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P. Belfiore Napoli: architettura internazionale anni ’70

Napoli: architettura internazionale anni ’70

PASQUALE BELFIORE

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Un problema storiografico

Tra il 1974 e il 1978 Napoli scrisse un capitolo importante della cultura architettonica internazionale con una serie di mostre e relativi cataloghi dedicati, in ordine di edizione, a Walter Gropius, Pietro Belluschi, all’Evoluzione dei grattacieli di Chicago, Van den Broek/Bakema, ai 100 anni di architettura a Chicago, James Stirling, Five architects NY, Louis Kahn, Paolo Soleri, Frank Lloyd Wright, Eduardo Catalano, Le Corbusier, Marcel Breuer. Dapprima, nel 1972, v’era stata una sorta di prologo generalista con la mostra a Boston dal titolo Naples & its region. Nel 1991, la post-fazione conclusiva con la laurea honoris causa data a Richard Meier. Ideatori e autori dell’intero ciclo furono Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, allora giovani docenti della Facoltà di Architettura di Napoli. Nel 2019, a quattro decenni dalla sua ultimazione, questa esperienza è stata raccontata nella sua interezza e per la prima volta in un libro, un convegno e una mostra curati da Alessandro Castagnaro 1 . Perché un ritardo così vistoso per un evento culturale di rilevante portata? Da aggiungere: in una realtà come quella della Facoltà di Architettura di Napoli che nel corso del Novecento solo in due, tre occasioni ha messo in campo iniziative di respiro nazionale e internazionale.

Una prima spiegazione del ritardo era già stata da noi proposta nel citato libro ed aveva un accento prevalentemente politico. All’interrogativo, si diceva, si potrebbe sbrigativamente rispon- 5

6 dere: per scelte diverse o per le frequenti distrazioni di storici e critici; e poi, solo ora i protagonisti Gubitosi e Izzo, con Castagnaro curatore e Cosenza editore, hanno convenuto che vi siano la distanza storica adeguata e il clima giusto per questa iniziativa editoriale. Giustificazione verosimile, ma accessoria. Chi ha vissuto in presa diretta quella fase storica degli anni Settanta, chi ha partecipato della temperie culturale di quegli anni in Italia, nelle Facoltà di Architettura, qui a Napoli a Palazzo Gravina, sa bene che c’è dell’altro. C’è il discorso “difficile” da riprendere su quel periodo, sui grandi fermenti e rivolgimenti culturali ma anche sulla politica di rigida, spesso violenta interdizione verso persone e iniziative ritenute prive di specifici caratteri politico-ideologici, di sinistra estrema, ça va sans dire. È il caso delle grandi mostre napoletane degli anni Settanta inscritte tutte dentro la disciplina dell’architettura, senza sconfinamenti impropri e accentuazioni di parte. Questa scelta s’è rivelata positiva sulla lunga distanza, preservando il rilevante contenuto scientifico della rassegna che oggi riemerge intatto e senza zavorre ideologiche. Scelta perdente, in parte, nel presente storico d’allora che generò l’isolamento politico del ciclo di mostre da parte d’una minoranza in Facoltà e in città, ampiamente compensato però da una partecipazione numerosa e qualificata. Da questa polarità è nata in sede storiografica la più classica delle rimozioni, come accade per eventi ritenuti politicamente imbarazzanti.

