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L’intervista – pag. 14 e Foto di Mjriam e Lukas Frölich

Lei è ormai da molti anni che lavora per Locarno Film Festival, con diversi ruoli e facendo anche gavetta. Cosa l’ha fatta arrivare al ruolo di direttore operativo. «Probabilmente l’ambizione dell’autodidatta. Alle persone con un profilo come il mio è richiesto un impegno supplementare, rispetto a chi segue percorsi più lineari - spesso siamo noi stessi i primi a pretenderlo! Impegno e passione sono essenziali per tentare di migliorarsi, ogni giorno, per capire chi si è e quale sia il proprio stile manageriale. Poi, ovviamente, conta la fortuna di essere al posto giusto con le persone giuste: nel mio caso il Presidente Marco Solari e il mio predecessore Mario Timbal. Entrambi hanno creduto in me, anche quando non era scontato farlo».

Ogni anno, durante il festival, ci sono tanti giovani da tutto il Ticino che lavorano per voi: come mai questa scelta molto «local»? «È una scelta di responsabilità sociale, che non va data per scontata: altri festival, anche più grandi di Locarno, reclutano collaboratori volontari da ogni parte del mondo. I numerosi giovani invece che lavorano con noi, e per questo vengono retribuiti, nella maggior parte dei casi sono al primo impiego: molti studiano ancora o hanno appena terminato il loro percorso scolastico. È un grande vivaio - a pieno regime siamo circa in 900! - che permette di creare legami emotivi con il Festival, che durano indipendentemente dai percorsi personali. In più, è uno strumento che spesso ci consente di intercettare talenti sui quali costruire il futuro. La nostra organizzazione, nonostante la crescente complessità, in molti suoi settori si basa ancora su carriere che partono dal basso».

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Il Ticino dal Dopoguerra ha vissuto una grande trasformazione passando da civiltà rurale ad un assetto più urbano, che spesso mette in contrapposizione tradizione e progresso. In un certo senso si vuole andare avanti, ma si rimane ancorati alla tradizione. Come vive lei questa situazione di compromesso a livello culturale? «La premessa è corretta, e credo esprima una domanda cruciale per il nostro tempo: qual è il rapporto tra innovazione e salvaguardia della tradizione? Considerando la tensione che oggi si concentra proprio su interrogativi di questo tipo, personalmente credo occorra impegnarci per ritrovare equilibrio. Credo che la prospettiva giusta consista nel cercare di fare convivere queste dimensioni, senza che una prevarichi l’altra, perché sono intrinsecamente legate. In altre parole: una società evolve nella misura in cui riesce an-

Biografia

Raphaël Brunschwig è responsabile della gestione operativa e finanziaria del Festival. Brunschwig (classe 1984) arriva al Locarno Film Festival nel 2013 in qualità di coordinatore delle partnership e nel 2014 diventa responsabile dello sponsoring. Nel 2016 assume la vicedirezione operativa e nel 2017 viene nominato direttore operativo. In rappresentanza del Locarno Film Festival, Raphaël Brunschwig è membro di diversi comitati, come ad esempio del Consiglio direttivo degli Swiss Top Events, associazione che riunisce gli 8 più importanti eventi nazionali, promuovendo l’eccellenza di queste manifestazioni all’estero. Nella foto Brunschwig (a destra), con il presidente Solari, al centro e il direttore artistico Giona Nazzaro. che a tenere in considerazione le sue radici - e questo lo vediamo chiaramente nel nostro lavoro. Il Locarno Film Festival esiste perché è a Locarno, perché è figlio del suo territorio, perché ha 75 anni di storia. Come per tutti i grandi eventi, questo patrimonio porta con sé anche una serie di limiti, che occorre superare introducendo concetti e strumenti nuovi - per dare vita a un ecosistema in costante evoluzione. Dilemmi come questi sono parte del fascino del mio lavoro, e credo che la volontà di affrontarli rappresenti uno dei nostri punti di forza».

