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C. Langella Design quotidiano al tempo della vulnerabilità
from Op.cit 168
by Op. Cit.
Design quotidiano al tempo della vulnerabilità diffusa
CARLA LANGELLA
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1. Introduzione
L’evidenza dei problemi climatici e ambientali, i veloci cambiamenti della nostra epoca, come gli effetti della recente pandemia di Covid-19 che ha rivoluzionato repentinamente le abitudini quotidiane e introdotto l’idea di nuovi scenari nell’ambito della sicurezza, del lavoro, della vita domestica, e della opportunità di realizzare in tempi rapidi nuovi sistemi e strumenti – pongono l’urgenza di ripensare anche la relazione delle persone con gli oggetti.
Per la sua natura di disciplina catarifrangente, il design non può esimersi dal riflettere e reinterpretare i diversi aspetti di grandi cambiamenti, spesso improvvisi, violenti e spaventosi, ma anche potenzialmente rigeneratori. Come ha scritto Paola Antonelli su Domus di aprile 2020 “Con i nuovi fondi di capitale di rischio perfettamente in linea con le basi più ‘umanistiche’ di un’economia resettata non solo dallo shock di Covid-19, ma anche dalle profonde crisi ambientali e politiche che ci colpiscono da diversi anni, il design potrebbe prosperare e aiutare umani e altre specie a guarire. Il design è un ingrediente fondamentale della vita e della società, anche perché aiuta le persone ad affrontare il cambiamento. Questo è il momento perfetto per dimostrare la sua importanza” 1 .
Il punto da cui ripartire è, probabilmente, proprio quello più tangibile e immediato, che abbiamo dovuto scoprire per le misu-
re di isolamento contro la pandemia. Obbligati a concentrare all’interno delle abitazioni le dimensioni vitali di lavoro, relazioni, affetti, intrattenimento e cura del corpo, abbiamo vissuto una rivoluzione domocentrica che ha riportato alla ribalta gli oggetti di tutti i giorni e gli spazi di condivisione, illuminando l’opacità in cui erano stati relegati dal dilagare del neonomadismo fisico e digitale degli ultimi decenni. Riemerge così l’attenzione verso le questioni del design anonimo, minimo e diffuso legato alla dimensione quotidiana e domestica, che vanno reinterpretate alla luce di questa crisi e delle altre rivoluzioni che stanno investendo il mondo contemporaneo, consapevoli che altre potranno ancora presentarsi.
Uno dei fenomeni più incisivi di trasformazione del quotidiano è quello della digitalizzazione diffusiva. Fabbricazione digitale, Internet ofThings (IoT) o Objects with Intent (OwI) sono alcune delle declinazioni concrete del digitale che, oltre a riformare i rapporti interpersonali e le attività immateriali, sono intervenute nella ricodifica del DNA degli oggetti contemporanei. Mentre il digitale pervade la consistenza delle cose e delle persone, irradiandosi nelle relazioni come nella corporeità dell’ordinario, molti teorici del design inneggiano al recupero dello Human Factor, della componente analogica, esperienziale, affettiva ed emozionale dei prodotti, rievocando l’insegnamento di Don Norman e della psicologia cognitiva applicata al design. Allo stesso tempo, la categoria degli oggetti comuni, spesso caratterizzati da cicli di vita brevi, da costi ridotti e da materiali polimerici, si trova a dover confrontarsi con la crisi economica e con una crescente coscienza ambientalista, ulteriormente enfatizzate dal clima di emergenza.
In una fase storica che riscopre l’importanza della dimensione domestica, rifugio protetto dalla vulnerabilità di un mondo minacciato da pandemie, crisi economiche e disastri climatici, di cosa è fatta la quotidianità? Certamente non di banalità.
Questo contributo intende indagare su come si è evoluto il design quotidiano, anche alla luce delle profonde trasformazioni in atto, che inducono nuove modalità relazionali e forme di innovazione frugale e diffusa.
2. La capacità adattiva del design quotidiano
Nell’ultimo decennio l’affermarsi delle nuove forme di pratica del design legate all’art design, al design speculativo, al fenomeno dei cosiddetti makers e alle sperimentazioni materiche DIY, ha segnato la ripresa del dibattito tra design anonimo e quotidiano e design autoriale.
