Opinion Leader Magazine - Numero 14

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OL Diamoci del tu

BE ITALIAN E

ro in Cina ad una riunione Icom, il nostro network internazionale di agenzie indipendenti, durante la presentazione di un mio collega giapponese mi venne lo stimolo di celebrare i primi 20 anni di vita dell’agenzia Opinion Leader. Il giapponese per festeggiare i suoi 50 aveva fatto un libro. A seguito di un’intervista che Franz Botrè mi fece per la sua rivista Monsieur, decisi di fare un magazine che fosse una sintesi del significato del nostro brand: Opinion Leader! Il primo numero uscì proprio nel 2007, anno in cui tutta l’economia italiana ed europea era al top. Fatturati, utili, tutti i settori erano “bullish”. Il 2008 fu l’inizio del precipizio economico del nostro Paese. Ogni anno abbiamo cercato di parlare al positivo, rinviando al numero successivo il momento della ripresa. Sette anni dopo, la ripresa non si è ancora vista. Io spero che siano i sette anni di vacche magre a cui dovrebbero seguire i sette anni di vacche grasse! Ma inizio a dubitarne. Non mi esprimo nel giudizio dei politici, ma registro il malessere di tutte le persone che faticano ad andare avanti. Ieri ho telefonato al centralino di Alitalia e, con grande sorpresa, mi sono imbattuto in una persona gentilissima e molto efficiente alla quale ho fatto i complimenti. Le ho detto che non mi era mai capitato di trovare competenza e cortesia al centralino Alitalia per i soci Millemiglia! La signorina mi ha risposto che il lavoro non le piaceva ma cercava di farlo bene perché in Italia non trovava di meglio e non aveva voglia di andare all’estero! Questo vuol dire essere Italiano e fare la differenza nonostante le difficoltà che il singolo deve superare per “fare”.

In questi sette anni abbiamo intervistato molti personaggi e in questo numero abbiamo voluto fare una sintesi di quelli che ci hanno colpito maggiormente: da Valerio Staffelli a Elio Fiorucci, passando per Chiambretti e Trapattoni, fino al famoso e creativo Lapo Elkann e al meno noto, ma altrettanto capace, Antonello Coletta (Ferrari). Personaggi che ci hanno concesso l’onore di essere intervistati e che ci hanno dato la dimensione del valore umano presente in Italia ed apprezzato in tutto il Mondo. Non so come possa tornare la fiducia del “credere” ma io quando leggo le interviste che abbiamo fatto in questi anni capisco perché gli italiani sono comunque rispettati singolarmente, ma non nella loro globalità di nazione. Dunque, alla fine, cerchiamo di fare al meglio quello che stiamo facendo con la speranza che si crei il contagio per un miglioramento collettivo. Be Italian.

L’editore Alberto Vergani

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Dal paracadutismo alla superbike A tu per tu con Carlos Checa e la sua voglia di avventura, dentro e fuori le piste

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Determinazione assoluta A quattr’occhi con il politico-imprenditore (donna) più famosa d’Italia: Daniela Santanchè

Best of... EVENTS Tutti in pista NolanGroupⓇ presenta la nuova collezione 2011 con Jorge Lorenzo, Marco Melandri e Carlos Checa

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È arrivato il nuovo Samsung: sorridete Tutti al lancio del primo smartphone che si sblocca con un sorriso

Best of... ARTISTS

Quando gioco con il colore La fotografia attraverso gli occhi di Giorgio Restelli

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i-Chocolate Quando la dolcezza chiama...

Un personaggio di “spessore” Il Manager di Mediaset Marco Manfredi e la sua vena artistica

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News on the... BLOCK 110

L’agricoltura vince fuori dal campo Premio BEA al “più grande lavoro sulla Terra”

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Idea del reale Una mostra che cambia le prospettive dell’arte

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Beautiful dreamers Vivere lo stile di Venezia

Red style II rosso conquista il guardaroba invernale 122

Food bloggers meet Tortina White Loacker Tre noti food blogger reinterpretano l’ultima arrivata di casa Loacker

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l 9 gennaio 2007 Lapo Elkann fa il suo debutto nel mondo del fashion system con un prodotto assolutamente di rottura: Sever by Italia Independent, i primi occhiali da sole in carbonio, molto chic, dal prezzo decisamente shock - “solo” 1.007 euro per poterseli aggiudicare. La notizia si rincorre su tutti i giornali del mondo in pochissimo tempo. C’è chi parla di una provocazione, chi dell’ennesimo capriccio del rampollo di casa Agnelli: un giocattolino con cui si divertirà al massimo una stagione, c’è da scommetterci, pensano in molti. Beh… scommessa persa, perché oggi, a distanza di 4 anni, Italia Independent è una realtà forte, vincente e in continua crescita. Il progetto dell’istrionico Elkann ha

infatti messo le radici in un terreno stabile preparato con abilità dagli altri due soci fondatori, Andrea Tessitore e Giovanni Accongiagioco. Insieme i tre hanno creato un modo di pensare al brand completamente nuovo. Per scoprirlo siamo andati dove nascono le idee, direttamente nella “factory” di I-I, un ex capannone industriale a Milano dove si respira aria di futuro e dove gli occhi, varcata la soglia, diventano palline di un flipper impazzito: lì c’è tutto. è un mondo che si snoda tra abbigliamento, home decor, accessori e occhiali perché, come ci spiega Andrea Tessitore, “un brand trasversale a diverse categorie merceologiche e fasce di prezzo, che veste persone attente ai dettagli in ogni momento della

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“Essere indipendenti è scrivere ogni giorno la propria storia.” giornata, è una scelta più che mai attuale”. E allora, in questo paese dei balocchi per qualsiasi beauty seeker, tra tubi di scappamento che sono lampade, copertoni che diventano sostegni di tavoli in cristallo, abbiamo incontrato Andrea, per farci raccontare la storia di un successo… quello di Italia Independent. L’avventura di I-I ha sicuramente due grandi protagonisti: tu e Lapo. Come è iniziato tutto? è la storia di un’amicizia diventata un legame professionale e questo grazie alla stima reciproca che ci lega da sempre e al fatto che siamo due persone estremamente complementari. Lapo è quello creativo, con una grandissima capacità comunicativa, mentre io sono quello razionale, con doti gestionali e organizzative più spiccate. Tu la testa, lui il cuore, insomma. Ma oltre a voi… chi c’è dietro a questa realtà? Una squadra di “outsiders”; in verità un team molto piccolo composto da professionisti che hanno deciso di dedicarsi ad un progetto in cui credono fortemente. Tra queste mura, la parola e il contributo di tutti sono fondamentali e questo rende il nostro staff ancora più affiatato e unito nel voler raggiungere risultati concreti. Un nuovo modo di intendere il brand: è questo quello che spesso si sente dire di Italia Independent… perché? Perché Italia Independent non è un semplice marchio di moda, ma un brand di creatività e stile; un mondo allargato e trasversale che coniuga fashion e design, tradizione e innovazione… Ogni prodotto I-I nasce con l’obiettivo di attualizzare il Made in Italy e reinterpretare le icone classiche, operando nei settori più diversi, per esportare lo stile italiano nel mondo. Nomen omen: possiamo dire che la mission del progetto è ben espressa nel vostro nome? Assolutamente. L’Italia non è solo il luogo dove opera l’azienda, è anche il principale motore del progetto I-I. La tradizione produttiva e creativa italiana è una delle risorse primarie del nostro paese e per noi è fondamentale usufruirne e promuoverla. E poi c’è l’aspetto del voler essere indipendenti, fuori dagli schemi e assolutamente innovativi perchè a scegliere i prodotti Italia Independent sono trend setter, designer e persone di stile fuori dal comune, attenti ai dettagli e alla qualità. A sinistra, un modello esclusivo di sci in carbonio. A destra, i famosi occhiali Sever da 1.007 euro.

