i colori del ghibli
2013
Mamma editori Òphiere ISBN 9788890938412 1° edizione dicembre 2013 Copyright © 2013 Luciano Aldigeri Òphiere è un marchio Mamma editori via Lupazzano 57 43024 Neviano degli Arduini (PR)
Le immagini di questo libro, copertina compresa, sono fotografie di proprietà di Luciano Aldigeri. Alcune segnalate sono state mutuate da archivi disponibili sul Web.
Finito di stampare nel novembre 2013 presso Mamma editori via Lupazzano 57 43024 Neviano degli Arduini (PR)
Sommario Prefazione.............................................................................................................................................................................. 7 1 La caduta...........................................................................................................................................................................11 2. Piccolo mondo antico...............................................................................................................................15 3. Come eravamo......................................................................................................................................................19 4. Guai, guai, guai.....................................................................................................................................................23 5. Le scuole...........................................................................................................................................................................27 6. Una nuova alba: 1938...........................................................................................................................29 7. Piombo sui sogni: il biennio 1940 - 1941......................................................43 8. L’epopea della sconfitta: 1942...............................................................................................51 9. Lybian boogie-woogie: 1944......................................................................................................77 10. La transizione: il biennio 1945 - 1946............................................................83 11. Italia bel suol d’amore: 1947.............................................................................................87 12. Senza pane: 1948.....................................................................................................................................89 13. Si volta pagina: 1950.........................................................................................................................97 14. Viaggiare nel deserto..........................................................................................................................101 15. Arabi, berberi e nomadi.................................................................................................................105 16. Il pane del padrone ha sette croste..........................................................................113 17. I cento modi per dire “sabbia”............................................................................................115 18. Tripoli anni ‘50................................................................................................................................................121 19. Il meraviglioso nel deserto.......................................................................................................123 20. Lady Be Good: 1955 - 1958.................................................................................................133 21. Castelli di sabbia...........................................................................................................................................137 22. Il ritorno nell’Italia del boom: 1961.....................................................................139 23. I nostri vecchi.....................................................................................................................................................145 24. I veri valori..............................................................................................................................................................155 Appendice L’acqua in Libia.............................................................................................................................................................171 5
Prefazione
C’è una memorialistica in attesa di essere scoperta e valorizzata man mano i tempi del presente rendono quelli passati mondi avulsi immaginifici fino a sembrare favole. Come diversamente definire il mondo parallelo degli Aldigeri: un piccolo popolo annidato nell’Appennino parmense cui mancano solamente case rotonde per sembrare Hobbit tolkieniani? Strappati alla fame fredda del NordItalia con la promessa di quarte sponde, quote novanta e premi per il decimo figlio, impacchettati e consegnati via mare alla fame calda della Libia? È un mondo piccolo piccolo quello disegnato dai supersiti richiudibile in una scatola di datteri di irresistibile esotismo: deserti, dromedari e una signorina. Apri la scatola e ti risuonano nelle orecchie le note della Sagra di Giarabub: Giarabub, Giarabub. Inchiodata sul palmeto veglia immobile la luna a cavallo della luna sta l’antico minareto ...Colonnello, non voglio il pane, dammi il piombo del mio moschetto! .. Giarabub... E in questo mondo, sole radente tra le dune, vedi avanzare un autotreno nel deserto: un gigante della strada a rischio insabbiamenti, tuffi, fesh fesh, ghibli; tutto il meraviglioso in agguato che si può immaginare nel Sahara. E alla guida, tuareg tra i tuareg, ma di più dal momento che trasporta decine di migliaia di litri di liquido infiammabile e non due accidenti di tappeti, c’è lui: un Aldigeri... Tre milioni di
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chilometri di puro deserto in vent’anni. Inarrestabile se non per mano del residuato che fu Gheddafi: velleitario e pettoruto, cacciò migliaia di italiani nel ‘70. Gheddafi che sognò la Sicilia, la Fiat, una squadra di calcio italiana. E dopo aver invaso finalmente un pezzo d’Italia - a Villa Pamphili dove impiantò la tenda nel 2009 - il Rais nel 2011 consumò i suoi passi perduti sulla sommità del Castello Rosso di Tripoli, scena indimenticabile, shakespeariana, il golfo della Sirte come un maelstrom.
Monica Montanari
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Archivio Web
1 La caduta
Il 15 luglio del 1940 il generale Rodolfo Graziani occupò Sollum sulla costa libica della Cirenaica vicino al confine con l’Egitto. Il 9 settembre dello stesso anno scattò la controffensiva che portò gli Inglesi a invadere la Cirenaica intera: cominciarono con la presa di Bardia sul mare proprio sul confine egiziano. Era il 5 gennaio del 1941. Il 21 del mese gli Inglesi erano già a Tobruk, si erano perciò spinti a Ovest in direzione di Tripoli superando Sollum, Derna, la stessa Bengasi e spingendosi infine fino ad Aghelia. Qui però si fermarono: erano arrivati i tedeschi che diedero avvio nell’aprile del 1941 alla controffensiva delle potenze dell’Asse. Il generale tedesco Erwin Rommel attuò uno stratagemma formidabile. Usò camion carichi di motori d’aereo a elica che azionati sollevarono nubi di sabbia inducendo gli Inglesi a credere che un attacco massiccio fosse stato sferrato da parte dell’Asse convincendoli così ad arretrare velocemente per evitare l’accerchiamento. Rommel arrivò in un baleno a El Alamein riconquistando il terreno perduto e risalendo a Est fino al confine egiziano. Nell’autunno tuttavia gli Inglesi restituirono la pariglia e il contrattacco li portò nuovamente a conquistare la linea costiera fino al golfo della Sirte. Sull’avanzata degli Inglesi, io e la mia famiglia fummo costretti a lasciare tutto e a rifugiarci nel villaggio di fondazione fascista Breviglieri prossimo a Tripoli.