Da sempre la storia del design è caratterizzata dalla contraddizione tra l’orientamento alla modularità e standardizzazione del prodotto industriale di massa e l’attitudine speculativa del design d’autore, della serie limitata e del pezzo unico, che vede il progettista come agente provocatore impegnato nell’espressione critica. La contrapposizione tra questi due paradigmi è stata oggetto di discussione della conferenza sui principi del design al Deutscher Werkbund già nel 1914; delle disquisizioni del Bauhaus (1919-1933) su produzione artistica, funzione, economia e standardizzazione per la produzione industriale, e del dibattito condotto presso la Hochschule für Gestaltung (HfG) di Ulm all’interno del quadro più ampio informato da economia, scienza e tecnologia (1953-1968).
Alberto Bassi descrive il design anonimo italiano come una forma di design di cui non si sa molto riguardo ai progettisti o ai dettagli della loro storia, ma costituita da artefatti profondamente radicati nella vita quotidiana delle persone. Sono, soprattutto, prodotti per i quali ha prevalso il nome dell’azienda produttrice o dell’ambito territoriale su quello del designer, divenuti icone del loro contesto e momento storico, celebrate dal tempo e dall’uso. La caffettiera Moka della Bialetti, del 1933; il metro estensibile in legno, del 1860; la penna Bic, del 1950; i rasoi in plastica usa e getta della Gillette, degli anni Novanta; la sedia di Chiavari, del 1807; il cono per il gelato, del 1902; la scarpa di tela della Superga, del 1925; la spillatrice, del 1948, sono alcuni degli esempi più noti. Molti di questi prodotti sono caratterizzati da larga diffusione e basso costo, talvolta destinati a un breve consumo o “all’usa e getta”; altri, invece, sono diventati archetipi tipologici. Tutti sono in qualche modo accomunati dall’uso quotidiano e domestico che li ha resi frammenti di abitudini. Il loro successo non è casuale, secondo Bassi, perché portatori di un’idea originale, di
una soluzione tecnica a un problema molto specifico; sono concepiti come esteticamente gradevoli; ma soprattutto sono semplicemente funzionali, tanto da risultare utili 2 .
Lo stesso Bassi in Design. Progettare gli oggetti quotidiani definisce i prodotti di design anonimo come quegli oggetti usati quotidianamente a cui non si presta molta attenzione, spesso ridotti nelle dimensioni e nei prezzi, ma che costituiscono dei capolavori indispensabili di design, essenziali, razionali. Talvolta derivano da un lungo processo evolutivo che genera un progressivo miglioramento di una specifica specie di oggetto, in altri casi da una intuizione repentina che determina la nascita di una nuova tipologia di prodotto che risponde a esigenze e necessità emergenti 3 .
Al tema del design anonimo e quotidiano sono state dedicate diverse riflessioni teoriche ed esposizioni museali.
A New York, nel 1997, Michael Rock e Susan Sellers (assistiti da Alice Twemlow e Ole Scheeren) hanno realizzato un museo del design ordinario in cui gli oggetti venivano lasciati nel loro contesto originale invece di essere rimossi dal loro ambiente naturale, sovvertendo il tradizionale paradigma di museo come cornice che contiene le collezioni più pregiate ed elitarie 4 . Il Museum of the Ordinary includeva trenta strade a Manhattan situate in quattro aree della città. La collezione del museo conteneva tutti gli oggetti che si trovavano nelle zone individuate. Il progetto espositivo mirava a evidenziare il legame tra design quotidiano, contesto ed esperienza personale degli utenti, inconsapevoli passanti trasformati in visitatori del museo. Elementi convenzionali degli allestimenti museali, come le didascalie descrittive, erano stati posti sugli artefatti di uso quotidiano: tombini, segnaletica urbana, lampioni, edifici, ecc. Il progetto metteva in discussione la pratica tradizionale dei musei di decontestualizzare gli oggetti presentando un’alternativa costituita da un racconto integrato delle storie di questi oggetti apparentemente banali 5 .