C’è tuttavia una seconda spiegazione, meno politica e più dentro un orizzonte storiografico che qui vogliamo riprendere, insieme ad ulteriori riflessioni sui saggi contenuti nei vari cataloghi che rappresentano il migliore e più durevole contributo fornito dalla rassegna napoletana alla storiografia architettonica internazionale. Un orizzonte storiografico sul quale gli assunti della “contemporaneità della storia” e della “distanza storica”, qui solo evocati, rivestono un ruolo importante per fornire un’ulteriore spiegazione al più volte citato ritardo. Per questi argomenti è d’obbligo il riferimento ai due volumi di Renato De Fusco Storia dell’idea di storia e «Artifici» per la storia dell’architettura, entrambi del 1998, tra i suoi lavori di ricerca più fertili. D’obbligo, ancora e per ovvie ragioni, la scelta del paragrafo dedicato a Benedetto Croce che inaugura nel primo volume il capitolo delle

teorie contemporanee sulla storia. Contiene il passo tratto da Teoria e storia della storiografia ove Croce scrive che «Ogni vera storia è storia contemporanea» e giudica «semplici titoli di libri storici» quegli eventi che non sono presenti alla sua coscienza contemporanea. Il soggettivismo che sembra emergere da questa posizione, scrive De Fusco: va inteso come atteggiamento che nella sua radicale unilateralità mira soprattutto ad affermare un basilare principio: è oggetto di storia solo ciò che per un fondato motivo tocca i nostri più vivi interessi attuali. A conferma di ciò vale quanto lo stesso autore scrive sul medesimo tema in un saggio successivo dove quel grado di scelta individuale si associa ad una più diffusa esigenza sociale: «Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce ad ogni storia il carattere di “storia contemporanea” perché, per remoti o remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni» [R. De Fusco, Storia dell’idea di storia, ESI, Napoli 1998, p. 306 ]. Alla luce di questo principio, la scarsa o nulla attenzione iniziale e poi addirittura la rimozione dalla memoria collettiva della cultura architettonica napoletana riservate alle mostre degli anni Settanta potrebbero avere anche un’altra spiegazione. Essa ribalta in una certa misura l’interrogativo sul perché del ritardo nell’altro, storiograficamente più pertinente, sul perché proprio ora quella esperienza sia stata ripresa e valorizzata: perché solo ora la cultura architettonica napoletana ha avvertito che i fatti di allora erano in grado di propagare le loro vibrazioni sul presente, per riprendere le parole di Croce. Un presente difficoltoso e inerte voluto e gestito dalla generazione della discontinuità con la tradizione del Movimento Moderno. Riprendere, studiare e valorizzare un capitolo della nostra storia passata non ha avuto l’obiettivo di antistorici recuperi di “miniere abbandonate”, quanto di rinsaldare il legame tra storiografia e progetto, meglio ancora, di dare contenuto pieno e propositivo all’assunto della “storiografia come progetto” cui De Fusco dedica le pagine più convincenti e utili per la cultura degli architetti.

Quanto al tema della distanza storica, esso è questione classicamente controversa si potrebbe dire, perché su di essa sono stati 7

8 accumulati più pregiudizi ed equivoci di qualsiasi altro concetto con cui lavorano gli storici. Uno per tutti, quello che ancora sopravvive nella legislazione sulla tutela dei beni culturali che autorizza vincoli di tutela solo su opere che siano da noi distanti cinquanta o settant’anni in ragione della proprietà privata o pubblica del bene. In questa sede, ci si può limitare a sottoscrivere un’intelligente proposizione secondo cui la distanza storica si determina tra generazioni che hanno prodotto storia [Cfr. P. D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento. Dal neoidealismo a oggi, Ro ma-Bari, Laterza, 2007]. Con tutta evidenza, le generazioni più recenti della cultura architettonica napoletana che si sono poste in sostanziale discontinuità con le precedenti, tentano a tutt’oggi di delinearne una, mentre una storia l’aveva, e di buon rango, la generazione della continuità con il Movimento Moderno intorno agli anni Settanta.