Come vede il rapporto fra la cultura, il cinema, e il ticinese «medio»? «L’idea stessa di «ticinese medio» è un problema, secondo me: è un concetto che fa male alla nostra mentalità, perché tarpa le ali a molte ambizioni. A mio avviso il «ticinese medio» non esiste, nella realtà: è una figura simbolica, che incarna il complesso di inferiorità che il Ticino ha nei confronti di realtà più grandi - e il timore di non riuscire a reggere la competizione. Questo atteggiamento ci penalizza e rallenta, fino al paradosso di autoescluderci da certi ambienti. Non credo che a Zurigo o a Milano, realtà di gran lunga più grandi del Ticino, ci sia per forza un pubblico mediamente più colto o preparato. Realtà come il Festival, il LAC e l’USI dimostrano che siamo in grado di superare questi nostri vecchi complessi».

Spesso si dice che il Festival è pensato troppo per i turisti internazionali e c’è poca scelta «adatta» agli indigeni, cosa ne pensa di questa affermazione? «Qui torniamo al complesso del «ticinese medio», all’autolesionismo provinciale. L’idea che una proposta di alto livello non sia adatta perché troppo «culturale», come se ci fosse impossibile accedervi, secondo me è del tutto superata. L’unica possibile giustificazione che potrei ammettere è linguistica: tuttavia, i sottotitoli in tedesco, inglese o francese - e l’offerta di film in italiano - rendono ampiamente fruibile a tutti gran parte della ricca offerta del Festival. A fare la differenza, come per ogni cosa, è la curiosità dello spettatore, sulla quale calibriamo i nostri programmi. Il lavoro del Direttore artistico Giona Nazzaro, con i film che proponiamo, vuole dare al pubblico la possibilità di scoprire sensibilità e realtà diverse, di avvicinarci a ciò che non conosciamo, talvolta sfidando i nostri limiti. Non è un caso che cerchiamo di creare un rapporto speciale con i giovani, che vivono un’età nella quale la curiosità è molto pronunciata e quindi possono trarre il massimo beneficio dall’esplorazione delle nostre proposte. Va poi aggiunto che il Festival di Locarno, soprattutto per i ticinesi, è pur sempre un evento che va ben oltre ciò che accade nelle sale e in Piazza - perché mette in moto una serie d’incontri e di scambi di idee durante eventi, serate, feste e molte altre espressioni di vitalità».

Sfida dei propri limiti, curiosità, scoperta. Ecco, che occasione di crescita intima può rappresentare un film per ognuno di noi? «Da un film, come minimo, bisognerebbe aspettarsi che ci cambi la vita! Citazioni a parte, è una domanda complicata, che apre ragionamenti a più livelli. Una risposta forse un po’ severa sottolinea la differenza tra intrattenimento e cultura: nel primo caso lo sforzo richiesto è minimo e lo scopo è di accontentarci, dandoci qualcosa che più o meno conosciamo già. Nel secondo, veniamo messi davanti a un oggetto che ci destabilizza, ci sorprende e costringe a fare un passo in più talvolta illuminandoci, talvolta lasciandoci al buio e obbligati a completare il ragionamento con qualcosa di nostro. È una fatica, certo, ma in fin dei conti è così che si sviluppa il gusto per la bellezza, tema sul quale non è possibile fare discorsi troppo accomodanti. Come ogni forma di apprendimento, anche il linguaggio estetico richiede impegno: serve la voglia di imparare, e di capire che proprio nello sforzo troviamo le migliori occasioni di crescita. Non è forse questo lo scopo profondo di un Festival e dell’arte cinematografica?» Il futuro del cinema è minacciato dalle piattaforme o può trarne vantaggio? «A essere minacciato, al massimo, è il futuro del cinema in sala. Seguiamo con attenzione gli sviluppi dell’industria, agitata dalla fortissima contrapposizione tra il vecchio - la sala - e il nuovo, ovvero lo streaming. Anche noi stiamo imparando a convivere con questa nuova realtà e a capire come fare coesistere questi due modi di vivere il cinema. Il punto di partenza è che nessuno può negare la crescente centralità della fruizione online. Questo ha ovviamente ripercussioni sul Festival, a più livelli. Per affrontare questa inevitabile transizione, abbiamo perciò deciso di puntare sui giovani, ascoltando le loro richieste e cercando di raccogliere conoscenze su ciò che ci serve per proiettarci nel futuro - energizzati in questo anche dalla cattedra sul futuro del cinema, creata con l’Università della Svizzera italiana. Inoltre, voglio sottolineare che Giona Nazzaro è stato da subito molto attento a questa evoluzione, come dimostrano le collaborazioni con Netflix e con Blue di Swisscom, che hanno arricchito le ultime due edizioni del Festival. Il messaggio è che consideriamo le piattaforme streaming come opportunità e non come minacce, perché possono dare una visibilità maggiore al Festival, anche in termini di reputazione. Un solo esempio: il Pardo d’Oro del 2021 è stato distribuito su Netflix, ottenendo una visibilità internazionale impensabile fino a pochi anni fa, quando molti dei «nostri» film al massimo potevano essere visionati in altri Festival o in qualche cineclub per appassionati. Sappiamo però che l’affluenza nelle sale è minacciata, e che siamo consapevoli dei rischi che ciò comporta: questo prezioso circuito, in cui l’esperienza del cinema trova ancora il suo apice, deve assolutamente essere preservato. Probabilmente saranno proprio i festival cinematografici l’ultimo baluardo nella difesa di questa esperienza».