Nel 2004 la mostra Humble Masterpieces, curata da Paola Antonelli al MOMA di New York, ha raccolto circa centoventi oggetti di uso comune dai Post-It alle graffette, dai cerotti alle penne Bic. Nella collezione permanente del MOMA sono pre-
senti circa 3.800 oggetti di design quotidiano provenienti da ogni luogo del mondo che includono non solo argenteria e arredi preziosi, ma soprattutto oggetti ordinari, molti artefatti tecnici tra cui anche un elicottero e un microchip. Tra i primissimi oggetti di design acquisiti dal Museo, nel 1934, c’era un gruppo di oltre cento oggetti industriali anonimi, come molle e calibri, già esposti lo stesso anno nella mostra Machine Art.
Nel 2006, la mostra itinerante Super Normal, insieme all’omonimo libro-manifesto, ha espresso l’idea di Jasper Morrison e Naoto Fukasawa di oggetti “super normali”, dotati di una speciale attitudine all’uso e ad aderire alle esigenze e alle routine delle persone nel tempo, anche al variare delle condizioni.
Gli oggetti esposti in mostra per rappresentare questo concetto spesso non sono anonimi perché privi di una firma, ma sono stati disegnati senza quell’intento di ego creativo o di espressività che caratterizza il design d’autore. Dunque, la super normalità può essere una scelta consapevole del designer nel concepire un prodotto che possa entrare in modo discreto e lieve nel vivere quotidiano delle persone 6 .
3. L’esperienza del quotidiano
Nel design degli oggetti quotidiani i concetti di usabilità, affordance ed ergonomia hanno un ruolo importante per assicurare un’utenza ampia e diffusa.
La nuova dimensione domestica ibrida, che prevede la pratica in abitazioni sempre più piccole di attività legate ad altre sfere, come quella lavorativa, sportiva o di intrattenimento, richiede una revisione delle modalità di verifica della qualità esperienziale dei prodotti contenuti, destinati a soddisfare bisogni inediti.
Nel 1979 James Gibson, teorico statunitense esperto di teoria psicologica della percezione visiva, ha introdotto il concetto di affordance nell’ambito disciplinare della psicologia ecologica per valutare le interazioni tra persone e oggetti in relazione alle caratteristiche dell’ambiente circostante. Secondo Gibson le affordance possono essere molteplici, ovvero un oggetto può fornire più di una distinta affordance senza incoerenze. Ad esempio,
uno sgabello consente di sedere, sollevare, trasportare, calpestare, ma anche inciampare 7 . L’approccio ecologico valuta, dunque, anche la relazione tra le proprietà fisiche e dimensionali delle cose e i dati biometrici degli individui. La visione di Gibson fa riferimento alla percezione diretta, cioè al modo in cui l’uomo, in quanto animale, percepisce gli oggetti e l’ambiente in termini di istinto, senza un ulteriore processo cognitivo 8 .
Un decennio dopo l’introduzione della teoria di Gibson, Donald Norman, ingegnere statunitense studioso di psicologia e scienze cognitive, ha trasferito il concetto di affordance alla comunità del design nel suo libro The psychology of everyday things, intitolato successivamente The design ofeveryday things 9 , pubblicato in italiano con il titolo La caffettiera del masochista. L’uso del concetto di affordance da parte di Norman è sostanzialmente diverso da quello concepito in origine da Gibson e dalla psicologia ecologica poiché prevede un processo cognitivo in base al quale le proprietà di un oggetto, e le indicazioni relative al suo uso, derivano dall’elaborazione mentale dei dati ottenuti dalla percezione attraverso il filtro del corredo esperienziale e culturale dell’utente. La visione di Norman, dunque, complessifica il concetto, eludendo però la componente più corporea legata alla biometria e alla biomeccanica inclusa nella concezione originaria della psicologia ecologica. Successivamente, con la pubblicazione di Emotional design, Norman rafforza gli aspetti più emotivi della cognizione aggiungendo ai requisiti di facile usabilità e capacità auto-esplicativa l’attitudine di alcuni prodotti a coinvolgere emotivamente l’utente. Ancor più dell’affordance, la qualità emozionale è soggettiva perché si fonda su valori, memorie, principi, desideri e abilità dell’utente 10 .