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La controffensiva italo-tedesca riprese l’anno successivo nella primavera del 1942 e riportò le potenze dell’Asse a dominare in Cirenaica. L’espansione sulla costa si spinse fino a Tobruk che fu occupata nel giugno in preparazione dello scontro finale con gli inglesi che avevano arrestato la ritirata a El Alamein sul confine egiziano. Il 30 giugno iniziò la grande battaglia. Gli scontri si protrassero per diciassette giorni senza determinare vincitori e vinti. I due schieramenti così rimasero fermi sulle rispettive posizioni per tutta la durata dell’estate. Il 30 agosto partì l’attacco dell’Asse ma gli Italo-Tedeschi non riuscirono a sfondare. A determinare il fallimento fu l’inferiorità nelle dotazioni in armi, mezzi e munizioni e il 2 settembre Rommel ordinò la ritirata e le forze dell’Asse ripiegarono fino a Tobruk. Io Luciano Aldigeri, all’età di 17 anni, mi trovavo là con il camion della ditta a seguire la ritirata italiana. Avevo il cuore a pezzi. Sul fronte di Tobruk alla fine di ottobre tra i soldati c’era ancora speranza che con Rommel e l’Ariete1) avremmo potuto recuperare il terreno perduto. Ma il 3 novembre l’Ariete era ancora in combattimento senza riuscire a determinare l’esito della battaglia. Fu allora che le munizioni terminarono. Solo l’estinguersi delle cartucce indusse i nostri soldati alla resa. Erano i 5000 della Folgore, partiti in 5000 dall’Italia e rimasti in 306. Mentre Rommel riparava in Tunisia, noi civili ci fermammo a Tripoli in attesa per la seconda volta dell’arrivo dell’invasione inglese. Cominciava così l’epopea tragica dei coloni italiani della 1
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La 132aª divisione corazzata “Ariete”: una trentina di carri e circa 600 bersaglieri.
Cirenaica e con essa quella mia e della mia famiglia. Ma a ben vedere tutto aveva avuto inizio assai prima. Nel lontano 1926 infatti ci volevano 150 Lire per acquistare una Sterlina dell’Impero britannico. Un cambio davvero pesante per le finanze statali uscite malconce dalla prima Guerra mondiale e dal lungo periodo di instabilità che ne era seguito. Gli investitori stranieri, tedeschi e francesi soprattutto, sembravano intenzionati a disertare le attività finanziarie nel Belpaese. Mussolini cercò una soluzione e ne escogitò una che aveva nelle intenzioni il vantaggio di stimolare la modernizzazione industriale. Si prefisse di riportare il valore della Lira a un novantesimo di quello della Sterlina. Si trattava di diminuire la quantità di moneta italiana circolante rispetto al monte dei beni e servizi prodotti nel Paese in modo che una Sterlina britannica potesse venire scambiata con 90 Lire italiane e non con le allora correnti 153. Si agì dunque su due fronti: aumentare la produzione con - per esempio - la battaglia del grano, e diminuire la domanda – per esempio – contraendo il credito erogato dagli istituti bancari. Era la campagna che passò sotto il nome di “Quota novanta”. Come programmato la manovra favorì l’industria importatrice, beneficiò i detentori di risparmio ma sfavorì grandemente l’agricoltura. La Lira più forte rendeva appetibile l’acquisto di grano sul mercato estero per esempio mettendo in difficoltà la produzione nazionale: abbassando con ciò il prezzo del grano e i salari. Ma anche a livello della piccola economia della famiglia contadina fu un disastro. Nel giro di pochi mesi non c’erano più soldi in giro. Le affittanze nominali restavano
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le stesse – il dare del contadino - mentre il prezzo spuntato per la vendita dei prodotti agricoli si era improvvisamente abbassato. Era la politica deflattiva che metteva in ginocchio coloro che non potevano vendere all’estero i loro prodotti. Se con una mucca prima si poteva pagare un tal debito, di punto in bianco ce ne vollero due. Si pensi che in conseguenza della campagna deflattiva il valore della Lira passò dall’agosto del 1926 (lancio della Quota novanta nel discorso di Benito Mussolini a Pesaro) al giugno del 1927, da quota 153 a quota 88. La Quota novanta era stata raggiunta. In questa situazione mio nonno si trovò ad aver avallato cambiali di persone ritenute serie, oneste e affidabili. Quando queste però non riuscirono a onorare i propri debiti i creditori vollero rifarsi sulle garanzie offerte dalla mia famiglia. Ci trovammo inoltre a fronteggiare anche un vecchio debito contratto per la costruzione di una nuova stalla e di un nuovo fienile. Fatto sta che per pagare fu necessario vendere l’intera proprietà: era il 1932. Venne alienato tutto, anche la casa padronale in cui io ero nato pochi anni prima: il 22 novembre del 1924.
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2. Piccolo mondo antico
Ricordo molto bene il tenore della nostra vita fino a quel fatidico 1932. Eravamo contadini ma avevamo vezzi signorili: avevamo cavallo e calesse e il 15 d’agosto per la festa dell’Assunzione gli Aldigeri si sedevano alla tavolata delle autorità del Comune con tutte le persone che contavano. Nonno Antonio era una persona molto rispettata e di grande onestà mentre mio padre era segretario politico del Partito Nazionale Fascista. Con la vendita della casa padronale nel 1932 si spezzò tuttavia il legame tra gli Aldigeri e la loro terra. Un legame mai interrotto a partire dal quattordicesimo secolo, età in cui alcune registrazioni documentano la presenza del nostro capostipite a Sasso di Neviano degli Arduini sull’Appennino parmigiano. Un certo Adegeriis, comparve a Sasso il 25 maggio 1308: Jacopo di Albertino sposava infatti una ragazza di Costola Scurano ricevendo una ricca dote. Del resto la nostra casa era ornata da un camino in stile rinascimentale, ora conservato al museo Civico Medioevale di Bologna assieme a una lapide trovata sotto la Pieve di Sasso e riportante lo stemma degli Aldigeri. Nella chiesa di San Francesco del Prato in Parma costruita nel 1200 c’è una cappella dove sono dipinte la armi gentilizie della nobile famiglia Aldigeri e infine sulla volta del battistero di Parma nella fascia che rappresenta la vita di San Giovanni Battista si trova dipinto sullo scudo di due soldati lo stemma contraddistinto da tre fasce azzurre su fondo d’argento: lo stemma di Ro-
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lando Aldigeri vivente nel 1280 quando fu costruita la volta. A tratteggiare la nostra storia di famiglia fu lo studioso sacerdote N. Pelicelli, il quale nel 1921 fece stampare dall’editore Zaferri di Parma il saggio dal titolo: Dante. Gli Aldighieri di Parma - Antonio Pelacani - Bartolo-Meo da Parma - Asdente e l’Arciv. Bonifazio. Era una cronistoria del paese dal 1280 al 1921 e l’autore fece dono di un volume a mio nonno per ricompensarlo dell’ospitalità ricevuta durante le ricerche in loco.
