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casi-studio a ferrara forme urbane dell’abitare sociale_ a. guzzon introduzione ai casi scelti_ l. spano via fiume via paolo v barco 60/70 doro intervista all’arch. progettista bernardo bernardi intervista ad un residente barco 90
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dalle politiche ai progetti r. fusari m. zanelli r. lungarella d. guzzinati v. quilici
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casi-studio europei entusiasmo sociale_l. bergamini italia siena firenze francia la caravelle quai de rohan la barre république olanda rotterdam v. quilici considerazioni finali
gianni pirani presidente ordine architetti ppc di ferrara
RI_GENERAZIONI DELL’ABITARE SOCIALE prefazione_ g. pirani premessa_ d. farina introduzione_ me. mantellini
prefazione
“social housing” In questo incerto e confuso periodo storico dove le azioni e i luoghi che regolano la vita delle persone sono stati molto spesso generati da fattori sostanzialmente estranei agli aspetti sociali, occuparsi come architetti di “social housing”, di edilizia sociale in tutte le sue articolazioni, è stata una scelta doverosa e utile. Doverosa per conoscere e ri-conoscere, utile per generare e ri-generare nuove forme e strutture sociali contemporanee. Capire l’evoluzione storica e sociale attraverso la rappresentazione dei modi e dei luoghi dell’abitare e ripercorrere con la memoria i percorsi che li hanno generati fa percepire il senso di appartenenza e le relazioni che nuove comunità hanno ritrovato in queste diverse strutture urbane. Luoghi costruiti per dare risposte ai nuovi bisogni che il cambiamento sociale esigeva realizzando così il valore primario del fare architettura: dare forma e identità alle necessità e alle aspettative delle persone. Utile quindi attraversare il tempo dei luoghi dell’edilizia sociale a Ferrara, riconoscendo le diverse, complesse e a volte contraddittorie relazioni che si sono instaurate fra gli abitanti, con la città e con il territorio. Utile riconoscere il valore della sperimentazione e della innovazione attraverso nuove forme costruttive e nuovi standard abitativi. Sicuramente necessario il confronto con altre realtà europee. Questo è il compito che ci siamo dati: utilizzare e mettere con coerenza al servizio della collettività tutti gli strumenti che le normative da una parte e la nostra cultura dall’altra ci consentono. Oggi abbiamo costruito questo primo importante momento di riflessione grazie al lavoro di molti ed è estremamente piacevole, oltre che doveroso, esprimere i ringraziamenti. Grazie a chi ha sostenuto da subito e non solo economicamente, l’iniziativa, grazie agli Enti che ci hanno supportato e, soprattutto, grazie alle persone, ai componenti della Commissione Cultura, che hanno dedicato a questo progetto il loro tempo, le loro energie e prima di tutto la loro conoscenza.
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premessa
diego farina
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introduzione
presidente fondazione architetti di ferrara Punto di vista Non sono solo nuove costruzioni. E’ molto facile creare un programma di SH, immaginando l’impianto di nuove lottizzazioni realizzate su misura per ospitare residenze per giovani, anziani o persone con particolari “esigenze sociali”. E’ molto difficile recuperare porzioni di città in cui il degrado urbano e la trasformazione nel modo di viverla, ha completamente eliminato le connessioni sociali createsi negli anni. E’ molto facile discutere animatamente di come preservare il territorio, diventando paladini dell’eco-bio-compatibile in voga al momento, per poi accettare il giorno dopo l’allettante offerta dell’immobiliarista di turno che ti chiede di progettare l’ennesima lottizzazione. Però c’è il sughero nell’intercapedine delle pareti! E’ molto più difficile ipotizzare politiche pubblico-privato che cerchino di incentivare l’utilizzo dell’enorme patrimonio immobiliare dormiente! Le persone preferiscono le “vie” più comode, ma si lamentano se le “strade” sono pericolose! Le lottizzazioni che hanno continuato ad autogenerarsi nell’ultimo decennio, preferite da giovani ed anziani per la loro parvenza di proprietà privata e per il loro 3x3 verde di fronte all’ingresso, con i ritagli di prato (necessari per soddisfare gli indici) confinati sui bordi, avranno tra trent’anni la “dignità dell’anziano” o saranno semplicemente “vecchie” Parlare di SH non vuol dire parlare di crisi economica, ma vuol dire parlare di tessuti e di relazioni, vuol dire parlare di dignità nell’uso del bene...o del mezzo...pubblico! Siamo ora il paese che negli ultimi decenni, ha costruito più case, le ha costruite più brutte e le ha lasciate più vuote di ogni altro e le ha fatte, spesso, solo per investire denaro, consumando “troppo del suo disastrato e fragile territorio” . Conversione, dismissione, sostituzione, demolizione, controllo e risparmio energetico, recupero urbano, e riordino territoriale devono diventare le tematiche di una seria analisi civile, politica e culturale!
