego diventa la costruzione di un colosso a propria immagine e somiglianza, per fare in modo che la figura del leader diventi l’unico collante che lega il passato glorioso al mitico presente. Si tenta in questo modo di convincere i cittadini che il proprio capo è un vero padre della patria capace, come la statua al centro di una grande piazza, di stringere a sé tutto il popolo guardando al futuro, dall’alto del suo piedistallo. La scelta di erigere un Colosso – il cui archetipo è la statua dedicata ad Helios a Rodi, tanto remoto da richiamare il famoso canone delle sette Meraviglie del mondo antico – è dunque una vera e propria evocazione del passato, uno dei modi “prodigiosi” di imporre al mondo il proprio desiderio di magnificenza; dall’altro lato è anche uno dei mezzi più efficaci per ricollegarsi alla storia figurativa di questo archetipo antico, che non è mai stato dimenticato nonostante la sua breve vita [M. Fagiolo, Le Meraviglie e il meraviglioso, in “Psicon. Rivista internazionale di architettura”, 7, anno III, Grafica style, Firenze 1976, pp. 3-9; F. Del Sole, Viaggio nella Me raviglia: descrivere, immaginare, ri-costruire, Congedo, Galatina 2019].
Leggendo le fonti antiche che lo descrivono, il Colosso di
Rodi, anche se crollato, costituisce ugualmente una Meraviglia. Ed è proprio questo il fine che il dittatore persegue nella creazione del proprio mito: restare impresso nella memoria nonostante la propria caduta 4 .
Il Presente / La monumentalizzazione del territorio
Nel tempo, in molti Stati sono sorte vere e proprie istituzioni che hanno il compito di pianificare la monumentalizzazione del territorio, quel processo in cui si individuano una serie di luoghi di memoria degni di trasmettere un ricordo, legato per lo più a personaggi o eventi che hanno segnato la comunità e tramite i quali la gente può rispecchiarsi in un ideale, che riguarda la convinzione di vivere in una società in cammino verso un futuro di felicità e prosperità, fondata sulla coesione, l’indipendenza di aiuti e contributi esterni, sul legame ancestrale con il territorio nazionale. Si pensi, a tal proposito, all’Istituto dei Monumenti di Cultura fondato nel 1965 in Albania o all’Università di Belle Arti fondata negli anni Quaranta in Corea del Nord [ Cfr. A. David West, North Korean aesthetic theory: Aesthetics, beauty and man, in “Journal of Aesthetic Education”, 47, 1, 2013, pp. 104-110 ].
Da questa istituzione deriva Mansudae Art Studio, il centro artistico di Pyongyang, il più importante della Corea del Nord. La base fondante della nazione nordcoreana è la celebrazione dell’Idea Juche. Questa particolare concezione filosofico-politica prevede che l’uomo debba essere completamente autosufficiente e artefice del proprio destino. Il complesso monumentale realizzato per esprimere al meglio tale ideologia politica è la Torre dell’Idea Juche, che costituisce il centro fisico dell’intero impianto urbanistico di Pyongyang e il centro gravitazionale attorno al quale ruota la nazione intera. Attualmente è la più alta torre in pietra del mondo, con in cima una fiaccola che ha il compito di trasmettere il messaggio della Juche al resto del pianeta. Fin dagli anni Settanta, il Mansudae Art Studio ha lavorato alla costruzione di grandi opere commissionate da paesi esteri, compresi i Colossi, soprattutto nei paesi africani. A livello culturale il Mansudae ha offerto ai nascenti governi nazionali un linguaggio visivo che ha fatto presa sui leader locali. Può sembrare strano che un
governo africano racconti la propria storia di libertà prendendo in prestito il linguaggio visivo nordcoreano. Le radici di questo fenomeno vanno ricercate nella loro comune storia di lotta antimperiale, che ha reso possibile la nascita di uno stato autonomo. Si possono individuare decine di monumenti e grandi complessi architettonici realizzati dal Mansudae Art Studio in Angola, Senegal, Namibia, Guinea e nella Repubblica Democratica del Congo. Tale fenomeno di monumentalizzazione del territorio non accenna a placarsi, tant’è che solo nel 2010 è stato completato il Monumento al Rinascimento Africano, nei pressi di Dakar.