Napoli agorà dell’architettura

Il cuore degli anni Settanta come tempo storico ancor prima che temporale delle iniziative di cui parliamo. In Italia, v’era un clima politico e culturale teso e pervasivo, le Facoltà di Architettura ne occupavano il fronte avanzato. Napoli non faceva eccezione in quanto a mobilitazione studentesca e di parte della docenza, ma non vi fu mai saldatura politico-culturale tra studenti e professori, anche grazie a una equilibrata conduzione della presidenza di Franco Jossa che riuscì a mantenere fermo l’impegno sulla serietà di gran parte dei corsi. Certo, qui era lontano il concetto di “democrazia della cultura” proprio della Scuola veneziana di Giuseppe Samonà fondata su un costante dialogo tra le componenti accademiche per confrontare metodi e idee differenti. Su questo piano, Napoli ha avuto sempre una visione piuttosto autonomista (ovvero provinciale) della formazione del corpo docente e raramente s’è avvalsa di autorevoli apporti esterni per chiamata, preferendo successioni naturali nell’avvicendarsi delle generazioni di docenti. Per limitarsi al solo settore progettuale, al fondatore Calza Bini seguiva Canino, poi Cocchia e De Luca, poi ancora Capobianco, Angrisani, Paciello, Nunziata e Sbriziolo e infine la docenza più numerosa nata negli anni Trenta con Biso-

gni, Borrelli, Dalisi, De Franciscis, Gubitosi, Izzo, Pica Ciamarra, Pagliara, Renna, Rosi, Rossi, Siola.

La linea progettuale maggioritaria era quella che professava la continuità con il Movimento Moderno e alla quale aderivano tutti gli architetti sopra elencati tranne Bisogni, Borrelli, Renna e Siola che costituivano l’avanguardia della Tendenza in Facoltà. Capobianco era il caposcuola di terza generazione con dichiarata fedeltà a Le Corbusier e al nitore dell’architettura dei paesi scandinavi. Pagliara da un lato e Rossi dall’altro rappresentavano i poli opposti della declinazione del moderno, l’uno di marca protorazionalista, carico di evocazioni, l’altro folgorato dall’utopia megastrutturale. Pica Ciamarra aderiva allo scisma del Team X dall’ortodossia dei maestri. Gubitosi e Izzo rappresentavano allora due eccezioni, allora ritenute problematiche, oggi provvidenziali alla luce degli sviluppi futuri.

Nati entrambi nel 1932, laureati nei primissimi anni Sessanta, per motivi diversi approdavano negli Stati Uniti per esperienze di studio e di lavoro professionale, Gubitosi con una FullbrightHais, Izzo nello studio di Marcel Breuer. Al ritorno in Italia, formavano un sodalizio accademico e professionale inserendo vitali umori europei, anche qui immancabilmente corbusiani, in un anemico International style lì prevalente. Cominciava la messa a reddito delle esperienze, conoscenze e opportunità avute tra New York e Boston. Agli inizi degli anni Settanta, proprio nel Municipio di Boston, c’era stato il prologo con la citata mostra Naples & its region dove l’architettura napoletana era presente con quasi tutti i maggiori protagonisti accademici cui si affiancava Franz Di Salvo con il progetto delle Vele. Ma Napoli mostrava anche il meglio delle arti figurative con De Stefano, Pisani, Perez e Alfano, del teatro e della musica con Roberto De Simone, del folklore, dell’artigianato, della fotografia e del cinema, della letteratura con Rea, Prisco e Compagnone. Il successo di questa manifestazione apriva la strada ad un programma di mostre di architettura a Napoli proposto da Gubitosi e Izzo, bene accolto negli enti e istituzioni cittadine, calorosamente accettato negli Stati Uniti. Almeno all’inizio, la Facoltà di Architettura di Napoli sembrava invece prenderne laconicamente atto. In questo atteggiamento si sommavano una componente politica tout court per la presenza 9

10 esplicita della cultura, istituzioni e architetti statunitensi in un ambiente di sinistra nella sua quasi totalità e il progressivo distacco dalla fase eroica del Movimento Moderno che non suscitava per i maestri lo stesso entusiasmo dei decenni precedenti.

Lo svolgimento e l’esito della rassegna avrebbero annullato quasi del tutto questo preconcetto.