Un festival attuale, non chiuso nella nostalgia. Qual’è il suo rapporto con lo scorrere del tempo? «Il Festival è costretto a muoversi su due fronti apparentemente contradditori: da una parte, dobbiamo alimentare il mito di una manifestazione storica, conosciuta a livello mondiale. In parallelo, bisogna tenere alta la consapevolezza che, limitandoci a celebrare il passato, non costruiremo un futuro desiderabile. Questo significa porsi domande precise: se non avessimo 75 anni e cominciassimo oggi, cosa sceglieremmo di fare? Per trovare una risposta siamo costretti a mettere in tensione la nostra identità, a tramutarla in una forza che non è statica ma che cresce con il tempo, e anziché essere un freno che ci irrigidisce è un motore sempre più potente. Ragionando in questo modo sono sicuro che riusciremo a restare una piattaforma sempre orientata in avanti, non solo per quanto riguarda il cinema che mostriamo. Il punto è rendere il Festival sempre più un’istituzione culturale - e non più un evento di 11 giorni! - capace di ispirare nuovi immaginari e coinvolgere nuove fasce di pubblico, dalla giovane cinefilia ai talenti creativi in erba».

Che Ticino sogna fra 15 anni? «Sogno un Ticino che abbandoni una volta per sempre l’autoreferenzialità e che sia in grado di costruire, consapevole del fatto che questo lo si possa fare solo mettendosi in relazione con il resto della Svizzera e del mondo, e che solo così si possa andare al di là di quello che potremmo fare con le nostre sole forze. Per fare un esempio vicino alla mia realtà: il mio sogno è che le grandi forze attorno a noi (Città di Locarno, il Locarnese, Cantone, PalaCinema, Università, SUPSI, CISA, RSI e Ticino Film Commission) si uniscano per posizionare questa regione, a partire dalla notorietà creata del Festival, in una dimensione nazionale e internazionale e, quindi, le permettano di dialogare con altri poli di eccellenza in quest’ambito, portando loro del valore». ■

Tempo di lettura 9’57’’ Laura Silvia Battaglia Una reporter di guerra che costruisce la pace

Di Matilde Casasopra Non ha ancora 50 anni, ma ha già vissuto mille vite e tante guerre tra Italia, Iraq e Yemen. Iniziando dalla lotta alle mafie a Catania per arrivare ad affrontare gli eventi che hanno cambiato il mondo.

Pubblicità Fine Ottocento. La seconda rivoluzione industriale è partita da poco (1870), ma il lavoro di semina e raccolto nei campi è quello di sempre e, soprattutto nelle risaie, sono le donne ad essere impiegate da mattino a sera per pochi spiccioli. Sono proprio le donne a dare il «la» ad una rivoluzione che unirà lavoratrici e lavoratori in una lega che condivide aspettative e rivendica giustizia. «Sebben che siamo donne» diventa una canzone che si trasforma in inno. «Sebben che siamo donne» è il titolo di questa rubrica che, mese dopo mese, vuol farvi conoscere donne speciali. La prima, a settembre, è stata Carla Del Ponte, oggi è… Laura Silvia Battaglia: «Reporter di guerra che costruisce la pace».