Negli ultimi due decenni i concetti di affordance e usabilità sono stati spesso impiegati nel mondo dell’informatica per studiare la qualità dell’interazione degli utenti con le interfacce dei dispositivi, lasciando la dimensione concreta e fisica dell’usabilità dei prodotti materici al dominio dell’ergonomia fisica che, invece, ha perpetuato l’attenzione per gli aspetti biometrici e biomeccanici originariamente inclusi nelle trattazioni di Gibson.
Secondo Claus-Christian Carbon, studioso tedesco di psico-
logia ed estetica, è utile ricongiungere queste sfere e riportare la psicologia al centro del discorso sull’usabilità, dando luogo a uno specifico ambito disciplinare, che definisce “Psychology of Design” (PoD), nel quale possano confluire i diversi approcci costruiti in questi decenni intorno all’esperienza di fruizione dei prodotti come affordance, usabilità, ergonomia e biometria.
Per Carbon l’essere umano rileva e interpreta il mondo esterno, quindi anche il design, attraverso processi percettivi multisensoriali modulati da associazioni e analogie modellati da fattori soggettivi come la personalità e il contesto sociale di chi le formula. Questi fattori sono inevitabilmente influenzati dallo Zeitgeist (lo spirito culturale del tempo) che li rende dinamici e mutevoli. Allo stesso modo, l’aspetto formale, linguistico e la Gestalt (psicologia della forma e della rappresentazione) non possono essere riferiti soltanto alla natura oggettuale e funzionale del prodotto, ma anche alla significazione degli oggetti 11 . Se le affordance fornite da un determinato prodotto non sono oggettive, ma dipendono dalla persona, dal contesto e dalla specifica situazione in cui viene fruito, è necessario che il progettista abbia adeguate competenze di psicologia per essere in grado di gestire la complessità di questi fattori o che faccia riferimento a consulenti psicologi. Per ricondurre la sfera concreta e corporale all’interno della psicologia cognitiva del design, Carbon ritiene utile confrontarsi anche con il campo di ricerca definito embodied cognition 12 che integra la prospettiva cognitiva con quella somatica e fisica 13 .
Coerentemente con quanto auspicato da Carson il concetto di User Experience (UX), ampiamente diffuso nell’ambito dell’interaction design, nella sua accezione più ampia estesa anche al design di prodotto, costituisce un possibile approdo risolutivo poiché include tutti gli aspetti soggettivi, dinamici e contestuali dell’esperienza in maniera olistica. La UX valuta il modo in cui l’esperienza d’uso di un servizio o di un prodotto viene accolta dagli utenti in termini di percezione di fattori come utilità funzionale, efficienza, semplicità d’uso, accessibilità, affidabilità, attribuzione di senso e di valori. In questa ultima categoria rientrano gli aspetti affettivi, emozionali, la desiderabilità e l’apprezzamento estetico 14 .
4. Il design diffuso nell’era iperdigitale
Il digitale è ormai una realtà pulviscolare presente in ogni più piccola particella del nostro essere. Ciò che è cambiato, rispetto ai decenni scorsi, è proprio la capacità acquisita dagli strumenti digitali di insinuarsi nelle attività quotidiane delle persone, di aderire ai diversi momenti delle loro vite, ai loro corpi e persino ai loro sogni.
Nell’era iperdigitale, che apparentemente sembrerebbe spingere verso la dematerializzazione, le possibilità produttive vengono ampliate anche nella dimensione analogica introducendo nuovi processi e modalità realizzative che, per il mondo del design, costituiscono un immenso panorama di opportunità e stimoli. La fabbricazione digitale additiva e sottrattiva, i processi ibridi analogico-digitali, i sistemi di produzione robotica, le piattaforme di coprogettazione digitale in cui gli utenti possono customizzare i prodotti che acquistano, fino a giungere agli scenari emergenti, come la biofabbricazione, moltiplicano le modalità espressive ed esecutive con cui il design può rispondere alle esigenze quotidiane emergenti.
Viviamo in un tempo in cui un giovane designer può acquistare per meno di mille euro una stampante 3D e avviare una produzione di oggetti personali o da proporre sul mercato, prodotti customizzati “su misura” mediante piattaforme online che gli consentono di rispondere in modo puntuale e immediato alle esigenze degli utenti. Questo modello di produzione paradigmatico del contesto dei makers, definito peer to peer, mira ad abbattere le gerarchie parificando produttore e consumatore.