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NON CHIAMATELO SOLO BRAND

“Le sfide continue: questo è quello che tiene unito ogni giorno tutto il team di Italia Independent.” è questo in sintesi il Made in Italy 2.0, il claim che da sempre avete scelto per il vostro progetto? Esattamente; una realtà che fa tesoro del passato guardando però al futuro. Con questa filosofia non vogliamo rinnegare la tradizione del Made in Italy, bensì la vogliamo aggiornare con progetti capaci di rompere gli schemi e stupire. Quindi un prodotto per essere “nuovo” deve avere nel DNA la tradizione del passato? Sì, perché ad oggi tutto è stato inventato e a noi spetta solo il compito di dare nuova vita e reinterpretare i classici. I nostri prodotti sono tradizionali e innovativi allo stesso tempo, sono curati nei dettagli e poi hanno un prezzo giusto. Il range di prezzo dell’abbigliamento I-I va dai 50 euro di una t-shirt per arrivare ai 5 mila euro

o più per un abito su misura; i nostri occhiali, invece, variano da 147 euro a 1.007 euro. I mitici Sever che tanto hanno fatto discutere… … il nostro primo progetto, quello da cui è nato tutto. L’ispirazione è arrivata dalla barca a vela Stealth posseduta dall’Avvocato Agnelli; una delle prime barche realizzate con lo scafo interamente in carbonio. è stato guardando a quello che Lapo ha avuto l’intuizione di dare nuova vita a questo materiale. Beh, dopo aver fatto tutte le valutazioni del caso… abbiamo lanciato gli occhiali e reso il carbonio elemento distintivo del brand. Oggi, infatti, produciamo occhiali, caschi, sci e persino i dettagli di molti accessori e capi d’abbigliamento con questo materiale. Ma in questo elenco infinito di prodotti inimitabili, ci

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aerei ecologici meno inquinanti, capaci di ridurre del 40% il consumo di combustibile e del 25% le immissioni nell’atmosfera. Insomma, K-air è un mezzo di “travel different”, green ed inimitabile… in perfetto stile I-I. Questi i progetti di oggi… ma in futuro, in che direzione andrà I-I? Italia Independent è nata nel momento peggiore della crisi che ha tristemente caratterizzato questi anni e dopo soli 4 anni, nel 2010, abbiamo finalmente chiuso il bilancio in positivo. Siamo molto contenti dei risultati, ma siamo un’azienda giovane, dinamica e ambiziosa, ci poniamo continuamente nuovi obiettivi, nulla è ancora concluso, e abbiamo ancora molta strada da fare. Oggi

il nostro desiderio è consolidare ciò che è stato fatto con l’obiettivo di diventare un marchio di nicchia riconosciuto universalmente. Insomma… i trend setter di tutto il mondo sono avvisati! di Simona Melli

Sopra, i due colleghi e amici Lapo Elkann e Andrea Tessitore.

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La cattiva maestra e Pierino la peste

U

n palinsesto lungo 30 anni quello di Piero Chiambretti, raccontato, con la leggerezza dell’enfant e la sagacia del terrible, in una lunga chiacchierata telefonica. Sintonizzatevi sulle prossime pagine e non cambiate canale! Nel 1982 si è presentato ad un provino in mutande… Cercavo un nuovo look… Sì nel 1982 ho vinto un concorso nazionale su 9000 persone. La prima delle prove da superare era andare al centro RAI di Torino e fare un colloquio con alcuni dirigenti di allora… e come tutti sanno gli artisti passano ma i burocrati restano… ma quei burocrati furono molto brillanti perché mi fecero passare il provino malgrado mi presentai in mutande. E, tra l’altro, mi presentai in mutande pronunciando la frase due punti aperte virgolette: “avevo anche il pianoforte ma è rimasto incastrato nell’ascensore”, cosa alla quale effettivamente credettero. Poi domande di rito, mi fecero fare un piccolo pezzo e superai quella prima selezione e fui mandato a Roma, dove alla fine vinsi il concorso insieme ad altre 4 o 5 persone. Personalmente non mi chiamarono mai, ma la soddisfazione di vincere il concorso fu grande. Però sempre per il discorso che i burocrati restano e gli artisti passano, uno degli esaminatori di quel concorso molti anni più tardi, parliamo di almeno 2, forse anche 4 anni, si ricordò del piccolo Pierino porcospino da Torino. Infatti, quando nacque la terza rete di Angelo Pugliese, forse la rete più bella, più importante, più innovativa di tutta la storia della RAI, l’allora direttore Angelo Guglielmi, chiese ai suoi collaboratori forze nuove per lanciarla, quell’esaminatore che di nome faceva Bruno e di cognome faceva Boglino disse: “Ma io ho conosciuto un ragazzo che anni fa ad un concorso si presentò in mutande dicendo che aveva caldo e che gli piaceva essere sportivo. Io ve lo presenterei…”. E così io fui chiamato a RAI 3. In realtà, nel frattempo, ero già entrato a lavorare a RAI 1, ad un programma della Tv dei Ragazzi. Quindi, mi ritrovai impegnato su RAI 1 dal lunedì al venerdì, nascondendomi dietro ai ragazzi che erano tutti più alti di me, e la domenica su RAI 3 di Angelo Guglielmi, il salotto buono della televisione italiana, con una partecipazione in un programma che si chiamava Va pensiero, con Andrea Barbato, prestigioso giornalista oggi scomparso. è vero che all’inizio della sua carriera ha fatto concorrenza al “Pranzo è servito” di Corrado con un piccolo programma sulla tv locale? In realtà, Corrado non è mai entrato nella mia vita se non oggi… è un fatto abbastanza curioso che lei mi parli di Corrado perché proprio in queste ore si accarezza l’idea di… realizzare… una versione… non so neanche se

Piero Chiambretti in compagnia di Marco Manfredi e Federica Panicucci.

dirlo perché questo è ancora top secret. Diciamo che Corrado è sempre stato un maestro nell’atteggiamento, nei modi sornioni, nella capacità di essere divertente e mai volgare. Però è l’unico dei mostri sacri della televisione con il quale non ho lavorato. In effetti, in una tv locale, poco prima di entrare nella Tv dei Ragazzi, mi inventai un programma a mezzogiorno, a quell’epoca a quell’ora andava in onda soltanto Raffaella (Carrà NdR) che contava i fagioli e Corrado con il Pranzo è servito. Tra questi colossi m’infilai con un programma, assolutamente improbabile, fatto di provocazioni per la strada, video musicali, che allora erano un’assoluta novità, e gente comune che passava davanti alla nostra unica telecamera. Mi misi in mostra proprio a Torino con un programma che fece eco nella città e in tutta la regione, proprio perché fuori dai criteri. A quell’epoca sperimentavo linguaggi che, poi, mi sono tornati utilissimi quando sono entrato nella televisione professionistica. Ricordo che il proprietario di quella televisione aveva un unico sponsor, un negozio di piante e quindi mi pagava con bonsai e con tronchetti della felicità… ero pieno di felicità in casa, molto meno nel portafoglio. Nel 1997 la chiamarono per condurre il Festival di Sanremo. E lei a sua volta chiamò un altro mostro sacro della tv ad affiancarla: Mike Bongiorno. Il quale dichiarerà in seguito di essere stato lui il conduttore e lei il co-conduttore. Sì è vero, ci furono una serie di combinazioni… I successi si fondano sul talento ma anche tanto sulla fortuna… io nella mia vita ne ho avuta abbastanza, non tantissima, però ho conquistato molte cose con sangue e sudore... però in quel caso fui fortunato perché quella edizione del 1997 io dovevo condurla insieme a Raffaella Carrà, ma lei abdicò a un mese dal festival per problemi sentimentali, fa anche sorridere ricordare che Raffa, che piange di solito per problemi degli altri, in quel caso piangeva per se stessa, perché Japino l’aveva lasciata per una ballerina di noccioline. Quindi rimanemmo senza il “big” che doveva aiutare, assecondare, dirigere l’orchestra di quel festival, che era il primo della storia della televisione italiana senza Pippo Baudo, fino a quel momento l’inossidabile uomo di Militello sembrava l’unico che potesse condurre il festival. Un’edizione importante che tagliava in due il prima e dopo Baudo, io, immediatamente, consigliai Mike Bongiorno, l’unico personaggio che poteva battersi con l’immagine popolare ma anche molto vincente di Raffaella Carrà. All’epoca Mike aveva un’esclusiva con Mediaset, ma essendo un bambino mai cresciuto e amando, come tutti i bimbi, la sua mamma RAI, al suo primo richiamo subito disse “obbedisco”, e chiese la liberatoria a Berlusconi per poter tornare