Un bilancio decisamente più che positivo. Dodici mostre con due chiare scelte di campo: selezione da un orizzonte internazionale, focus sull’architettura statunitense. Solo quattro selezioni europee: Gropius, Bakema e Van den Broek, Stirling e Le Corbusier. Otto autori e temi americani: Belluschi, i Grattacieli di Chicago, 100 anni di architettura a Chicago, i Five Architects, Kahn, Soleri, Wright, Catalano. Appendici fuori programma con Marcel Breuer nel 1981 e Richard Meyer nel 1991. Ritornando al programma principale, due classici obbligati, Wright e Le Corbusier, molto bene organizzati, mostre che a definirle storiche nulla si concedeva all’enfasi. Per l’altro deuteragonista del movimento moderno, Gropius, un’antologica confezionata dal TAC negli Stati Uniti, diffusa in Europa dal Bauhaus-Archiv di Berlino che qui approdava anche grazie al Goethe-Institut di Napoli, filiere virtuose oggi impensabili. I Five: qui a Napoli si ebbe la loro definitiva consacrazione internazionale dopo l’esordio al MoMa nel 1969; fu la rassegna con il più alto potenziale critico di tutto il programma, con il saggio di Tafuri a suggellare una scelta felicissima. Louis Kahn: seguiva di qualche mese i Five; sembravano autori antitetici ma Tafuri prima e Zevi poi dimostravano analogie e legami che essi intrattenevano con la modernità, raffinatamente ambigui in entrambi i casi. Bakema e Van den Broek: notissimi in Olanda, noti all’estero, necessità di far conoscere anche in Italia l’alto livello qualitativo d’una tradizione nazionale che da Berlage trasmigrava in Dudok, Oud, Rietveld, van Eesteren. Stirling, ovvero, il lato (convenzionalmente) amabile e spettacolare dell’architettura: veniva proposto al momento giusto per diradare incipienti crisi di identità della disciplina e frustrazioni provenienti dal New Brutalism; la qualità dei progetti e la simpatia umana dell’architetto garantivano successo critico e di pubblico all’abilissimo “form-givers”. Due mostre su Chicago, la città che aveva dato i natali alla modernità statunitense, anche con i

grattacieli: dal primo Leiter Building (1879) di William Le Baron Jenney (demolito nel 1972) alla serie progettata dal SOM (Skidmore, Owings & Merrill) dal 1965 al 1974. Infine, due architetti apparentemente sotto misura rispetto all’alto livello della rassegna: Pietro Belluschi e Eduardo Catalano; si rivelarono invece due scoperte, con architetture rigorose nell’impianto e di grande professionalità esecutivo-gestionale; dai loro curricula apprendevamo con favore che negli Stati Uniti prima ci si affermava come bravi architetti e poi si veniva chiamati a insegnare e dirigere prestigiose scuole di architettura.

Nel 1991, la chiusura del ciclo con Richard Meier. Mostra a Palazzo Reale inaugurata il 21 giugno. Laurea conferita nello stesso giorno nell’Aula Magna di San Demetrio e Bonifacio dal Preside Uberto Siola e preceduta dalla Laudatio di Renato De Fusco. Catalogo con saggi di Gubitosi e Izzo e intervista a Meier nello studio di New York fatta dai rispettivi figli Alessandro e Ferruccio. Erano passati poco più di tredici anni dalla spettacolare mostra su Le Corbusier del 16-19 marzo 1978 a Palazzo Reale di Napoli. Per significare il livello della manifestazione e per esso, dell’intera rassegna promossa da Gubitosi e Izzo, è opportuno riportare per intero l’elenco dei partecipanti: Charlotte Perriand, José Oubrerie, Bruno Zevi, André Wogenscky, Stanislaus Von Moos, Joseph Rykwert, Agnoldomenico Pica, Manfredo Tafuri, Giuseppe Samonà, Renato De Fusco, Cesare de Seta, Paolo Portoghesi, Filippo Alison, Giuliano Gresleri, Dario Matteoni, Massimo Nunziata, Roberto Mango, Aldo Loris Rossi, Mimita Lamberti, Marina Causa Picone. Non solo per Le Corbusier ma per tutti gli altri protagonisti delle mostre, per davvero Napoli era stata per quattro anni l’agorà della cultura internazionale.