Lo stemma degli Aldighieri Il nostro capostipite era dunque un appartenente ai nobili casati parmigiani e sebbene gli Aldigeri vissero nei secoli sempre
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come contadini lo fecero costantemente con un piglio di nobiltà . Sebbene giungessimo a essere famiglie di moltissimi componenti - anche 17 - ;a condividere il pane e la fatica della terra, si tramandava di generazione in generazione la raccomandazione che anche a noi nostro padre ripeteva: mai mancarci di rispetto o usare parole sconvenienti. Sebbene fossimo tanti fratelli tra noi non ci fu mai uno sgarbo e ancora oggi ci vogliamo tutti bene. Di dieci fratelli che eravamo siamo oggi rimasti in sette tutti in discreta salute: la seconda nata ha 92 anni e io che mi dedico a narrare qualcosa della mia esistenza cammino verso gli 89. Tutti noi siamo infine riusciti a risollevarci dal tonfo che ci aveva precipitati nel baratro della miseria assoluta. Oggi ognuno di noi può dire di vivere nella propria casa.
Mia sorella Wanda negli anni ‘60
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Noi fratelli Aldigeri
In piedi Ferrante e Otello In ginocchio Vittorio, Luciano e Marco In primo piano Luigi
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3. Come eravamo
La vita di allora è ferma per sempre nella mia memoria. L’inverno trascorso nella stalla riscaldata dalle mucche, con le donne a fare calze e gli uomini a fabbricare scope altri oggetti utili. Non si poteva restare con le mani in mano e mentre queste si muovevano alacri, le labbra sciorinavano racconti. Quello che mi entusiasmava era “Il mago dalle sette teste”. Erano in tanti a venire “in vegia” alla nostra stalla e noi ascoltavamo storie di guerra che ci appassionavano se contenevano qualche azione eroica, o sonetti di qualche poeta dialettale, canzonature su persone conosciute che davano lo spunto ai buontemponi per rime inoffensive che oggi non si usano più. Ospite fisso d’inverno era un personaggio che veniva da fuori. Il suo saluto, all’arrivo era il seguente: «Signori della corte e del cortile, a voi lo “scranaio” (colui che ricopriva le scranne ossia le sedie). Veniva da Belluno e si presentava anche con un saluto alternativo: «Lodovico dolce come un fico, eccomi qua» e lo diceva in musica, cantando. E Lodovico era il suo nome. A noi ragazzi raccontava storie bellissime. Saranno state anche inventate ma noi eravamo contenti di conoscere vicende tanto strane e lontane. Mia nonna era specializzata in storie misteriose che mi rivelava nell’accompagnarla a pascolare nei boschi. Avevamo un bel paio di mucche e le conducevamo dove l’erba era più fresca e priva della “medica” che avrebbe rischiato di gonfiare a
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dismisura il loro ventre fino a farle scoppiare. E se le mucche sconfinavano ero io a doverle andare a prendere! Anzi, si diceva “andarle a girare�, a indicare che dovevo dirigerle di nuovo verso il bosco.
I boschi del mio paese
(Fotografia di Elio Grossi, corrispondente della Gazzetta di Parma)
Anche la scrofa veniva condotta al pascolo al tempo delle ghiande. Io spesso portavo al pascolo il sillabario ma non riuscivo nemmeno ad aprirlo. La nonna infatti era diventata gobba e non riusciva piĂš a correre quando i tafani attaccavano le mucche e queste come impazzite si rifugiavano nel fitto del bosco. Anche in quella circostanza stava a me il compito di riportarle.
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Quanto tutto però era calmo lei mi raccontava dei tempi in cui era giovane e coraggiosa. Di quando per esempio, presa a cornate da un montone si difendeva prendendogli le corna e trascinandolo per metri. La sua famiglia poteva permettersi di tenere pecore da tosare a far lana e lei, unica figlia femmina, ricevette un telaio e apprese l’arte delle tessitura. Così in dote sposandosi portò molta biancheria: lenzuola di canapa, copriletti e asciugamani alquanto ruvidi e fastidiosi. Ricordo che si trattava di lunghe strisce cucite e unite tra loro.