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La cattiva maestra e Pierino la peste

dopo 11 anni in RAI per condurre il festival insieme al sottoscritto e a Valeria Marini. Fu una delle edizioni più strampalate ma anche più importanti e vincenti dell’era moderna del Festival di Sanremo, con degli ascolti oceanici in crescita progressiva dalla prima alla quinta puntata in una forma esponenziale. Quindi niente Carrà? In realtà, incrociai la vita della Carrà nel 2000, perché anche se gli annali non lo ricordano io ho partecipato come ospite fisso a un festival sfortunato dove mi ritagliai uno spazio piuttosto divertente… che fece buoni ascolti risultando come uno che salvò la baracca. Abbiamo evocato anche Pippo Baudo… Pippo Baudo è stato un altro asso nella manica ancora una volta al Festival di Sanremo, ancora una volta ad un festival non propriamente riuscito nel suo complesso, anzi, forse uno di quelli con gli ascolti più bassi della sua storia recente, ma ancora una volta un successo personale del sottoscritto. Forse perché io non ho mai avuto paura di quel palcoscenico, perché per me torinese andare a Sanremo è un po’ come andare in colonia. Ho sempre partecipato in tutte le forme alla kermesse canora, prima come inviato, poi come guastatore, poi come conduttore del Dopofestival, poi come conduttore di commento a Radio 2, poi come conduttore del festival, poi come spalla… quindi ogni volta che torno a Sanremo mi trovo sempre a mio agio anche quando le cose sono andate male. Peraltro, apro una parentesi, ci torno anche quest’anno con Radio 2 commentando il festival di Fazio e la sua gang. L’anno di Mike fu un trionfo, l’anno della Carrà e di Baudo furono due festival molto tormentati, però io, ritagliandomi uno spazio, riuscii a venirne fuori, cosa per altro molto difficile, perché quando ci si imbarca lì ci si imbarca tutti. Ma probabilmente era segnata così la mia vita al festivalone della riviera ligure. Oltre che per la televisione ha una passione anche per il cinema; ha altri progetti dopo l’esperienza di “Ogni lasciato è perso” del 2000? Truffaut, grande regista del cinema francese diceva: “Dopo 40 anni o si fa un figlio o si fa un film”. Io ho fatto un film dopo i 40 e dopo i 50 ho fatto anche il figlio. Quindi non mi manca nulla, a questo punto lungi da me l’idea di fare un film. Forse potrei scrivere per il cinema, ma non ho nessuna voglia di scrivere oggi per girare fra sette mesi e vedere il film tra un anno e mezzo in sala con il rischio che stia su 3 giorni. Soltanto gli schizofrenici possono fare i film…

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Costantino della Gherardesca, i gemelli Ceccarelli, Sabina Negri… Ha creato tanti personaggi, c’è qualcuno che ripudia? No, credo di no, anche perché non sono tutte delle invenzioni ma anche dei recuperi. Nel mio periodo a RAI 3 ho fatto lavorare, togliendo della polvere dai loro curricula che qualcuno aveva, forse, dimenticato in qualche cassetto, Marianini il primo grande dandy della tv italiana, Helenio Herrera il Mago dell’Internazionale di Moratti, Sandro Paternostro… qui Londra vi parla Sandro Paternostro… che era finito in pensione dimenticato, con me ha rivissuto qualche stagione molto importante e poi da lì ha continuato ancora a lavorare, addirittura, trovando un amore gonfiato con quell’attrice a cui scoppiarono le tette in aereo (Angela Cavagna NdR). Poi ho avuto il piacere di lavorare con un mito del cinema e della televisione italiana degli anni ‘60 e ‘70, Nanni Loy, che nel mio programma aveva un ruolo paradossale che gli avevo cucito addosso, cioè doveva dormire per tutto il programma, che si chiamava Prove Tecniche, e alla fine del programma dovevamo svegliarlo e semplicemente ci doveva raccontare il sogno che aveva fatto. Quindi anche qualcosa di metafisico e surreale... Non ci sono stati nella mia vita soltanto personaggi che hanno conosciuto una primavera, come quelli che ho citato, ma ci sono state anche altre figure che in qualche modo ho aiutato a crescere; Paolo Belli ha avuto una consacrazione con me durante “Il Laureato”, Signorini… ahimè…, è nato con “Chiambretti c’è” è diventato un personaggio a 360 gradi della comunicazione, Balestra, lo stilista che ha avuto un vero e proprio lifting all’immagine, la Patrizia De Blank, ma poi ancora tanti altri… è stato un lavoro che comunque ha portato dei risultati e di questo ne sono lieto. Non rimpiango e non ho rimorsi su nessuna delle persone che ho aiutato a crescere, forse il problema è che non tutti se lo ricordano, ma va bene uguale, questo è un mondo dove si dà, si prende… Recentemente c’è stato il tormentone tv della diatriba Arisa-Ventura. Invece, porta la sua firma un cult della tv moderna, ovvero, la lite con Maria SungMilingo. Ma queste scene sono montate o nascono per caso? Nascono per caso, però uno se le va a cercare, perché se uno non invita Milingo non viene al programma neanche la moglie. Bisogna costruire in questo senso certe operazioni. Si sta sempre sul filo del rasoio… la provocazione io la immagino come un filo sottilissimo, dove il provocatore è un equilibrista che deve correre molto rapidamente su questa corda senza cadere mai di sotto, se cadi ti fai male perché

Piero Chiambretti con Kate Winslet.
































e da grande farà

l’allenatore

Se pensi a un campo da calcio, seduto in panchina ci vedi lui, Giovanni Trapattoni. Attualmente CT della Nazionale irlandese, il “Trap” ha segnato la storia del calcio e oggi, a 71 anni, non ha nessuna intenzione di farsi sostituire

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ell’anno dei Mondiali di calcio è d’obbligo andare a parlare con un simbolo di questo sport. Uno che ha fatto della vittoria un vizio. Uno capace di essere leader sempre: in campo (da giocatore), in panchina, durante le interviste. Per questo siamo andati a fare quattro chiacchiere con Giovanni Trapattoni, saggio ragazzo di 71 anni dall’inesauribile energia. Gli abbiamo chiesto del suo passato, delle difficoltà che si incontrano quando si è a capo di un gruppo, di cosa ha in mente per quanto riguarda il futuro. E il “Trap” ha risposto a tutto. Tranne che all’ultima domanda... Fare il calciatore è il sogno di ogni bambino: era anche il suo o da piccolo voleva fare altro? Il calcio era la mia passione fin da piccolo. La voglia era così tanta che giocavo addirittura a piedi scalzi per non rompere le scarpe. Poi sono entrato a far parte del Milan, un mondo che non potevo neanche sognare da ragazzo. Probabilmente è stato grazie a tante situazioni fortuite e casuali che sono diventato un giocatore di Serie A. Mi sono trovato al punto giusto nel momento giusto, con dei passaggi a livello che si aprivano. Se lo ricorda ancora il suo esordio in Serie A? Com’erano i rapporti con i grandi della squadra con cui giocava? Devo dire che l’emozione è ancora viva: entri in punta di piedi, ti tremano le gambe e ciò che ti rimane maggiormente impresso è la classe, l’intelligenza, l’educazione di queste persone. Ricordo che io ero poco più di un giovanotto e al mattino i primi a salutarmi erano loro, i grandi campioni. Questo aspetto umano ti colpisce e ti rimane tutta la vita. Ti insegna a rispettare gli altri. Da allora ho sempre cercato di comportarmi nella stessa misura. Facciamo ancora un salto nel passato: San Siro, 1963. Nella leggendaria partita contro il Brasile, lei riuscì a marcare Pelé. Questione di fortuna o

c’era anche dell’altro? Pelé era un grande campione e la fortuna per me è stata quella di aver incontrato calciatori, come lui, famosissimi nel mondo. Io ero uno “normale” e giocando bene quella partita ho avuto un grande risalto, ottenuto dal riflesso della notorietà di Pelé. Ciò che conquisti, però, non devi mai lasciarlo sfuggire. Sono sempre stato razionale e concreto, perché se voli troppo in alto rischi di cadere e Icaro ne è un esempio. Quando si rimane con i piedi per terra ti fai meno male. Ancora oggi si parla della sua memorabile accusa a Strunz, Basler e Scholl di essere delle “bottiglie vuote”. Perché quella conferenza stampa (Monaco di Baviera, 1998) è rimasta nella storia? Diciamo che l’episodio ha avuto un’eco memorabile sia per il significato in Germania di “bottiglia vuota”, sia per il suono del cognome “Strunz”. Io non sapevo che “bottiglia vuota” per i tedeschi avesse un valore dispregiativo, con quell’espressione intendevo semplicemente dire che quando un giocatore scende in campo svuotato di energie, come una bottiglia vuota appunto, non può pretendere di ottenere dei grandi risultati. Non si è trattato comunque di uno sfogo improvviso, i giocatori erano già stati avvisati. Prima calciatore, oggi allenatore, quale ruolo sente più suo? Da giocatore ho avuto dei successi che erano però condivisi. Da allenatore sono successi sì condivisibili, ma anche personali. Fare l’allenatore è sicuramente più gratificante, più incentivante e quindi ti appassiona di più. Da allenatore devi dare a ognuno il proprio pezzo di popolarità, di personalità, di merito. Direi quindi che ti realizzi di più. È fondamentale essere stato prima un calciatore per fare l’allenatore? Sicuramente sì. Se non hai fatto il calciatore le conoscenze le acquisisci svolgendo il lavoro, ma devono passare degli anni. Se sei stato calciatore, invece, inevitabilmente

Il Trap in compagnia di Marco Tardelli (vice del CT), durante la partita Eire-Italia, a Dublino.