Il Colosso più importante del Mansudae Art Studio rimane il cosiddetto Grande Monumento di Pyongyang: due simulacri bronzei, di venti metri d’altezza, disposti uno affianco all’altro; l’uno tende il braccio verso il futuro, l’altro lo accompagna con lo sguardo. Non meno importante appare lo spazio scelto e modellato per accogliere il monumento. Per giungervi, è necessario scalare un piccolo colle, un percorso ascensionale che si apre su una piazza. Vige un preciso codice etico-comportamentale da seguire nel corso della visita. Non è possibile dare le spalle ai due Colossi e ogni visitatore deve depositare fiori ai piedi delle statue in segno di rispetto; la piazza stessa è concepita per permettere a coloro che intendono scattare delle fotografie di retrocedere di qualche passo facendo in modo che l’inquadratura colga entrambi i colossi a figura intera, ponendo attenzione nel non tagliare loro testa o piedi. Il processo di monumentalizzazione del territorio, come testimoniato da quest’ultimo esempio, fa sì che il luogo della memoria divenga un vero e proprio luogo sacro.
Il Futuro
Il complesso monumentale, seppur ancorato a un ricordo del passato, è proiettato anche verso il futuro. È questo il paradosso degli hypomnemata, quei luoghi (od oggetti) nati come dispositivi per conservare la memoria al di fuori dell’uomo. Essi costituiscono una memoria materiale delle cose, offrendole così come un tesoro accumulato per la rilettura e la successiva meditazione [ J.E. Young, Memory, counter-memory, and the end ofthe monument, in “Harvard Design Magazine”, 9, 1999, pp. 1-10 ].
1. L’abbattimento
Se, da un lato, il monumento è il mezzo più appropriato per fissare un ideale e far sì che la nazione si riconosca in esso, dall’altro è proprio nel momento in cui si sceglie di affidare un ricordo a un supporto esterno che la società stessa può permettersi di dimenticarlo. È il processo di damnatio memoriae, noto fin dall’Antichità, che viene adoperato per fare in modo che venga cancellato ogni ricordo dei personaggi colpiti da una tale sorte.
Ad ogni rovesciamento di un governo dittatoriale, il primo gesto che i ribelli compiono è quello di abbattere le statue, oltre che distruggere i monumenti, emblemi e insegne del regime appena sconfitto. Questo fenomeno è stato definito da alcuni storici “vandalismo rivoluzionario”. La violenza con la quale questi gesti vengono compiuti fa capire il forte potere simbolico dei monumenti dittatoriali, in grado di far esplodere la rabbia popolare dopo la caduta del leader.
Sia nel momento della loro costruzione che nel momento della loro distruzione, i monumenti sono vocaboli essenziali del linguaggio culturale di una comunità, quello che stabilisce e comunica al mondo i princìpi che sono alla base della propria identità conquistata con fatica, pagando un alto prezzo a suon di guerre e ribellioni. Non è dunque difficile comprendere ad esempio la ragione che spinse il popolo di Budapest nel 1956, nel corso della rivolta ungherese, a rischiare la vita per demolire la gigantesca effige di Stalin eretta nel centro della città. L’abbattimento era una risposta al potere idolatrico del dittatore.
Le pagine di cronaca, nel corso degli anni, sono ricche di casi analoghi e trasmettono ogni volta lo stesso messaggio: una comunità finalmente libera dal regime ha la necessità primaria di liberare il proprio territorio dai simboli di una dittatura. Nella maggior parte dei casi, nell’abbattere le statue, il popolo si accanisce sul colosso, con un gesto tanto liberatorio quanto irrazionale, replicando il trattamento riservato nelle guerre ai prigionieri nemici. Caso esemplare è la distruzione, nel 1961, del monumento dedicato a Stalin in una strada di Berlino [ L. Faber-Jonker, Stalin’s ear: on the material (after) lives of a statue, in T. Hyunhak Yoon, op. cit., pp. 97-115 ].