Nonostante la versatilità e l’adattabilità di questi strumenti, negli ambienti più colti e raffinati del mondo del design si percepisce ancora una diffusa diffidenza nei confronti della stampa 3D, motivata da una qualità estetica e funzionale degli oggetti prodotti spesso ancora limitata. Le stampanti più economiche producono oggetti poco rifiniti, grossolani e fragili che inducono molti critici del design a relegare queste tecnologie ancora in uno spazio intermedio tra il gioco e le cose. Ma non sarà così per sempre perché le tecnologie e i materiali impiegati nelle produzioni digitali diventano più raffinati, perché la cultura dei makers
sarà sempre più integrata con la cultura del progetto e, infine, perché questi strumenti consentiranno di produrre in maniera sempre più rapida ed economica soluzioni materiche istantanee per nuove urgenze.
Lo ha dimostrato, di recente, l’esperienza delle comunità dei makers di tutto il mondo, a fronte dell’impossibilità delle aziende di produrre in tempi brevi l’inaspettata quantità di dispositivi di protezione individuali (DPI), necessari agli ospedali durante la pandemia di Covid-19. Organizzati in reti territoriali in tutto il mondo, i makers hanno stampato, per esempio, migliaia di visiere di protezione, per rispondere all’urgente domanda, in attesa che i canali convenzionali riuscissero ad attuare un aumento della produzione.
La stampa 3D è, però, soltanto una delle declinazioni del digitale nell’ambito del design per il quotidiano.
Ad essa si aggiunge l’Internet ofThings (IoT), un contesto in cui gli oggetti sono connessi attraverso la rete Internet con persone e con altri oggetti. Le cose all’interno di tali reti trascendono le loro forme fisiche e si estendono fino a includere algoritmi, esseri umani, dati e modelli di business. Ognuno di questi artefatti fa riferimento a motivazioni e prospettive indipendenti ma interdipendenti. In questo ambito il design non deve affrontare solo il progetto dei singoli artefatti ma anche delle loro “costellazioni”, considerando sia i caratteri indipendenti sia le interdipendenze. Tutto questo ha un impatto funzionale e culturale molto più ampio e dirompente rispetto al progetto del singolo oggetto quotidiano, poiché offre la possibilità di espandere l’intento espressivo e speculativo di questa sfera di prodotti in modo significativo 15 . La capacità speculativa dell’IoT non è ancora del tutto manifesta, ma costituisce un potenziale particolarmente promettente, che traccerà in futuro scenari del tutto nuovi e sovversivi.
Un’altra tendenza che emerge nella scena dei prodotti quotidiani correlati al digitale è quella degli “Objects with Intent” (OwI), una particolare tipologia di agenti impiegati nel contesto dell’interazione tra utenti e computer (Human Computer Interface), che sfruttano il significato delle cose quotidiane come sito di innesto per la loro intelligenza e capacità di azione. Il concetto di OwI è stato introdotto nell’ambito delle teorie di Dennett sull’in-
tenzionalità e di Leontiev sulle attività. Gli autori dell’articolo Objects with Intent: Designing Everyday Things as Collaborative Partners descrivono l’applicazione degli OwI attraverso il caso progettuale di Fizzy, una palla robotica utilizzata per stimolare i bambini ricoverati in ospedale a dedicarsi al gioco fisico. Fizzy innesta le strategie volte ad agevolare l’interazione dei bambini sulle attitudini quotidiane dei piccoli utenti, legate alle loro caratteristiche generiche come età e dimensioni corporee, e alle loro specifiche condizioni di salute e di provenienza 16 .
5. Una rassicurante omologazione
La crisi economica, la tendenza a rifugiarsi nella dimensione domestica e la percezione di fragilità dilagante costituiscono un substrato ideale per consolidare ulteriormente il successo di grandi brand globali 17 come IKEA, Apple e Muji che fondano i loro prodotti su un’idea di design ubiquo e facilmente apprezzabile, caratterizzato da linee pulite, minimali, dall’uso del “non colore” bianco e da soluzioni pratiche e funzionali che aderiscono ai gusti e alle attitudini delle persone con la stessa facilità di un oroscopo.