Antonio Aldigeri e Angelina Biavardi Il papà e la mamma di mio padre
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La casa degli Aldigeri a Sasso
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4. Guai, guai, guai
Torniamo dunque a quel 1932 in cui tutto successe: dopo la vendita della proprietà mio padre con mia madre e noi figli dovette trasferirsi. Traslocammo in una villa di nuova costruzione che prendemmo in affitto a Ceretolo. Mio padre si diede a commerciare ortaggi e con carretto e cavallo cominciò una nuova attività di ortolano che però non tardò a rivelarsi insufficiente a mantenere tutti noi. Vendette allora il vendibile e decise di acquistare una vacca. In capo a due anni non ci fu più né vacca né villa che perdemmo per l’indisponibilità di denaro sufficiente a mantenerne l’affitto. Ci trasferimmo allora questa volta in un’abitazione di molto minori pretese in una casa detta “Bosco” per il fatto di trovarsi isolata nella selva. Qui il pane ci venne a mancare e la scarsità divenne fame, vera fame... Mia madre fu costretta a fare la stagione da mondina nelle risaie del Piemonte, la nostra sorella maggiore fu mandata a Milano a servizio dai signori e se mangiavamo era anche grazie a parte dei soldi del suo stipendio. Mio padre infine si prestava a fare il bracciante quando ne trovava occasione. Abituato com’era a comandare il garzone, si capisce quanto amaro dovette sembrargli il pane guadagnato in quel modo. Allora eravamo ancora “solo” sei fratelli. Una sorella a soli 15 anni di età si trovò di punto in bianco a dover andare a servizio
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fino in Corsica. Quella destinazione tanto lontana ancora solleva i dubbi che già allora bambino mi tormentarono. Perché mai mia sorella doveva andare così lontano? Non poteva andare a Milano dove andavano tutte allora per emanciparsi dalla campagna e imparare il decoro della vita cittadina? Sì, in Corsica c’era la zia Caterina a servizio presso una famiglia benestante che certo avrebbe potuto avvalersi di un qualsiasi garzone per eventuali necessità o di una ragazza del posto per un aiuto nella cura dei figli, tuttavia proprio per quest’ultima mansione mia sorella venne appunto proposta. Ma non durò: dopo un mese mio padre andò a riprenderla. Era il 1930.
Mia sorella Elena
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Io frequentavo la terza elementare nel paese di Mediano distante ben tre chilometri dalla scuola, chilometri da percorrere ogni giorno a piedi all’andata e al ritorno. In inverno le gambe affondavano nella neve che circondava la casa e copriva il sottobosco dove lo spartineve non si sognava certo di spingersi. Poi con l’aiuto di gente del posto e di buon cuore fu possibile spalare un sentiero che ci permettesse di transitare. Quell’isolamento e quegli stenti durarono solamente un anno perché il successivo ci trasferimmo a Mediano paese. Qui le cose migliorarono perché mio padre ottenne di lavorare come “stradino”. I soldi non erano molti ma grazie al Cielo il cibo non mancava più come prima. Nel frattempo era nata un’altra sorellina e forse mio padre mirava ad aggiudicarsi il premio promesso dal Duce a coloro che avrebbero messo al mondo almeno dieci figli. I dieci figli arrivarono ma il premio no. Nemmeno l’ombra. Il decimo figlio arrivò infatti troppo tardi quando le sorti del fascismo e dell’Impero erano ormai segnate.
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“La nostra casa era ornata da un camino in stile rinascimentale�
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5. Le scuole
Io fui promosso in quarta elementare e mio padre mi sostenne nel desiderio di proseguire gli studi. Bisogna sapere che allora nelle frazioni e nei paesini minori non vi erano classi superiori alla terza elementare e io per continuare a imparare dovevo affrontare grandi distanze. Infatti si decise che mi sarei iscritto alla scuola elementare di Vetto d’Enza, un paese a circa sette chilometri di distanza per di più gravati da precipitose discese e risalite. La valle dell’Enza separava infatti i nostri monti da quelli dove si trovava la nuova scuola. Avrei dovuto affrontare il percorso in bicicletta e con me il mio compagno Mario. Le biciclette erano grandi, da uomo. Mario più alto di me ce la faceva bene, io invece dovevo infilare una gamba sotto la canna per riuscire a pedalare. Malgrado i disagi che d’inverno furono davvero gravi fummo entrambi promossi in quinta elementare. Il problema di scegliere se proseguire gli studi o rinunciare si poneva di nuovo. Mia madre preoccupata per la fatica che mi sobbarcavo era contraria, mio padre invece mi spronava. Mario rinunciò. Fu allora che un mio cugino di Magrignano, Lettorino, si iscrisse alla quinta elementare nel paese sede del nostro municipio: Neviano degli Arduini. Io presi coraggio e mi iscrissi con la prospettiva di affrontare quotidianamente i miei dieci chilometri di andata e ai miei dieci chilometri di ritorno. E tuttavia mi aspettava una sorpresa. Ricordo ancora la gioia che provai un giorno nel vedere sopraggiungere mio padre in
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sella a una bicicletta da ragazzo «Questa è tua - mi disse -, per andare a scuola».... Il ricordo mi commuove anche ora alla soglia dei novant’anni. Per procurarmi la bicicletta che mi avrebbe permesso di continuare a studiare mio padre inforcò la sua bicicletta grande praticamente l’unico mezzo di trasporto dell’intera famiglia - e si diresse a San Polo d’Enza. Qui la barattò. Cedette la sua in cambio di una due ruote della mia misura. Come se non bastasse, ritornò a casa, a Mediano, facendosi 25 chilometri di salita e di contorsioni a cavallo di questa biciclettina che per giunta era a ruota fissa2). Certo mio padre era un uomo per il quale nulla sembrava impossibile. Vi assicuro che è così. Grazie ancora babbo. Devo dire che gli resi merito per tanto sforzo con una promozione che anche a me costò grandissima fatica. La scuola era lontana e qua sulle pendici dell’Appennino molte le giornate di pioggia, di neve, di freddo da affrontare con indumenti di risulta, perennemente inadeguati.
2 Vale a dire con trasmissione diretta tra pedali e ruota posteriore. Era il tipo di bicicletta più antico e semplice che non permetteva né di smettere di pedalare né di muovere i pedali all’indietro.
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6. Una nuova alba: 1938
Durante quell’estate del 1938 un semplice annuncio ci avrebbe cambiato la vita. Il Comune chiamò mio babbo e gli comunicò che vi erano dei bandi per coloro che desideravano emigrare. Vi erano due alternative tra cui scegliere per chi si volesse candidare all’importante missione di colono. Una destinazione si trovava nel Lazio, nell’Agro pontino a Latina. L’altra era in Libia. Era una nuova speranza, un’opportunità e sulla scelta di emigrare mio padre stette poco a riflettere. Tra le due località, soppesati i pro e i contro, finì per scartare il Lazio seppur fosse una scelta di minor impegno. Le zanzare infestavano le paludi pontine e la malaria seminava morte in quelle lande dimenticate da Dio; babbo perciò scelse la Libia. Tanto meravigliosa fu questa scelta all’inizio della nostra permanenza, tanto triste fu al momento in cui fummo costretti ad abbandonare la Libia. Ma andiamo per ordine. Il giorno della partenza noi fratelli eravamo in divisa da Balilla, Giovane fascista e Piccola Italiana, come tutti i ragazzi diretti alle colonie. Ci vennero a prelevare in auto fino al paese e fummo ospitati a Parma città in albergo, tutto spesato, dal mangiare al dormire. L’indomani era fissata la partenza per Genova dove il 28 ottobre del 1938 (anniversario della Marcia su Roma) ci attendeva l’imbarco per l’Africa.