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DA GRANDE FARà L’ALLENATORE

sai cosa pensa il giocatore, sai che rapporto umano devi avere, quindi non hai bisogno del tempo. Produci e realizzi di più, da subito. Aver giocato ti aiuta. Quali sono le doti essenziali per essere un buon calciatore e un buon allenatore? Senza dubbio a un calciatore le qualità le dà madre natura, poi con dei buoni insegnanti ha anche modo di crescere. Mentre un allenatore deve essere autorevole nella misura giusta. Deve essere paziente, psicologo e deve avere equilibrio. In un gruppo dove il carattere e la psicologia sono così variegati, l’allenatore deve uscire dal proprio ego per tirar fuori le risorse umane che i ragazzi hanno dentro. Un allenatore deve anche estraniarsi da eventuali problemi personali, per dedicarsi totalmente a ciò che è lo spogliatoio. Se è sereno ed equilibrato, riesce a dare il giusto valore alle persone. Tra tutte, c’è una vittoria che ricorda di più perché magari più memorabile o più sofferta? Direi che la prima vittoria è stata quella di aver messo piede nel Milan, in Serie A, non tanto per il risultato, quanto per un sogno che si è realizzato. Mi sono trovato calato in una realtà professionale che mai pensavo di poter raggiungere. Con il tempo poi ti abitui al fatto che il risultato e la vittoria vanno e vengono. A tal proposito ho coniato uno slogan: il calcio è bello perché ti fa gioire, ti fa soffrire, ma ti dà un’altra opportunità. Domani ti puoi sempre rifare. Quindi anche se hai perso ti aspetta un’altra occasione. E come allenatore, che vittoria ricorda? Forse la prima, nel ‘77, con la Juventus, perché è stata estremamente sofferta. Abbiamo vinto la Coppa UEFA seguita, 3 giorni dopo, dalla vittoria del Campionato a Genova, con un punto solo sul Torino. È stato un record, il primo successo enorme. In una settimana potevamo perdere tutto, invece abbiamo conquistato due risultati importantissimi per la carriera. Nelle sue varie esperienze all’estero quali differenze ha riscontrato rispetto al calcio italiano? Ci sono delle sostanziali differenze sia sul piano psicologico che comportamentale. All’estero c’è una maggiore serenità sportiva nei confronti dei risultati, vittoria o sconfitta che sia. Diciamo che nel tifoso c’è meno protagonismo e nella società c’è più consapevolezza che si può vincere o perdere. Un allenatore all’estero deve calarsi nella realtà di quel Paese e deve apprendere le diverse abitudini e le differenze comunicative del luogo. Bisogna entrare in punta di piedi senza pretese, per poi insegnare le nostre scaltrezze, i nostri piccoli Un pezzo della nuova collezione Spring-Summer 2009 interamente lavorato ad uncinetto.

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segreti che ci permettono di raggiungere certi obiettivi. A proposito di differenze, in Italia quando si gioca una partita si va avanti a parlarne per settimane. In altri Paesi ciò non avviene. Come mai? Questo atteggiamento lo si riscontra nei Paesi latini, dove il calcio è una cultura popolare, significa, cioè, che il popolo mette il calcio davanti a tutte le altre problematiche. Si vive in funzione di questo sport. Basti pensare al perché il lunedì c’è una maggiore tiratura dei giornali rispetto agli altri giorni. Qual è l’aspetto più difficile da gestire quando si diventa il CT della Nazionale? L’aspetto più difficile è l’accorgersi, ascoltando i media, che pur essendo l’allenatore dell’Italia sei in realtà tornato all’‘800, all’Italia dei comuni, quindi sei l’allenatore di un Paese diviso. Altrove non è così, è tipico solo della nostra nazione farne una questione regionale e cittadina, dimenticando che l’allenatore della Nazionale fa solo e unicamente gli interessi della squadra. Cosa le ha fatto accettare l’incarico di CT dell’Irlanda? L’essere nato il giorno di San Patrizio può essere stato un segno del destino? Sì vero, forse il destino era scritto. A un certo punto lo chiesi anche: “Non è che mi avete chiamato perché sono nato lo stesso giorno di San Patrizio?” (ride, n.d.r.). Il vero motivo per cui ho accettato, comunque, è legato al fatto che in quel periodo stavo vincendo parecchio e dopo la vittoria sento sempre lo stimolo del cambiamento o, meglio, riesco a capire quando arriva il momento in cui non posso estrarre più di tanto dai miei ragazzi. Quindi il cambiamento fa bene a me prima di tutto e fa bene ai miei calciatori perché, se subentra un nuovo allenatore, loro acquisiscono un altro tipo di insegnamento. I Mondiali sono alle porte (al momento dell’intervista, n.d.r.) e l’Irlanda è stata esclusa dalla competizione… come si supera un’esclusione ingiusta? Si supera perché il calcio insegna sempre. Ve l’ho detto lo slogan? Me lo sono costruito io: la vittoria ha cento, mille padri, la sconfitta invece è sempre orfana. E quindi una sconfitta si supera con lo spirito di ricominciare. Anche se la sconfitta ti fa soffrire perché rappresenta una delusione, tu devi ricominciare con lo stesso entusiasmo. Avere questo spirito è fondamentale, soprattutto se sei l’allenatore perché spetta a te dare coraggio e forza agli altri. Quindi guarderà i mondiali e tiferà…? Ovviamente tiferò Italia, anche se so che forse non potrà vincere il Campionato del Mondo. Sulla

Giovanni Trapattoni durante una sessione di allenamento con la Nazionale italiana in Portogallo, in occasione dei Campionati europei del 2004.




DA GRANDE FARà L’ALLENATORE Un agguerrito Trapattoni durante la partita Eire-Italia, a Dublino.

bilancia ci sono squadre veramente forti dal punto di vista qualitativo e tecnico. Però mai dire mai, oltre allo stato psicologico e alla fortuna, ci sono varie componenti che confluiscono e che possono portare al successo. Quindi qualche sorpresa può venir fuori. Allora chi vincerà secondo lei? No, un nome non posso darvelo. Ci sono sicuramente squadre che hanno un valore superiore ad altre e che quindi potrebbero vincere, ma ci sono anche situazioni casuali che non possiamo prevedere ora. E l’Italia perché dubita che possa vincere? Dubito perché anche se noi siamo una squadra con 7 teste come il drago, oggi dovremmo davvero trovare qualcosa di eccellente. Noi siamo forti, però i segnali che dà la squadra non sono così decisi da poterci mettere al pari delle 3/4 squadre favorite. La mia valutazione va oltre quello che è il tifo. Tornando a lei. Pensa di avere ancora la stessa grinta di quando ha cominciato? È ancora così appassionato? Appassionato senza dubbio lo sono ancora. Rispetto al passato però sono sicuramente più paziente, l’esperienza ti porta ad esserlo. Con il tempo, inoltre, sono diventato più consapevole degli errori, anche se il mio istinto caratteriale è sempre lo stesso. Oggi come allora io voglio ottenere, voglio accompagnare i miei giocatori nel dare tutto, anche se tante volte mi dico “ricordati che hai un’età” (ride, n.d.r.). Alla sua età cosa farebbe se fosse in pensione? Non ci ho ancora pensato. Devo dire che ho messo da parte tanti best seller, tanti libri sperando di poterli leggere più avanti. Ho ancora moltissimi dischi da sentire stando serenamente sul divano. Però sai, devi essere sereno di mente e sgombro dagli impegni, allora sì che assapori la musica. In tutti questi anni, il mondo del calcio non l’ha mai stancata? No no. Certo alcune manifestazioni che vediamo qui ci fanno riflettere sul fatto che noi italiani siamo particolari. Però siamo italiani, all’estero ci vedono bene, a volte ci criticano, ma in fondo sono gelosi del nostro modo di fare italico, la nostra estrosità, la nostra fantasia. Ha già un’idea di quale sarà il suo prossimo incarico dopo l’Irlanda? Io per la verità non pongo limiti alla provvidenza. Fino a quando riesco a camminare e ad andare in panchina, lo farò. L’importante è avere lo spirito, perché è quello che ti dà la carica. Se tu cominci a piangerti addosso non va bene, perché vuol dire che non girerai mai