La diffusività di questi “white brands”, la certezza di entrare in uno dei loro grandi store in qualsiasi parte del mondo e sentirsi a casa, il linguaggio omogeneo e familiare in grado di dilavare ogni differenza di latitudine, classe sociale o estrazione culturale, sono caratteri che garantiscono un effetto rassicurante.
I prodotti di questi brand sono disegnati, non sono trascurati nel progetto. IKEA, ad esempio, esplicita i nomi dei designer di tutti i suoi prodotti. Spesso sono giovani designer che, però, inevitabilmente tendono ad adeguarsi alla personalità del brand, dissipando in parte la potenza visionaria e la capacità di sintesi che dovrebbe contraddistinguere i creativi della loro età. Attitudini che vengono, invece, espresse nei progetti di ricerca paralleli al filone produttivo sviluppati dall’azienda in collaborazione con partner esterni, volti a scandagliare nuove visioni sul futuro della vita quotidiana. Tra questi IKEA’s future living lab, in collaborazione con SPACE10, propone una collezione di ricette e istruzioni sulle tendenze future del cibo; mentre Rognan, realizzato in
collaborazione con Ori, startup americana del MIT (Massachusetts Institute of Technology), prospetta nuove tipologie di arredi robotici per rispondere all’obiettivo di aumentare lo spazio abitativo all’interno di piccoli appartamenti.
L’esempio dei progetti di avanguardia di IKEA è emblematico del fenomeno secondo cui alcuni dei più importanti global brand posseggono in realtà diverse anime caratterizzate da livelli sperimentali e speculativi differenti che, con diversi gradi di velocità e visibilità, riescono a garantire il loro successo influendo in modo significativo, ma spesso poco percepibile, sull’idea di design quotidiano presente e futuro.
6. Ogni desiderio è un ordine
Esiste un’altra categoria di brand internazionali che in tempi di crisi e di paura avanza a velocità ancora più sostenuta. Sono i grandi brand internazionali della distribuzione e-commerce come Amazon, Wish e Alibaba che hanno radicalmente trasformato il marketing dei prodotti di consumo quotidiani e la relazione tra domanda e offerta. L’impiego, sempre più cospicuo, dei sistemi di Intelligenza Artificiale (AI) e di Machine Learning consente loro di raccogliere enormi quantità di dati impiegati per coinvolgere i clienti, ma anche per fornire alle aziende produttrici informazioni utili a orientare l’ideazione di nuovi prodotti e la selezione dei concept potenzialmente più adeguati a rispondere ai bisogni emergenti.
Nei processi di progetto e sviluppo, l’identificazione delle esigenze dei clienti in relazione al loro contesto assume una grande importanza strategica, ma richiede una profonda comprensione dell’esperienza del cliente. I brand internazionali di e-commerce hanno la capacità di approdare a queste conoscenze elaborando dati provenienti da sistemi di User Generate Content (UGC): ad esempio, recensioni online, social media e blog, che forniscono informazioni molto dense perché ricche di dati testuali da cui è possibile identificare le esigenze dei clienti in un determinato settore di mercato in modo molto più efficiente rispetto ai metodi tradizionali. Gli approcci più efficaci si basano su interazioni umane con i clienti che impiegano strumenti definiti Voice
Ofthe Customer (VOC), come le interviste esperienziali e i focus group, ma sono spesso costosi e richiedono molto tempo, causando ritardi nel time to market. La UGC è disponibile rapidamente e ad un costo incrementale abbastanza basso per le imprese. Rispetto alle interviste il sistema UGC può essere aggiornato continuamente, consentendo all’azienda di adeguare i propri processi di comprensione delle esigenze dei clienti in maniera progressiva o di decidere di tornare a interrogare le UGC periodicamente, a costi minimi, per esplorare l’impatto di eventuali nuove intuizioni 18 .