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Noi parmensi fummo imbarcati sul piroscafo Lombardia, eravamo in undici famiglie parmigiane e tutte con destinazione “Cirenaica”. Per noi fratelli fu una cosa meravigliosa. Non avevamo mai visto il mare e tanto meno avevamo visto una nave, né in transito né da vicino e tanto meno standoci sopra! Ricordo la superficie cobalto del mare come il sogno di un Paradiso promesso e non più irraggiungibile. Le frange argentate delle increspature a perdita d’occhio, il rumore ritmico e cantato dello sciabordio, l’odore salmastro che per sempre avrei associato alla libertà. La linea dell’orizzonte ricca di promesse di un domani migliore. Eppure non mancò il nostro giorno di burrasca, con onde che sferzavano la fiancata dello scafo e il cavalcare scomposto della nave. Molte persone stavano male ma per me quel mare impetuoso era bello ugualmente, forse di più. Il 2 novembre sbarcammo a Tripoli accolti da una grande festa per tutti. Italo Balbo Governatore della Libia, assieme a tutte le autorità ci diede il benvenuto in Piazza Castello. Poi terminata che fu la cerimonia e sciolta che fu l’adunata, fummo liberi di girovagare per visitare la città. Potemmo entrare in un locale adibito a bar per rifocillarci: era tutto pagato per noi i coloni della Libia. Quella stessa sera, noi coloni destinati alla Cirenaica ci imbarcammo nuovamente su una nave che bordeggiando le coste libiche ci condusse fino a Bengasi. Qui, ad attenderci trovammo un automezzo militare che ci avrebbe condotto al nostro villaggio.
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Navi recanti nomi di regione sbarcano nel porto di Tripoli I ventimila coloni in arrivo in Libia nel 1938 (Foto da archivio WEB)
Il nome del villaggio avrebbe potuto essere considerato poco promettente se non se ne fosse colto immediatamente il riferimento al valente eroe dell’aria Francesco Baracca3). L’insediamento si chiamava appunto “Baracca”. Arrivammo a sera inoltrata e devo dire che a prima vista il posto non faceva un’impressione memorabile con le macerie che attorniavano alcuni edifici. Indimenticabile però fu la nostra meraviglia nello scoprire entrando nell’alloggio assegnatoci che tutto vi era ciò che sarebbe occorso al campare di una famiglia.
3 Francesco Baracca perì nel 1918 al termine della Prima guerra mondiale, abbattuto durante il sorvolo delle trincee austro-ungariche.
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Perfino i fiammiferi. C’era solo da strofinare lo zolfanello per accendere il lume, far divampare la fiamma del focolare e scaldare la pentola per far bollire l’acqua e cucinare la pasta.
Consegna delle chiavi di una casa con podere
Una famiglia di coloni in un centro rurale di fondazione in Tripolitania (Foto da archivio WEB)
C’era un sacco di farina pronta per il pane da impastare l’indomani. La casa era composta da sala e cucina in un locale unico con camino dotato da due fornelli laterali a carbone. C’erano tre camere da letto, il forno esterno per fare il pane, una grande cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. Poi c’era la stalla con annesso il gabinetto alla turca.
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E sorse l’alba del primo giorno nella nostra nuova casa. Tutti insieme compresi babbo e mamma andammo a fare un sopralluogo per vedere ciò che ci aspettava e cosa ci era stato dato per affrontare l’impresa4). Nel vedere il terreno pianeggiante capimmo subito come contadini che non doveva essere difficile organizzarsi; certo però mancava tutto. Stavamo appunto elencando ciò che ci sarebbe stato di bisogno quando passò il capozona e ci informò che ci avrebbero dotato del necessario.
Baracca 1939 - Papà, mamma e la mia sorellina Wanda
4 Nel 1938 in Libia arrivarono 20.000 italiani che presero alloggio nei 26 villaggi agricoli fondati dal Governo italiano. Ogni villaggio era dotato di chiesa, posta, casa del Fascio, municipio e mercato. Il villaggio di Baracca nella provincia di Bengasi era abitato nel 1939 da 1950 italiani circa. Si trovava su territorio pianeggiante, 80 chilometri a Est di Bengasi.
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Nei primi tempi in attesa delle piogge, l’acqua ci sarebbe stata fornita in damigiane e portata da un’autobotte. Poi quando fosse piovuto, le precipitazioni raccolte dalla terrazza della casa si sarebbero cumulate in una piccola cisterna e da qui attraverso un filtro a carbone si sarebbero convogliate nella grande. Ci fornirono di tutto: gli attrezzi di lavoro più un cavallo con tanto di carretto. Certo i cavalli non erano adusi al traino ma il babbo che aveva dimestichezza con la doma poteva sperare di instradare l’animale e legarlo al carro. Ci fu affidato anche del bestiame: due vacche maremmane e una vacca araba per il latte. Come prima cosa ci fu chiara l’incombenza di disboscare il podere. Se ne incaricarono i più forti di noi: mamma, papà e Vittorio. Noi più piccoli ci incaricavamo invece di raccogliere la legna minuta e di portarla in casa. Fortunatamente non si aveva da affrontare la boscaglia o peggio una foresta. Nel nostro podere di alberi non ce n’erano. Il terreno era cosparso di bassa macchia mediterranea5) e noi dovevamo prepararlo per la semina. Alla sera, a tavola, nostro padre ci teneva informati sul programma di lavoro, i progressi fatti e ciò che andava organizzato per l’immediato futuro. Il podere aveva più o meno 50 ettari, in gran parte bosco, e presto si sarebbe rivelato dotato di terra fertilissima e clima meraviglioso nonché allietato da una straordinaria abbondanza di selvaggina.