Come molto spesso accade in queste circostanze, il governo decide di eliminare la statua nottetempo, senza preavviso, quasi a fare in modo che i cittadini, il giorno dopo, possano avere l’impressione di vivere in uno spazio diverso, non più costellato dalle ombre del passato. In questo caso, l’ordine fu preciso: non occorreva solo abbattere la statua, essa andava distrutta in ogni sua parte. Gli operai si misero al lavoro ma uno di essi pensò bene di reciderne un orecchio e portarlo via prima di completare la distruzione del monumento, proprio come era usanza fare in battaglia con i nemici, ai quali venivano recisi il naso o le orecchie per conservare un macabro trofeo di guerra. In quell’operaio tedesco potrebbe esser scattata la stessa voglia di rivalsa e l’asportazione dell’orecchio doveva far sì che quel dittatore, che aveva la fama di essere un gigante che “tutto vedeva” e “tutto sentiva”, potesse finalmente scomparire.
2. Anti-monumentalità
Quando non si impone il processo di damnatio memoriae, il valore di un monumento come documento può essere rovesciato. Si può fare in modo che esso stesso divenga un anti-monumento; il luogo della memoria finisce in questo caso per conseguire un risultato diametralmente opposto al fine per il quale era stato concepito, promuovendo una memoria negativa di ciò che è stato [ A. Pinotti, Antitotalitarismo e antimonumentalità. Un’elettiva affinità, in G.P. Piretto, op. cit., pp. 17-33 ]. È proprio questo il concetto di anti-monumentalità, un ribaltamento degli stessi elementi che caratterizzano il monumento dittatoriale (linguaggio, spiccata verticalità, eternità del messaggio) e che fanno venir fuori, con la stessa potenza espressiva del complesso monumentale originario, i contrassegni di tutti coloro che a tali regimi sono stati costretti.
2.1. Enver-Never
Allo stesso modo della rappresentazione figurativa, anche le parole scolpite hanno assunto un significato profondo nell’etica dei regimi dittatoriali. Si pensi ai circa novecento “Presente” scolpiti nel granito del Sacrario di Redipuglia, a simboleggiare la voce convinta di tutti quei soldati eroicamente morti per la patria
[Vedi M. Giuffrè, F. Mangone, S. Pace, O. Selvafolta, a cura di, L’architettura della memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città 1750-1939, Skira, Milano 2007 ]. Ci sono voluti dieci giorni a Sheme Filja per comporre il nome “Enver” sul monte Shpirag in Albania nel 1968, in omaggio ad Enver Hoxha, con lettere alte cento metri che dominavano il paesaggio [Cfr. G. Jandot, L’Albanie d’Enver Hoxha (1944-1985), L’Harmattan, Parigi 1994 ]. Poco tempo dopo, Armando Lulaj, giovane artista, ha scambiato le prime due lettere del vocabolo, tramutando la parola “Enver” in “Never”, “Mai più”. Il semplice scambio delle prime due lettere ha radicalmente mutato il senso e l’impatto del luogo, costruendo un vero e proprio anti-monumento. Sostituire un nome proprio con un avverbio non equivale a nasconderlo, ma ad evocarlo, facendo al tempo stesso riflettere su quel “Mai più”, che appare come un rifiuto, un monito, una negazione del passato tirannico [ F. Lubonja, Between the glory of a virtual world and the misery of a real world, in S. Schwandner-Sievers, B.J. Fischer, a cura di, Albanian identities. Mith and History, Indiana University press, Indianapolis 2002, pp. 91-103 ].
2.2. Progetti per il Memorial a Ground Zero, New York
Il Gigante che cadde l’11 settembre 2001 sotto l’attacco dei terroristi islamici, non fu un dittatore, ma l’intera nazione degli Stati Uniti d’America [ S. Stephens, Immaginare Ground Zero. Progetti e proposte per l’area del World Trade Center, Rizzoli, Milano 2004 ].