Non ha ancora 50 anni, ma ha già vissuto mille vite. L’ultima, quella che la vede sposa, da 9 anni, di Taha al-Jalal, si svolge tra Italia e Yemen. Lei, Laura Silvia Battaglia, è giornalista freelance, direttrice delle testate e coordinatrice della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano, contributor del Washington Post, corrispondente di guerra specializzata in aree di crisi e conflitti dal 2007. Ha scelto di lavorare soprattutto su Yemen e Iraq e con il suo ultimo lavoro - «Yemen, despite the war», andato in onda su Rai3, ZDF e Al Jazeera Arabic - ha vinto il premio miglior documentario all’European Film Festival Uk 2021. Oltre alle lingue «solite» Laura Silvia parla l’arabo che ha imparato a Sana’a. «Come giornalista freelance mi sono detta che non potevo raccontare le guerre che da anni dilaniano molti Paesi del Medio Oriente e le storie delle persone che con le guerre sono costrette a convivere senza parlare la loro lingua. Così mi sono iscritta allo YCMES - Yemen College of Middle Eastern Studies (che ora, a causa della guerra, è stato trasferito in Germania) nella capitale yemenita».

Una scelta che è stata chiave di volta nella sua vita. Ne vogliamo parlare? «È una scelta nata da un impasse, da un contratto a tempo determinato non rinnovato. Ho seguito la saggezza della mia nonna siciliana - il proverbio «impedimentu juvamentu» - per fermarmi e ascoltare la mia intima natura che è quella del battitore libero, dell’esploratore e non del soldato. È così che ho deciso di prendermi un anno sabbatico per andare nel luogo che sognavo, avendo amato molto alcuni film di Pasolini e desiderando una immersione totale in un luogo dove l’arabo classico si studia, ma si parla anche per strada, con uomini e donne di tutte le età. Appena ho messo piede in Yemen, ho capito che era il luogo del mio destino. E ci sono rimasta».

Laura Silvia, però, non ha iniziato con le guerre, diciamo così, lontane. Nata e cresciuta in Sicilia, le prime con le quali è stata confrontata sono state le guerre che si combattevano per le strade della sua città. Guerre di mafia che, negli anni Ottanta e Novanta, nella sola Catania hanno fatto una ventina di morti. Morti ammazzati.

Perché a queste guerre ha scelto di sostituire le altre?... «Perché il mondo è grande e perché merita di essere esplorato. Perché l’isola mi stava stretta. Perché l’attentato alle Torri Gemelle del 2001 ha cambiato il mondo e la vita di tutti. Ed ho capito che era su quello che bisognava comprendere, lavorare, investigare».

I racconti di guerra di Laura Silvia non sono mai banali. I filtri sono gli occhi e le vite delle persone che incontra: il bambino che vende miswâk (bastoncini di salvadora persica a metà tra lo stuzzicadenti e lo spazzolino da denti); il maestro Adel Abdul Khalil Alshraihi che sfida la guerra con una scuola che ha aperto a bimbi e bimbe di Tai’zz nella sua casa; la figlia della povertà, Aisha, partita dalla Somalia in guerra, sopravvissuta in mare ed ora profuga in uno Yemen in guerra.

Yemen e Iraq, due Paesi lontani dalla vecchia Europa. Perché parlarne? «Perché ogni essere umano ha una storia e una voce e il nostro compito è amplificarla per restituire a quel vissuto esistenza e dignità. Non credo al concetto «di dare voce a chi non ce l’ha». Ogni essere umano ha una voce degna di essere ascoltata. Noi non salviamo nessuno: semplicemente permettiamo che più persone si mettano in ascolto di quella voce. Decolonizzare il nostro pensiero e il sistema dei media è un’operazione necessaria, che deve partire da qui».

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