5 La zona del villaggio Baracca è quella della municipalità di Barce sulle prime propaggini del Gebel (Montagna verde) l’altipiano connotato dalle maggiori precipitazioni della Libia.
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Nel podere c’era infatti un laghetto permanente con la presenza di anitre, pernici, pivieri, allodole, falchi reali e tanti altri uccelli. Mio padre gran cacciatore mi concedeva a volte di usare il suo fucile da caccia all’interno del podere. C’era moltissima cacciagione e io mi facevo valere.
Con mia sorella Ivonne a Baracca, 1940 Il Governo passava uno stipendio a ogni famiglia, ai coloni veniva dato un tanto ogni mese; la spesa si faceva alla cooperativa dell’Ente muniti di libretto datario in cui tutto veniva segnato. A fine mese il colono andava a ritirare la sua spettante e contemporaneamente passava alla bottega a saldare il proprio debito. Mia sorella Ivonne intanto aveva cominciato ad andare a servizio a Bengasi e con i soldi che mandava, mio padre co-
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minciò a comperare qualche gallina per fare un buon pollaio, una pecora, un’altra pecora e una capra. Inoltre vi era la possibilità di guadagnare facendo carbone con il legname frutto dei disboscamenti nel podere. In sovrappiù avevamo un ricco pollaio di galline arabe. Certo dovevamo lavorare obbedendo agli ordini degli assistenti. L’impiego dei poderi era minuziosamente pianificato e noi dovemmo subito darci allo scavo degli scassi per i frutteti e dei fossati per i vigneti. Circolavano per le terre molti trattori caterpillar, tanti e con grossi aratri. E poi seminatrici mai viste prima. I raccolti erano favolosi si diceva che un quintale di grano ne fruttava 80.
Aratura di un podere presso Misurata (Foto da archivio WEB)
Il cavallo che l’ente ci aveva consegnato non aveva nulla del cavallo arabo ben noto per l’indole indomita e bizzosa. Era docile e buono come il suo nome “Pronto”. Non si ribellava né rifiutava di tirare il carretto come invece recalcitravano i cavalli
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arabi che non ne volevano sapere. Io con questo cavallino avevo un rapporto speciale. Facevo un po’ come volevo. Pronto pascolava sempre libero, tutto il giorno.
Mio padre Pavel in sella a Pronto al via per la caccia Quando noi avevamo bisogno di lui, ero io che andavo a recuperarlo. Tra me e lui si era stabilita un’intesa molto forte e anche se a quell’epoca non vi diedi molta importanza, dopo invece riflettendo compresi quanto fosse prodigiosa. Mi accadeva di afferrarlo spesso per la coda. Accadeva quando faceva i capricci e cercava di non farsi prendere. Non si dava al galoppo mi sfuggiva solamente quel tanto, ora lo capisco, per giocare un po’ con me. Beh ero davvero un incosciente: dopo averlo afferrato per la coda gli salivo in groppa dalla parte delle zampe posteriori. Sempre che ovviamente trovassi un monticello o un sopralzo da cui balzare per salirgli sopra. Se non trovavo rialzi
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nelle vicinanze, per salire gli prendevo le orecchie, gli tiravo giÚ la testa, gli montavo sul collo e lui mi aiutava a salire. Io ero piccolino e anche Pronto non era molto alto. Una volta che ero in groppa lo guidavo a schiaffetti. Era infatti privo di briglie, morso e paramenti e per indirizzarlo gli davo dei colpetti a lato della testa. Eravamo un ragazzo e un cavallo forse anche lui un po’ cucciolo.
1939 - La famiglia Aldigeri al completo a Baracca Avevo il compito di sorvegliare le pecore e le capre, mansione facile facile tranne quando, per fortuna raramente, all’improvviso si mettevano in marcia muovendosi in una direzione precisa, continuando a muoversi per ore. Non si fermavano certo ma io conoscevo il loro segreto. Andavano controvento nella direzione degli odori che la brezza aveva portato loro. Se non ci fosse stato il mio cavallino per un rapido intervento non so
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come avrei fatto a recuperare gli animali e impedire loro di unirsi a branchi piĂš numerosi di capre e pecore di pastori arabi presso i quali sarebbe stato impossibile recuperarli. Ecco allora che il cavallino era pronto a galoppare e a riportarle a casa.
Baracca 1940 - I primi cavoli e la prima pecora Ci siamo io, Ivonne, Wanda, mamma e un’amichetta
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Quando passò il controllo per accertarsi che i bambini ricevessero la giusta istruzione io potevo far valere il mio diploma di quinta elementare ma le autorità vollero farmi ripetere l’anno. Al termine avrei ricevuto con il tema “il fascismo” il premio speciale di un Diploma di primo grado che mi avrebbe dato il diritto di proseguire gratuitamente gli studi l’anno successivo a Bengasi. Tutto questo se ovviamente non ci fosse stata la guerra a rovinare i nostri sogni. Ricevetti l’istruzione premilitare, così si diceva, per allievi avanguardisti. Era un impegno che si ripeteva tre volte alla settimana. Mi consegnarono un moschetto scarico e la divisa. L’uniforme era proporzionata a un normale allievo avanguardista. La mia statura tuttavia era più piccola e minuta l’ossatura rispetto alla media e temevo davvero che avrei sfigurato. Che bel fantoccio rischiavo di essere! E invece, di lì a un mese divenni capo avanguardista con il compito di insegnare alla mia squadra le regole e come marciare. Insomma dovevo comandare. Arrivò il giorno in cui il Federale fece visita al villaggio con tutte le autorità. Dovettero sfilare prima i balilla, poi gli avanguardisti e poi i Giovani Fascisti. Malgrado fossi diventato tanto bravo durante il corso, l’emozione mi giocò un brutto tiro e combinai un bel patatrac che scatenò l’ilarità dei presenti: qualche gustosa risata. Il sentimento nazionale era alto soprattutto tra noi giovani che crescevamo nel mito del Duce che a noi coloni della Libia aveva promesso grandi cose. “Mangerete con le posate d’oro” aveva detto “perché farete ritornare la Libia ad essere il granaio d’Europa”. Purtroppo come andò è storia. Ci imbarcammo in una guerra non sentita e malamente persa.