I grandi colossi come Amazon possiedono una grandissima quantità di recensioni sui prodotti che vendono, scomponibili per categoria, target o prezzo, dunque una risorsa preziosissima per la pratica di design e per la cultura del progetto che, al momento, è ancora diffidente o parzialmente inconsapevole della potenzialità di attingere da questi sconfinati universi di numeri e informazioni come fonte di conoscenza da cui elaborare valutazioni critiche. Si tratta di dati non solo quantitativi ma anche qualitativi che consentono di entrare a fondo nella conoscenza dei gusti, delle attitudini e delle tendenze delle persone. Attraverso questi sistemi gli ordini, i tempi e le modalità con cui avviene il processo, che partendo dalla consapevolezza di una esigenza induce alla scelta di acquisto e successivamente all’uso del prodotto, si invertono, diventano istantanei e istintivi. Le regole di mercato si sovvertono e la componente impulsiva spesso prevale su quella razionale.
Nell’era dell’e-commerce i mercati emergenti convergono in un unico mercato continuo nel quale confluiscono multinazionali e piccolissimi produttori prevalentemente orientali, spesso anonimi, ma agilissimi, progettano, sviluppano e mettono in produzione moltitudini di oggetti in poche settimane per poi modificare la produzione in tempi brevissimi in funzione dell’andamento del mercato e dei dati forniti dagli algoritmi. Talvolta questa agilità si traduce, oltre che in rapidità, anche in versatilità, che consente loro di proporre al mercato soluzioni e prodotti prima che lo facciano le grandi aziende, molto più lente nel processo di sviluppo che include fasi come ricerca e brevettazione che, in genere, dai produttori anonimi vengono saltate.
Questi cambiamenti di scenario ovviamente determinano l’instaurarsi di dinamiche che hanno un forte impatto sul mondo della produzione di design e sulla cultura del progetto, dinamiche così nuove e vaste da essere difficilmente valutabili. La deflagrazione delle fasi di progettazione, produzione e vendita porta a imporre una profonda revisione anche del concetto di design, dei rapporti tra estetica e funzionalità e tra desiderio e utilità, delineando un nuovo tipo di processo che si fonda non più sul brand ma sulla capacità di rispondere a esigenze emergenti.
La dimensione del progetto di beni si consumo domestici negli anni ’20, dunque, si moltiplica su diversi livelli paralleli: quello delle cose comuni di sempre, che silenziosamente ci accompagnano da generazioni; quello digitale, diffuso e distribuito nei laboratori e nelle case di tutti i possibili progettisti/makers in grado di utilizzare gli strumenti di fabbricazione digitale additivi e sottrattivi; quello appartenente alla dimensione del design globale dei white brands, che piace a tutti perché è facile e rassicurante, e quello della produzione industriale minima, spesso di provenienza orientale distribuito attraverso canali come Amazon o Wish. Tali dimensioni parallele del design quotidiano contemporaneo spesso contengono complesse interdipendenze tra attori umani e non umani. Rappresentare adeguatamente queste prospettive come aspetti di una stessa realtà da interpretare con gli strumenti di una disciplina flessibile e aperta, ma che necessita di punti di riferimento, richiede uno sguardo rivolto ad un design centrato sull’essere umano, che consenta di contestualizzare questi fenomeni come espressioni di un vivere quotidiano comune e diffuso, dunque comprensibile per quanto complesso, anche mediante gli strumenti dell’empatia e della personificazione.
7. L’avanzare silente della frugal innovation
Alla luce delle dinamiche, spesso contraddittorie, che caratterizzano lo scenario nel quale confluiscono la minaccia ambientale, la crisi economica e la percezione di diffusa vulnerabilità, è opportuno chiedersi che fisionomia assuma l’innovazione dei prodotti rivolti alla quotidianità e, in particolare, l’innovazione guidata dal design. Sicuramente sarà una innovazione fondata sui
trend emergenti come l’economia della condivisione, l’economia circolare e il movimento dei makers.
Uno degli scenari di innovazione delineati dalla ricerca nel campo del management più adeguati al contesto descritto, e in particolare alla problematica della scarsità di risorse economiche e materiali, è quello della frugal innovation 19 .