la pagina. A proposito di provvidenza, ci racconti della sua abitudine di bagnare il campo con l’acqua santa. È qualcosa di sacro nel quale credo molto. Non lo faccio per vincere, ma perché tiene lontano i “menagramo”, ovvero tutti quelli che sono gelosi della fortuna altrui. L’acqua santa mi dà serenità, portandomela sempre dietro ho la consapevolezza che allontani la cattiveria o quantomeno mi dà la sensazione di essere protetto. Il mondo purtroppo è pieno di invidia e l’invidia ammazza più della pistola. C’è qualche scelta che non rifarebbe? Io sono uno che riflette molto, ma molto, prima di fare una cosa. Quando prendo una decisione è perché ne ho la convinzione, quindi non mi sento di dire “ho sbagliato a fare questo”. E se il pallone non fosse mai esistito, cos’avrebbe fatto Giovanni Trapattoni nella vita? Avrei continuato a fare il compositore tipografo, ma non ci sarebbe stata una gran carriera. La sua carriera è davvero lunga: tra le tante squadre che ha allenato, ce n’è una che le è rimasta più nel cuore? Quando diventi allenatore cominci a non avere più l’amore dei colori. Ti trovi bene sul lavoro che fai e su ciò che ottieni. Io scherzo dicendo che ho conosciuto 5 “belle fanciulle”. Se dovesse chiudere la sua intervista con uno dei suoi modi di dire celebri, quale userebbe? Mi prendete alla sprovvista. Di mie frasi celebri ce ne sono così tante che delle volte sono fuori luogo (ride, n.d.r.). Quindi scrivete la vostra impressione su di me che forse è la cosa migliore. Va bene: semplicemente straordinario.

di Silvia Barlascini

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quando l’informazione non è

ATTAPIRATA

Don Chisciotte. Battitore libero. Voce di chi non ha voce. Più semplicemente Valerio Staffelli, il giornalista che fa “quello che faceva in giardino e in compagnia da giovane”: le cose di strada, semplici e vere

S

uona un po’ come quella leggenda che racconta di un Albert Einstein rimandato in matematica e fisica: Valerio Staffelli al primo provino per Mediaset si sente dire che “non ha la faccia giusta per fare televisione”. Da quel giorno sono passati 25 anni e quella faccia, con quegli occhi un po’ sornioni e il sorriso aperto e sincero, è una delle più amate della televisione italiana. La storia di Valerio è intensa ed estremamente varia; inizia in radio, passa al cinema recitando tra gli altri per Gabriele Salvatores e Giuseppe Bertolucci, arriva al piccolo schermo partecipando a trasmissioni storiche come “M’ama non m’ama” e “Scherzi a parte”. Ma la vera consacrazione di Valerio arriva nel 1996 quando inizia la sua militanza tra le file di Ricci come inviato di Striscia la Notizia. Ed è lì, per strada, mentre rincorre armato di Tapiro, politici, autorità e malfattori, che Valerio capisce ciò che vuole fare davvero: mettersi a disposizione per il pubblico servizio e riportare in auge il senso di giustizia. Una professione che per Staffelli fa rima con passione e che da anni cerca di portare avanti a 360°, non solo attraverso i servizi del noto Tg satirico. Valerio, infatti, dà voce a chi non ha voce anche attraverso la sua pagina web, un vero forum “salva cittadino” lontanissimo dallo stile patinato a cui ci hanno abituati altri personaggi della televisione, e attraverso alcune rubriche di denuncia radiofoniche e stampa. “Questo è il ruolo perfetto per me: non solo mi piace difendere i deboli, ma mi diverte davvero moltissimo prendere in giro chi si comporta male, chi non ha rispetto per i diritti dei consumatori o chi crea dei disservizi fregandosene degli altri perché più grosso”. Ma come sei arrivato a ritagliarti questo ruolo? Sono sempre stato uno “senza paura”; uno abituato sin da bambino a rispondere sempre “Sì” a qualsiasi richiesta. È stata la mia incapacità a tirarmi indietro, ad esempio, a portarmi a Scherzi a parte. Al provino mi chiesero se ero in grado di fare il cascatore, ovviamente risposi di “Sì”, e nel giro di pochi minuti mi ritrovai a

lanciarmi da una scrivania. Per fortuna grazie allo sport e alle arti marziali, praticate da piccolo, ne uscii illeso e con un ruolo nella trasmissione. Insomma, se faccio quello che faccio oggi lo devo al mio coraggio, all’assoluta assenza di vergogna e a una faccia di palta che è un vero lasciapassare. Ma quanto è difficile oggi fare dell’informazione di servizio? Facilissimo: basta non avere interessi. Vi faccio un esempio. Fino ad un anno fa collaboravo con una free press diretta da una persona molto coraggiosa che mi dava la possibilità di fare tutto e scrivere di tutti. Poi è cambiato il direttore e con esso anche le cose, così ho deciso di lasciare la rivista; perché quando ti viene detto “dimmi le aziende e le persone di cui vuoi parlare e ti dico di chi puoi farlo”, sai già che non potrai fare vera informazione. Insomma tu lavori bene quando vieni lasciato libero?! Io sono sempre stato un battitore libero, me l’ha insegnato Ricci. Non posso avere uno al di sopra che mi dice cosa fare e come farlo, soprattutto dopo 15 anni passati a fare giornalismo tra TV, carta stampata, internet e radio. Quando troviamo un disservizio possiamo, anzi dobbiamo dire quello che vogliamo… liberamente. Ma ci saranno dei rischi nell’essere un “battitore libero”… Ovviamente: spesso puoi non trovare qualcuno disposto a darti voce e spazio sulle sue pagine, nella sua tv o nella sua radio. Se non trovi un editore coraggioso non puoi fare questo mestiere, ma soprattutto non puoi essere Valerio Staffelli. Anche se a fare la parte di Staffelli si rischiano botte e minacce… Non ho contato le volte che sono andato in pronto soccorso ma sono davvero tante. Arrivano delle botte quando fai una domanda scomoda ma può anche semplicemente succedere che cadi correndo dietro a qualcuno che scappa: sono i rischi del mestiere. Però fare Staffelli vuol dire anche poter realizzare A destra, Valerio Staffelli e il mitico Tapiro compagno di quasi mille avventure.

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QUANDO L’INFORMAZIONE NON è ATTAPIRATA

delle interviste simpatiche come quella con Fiorello o Celentano, degli sparring partner con cui dialogare divertendoti e divertendo. Questa è la cosa più bella: le botte fini a se stesse non mi interessano e me le scordo subito. Saper colpire nel vivo l’interlocutore, capire le reazioni e sapere sin dove spingersi… giornalista ma anche un po’ psicologo?! Direi che è più funambolismo. Devi essere sempre pronto a qualsiasi cosa perché il copione non è mai lo stesso e alle domande che hai preparato ottieni delle risposte che non immagini. In più hai pochissimi minuti per il servizio, sei in prima serata e hai un italiano su due che ti guarda e allora devi saperti destreggiare, improvvisare e adattarti, per portare a casa il risultato. Tra tutti gli attapirati che hai incontrato c’è qualcuno che ti ha stupito per la sua reazione? L’anno scorso: Balotelli. Una nomea di persona irascibile con cui stare attenti e invece… simpaticissimo! è stato al gioco, si è messo addirittura la maglia della mia squadra del cuore (il Milan n.d.r.) pur essendo interista. Davvero una reazione inaspettata. Come è stata inaspettata anche quella di Scalfaro quando a Roma, presenziando all’inaugurazione di un monumento per la pace, ha scagliato addosso a me e i miei compagni, 60 poliziotti che hanno spaccato l’attrezzatura. E il tutto solo per avergli chiesto come mai volesse due auto blu quando può averne “solo” una di diritto. Assurdo! Neanche fossimo nel paese in cui vige la più terribile delle repressioni. Comunque questi sono aneddoti che dimostrano come ogni volta le reazioni siano assolutamente imprevedibili. è per questo che è fondamentale essere preparati ed avere sempre un piano A, B, C… C’è qualche servizio che hai girato che non vedremo mai? No mai. Avete visto sempre tutto… qualcosa come 1000 tapiri consegnati. E questo perché “mai dire a Ricci che una cosa non può andare in onda e mai dire a Staffelli che una domanda non si può fare”; sono le prime cose che vedrete e che chiederemo. Noi siamo così: siamo animali da strada. Degli eroe come Superman, per molti… Mi sento più un Don Chisciotte: come lui sono un po’