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Dal 1938 fino allo scoppio della guerra fu però un periodo meraviglioso, trascorremmo quello che sarebbe restato nella nostra mente come un sogno irripetibile.
A Baracca con il cavallo “Pronto�
Stiamo per portare mio fratello che era stato richiamato
Cirenaica 1939 - Villaggio Baracca
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Archivio Web Treccani
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7. Piombo sui sogni: il biennio 1940 - 1941
In capo a nemmeno due anni tutto finì. Subimmo tre invasioni noi della Cirenaica. Dal 1940 al 1942 fu un lungo periodo di ritirate e avanzate degli eserciti dell’Asse contro quelli degli Alleati. Man mano che gli eserciti a protezione degli insediamenti coloniali si trovavano in difficoltà noi dovevamo fronteggiare le razzie che i Senussi tentavano a spese delle nostre greggi e dei nostri armenti. Gli arabi cercavano di appropriarsi delle pecore e di altro bestiame in possesso dei coloni italiani della Cirenaica. A volte si arrivava alle armi e negli scambi di fucilate tra i coloni ci fu anche qualche morto. Alla fine dovemmo lasciare la nostra casa e fu davvero un grande dispiacere ma alla prima invasione resistemmo, tenemmo duro. Era il febbraio del 1941. Gli inglesi ci obbligarono a dare ospitalità a 10 militari australiani comandati da un tenente. Qui devo dire qualcosa in loro favore. Tennero un comportamento molto rispettoso nei nostri confronti. Il Tenente si tratteneva spesso a mangiare da noi. Il problema vero era la lingua. Sia mio padre, sia il Soligoni che era nostro ospite, sia il Tenente qualcosa di francese sapevano e un giorno costui arrivò con un albo e dei dischi. Erano tutti discorsi del Duce e assieme li ascoltammo con grande piacere che sembrava coinvolgere anche il Tenente. Si trattennero per una decina di giorni poi ripartirono. Quanto a me avevo avuto modo di toccare con mano dei fatti che in seguito mi avrebbero fornito una spiegazione degli eventi. Prima di tutto vidi che
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i militari delle forze alleate facevano cinque pasti al giorno anche in guerra. Facevano fermare la colonna per prendere tè e biscotti, cioccolata e margarina. Tutto questo ai nostri soldati mancava, come mancava l’equipaggiamento ricco che avevano gli alleati per difendersi dal freddo delle notti nel deserto. Intanto alcuni arabi cercavano di approfittare della condizione di debolezza in cui eravamo caduti noi coloni non più protetti dall’esercito del nostro Paese. Noi ragazzi trovammo in una cava di pietra un deposito di armi. Ognuno di noi prese un moschetto con molte cartucce. Con esso tentai di cacciare presso il nostro laghetto ma i risultati furono scarsi e dovetti continuare a servirmi del fucile da caccia di babbo quando me lo permetteva. Il moschetto e il fucile ci davano una certa sicurezza; sapendoci armati gli arabi dovevano pensarci bene prima di venire a rubare bestiame. La camera da letto dei miei genitori, confinava con la stalla. Mio padre fece un buco nella parete dal quale poteva osservare, senza esser visto, e controllare se vi fossero intrusi ed eventualmente sparare per metterli in fuga. Difatti un tentativo di furto vi fu ma babbo appostato rispose con due colpi sparati in aria e il tentativo non si ripeté. Bisogna ammettere che comunque l’Ente per la colonizzazione funzionava normalmente e il ritorno dei nostri che avevano ricacciato in Egitto l’invasore inglese ci risollevò il morale. Era il 5 aprile 1941. Si ricominciò a lavorare con molto entusiasmo nella certezza che gli inglesi non sarebbero più tornati. Invece non fu così. Alla fine del 1941 le truppe italo‑tedesche arretrarono nuovamente in direzione di Tripoli lasciando terreno libero all’avan-
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zata degli inglesi provenienti dal confine orientale con l’Egitto. Ci sentivamo alla mercé degli arabi e la paura indusse i coloni a non dormire nei poderi ma ad asserragliarsi nel villaggio per potersi difendere meglio e insieme ad eventuali attacchi. Noi avemmo la possibilità di arretrare e ritirarci in Tripolitania e cogliemmo l’occasione. Tutto avvenne grazie a Luciano che sarebbe poi divenuto mio cognato. Era autista e conduceva un autotreno Fiat 34; allora era fidanzato con mia sorella Ivonne e Luciano non volle lasciarla esposta ai rischi dell’invasione così venne a prelevarla e con lei venne a prendere l’intera famiglia per condurci in Tripolitania. Noi ospitavamo in quel periodo due persone sfollate da Bengasi: il Soligoni e il Zandonel, due veneti, il primo titolare di un’impresa di Legname da fornire all’esercito, il secondo capocantiere. Decisero anche loro di lasciare la Cirenaica e venire via con noi. Disponevano di una fornitura di viveri per i taglialegna alle dipendenze del Soligoni e alla sera tutto venne caricato al buio sul camion di Luciano per non attirare l’attenzione degli arabi sulla nostra fuga e su quella montagna di viveri. Eravamo alle prese con il riempimento del camion quando udimmo degli spari. Corremmo all’interno, in casa, per metterci a riparo pronti a rispondere col fuoco all’assalto degli arabi per portarci via la roba. Dopo pochi minuti fu chiaro però che fortunatamente nessuna tentata razzia era in corso ai nostri danni. Purtroppo era stato preso di mira il nostro vicino cui gli arabi stavano tentando di sottrarre una ventina di pecore. Riprendemmo così il nostro lavoro restando più che mai in guardia tutta la notte.