L’offensiva ebbe come obiettivo il cuore pulsante degli USA, il World Trade Center. Le torri gemelle erano per l’intero popolo americano il simbolo di un’era, quella che aveva coniato il termine grattacielo, dando vita fin dalla metà dell’Ottocento a quella “guerra per la supremazia in altezza” che dura ancora oggi. Le cosiddette “torri del progresso” avevano dunque un significato profondamente simbolico, rappresentando il miracolo economico e tecnologico, la “grande icona architettonica del capitalismo in sviluppo” [P. Melis, Architettura e revival del cristallo nella città contemporanea da Joseph Paxton a Kevin Roche, in “Psicon”, n. 6, Fi renze 1976, p. 89]. Subito dopo la caduta delle torri, moltissimi sono stati i progetti di ricostruzione del sito, fra i quali son stati
scelti quelli vincitori per la realizzazione dei due elementi fondanti dell’area di Ground Zero: la Torre e il Memorial.
Se da un lato l’idea di innalzarsi nuovamente verso il cielo con la nuova Freedom Tower mette in luce tutta la forza di un’America che intende risollevarsi da una tragedia, dall’altro emerge la volontà di ricordare l’accaduto, dando un nome alle vittime e proponendo un monumento che sia un ammonimento per il mondo intero.
Il concorso per il Memorial ha visto la partecipazione di numerosi progettisti, molti dei quali hanno proposto un vero e proprio anti-monumento, un progetto architettonico che mettesse in evidenza la catastrofe avvenuta, ribaltando il valore architettonico fondante del World Trade Center: la verticalità. Fra questi, affascinante è quello dell’olandese Van der Erve, che propone due pozzi gemelli nello stesso posto occupato dalle torri abbattute, profondi 110 piani, immagini speculari rispetto alla costruzione precedente [ S. Stephens, op. cit., p. 208]; va ricordato anche il progetto di Nicholson, con il sito delle torri originali occupato da labirinti e un pozzo profondo 150 metri [S. Stephens, op. cit., p. 171 ]; ancor più simbolica è la scelta di Mockbee di collocare una cappella commemorativa a 911 piedi sottoterra, cifra che ricorda la data degli attacchi [S. Stephens, op. cit., p. 167]; la rappresentazione dell’America, dopo quel tragico spartiacque, è riassunta nella proposta di Solomon, in cui sono progettate due torri d’acciaio e vetro che si levano più in alto di quelle originarie, intimamente collegate a due memorial, sotto le fondamenta, che raggiungono la profondità di 110 piani, stessa altezza delle torri crollate [S. Stephens, op. cit., p. 166].
L’esempio di Ground Zero fa capire quanto l’anti-monumentalità sia una scelta che va molto al di là della sfera dittatoriale e interessa ogni comunità che intende imprimere un ricordo nello spazio pubblico, che sia slancio verso il futuro. È proprio questo il messaggio che si può cogliere nella verticalità orizzontale del memorial di Fred Bernstein, in cui le torri, invece che proiettarsi verso il cielo, si slanciano nell’oceano, sotto forma di due moli delle loro stesse dimensioni. Il molo, simbolo di una partenza e di un nuovo viaggio da compiere, avrebbe recato incisi i nomi delle vittime dell’11 settembre [S. Stephens, op. cit., p. 206].
3. La decontestualizzazione
La vita di un monumento cambia quando cade l’ideologia fondante che lo ha generato. Da un momento all’altro un segno potente può perdere il suo significato: “Senza valore reale alcuno, il significante finirà, semmai, nei depositi dei relitti strani pervenuti da un sistema defunto” [ M. Jakob, Grutas, in “Doppiozero”, 8 dicembre 2019 ]. Per evitare di distruggere ogni traccia del regime sconfitto, un altro mezzo efficace per far perdere valore al monumento è proprio quello di decontestualizzarlo, rompendo il suo legame col territorio. È questo il momento in cui l’architettura diviene, da mezzo politico, un mezzo per criticare le mancanze politiche.
3.1. Il parco di Grūtas in Lituania e il Memento Park di Budapest
Occupata dall’Unione Sovietica, la Lituania fu il terreno perfetto per mettere in atto una fitta monumentalizzazione. Il territorio venne cosparso di colossi di Lenin e Stalin, a simboleggiare l’occupazione materiale e simbolica del territorio. L’indipendenza raggiunta l’11 marzo 1990 non portò soltanto allo smantellamento del repertorio monumentale, ma sollevò il problema della risistemazione degli oggetti imponenti del passato. Il corpus, composto da più di ottanta monumenti, non fu distrutto, ma finì a Grūtas, esposto ai visitatori all’interno di un ampio parco tematico. Esso contiene, oltre alle sculture disseminate in una specie di foresta della memoria, un ristorante, un’area giochi, un piccolo museo, un mini zoo e alcuni elementi metonimici del sistema Gulag, divenendo l’opposto di una santuarizzazione del regime sovietico.