Cataloghi e libro: un importante lascito storiografico

I dieci cataloghi delle mostre rappresentano un capitolo pregiato della storiografia italiana sul movimento moderno. Vediamone in sintesi le parti meritevoli di citazioni, a partire dagli interventi introduttivi di Gubitosi e Izzo e nei saggi degli studiosi chiamati di volta in volta a commentare la rassegna. Una sequenza che non sia semplicemente cronologica può prevedere dappri-

ma quelle mostre che sono state un classico della storiografia del Movimento Moderno, ovvero i maestri, a seguire quelle esemplari d’un modo di declinare sempre il moderno e infine la assoluta novità che s’è rivelata tale negli anni a seguire, i Five Architects.

Wright e Le Corbusier, i maestri. Per la grande mostra di Wright, una breve Introduzione dei curatori ma un imponente lavoro preparatorio per l’ordinamento scientifico dei materiali. Rassegna di circa trecento disegni, selezionati e fotografati a Taliesin. Per la mostra veneziana del 1951, Ragghianti si augurava che la raccolta dei disegni del maestro americano potesse essere stampata e divenire una sorta di De vulgari eloquio dell’architettura moderna. Con giustificato orgoglio, i curatori ritengono che l’invito di Ragghianti sia stato raccolto. Ancora un saggio di ottima fattura di Angrisani che mostra specifica conoscenza anche dell’architettura di Wright.

Le Corbusier chiude il ciclo con il dispiegamento delle personalità culturali in precedenza elencate, adeguate alla statura del maestro. Catalogo in due volumi per Officina, il primo di disegni, il secondo di saggi, l’uno e l’altro introdotti dai due curatori. Mostra di disegni, circa cinquecento con centoquattordici originali e modelli concessi dalla Fondazione. Mostra di architettura con 50 progetti, precisano Gubitosi e Izzo, a differenza della rassegna fiorentina del 1963 incentrata sul Le Corbusier pittore, scultore, decoratore e con poche opere architettoniche paradigmatiche. Per la mostra di Napoli, inediti e importanti contributi di Roberto Mango sull’opera pittorica del maestro, di Filippo Alison sugli arredi, di Aldo Loris Rossi sui plastici decostruibili. Nel secondo volume del catalogo, oltre ai curatori, presenza di Angrisani, Mango, D’Auria, Rossi, Belfiore e Gravagnuolo.

Per le declinazioni del moderno, si prende l’abbrivio dalla evoluzione dei grattacieli di Chicago. Concordanza di giudizio quasi totale tra il breve saggio introduttivo di Manieri-Elia e quello più articolato di Gubitosi e Izzo: il grattacielo s’è rivelata una tipologia incapace di costruire una qualsiasi forma della città e ora tende solo a conseguire primati verticali. E Manieri-Elia, con felice sintesi, osserva che l’assurda logica del grattacielo in regime capitalistico gli impone di crescere sempre più per allontanarsi dalla città che lo soffoca proprio mentre, crescendo, sof-

foca sempre di più la città. La vecchia Europa impartisce in questa occasione – avendone titolo – una lezione d’architettura e d’urbanistica alla cultura americana. Appena qualche anno ancora però e anche le maggiori capitali europee si popoleranno di grattacieli che, per riprendere un’ironica definizione sempre di Manieri-Elia, sono i moderni, giganteschi obelischi su cui installare l’antenna della televisione.