cialtrone e poi non ho neanche la cabina per cambiarmi e schizzare via al volo. Non conosco effetti speciali, faccio ridere e basta. Con il mio Tapiro, Sancho Panza, cerco di essere di pubblica utilità, combattendo spesso contro i mulini a vento, e ogni tanto riesco a fermarne qualcuno. Ma dovendo fare un bilancio, secondo te, hanno lasciato più il segno le botte prese o i tapiri consegnati? Dipende tutto dalla tipologia di telespettatore che mi guarda. Alcuni si ricordano solo le botte e rimangono colpiti dalle reazioni fisiche. Per l’ascoltatore medio ci sono le botte ma anche la profondità delle domande. Per il telespettatore più “alto” c’è solo l’aspetto di approfondimento e di denuncia. Striscia la Notizia ha un pubblico stratificato, dal bambino alla casalinga, ed è una fortuna perché mi ha sempre permesso di operare in modo trasversale e di arrivare, anche se in modo diverso, a ragazzini, anziani… Il mondo sta attraversando un periodo di crisi, possiamo affermare che tu non rimarrai mai senza lavoro? In un paese come l’Italia direi che è impossibile. No, non ho conosciuto la crisi quest’anno. Anzi, la cialtroneria che c’è in tutti i settori, anziché diminuire si implementa col passare del tempo. Ma quando non pensi agli altri… cosa ti piace fare? Sport, sport, sport! Mi piace andare in moto: sono amico di Marco Melandri, Carlos Checa e Jorge Lorenzo e andare in pista con loro è come toccare un sogno. E poi adoro sciare, e da qualche tempo, anche giocare a golf; uno sport che mi piace molto per la strategia e la tranquillità che richiede. Mai pensato “basta, cambio, faccio altro”? (Non ci fa quasi finire la domanda e risponde subito). Ma no! Non c’è nulla di più emozionante ed adrenalinico, in televisione, di quello che faccio. La conduzione in studio, come quella di Striscia la Domenica, è bella perché ha una certa atmosfera, ma sei seduto, c’è un messaggio preciso che devi dare, giochi con il tuo compagno per venti minuti, poi tutto finisce e ci si rivede il giorno dopo. La strada invece va studiata, preparata e dà una “scossa” come poche cose. Forse solo la moto, per la quale ho una grande passione, dà un’adrenalina simile. Quando chiudi il

“Grazie a questa faccia riesco a fare tutto e non mi vergogno mai di nulla: è la mia dote” A sinistra, Valerio Staffelli durante una partita di golf, la sua ultima passione in fatto di sport.

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QUANDO L’INFORMAZIONE NON È ATTAPIRATA

Fanta-Tapiro Valerio Staffell si è infilato nella ma ed è partito periun hina del tempo col vi aggio virtuale. Micc o persone anche del ss ione? Co egnare taTapiro sottobraccio piri a cose, fatti serietà e leggerezzapassato. Ne è uscita una listans trasversale che mi in perfetto stile sa schia tirico.

Alessandro Magno

“Perché con la voglia di spingersi olt

re ha esagerato e non si è più trova

to”.

Vittorio Emanuele

“Perché è l’unico della famiglia che

mi manca”.

Le forze della sinistra

“Perché han fatto l’opposizione per anni e quando sono arrivate al mo mento buono per poter dire la loro, non hanno fatto nulla ”.

Marcello Lippi

“Perché quest’anno avrebbe potuto anche non fare l’allenatore della Na zionale e magari con Donadoni avremmo fatto qualcosa di più”.

Gli americani

“Perché cercavano la bomba atomica

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e, guarda caso, non l’hanno trova

ta…”.



dal paracadutismo alla

SUPERBIKE Carlos Checa è ancora alla ricerca di nuove sfide. A 37 anni, il pilota catalano ha grinta da vendere e non solo in sella alla sua moto. Perché, con uno come lui, la voglia di fare non si ferma certo a una bandiera a scacchi

I

nserisci “Carlos Checa” in Google e Wikipedia, l’enciclopedia che dice di essere libera proprio come lui, ti rimanda a una pagina fitta di dati, nomi di circuiti, team, gare, campionati e vittorie. Un susseguirsi di informazioni che tracciano il profilo di uno che con le due ruote ci sa fare sul serio. Ma per cogliere quello che date e nomi non trasmettono, a meno che tu non lo conosca già, con il campione spagnolo ci devi fare due chiacchiere. E ne bastano davvero due per avere subito la sensazione che in sella alla Ducati 1198 non c’è solo un grande pilota (per 10 anni nella top ten della classifica generale della 500 prima e MotoGP poi), ma anche una grande persona. Vera, appassionata, genuina, che vive con ardore e curiosità. Che riesce a entusiasmarti e a trasmetterti i valori in cui crede, al punto tale che quando hai finito di intervistarlo rimane la sensazione che da uno così ci sia ancora tanto da imparare. “La gioia più bella di una vittoria è sapere di aver emozionato tanta gente. Per me arrivare sul podio vuol dire trasferire allegria ad altre persone e questo è il premio più bello che mi rimane”. Ecco, tanto per cominciare e per intenderci. Carlos Checa non è il classico pilota presuntuoso egocentrico che pensa “sono bravo solo io”, “sono meglio di te”. È un ragazzo semplice, nel senso più puro del termine. Uno sportivo a tutto tondo che predilige la vita sana e le emozioni vere. Ama quello che fa e accetta quello - o meglio quel poco - che non gli riesce fare. “Per me lo sport - ci confida lo spagnolo - è bello e le vittorie sono solo la punta dell’iceberg. Logicamente ciò che ti dà una vittoria è un’emozione unica, come quella in Australia (primo classificato a Phillip Island nella gara 2 del 28 febbraio scorso, n.d.r.) di cui ho ancora il ricordo. È bello però anche sbagliare, perché ti aiuta a migliorare. Per me tutto è positivo. Ci devono essere la vittoria per le motivazioni e gli errori perché ti fanno crescere e imparare”.

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La prima volta che sei salito su una moto te la ricordi ancora? Credo di sì (ride, n.d.r.). Avevo… non so, 11 anni. Un amico mi ha lasciato la moto e ho fatto un giro nel paesino dove andavo a scuola di pittura e ceramica. Me lo ricordo sì… È un’emozione che è restata lì. Poi è capitato di diventare professionista di questo sport e di portarlo al limite. Quindi all’inizio non pensavi di arrivare a questi traguardi? No, la moto è nata come una passione e poi è andata così. Secondo te, cosa rende grande un pilota? Non lo so… adesso quando divento un grande pilota spero di scoprirlo (ride, n.d.r.). Beh, diciamo la “dedicazione”. Uno deve amare quello che fa e deve avere una grande determinazione per vincere. E poi deve esserci l’abilità. Le vittorie andando avanti ti danno la motivazione e il senso a quello che fai. Ti dicono che il lavoro è stato premiato e ti ha portato a essere il migliore. Allora credi che per arrivare lontano sia questione di talento e di dedizione allo stesso tempo? Ci vuole equilibrio tra le due cose. A volte serve tanto l’abilità, altre volte serve l’abilità mentale di gestire le gare. È importante anche l’esperienza che ti permette, per esempio, di mettere a posto la moto o di parlare con gli ingegneri. Sicuramente ci vuole molta determinazione e voglia di arrivare. Fondamentale è però anche la voglia di imparare, di crescere, di capire. L’essere curioso, senza pensare mai di essere già arrivato al massimo. Quando credi di essere perfetto, smetti di imparare. Ogni gara, per te, è un’emozione sempre diversa? Non è mai uguale, è unica, non si ripete mai. Finita una gara ne arriva un’altra che è completamente diversa. Cambia la moto, cambia il team, le gomme, le circostanze. La tecnologia cambia. Io sono cambiato da 10


anni fa ad adesso. La gara ora la vedo con altri occhi. Si dice che il piccolo incidente in moto di tuo papà nel giorno della tua nascita abbia segnato il tuo destino da motociclista. Pensi che sia così? Non lo so. Diciamo che il fatto è stato molto curioso, particolare. Ti assicuro però che mia mamma non voleva assolutamente che corressi in moto, dopo questo non le piaceva l’idea. Ma è andata così. Ancora adesso mi chiede ogni anno “Vuoi correre ancora?”. “Eh sì, mamma!” le rispondo.