Il termine è stato inizialmente introdotto nel particolare contesto dei paesi emergenti, ai quali veniva offerta come opportunità di sviluppare prodotti e servizi facilmente accessibili, a basso costo, ma in grado di rispondere alle loro specifiche esigenze 20 . Successivamente l’intuizione di impiegare questo approccio anche nei paesi apparentemente più sviluppati, ma afflitti da ripetute crisi economiche e dalla preoccupazione per la salvaguardia dell’ambiente, ha portato a complessificare ulteriormente il concetto mettendo in discussione le definizioni precedenti. Gli esperti di innovazione Navi Radjou e Jaideep Prabhu hanno pubblicato diversi libri su questa tematica 21 . Il più recente, del 2019, è Do Better with Less: Frugal Innovation for Sustainable Growth, in cui delineano i principi chiave, le prospettive e le tecniche dell’innovazione frugale attraverso la descrizione di oltre cinquanta casi studio di imprese di diverse dimensioni e settori che sono riuscite a ricavare profitti attraverso strategie di innovazione responsabile per la società e per l’ambiente 22 .
Alcuni esempi di frugal innovation sono l’involucro che sostituisce l’incubatore per neonati progettato da Jane Chen della Stanford University, che costa 20 dollari invece di 20.000; il microscopio pieghevole sviluppato da Manu Prakash della stessa università, vendibile a 50 centesimi, o la centrifuga da 20 centesimi; ma anche prodotti di grandi aziende come la Tata Nano e il dispositivo portatile ad ultrasuoni tascabile GE Vscan. Tutti questi casi sono stati generati dall’analisi di bisogni essenziali (bottom up) e non dalla ricerca di cosa sarebbe bello possedere (top down) 23 .
Al tempo delle crisi, l’economia globale è attraversata da una comune condizione di fragilità e scarsità di risorse che rende tutti i contesti frugali e, dunque, adatti a questo tipo di innovazione.
Timo Weyrauch e Cornelius Herstatt, attraverso una indagine multimodale e una revisione della letteratura scientifica in questo
ambito, hanno stabilito tre criteri per distinguere l’innovazione frugale dagli altri tipi di innovazione: sostanziale riduzione dei costi; concentrazione sulle funzionalità primarie che rispondono a esigenze di base, e livello di prestazioni ottimizzato 24 . Il fattore di innovazione di questo approccio consiste prevalentemente nella difficoltà di integrare i valori e le qualità incorporate nei tre criteri individuati da Weyrauch e Herstatt.
La capacità di rispondere a esigenze primarie a costi ridotti, ma con prestazioni ottimizzate, dunque attraverso qualità come leggerezza, adattabilità, semplicità e robustezza, è decisamente difficile da perseguire. Le prime tre sono riscontrabili in modo integrato in molti dei prodotti a basso costo proposti dai global brand come IKEA o Amazon. In base al modello economico produttivo attualmente più diffuso, invece, la robustezza risulta in contraddizione con le altre proprietà. Ed è proprio questo l’aspetto inedito e più interessante della frugal innovation: una associazione inconsueta tra requisiti che generalmente divergono, poiché i beni di consumo più economici prodotti in larga scala sono prevalentemente poco robusti, caratterizzati da una ridotta qualità manifatturiera e di conseguenza anche poco durevoli, effimeri, quasi usa e getta.
Guardando indietro, invece, questa combinazione si è verificata ed è rintracciabile proprio nel design anonimo del secolo scorso che, in questa ottica, può essere interpretato come un riferimento progettuale nell’applicazione del concetto di innovazione frugale. Naturalmente, nella frugal innovation, si aggiungono valori figli del nostro tempo come la responsabilità etica e la sostenibilità ambientale. La letteratura specialistica di questo ambito enfatizza, infatti, la necessità di connettere l’ottimizzazione di risorse economiche con la riduzione del consumo di materia ed energia, dunque con la sostenibilità ambientale. Anche questa associazione di valori appare in contraddizione rispetto alla consueta concezione secondo cui i prodotti ecologici costino più degli altri.
L’approccio frugale è, dunque, in grado di fornire gli strumenti critici e gli stimoli per indurre nuove forme di innovazione guidate dal design in grado di attuare quell’inversione di tendenza invocata dalla società contemporanea, sempre più sensibile alle
questioni ambientali e all’opportunità di risparmiare risorse economiche e materiali, assecondando le tendenze, accentuate dalla pandemia, di riscoperta delle culture locali, della cura dei dettagli, della dimensione domestica e della qualità delle cose durevoli.
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