Un destino simile è toccato ai monumenti sovietici ungheresi. Dopo la caduta del regime comunista nel 1989, nel 1991 si decise di collocare tutte le statue rimosse in un museo all’aperto nella capitale, il Memento Park. Si tratta di uno spazio monumentale che parla della tirannia e al tempo stesso, proprio in quanto sito in cui è ammesso parlare di tirannia, è un monumento alla democrazia. In esso sono presenti 42 statue raffiguranti vari leader comunisti. Di fronte all’ingresso è presente una replica degli Stivali di Stalin creata nel 2006 dallo stesso Ákos Eleőd, in occasione dei cinquant’anni della rivoluzione ungherese del 1956, durante la quale la colossale statua del dittatore situata nel parco municipale venne buttata giù dal suo piedistallo e rimasero
solo gli stivali. È difficile non pensare alla ben più antica immagine di un colosso crollato dal suo piedistallo: il Colosso di Rodi che Antonio Tempesta raffigura abbattuto con il solo piede rimasto su un alto basamento. Come scrive Jakob, “le contraddizioni che hanno portato alla creazione di questo parco a tema sono le stesse della storia che le ha prodotte. E il fatto che un’atmosfera sovietica opprima il visitatore, anche se ha appena mostrato la lingua a Lenin o riso davanti a Stalin, esprime lo spirito storico di un’epoca in cui il terrore totalitario la faceva da padrone” [ M. Jakob, op. cit .]. Le monumentali statue della propaganda comunista che un tempo intimidivano gli osservatori con le loro dimensioni sono oggi solo una testimonianza di una gloria passata. L’idea ambiziosa di salvare i cimeli del vecchio regime dal processo di damnatio memoriae è stata molto efficace: è nel loro apparire qui, sradicati e solitari, che i giganti del passato subiscono la disfatta più cocente, proprio tramite quei monumenti che avrebbero dovuto trasmettere ai posteri l’eternità del loro regime.
1 Si vedano, a questo proposito, le teorie di Alois Riegl che, a cavallo fra Otto e Novecento, fu incaricato dall’Imperial Governo Regio di riorga nizzare il settore della tutela delle opere d’arte, producendo il celebre testo intitolato Il culto moderno dei monumenti, la sua essenza e il suo sviluppo (1903). In questo saggio, Riegl introduce una distinzione tra monumenti “voluti” e monumenti “non voluti”. 2 «All’inizio del 1939, a una riunione di operai edili, Hitler volle motivare il carattere colossale del suo stile architettonico dicendo: “Perché sempre il grandissimo? Perché voglio restituire ad ogni tedesco la coscienza di sé. Perché voglio ripetere a ciascuno in cento occasioni diverse: ‘Noi non siamo assolutamente inferiori ad alcun popolo: siamo invece del tutto pari a qualunque altro popolo’”» (A. Speer, op. cit., p. 84). 3 Il Fuhrer, in un discorso del 1937, così si espresse sull’argomento: “Questi edifici non devono essere pensati per l’anno 1940, e neppure per l’anno 2000, ma ergersi come le cattedrali del nostro passato per i millenni futuri” (cit. in E. Pirazzoli, op. cit., p. 121). 4 Non meno interessante appare la ricerca del Colosso personale di Mussolini, il famoso Colosso Littorio. Una nota di una vecchia pagina di giornale, a proposito di quest’opera, utilizzava come sottotitolo la frase “l’unghia del suo alluce era grande come un cortile” (G. Quintini, Nella bottega del colosso, in “Il Tempo”, a. XLV, n. 202, 10 agosto 1988, p. 14). Il riferimento alle parole di Plinio, anche in questo caso, è palese. Riferendosi al colosso di Rodi, lo storico in un passo affermava: “Pochi possono abbrac ciare il suo pollice, e le dita sono più grandi che molte altre statue tutte intere” (Naturalis Historia, XXXIV, 18).