Magari anche tu da piccolo sognavi di diventare non un pilota, ma… Non avevo un sogno in particolare. Ho sempre vissuto ogni momento… Ovviamente mi piaceva godermi la moto, l’avventura, il senso di libertà e la sensazione che hai quando ne guidi una ad alta velocità. Però a diventare un campione no, non ci pensavo. Da piccolo ho fatto tanti lavori: aiutavo mio nonno in campagna con gli animali, ho fatto il meccanico, studiavo.

Un ritratto di Carlos Checa in posizione di partenza e nel massimo della concentrazione.

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determinazione

ASSOLUTA

Diretta, immediata e spesso spiazzante per la fredda lucidità. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con il politico imprenditore (donna) più famoso d’Italia: Daniela Santanchè

Daniela Santanchè, classe 1961, è segretario nazionale del partito politico Movimento per l’Italia.

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DETERMINAZIONE ASSOLUTA

altri. Quindi io sono un po’ contraria ai politici di professione perché è gente mantenuta dalla politica ed è gente che se avesse dovuto confrontarsi con un mercato, la maggior parte non si sarebbe guadagnata lo stipendio medio dei lavoratori italiani: 1.200 euro al mese. E invece non c’è un po’ di contrasto tra l’imprenditore che pensa tendenzialmente al privato e il politico che, al contrario, si deve interessare della cosa pubblica? No, perché io sono un imprenditore, ma non sono un “prenditore”, come sono in molti. E quindi, non penso solo ai miei interessi personali. Se fossi più egoista e arrivista da un punto di vista economico forse non farei la politica, perché posso avere degli svantaggi, non occupando una posizione centrista ed essendo dichiaratamente una donna di destra. Però poi, insomma, la capacità è tramutare in vantaggi gli svantaggi… succede come con i complessi per le donne. Se hai un difetto, cerchi di farlo diventare un pregio. Mi dà due o tre trucchi/segreti per diventare un bravo imprenditore? Il primo segreto è quello di non avere come unico obiettivo il guadagno. Questo è già un limite che non fa un imprenditore un grande imprenditore. Quindi non è il guadagno il successo primario di un imprenditore. Il successo di un imprenditore deve essere nella capacità di creare valore aggiunto, di creare una squadra, di creare un gruppo, di creare un modo unico in quel settore di fare un lavoro. Tra i miei obiettivi io non penso mai a quanto guadagnerò, ma penso a quello che farò, a come crescerò. Il mio obiettivo come imprenditore è di avere una concessionaria da poter, tra poco, quotare in borsa come una grande concessionaria. Non ho mai l’obiettivo di guadagnare e basta. Un altro segreto è di saper scegliere gli uomini. Come nella vita, nessuno vince da solo, neanche il migliore può vincere da solo, quindi la priorità e saper scegliere e fare la squadra.

“La mia passione è la politica. L’imprenditore lo faccio con dedizione, impegno, mi piace... Però serve per poter fare politica”

In una attività imprenditoriale contano di più le idee, le persone di cui ci si circonda o le relazioni? Le idee credo possano essere una chiara chiave di successo. La squadra pure e, pensando a me, posso dirle che non sarei quello che sono se non avessi i network di relazioni… Beh, direi che sono tutti e tre elementi indispensabili in ugual misura. È più difficile essere mamma o imprenditore? Essere mamma è la cosa più difficile, faticosa perché se tu fai l’imprenditore, hai il mercato che comunque è un giudice assoluto. Per quanto riguarda il “fare la mamma” ci vogliono molti e molti anni per vedere tuo figlio che è diventato un uomo: per questo direi che essere mamma è la cosa più difficile. Poi io, si figuri, ho un figlio di tredici anni che è un ribelle, un rivoluzionario… Le assomiglia, quindi… Purtroppo sì, moltissimo. Spesso mi arrabbio ma poi mi devo arrendere… Anche perché mia madre quando nacque mio figlio mi disse: “Spero che ti faccia pagare tutto quello che tu hai fatto a me”. E così sta avvenendo: l’ho fatto proprio come me, però è un maschio. Ci può raccontare una sua giornata tipo? Mi sveglio alle sei e mezza, un quarto alle sette. Non sono capace di scendere dal letto se non ho letto i titoli dei giornali, almeno cinque o sei testate differenti: questo, diciamo, fino alle sette e un quarto. A quel punto sveglio mio figlio, faccio colazione con lui, lo porto a scuola in anticipo, alle otto meno un quarto circa. Dopo di che vado a correre: faccio 10 km almeno 3 o 4 volte alla settimana; alle 9.30 sono in ufficio e lavoro fino alle 10 di sera. Non le chiedo se essere una bella donna l’ha aiutata nel raggiungimento del successo, perché è una domanda che le avranno già posto milioni di volte. Ribaltiamo la questione, allora: una bruttina fa più fatica? Sicuramente sì, perché anche l’occhio vuole la sua parte. Io sono un’appassionata di psicologia e poco tempo fa, in California, un’università molto importante di Palo Alto ha dimostrato che alle persone di aspetto gradevole si dedica più tempo. Per cui, è meglio essere belli ricchi e intelligenti o… ? Però è anche vero che la bellezza non basta. Per esempio molte donne bellissime e famose poi hanno raccolto poco. È bene essere belle, ma non puntare sulla bellezza. Quali aspetti ha in più, nel lavoro, l’uomo rispetto alla donna? E invece c’è qualcosa in cui la donna supera l’uomo? C’è una caratteristica di comportamento fondamentale, ovvero che per un uomo non c’è alternativa. Un uomo deve essere un capofamiglia, deve guadagnare lo

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DETERMINAZIONE ASSOLUTA

“Come si fa a essere autorevoli? Non lo so... (ride, n.d.r.). Però nel lu ogo di lavoro, nei rapporti, in amore c’è bisogno sempre di una tensione...” stipendio per mantenere la propria famiglia e quindi ha già una motivazione straordinaria, quasi di sopravvivenza. Un uomo non si perde in chiacchiere, ha meno orpelli. Le donne ogni tanto si perdono un po’ con certe cose che non sono importanti. E poi, vede, se devo mettermi dalla parte delle donne, noi siamo impregnate da un sentimento che è quello dell’invidia: piuttosto che vederne una che riesce, meglio nessuna. I maschi sanno fare più gruppo. È stata definita una ribelle che non si piega al sistema, quando ha scoperto questa caratteristica del suo carattere? Quando avevo 12-13 anni, a Cuneo e facevo parte di una famiglia molto borghese, dove tutti dovevamo essere omologati e uniformati… ecco, lì ho rivelato il mio istinto ribelle. Cosa cerca ogni giorno Daniela Santanchè? Intanto ogni mattina, mi alzo e prego, perché dico: “Che fortuna! Abbiamo un altro giorno da vivere”. E quindi sono una molto consapevole che vivere è una cosa meravigliosa. Mi ritengo una persona fortunata perché puoi essere bravo, ma poi se non hai fortuna… tutto diventa più difficile. Penso sempre che mi devo impegnare di più, perché non sono mai contenta. Un punto forte sul lavoro? Rompere le scatole. In questo ufficio c’è tensione. L’autorevolezza è una cosa che, una volta acquisita, è importante esercitare. E come si fa ad essere autorevoli? Non lo so… (ride, n.d.r.). Però nel luogo di lavoro, nei rapporti, in amore c’è bisogno sempre di una tensione, non dare mai nulla per scontanto: tutto improvvisamente può cambiare. C’è qualcosa che le riesce difficile fare? Parlare, come oggi per ore, in riunione, sui sistemi informatici… Sono antica da questo punto di vista. Il giorno più bello e quello più brutto a livello lavorativo? Per me tutti i giorni sono meravigliosi, sono un’inguaribile ottimista. Non saprei qual è il giorno più bello. Tutti i giorni c’è qualcosa di bello. Non c’è un traguardo in particolare… Il traguardo deve ancora arrivare. Non lo vedo neanche da lontano, il traguardo… sono appena partita! Amore, soldi o successo?