A seguire, due modi di intendere il progetto molto distanti linguisticamente. Dapprima Stirling. Ampio inquadramento storico e puntuale lettura “compositiva” delle sue opere. Si conferma la sua natura di autore di bricolage storicistici che attingono alla tradizione del nuovo, dal protorazionalismo al decostruttivismo russo. Ne ha parlato per primo De Fusco nella sua Storia per Laterza, Gubitosi e Izzo confermano e sviluppano questa tesi. Lo stesso De Fusco propone poi una lettura semantica di Stirling. È basata su due invarianti: conferire il massimo di identità ad ogni elemento della composizione; scegliere e accostare fattori recuperati dal binomio passato-futuro, ovvero, storia-utopia. La storicità dialettica di Stirling è invece trattata da de Seta. Sono tre i punti fondamentali del suo metodo di progettazione: la ricerca topologica che conforma le parti dell’edificio al topos; il medievalismo empirico rivisitato con morrisiana nostalgia; l’“aggressività tecnologica”, espressione che rinvia al ruolo prioritario delle strutture, come nella Facoltà di Storia di Cambridge. Angrisani infine propone uno Stirling visto dall’Italia. Lo scritto denota una buona conoscenza della situazione inglese da parte dell’autore. Sua l’osservazione critica più centrata: siamo sicuri che la “carta figurativa, linguistica”, che Stirling si gioca sia quella più giusta nel momento in cui sembra prevalere la ferrea logica dell’operatività tecnologica di massa? Poi, Van den Broek e Bakema. In Italia ci sono stati già importanti saggi e testi sull’architettura olandese del Novecento scritti da Argan, Zevi, Canella. Si parte da questi per disegnare il contesto dentro cui esordiscono i due autori, illustrati con un completo ragguaglio antologico. L’Olanda significa per l’Europa architettura civile, esemplare governo del territorio, misura appropriata di spazi. La mostra conferma questo carattere, il saggio lo spiega con chiarezza. In filigrana, si adombra un impari confronto con la situazione italiana, competi-

tiva e vincente su altri piani, soccombente su quelli citati che segnano l’architettura olandese.

Chiudono l’antologia del moderno Belluschi e Catalano. Si comincia con il primo e con un istruttivo confronto tra la nota scritta da Zevi per la settimanale rubrica su «l’Espresso» e l’introduzione al catalogo. Evidente l’imbarazzo di Zevi nel parlare d’un architetto che produce architettura (production architect) più che d’un artista (designer architect), un consulting che rinunzia al “segno personalizzato” per la grande quantità d’incarichi cui deve far fronte. In ogni caso, viene riconosciuto un “altissimo rigore professionale” all’insieme della sua opera. Nessun imbarazzo invece per i due curatori che evitano opportunamente il terreno scivoloso della componente artistica e riconoscono a Belluschi il ruolo di innovativo sperimentatore del lavoro di gruppo. Per entrambi, Belluschi interpreta “la prima figura di architetto della società post-industriale”. Segue Catalano, con Belluschi altro prestigioso outsider del ciclo di mostre, ma è personalità progettuale molto diversa, spaziando dall’urbanistica allo studio di complesse coperture con paraboloidi iperbolici. Esauriente ricognizione storico-critica dei due curatori che riconoscono all’architetto argentino ottime capacità di sperimentatore. Viene riportata una singolare profezia di Catalano sul ritorno in architettura della morality e della rationality e, con esse, della “semplicità, della purezza e dell’umiltà”. I decenni che seguiranno però, saranno quelli del postmodernismo e dell’edonismo.