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Al mattino partimmo e fummo ostacolati dal fondo fangoso della carreggiata e dalla pioggia. Mia madre cadde in deliquio tre volte al pensiero di dover lasciare quel paradiso che infatti non avrebbe più dimenticato. Il cammino continuò più pericoloso che mai insidiato com’era dai mitragliamenti continui. La strada che percorrevamo era l’unica disponibile e il traffico era caotico con veicoli che andavano e venivano dalla direzione opposta. Ci davamo il turno per riposare: chi in cabina, chi nel cassone. Finalmente, sul camion di colui che sarebbe diventato il marito di Ivonne, arrivammo al villaggio Breviglieri, a 100 chilometri da Tripoli. Qui il capozona chiamò i capifamiglia del villaggio per comunicare loro la necessità di ospitarci. Ci vennero assegnate due stanze. Una presso la Famiglia Pinotti di Modena e una presso i Cilurzo una famiglia calabrese. Ci sistemammo abbastanza bene perché queste famiglie erano poco numerose. Avevano i figli maschi sotto le armi e in casa era rimasto del posto libero. Noi, dal canto nostro, da Baracca ci eravamo portati brande e materassi, disponevamo di giacigli dove poter dormire comodamente. La situazione non era certo la migliore ma in compenso eravamo per il momento lontani dal fronte e con un tetto sopra la testa. Passò qualche giorno e ci sistemarono poi in un fabbricato chiamato “monopolio” con vasti saloni che servivano per la raccolta del tabacco. Al posto del tabacco andammo noi. Vi erano tuttavia in paese appartamenti vuoti abitati da una sola persona e mio padre non trovò giusta quella nostra sistemazione. Per far
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conoscere a chi di dovere la sua protesta, scrisse sulla facciata dell’edificio la frase “poveri profughi sanzionati”. Non c’era cucina nel fabbricato del monopolio ma in compenso i servizi erano interni e con acqua corrente. Breviglieri era dotato di una chiesa, di un ambulatorio, del dopolavoro, di ufficio postale, di un negozio di generi alimentari e degli uffici dell’Ente per la Colonizzazione. C’era inoltre la scuola e un bar. Tuttavia era un villaggio giovane costellato da alberi di nuovo impianto: soprattutto ulivi ed eucaliptus ma al di fuori di questi nuovi virgulti, ovunque era sabbia. Solo sabbia. Non si intravvedevano boschi all’orizzonte né macchia mediterranea. Le famiglie si riscaldavano con i bracieri, colmi di brace prodotta bruciando sterpaglie e cespuglietti spinosi. Nel territorio di Breviglieri, sparsi intorno al villaggio a distanza variabile da 10 ai 20 chilometri, gruppi di tre o quattro case addossate ospitavano i coloni assegnatari di poderi da coltivare. Questi piccoli agglomerati erano sprovvisti di corrente elettrica e di acqua. Al centro avevano una grande vasca per la raccolta dell’acqua pompata in superficie dall’aeromotore. L’acqua approvvigionata con secchi veniva utilizzata solo a uso domestico e per il bestiame. L’aeromotore veniva azionato dal vento e l’incertezza sulle quantità d’acqua di cui si sarebbe potuto far uso conduceva alla parsimonia evitando l’utilizzo agricolo per irrigazione o anche semplicemente per innaffiature. In questi poderi della Tripolitania arrivarono dalla Cirenaica profughi di ogni tipo. Mi diede un’impressione di grave penuria.
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Maria a 13 anni con la sua famiglia e amici Intanto in quell’inizio estate del 1941 il caldo era torrido, raggiungeva i 55 gradi senza scendere mai al di sotto dei 35. I due eserciti si fronteggiavano determinati a non recedere; avevano il difetto di assomigliarsi nelle divise e i pasticci non mancarono. Tra i combattenti vigevano regole di cavalleria, di buon comportamento civile e morale. Mio fratello apparteneva al famoso 31º Battaglione Guastatori d’Africa del Genio guidato da Paolo Caccia Dominioni conte e barone di Sillavengo e perciò detto per brevità 31° di Sillavengo. A mio fratello, preso nella missione di minare il terreno di notte accadde di trovarsi a tu per tu con il nemico impegnato a fare altrettanto. Nessuno sparò e nessuno lo avrebbe fatto sempre che uno scoppio improvviso non
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scatenasse il panico. A loro supporto nell’ombra erano in agguato i bersaglieri della Folgore. Tra soldati nemici su entrambi gli schieramenti erano nato dunque quel sentimento di umana lealtà. Probabilmente a permetterlo fu il fatto che Rommel non portasse con se reparti come le SS che di tanti guai erano fonte per le truppe regolari tedesche in Europa. Mio fratello Vittorio combatté contro gli inglesi ma anche contro soldati dei paesi più diversi e lontani: espressioni del Commonwealth come la nuova Zelanda e gli indiani del sud Africa. Francesi. Polacchi, Belgi Greci Arabi senussini, profughi della Libia: un totale di 750 mila uomini.
A Tobruk
Il luogo in cui morì Balbo
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Nell’autunno del 1941, premiato con un permesso per un atto eroico compiuto sul fronte di Sollum, Vittorio tornò a casa in licenza. La sorpresa per lui fu grande nello scoprire arrivando che la casa era deserta, abbandonata e la propria famiglia non più vi risiedeva. Venne a cercarci a Bengasi e infine si spinse fino a Tripoli, in tal modo finì per ritornare in ritardo al comando e a pagare lo scotto di un immediato processo. La diserzione poteva essere punita con la fucilazione ma l’eroismo dimostrato gli fu d’aiuto ed egli fu punito “solamente” con l’invio in prima linea alla conquista di Tobruk. Qui gli italiani avrebbero pagato amaramente gli errori di valutazione di Rommel e solo l’intervento dei bersaglieri della Folgore risparmiò a mio fratello un destino di prigionia.
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