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Il denaro… no. L’amore… no. Direi il successo. Ha paura di qualcosa? Sì, ho paura a volte. Come oggi quando sono rimasta chiusa nell’ascensore. Passo per una donna coraggiosa e invece sono molto paurosa. Progetti a breve? Ne ho duemila ma dovrebbe rimanere qui fino a domani mattina… C’è qualcosa di particolare, però, che magari nelle ultime mattine, al risveglio, le appare subito in mente? Fare di Visibilia una grande concessionaria di pubblicità, ovvero la quotazione in borsa di Visibilia. Dove vuole arrivare Daniela Santanchè? In Paradiso…

di Yanek Sterzel





















EOLIE - Vulcano h 5:20 p.m.

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quando GIOCo con il COLORE

L’IDENTI-CLICK

Nome: “Giorgio” Cognome: “Restelli” Data di nascita: “28 settembre 1956” Luogo di nascita: “Varese” Passioni: “Prima di tutto lo sport (calcio, ciclismo e solo di recente il golf), arte, libri, viaggi” Libro sul comodino: “Una montagna di libri, sempre! Senza particolare passione per un genere, leggo in base allo stato d’animo, come fosse un telecomando” Il sogno nel cassetto: “Viaggiare, viaggiare, viaggiare... aprire uno studio e dedicarmi solo ai quadri, alla fotografia, alle mie passioni” Chiudi gli occhi e sei...: “In riva al mare su una spiaggia bianca con chi so io” La colonna sonora della tua vita: “Hotel Costes” La tua carriera in 3 aggettivi: “Fortunata, coinvolgente, colorata” La soddisfazione maggiore raggiunta: “Due figlie meravigliose” L’ultima fotografia che hai scattato: “Le greche traforate dell’affaccio di un harem in Egitto” E la più problematica: “Nel Chiapas, in Messico, durante una funzione in una chiesa sconsacrata, celebrata da una popolazione che crede la fotografia capace di rubare l’anima” Non puoi uscire di casa senza: “Un piccolo portafortuna a forma di farfalla che tengo sempre in tasca”

“Da sempre amo la famosissima foto di Charles C. Ebbets, ‘Lunch Atop Skyscraper’, scattata nel 1932 che ritrae undici operai in pausa pranzo su una trave d’acciaio sospesi a centinaia di metri d’altezza sopra NY ”

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e r o s s e sp un personaggio di

Marco Manfredi, Vice Direttore Generale Publitalia e Direttore Iniziative Speciali Mediaset, nel tempo libero si diverte a fare l’artista. I suoi quadri sono sensazioni che prendono colore. Vere e proprie superfici dal notevole spessore fisico, che danno valore alla materia e voce alle emozioni

D

i origine parmigiane, Marco Manfredi entra nel Gruppo Mediaset quasi per caso. Incontra un amico in Piazza Affari (allora frequentava il mercato caseario in quanto la famiglia produceva Parmigiano Reggiano), ci pranza insieme, un paio di chiacchiere ed ecco che salta fuori una nuova opportunità assolutamente in linea con la sua vecchia passione: il mondo televisivo. Da account manager negli uffici commerciali dell’appena nata Canale 5 al ruolo di Direttore nel Gruppo Mediaset il passo è breve. Certo a patto che ci siano il talento, una grande determinazione e la capacità di trasmettere qualcosa, di emozionare. Pur non definendosi un artista, ma più che altro un “imbrattatore di tele”, questa voglia di emozionare emerge anche quando Marco si dedica, prevalentemente per hobby, alla pittura. In quel momento, la curiosità per la vita che da sempre lo caratterizza e l’amore per tutto ciò che lo circonda si trasformano in materia, diventando immagine su tela... I colori fermano lo sguardo, o almeno, come ci confida lui, ci provano. Attraverso i suoi quadri Manfredi vuole trasmettere qualcosa di gradevole non solo a livello estetico ma anche dal punto di vista dell’attenzione perché, come ci racconta, “troppo spesso si passa sopra le cose senza vederle”. Più che una pittura realista, quella di Marco Manfredi è una pittura figurativa. Lui, che al mondo dell’arte si avvicina fin da bambino, lavora molto il colore e la materia, tramutando l’espressione di quello che prova ad esempio osservando immagini o fotografie, in sensazioni visive. I pigmenti vengono mischiati alle masse oleose o acquose, cambiando l’effetto ottenuto a seconda dello strumento utilizzato (pennello, spatola, lama o altro) e della reazione alla luce. Il bello sta proprio nella sperimentazione. In quest’ottica Marco Manfredi “sporca” la tela e gli può capitare di ridipingere la stessa nuovamente, andando sopra più volte al colore e ottenendo un risultato non previsto. Così come gli capita di tornare un anno dopo su OPINION LEADER 103




L’IDENTI-ART Nome: “Marco.” Cognome: “Manfredi.” Soprannome: “Nessuno.” Data di nascita: “12/11/57.” Luogo di nascita: “Parma.” Professione: “Manager Mediaset.” Passioni: “Ne ho tante (libri, musica, viaggi).” Libro sul comodino: “La doppia vita dei numeri (Erri De Luca).” Programma tv preferito: “Striscia la Notizia.” Il sogno nel cassetto: “Più tempo per viaggiare e per me.” Chiudi gli occhi e sei...: “Una Rock Star.” La colonna sonora della tua vita: “Tunnel of Love (Dire Straits).” La tua carriera in 1 parola: “Fortunata.” La soddisfazione maggiore raggiunta: “Mia moglie e i miei figli.” Non puoi uscire di casa senza...: “Il mio profumo.” Chi è Marco Manfredi in una parola: “Non basta una parola per definire una persona.”

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Tecnica mista: pasta acrilica, volume, cera, pigmenti naturali, 100x100 su tela.


UN PERSONAGGIO DI SPESSORE

In questa pagina, Marco Manfredi in compagnia di alcuni amici del mondo dello spettacolo e della sua famiglia.

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BEAUTIFUL DREAMERS

C

’è un hotel a Venezia più blasonato dei nobili palazzi del Canal Grande, i titoli arrivano uno dietro l’altro e, solo per citare quelli del 2013, possiamo elencare: Best Luxury Boutique Hotel in Europe, Most Romantic Hotel, oppure l’ultimo che gli assegna la fascia di uno degli hotel più sexy del Pianeta. Il segreto del successo è da attribuire all’eclettica proprietà, i fratelli Alessio e Nicola Campa, che oltre ad una consolidata esperienza nell’ambito dell’ospitalità di lusso godono di una passione comune per i viaggi, l’interior design e il collezionismo d’arte. Un mix che, dopo anni di esperienze fatte in maniera indipendente, li ha portati ad un progetto comune: Ca Maria Adele, uno dei primissimi boutique hotel di Venezia, capace di rinnovare il volto dell’ospitalità lagunare. Poi è arrivato anche Palazzetto 113, un hotel più piccolo e raccolto che conferma, qualora ce ne fosse stato bisogno, il talento del duo nel progettare spazi scenografici e funzionali ad alto impatto emozionale! Dopo i numerosi apprezzamenti ricevuti per il loro stile, i fratelli Campa decidono di offrire anche ad un ristretto numero di selezionati clienti la possibilità di avvalersi del loro talento ed esperienza per l’arredamento di case private, e così nasce Campa&Campa. Sofisticati e al tempo stesso confortevoli, gli ambienti creati da Alessio e Nicola spaziano dalle settecentesche eleganze veneziane, tradotte nel più puro gusto contemporaneo, alle suggestioni di terre lontane visitate per commerci o per crociate. Uno stile che nasce dall’amore per l’uso delle tapezzerie, riscoperte e adattate in seducenti abiti per le pareti, dalla passione per l’utilizzo degli scuri legni d’africa, dal rispetto religioso delle simmetrie… rotte dall’inconfondibile gusto per accostamenti inesplorati e spavaldi. Note diverse che si fondono in un’atmosfera fluida, suggestiva e disinvolta, che ha la forza di reinventare ambienti preziosi declinati al presente. Lo stile Campa&Campa è un grido che si ribella alla monotonia, alla povertà di idee e coraggio, alla noia degli occhi, all’orrore della scontatezza. Alessio e Nicola Campa tracciano scenografie irripetibili e poetiche, suggerendo impressioni, evocando atmosfere, aprendo varchi verso mondi lontani, universi fluttuanti e per natura fuggevoli.

di Salvatore De Martino

In alto, i fratelli Nicola ed Alessio Campa. A destra, una delle 2 camere di Palazzetto 113, la nuova struttura realizzata dai fratelli Campa.

116 OPINION LEADER




Il salotto di Ca Maria Adele dove ogni stagione vengono proposti allestimenti a tema.


Un interno parigino. Ph De Laubier.


Il prestigioso interno di una casa privata progettato da Alessio e Nicola Campa.











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