La novità critica, i Five Architects. Tafuri si prende totalmente lo spazio storico-critico della rassegna. Argomenti e personaggi troppo stimolanti, intellettualmente, per condividerli con altri. Il titolo del suo saggio Les bijoux indiscrets, cita testualmente il primo romanzo di Denis Diderot, promette (e mantiene la promessa) pensieri “libertini”. A cominciare dalle riserve sul celebre Complexity and Contradiction di Venturi che ospita, scrive Tafuri, cose risapute da noi europei e proseguendo con Kahn che ha “prodotto una scuola di mistici senza religione da difendere”. Su questo scenario carico di ambiguità e di redenzioni mancate, irrompono i Cinque, gruppo profondamente disomogeneo ma legati dalla “poetica della nostalgia” aperta da Kahn ma di marca europea perché rinvia al Purisme dell’«Esprit Nouveau». Analisi

specifica d’ogni componente il gruppo: favore assegnato, ovviamente, al più intellettuale della compagine, Eisenman e al suo “terrorismo formale”; all’opposto, Hejduk, “il più empirico e il meno intellettualistico”; per Graves, un’immersione delle sue architetture “nello spazio della finzione”; Gwathmey e Meier, personalità “decisamente eccentriche” perché lontane dall’assolutismo linguistico dei primi tre. Chiusura in chiave filosofica con Barthes, preceduto da Colin Rowe che chiama “distese di simulacri” le architetture dei Five e, con piacevole sorpresa, dal nostro Alberto Cuomo, che nelle stesse opere legge una sorta di “coazione a ripetere”. Per Tafuri, saggio impegnativo, ora di fulminante intelligenza ora di più criptiche argomentazioni. In ogni caso, il testo ha costituito magistero nella storiografia dei Five. Che sia stato ideato e redatto per la mostra napoletana, è motivo di compiacimento culturale.

Ritornando all’attualità, gli eventi del 2019 hanno come filo conduttore il corposo libro curato da Castagnaro. Joseph Rykwert parla d’una Napoli che per oltre un decennio mostrò il massimo della modernità internazionale attirando “pellegrini” a migliaia. Renato De Fusco ricostruisce criticamente le tappe della rassegna, da Boston alla chiusura con Le Corbusier. È lui che conia l’espressione di “Napoli agorà per un lustro della cultura architettonica internazionale”. Chi scrive questa nota, chiude il capitolo degli interventi introduttivi con l’inquadramento della rassegna nella cultura architettonica napoletana degli anni Settanta definita “un tuffo nella modernità”. Per il resto, accurata e completa ricognizione del curatore Castagnaro su quel periodo, a partire da un’antologia ragionata della sequenza espositiva, a due interviste per Gubitosi e Izzo, alla selezione dei testi e del materiale iconografico. Nell’autunno, sempre del 2019, ci lasciava Alberto Izzo cui era stato concesso il dono di veder riconosciuto il grande e meritorio lavoro fatto con Camillo Gubitosi molti anni addietro. Opportuno osservare e concludere che quella esperienza relegata per quarant’anni a “titolo di libro” è diventata storia, è riemersa alla nostra coscienza contemporanea non appagata da una certa inconcludenza culturale del presente.

1 A. Castagnaro, Napoli e la cultura architettonica internazionale 1974-1991. Mostre e convegni di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, Clean Edizioni, Napoli 2019. Il libro è stato presentato il 4 giugno 2019 nell’aula Gioffredo di Palazzo Gravina, sede del Dipartimento di Architettura, con la partecipazione di Gaetano Manfredi, Michelangelo Russo, Renata Picone, Fabio Mangone, Leonardo Di Mauro, Carlo De Luca, Nicola Di Battista, Cettina Lenza, Donatella Mazzoleni, Alfredo Buccaro. Il convegno, con lo stesso titolo del libro, s’è svolto il 4 dicembre nella stessa sede con la parte cipazione di Michelangelo Russo, Leonardo Di Mauro, Roberto Vanacore, Vincenzo Corvino, Giovanni Multari, Alberto Calderoni. La mostra, allestita nell’ambulacro della Biblioteca dello stesso Palazzo Gravina con una sele zione dei materiali della rassegna degli anni Settanta, è stata inaugurata nello stesso giorno del convegno e chiusa il 7 gennaio 2020.

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