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Il tema della casa, e le problematiche dell’abitare, hanno assunto nel contesto sociale, politico ed economico attuale, una nuova centralità, diventando molto più articolate che in passato. Il problema della casa, non riguarda oggi soltanto le categorie disagiate di abitanti che rientrano nelle liste comunali di attribuzione degli alloggi pubblici, ma anche un ampio gruppo di persone che viene oggi definito “fascia grigia”, costituita da giovani coppie, lavoratori precari, anziani con pensioni minime e più in generale tutte quelle famiglie che per varie ragioni di carattere sociale, economico, professionale, si trovano in una fase di difficoltà, tanto da non potersi permettere di sostenere l’onere di un affitto o dell’acquisto dell’abitazione, a prezzi di mercato. A questo si aggiunge la crescita degli abitanti immigrati, che costituisce nel nostro territorio per esempio, l’unico segmento di popolazione in aumento, contrapposto al calo di quella autoctona e al progressivo innalzamento dell’età media. In questo panorama inoltre, il graduale aumento dei prezzi delle zone più centrali delle città ha contribuito al fenomeno dello spostamento di molte famiglie, alla ricerca di situazioni di alloggio meno care, in quartieri periferici con l’illusione di un miglioramento della qualità di vita. L’attuale fase recessiva dell’economia ha ulteriormente acuito la questione abitativa e il problema dell’incontrollata dispersione urbana delle periferie. Il consumo sempre maggiore di territorio, consegnato di fatto ad un progressivo impoverimento, ha favorito l’aumento di episodi di aggregazioni urbane disomogenee, sottomesse alle logiche imposte dal mercato, dove lo spazio di progettualità spesso è ridotto a schemi consolidati basati su modelli tipologici, funzionali ed estetici studiati su livelli medi. Si è costruito troppo ed ora l’enorme patrimonio di case invendute è l’aspetto più contraddittorio di fronte ad un evidente bisogno di alloggi. “La necessità è quella di ricostruire e recuperare quello che già c’è... e avere la voglia e il coraggio di costruire sul costruito” (Oriol Bohigas) come per esempio nella proposta francese: Plus. Large scale housing development. An exceptional case. Questo progetto, presentato alla Biennale di architettura di Venezia del 2008, prevedeva la trasformazione-ristrutturazione di vecchi edifici comunali degli anni’60 in un complesso processo di rigenerazione urbana. Da diversi anni sono diventate preponderanti all’interno dello studio sull’abitare, le problematiche relative alla qualità nelle sue varie coniugazioni. Troppo spesso però oggi si tende a sovrapporre completamente il concetto di qualità di un alloggio con la presenza o meno all’interno dello stesso di sistemi per il contenimento energetico, o per la produzione di energia da fonti rinnovabili, o di materiali bio-compatibili. Tali elementi sono senza dubbio fondamentali e contribuiscono alla qualità dell’edificio, ma non sono sufficienti per poter parlare di “qualità abitativa”. Questa è data da una molteplicità di caratteristiche, che comprendono la qualità degli spazi di relazione, la facilità di interconnessione, la costituzione di un senso di appartenenza, o di sicurezza e molto altro ancora. La città è un luogo complesso. Le dinamiche sociali ed economiche impediscono di estrarre dall’analisi urbana una regola univoca ed inequivocabile per il buon esito di costruzioni o il recupero di ambiti urbani. Sembrerebbe scontato parlare di “disegno della città”, ma in questo momento, in cui le pratiche della pianificazione urbanistica attuale non hanno prodotto un reale incremento della qualità urbana, chi ne governa lo sviluppo ha oggi il compito difficile di concepire un nuovo processo congiunto che coinvolga istituzioni e soggetti privati e ne gestisca le proposte di riqualificazione e rigenerazione. Questo lavoro è il frutto della ricerca svolta dalla commissione cultura della Fondazione degli Architetti di Ferrara, allo scopo di stimolare una riflessione su questo tema. E’ stata svolta un’analisi dei dati a disposizione per capire le problematiche e le esigenze relative al contesto territoriale della Provincia di Ferrara. Lo studio del patrimonio ERP-ERS esistente e l’indagine sullo stato di utilizzo attuale hanno evidenziato esempi simili, sia in Italia sia in Europa, dove seppur con meccanismi e dinamiche politiche molto differenti, si sono riscontrate le medesime problematiche, risolte in modo efficace.
maria elena mantellini vicepresidente ordine architetti ppc di ferrara e coordinatore commissione cultura
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bibliografia Farinella R., Ronconi M., (a cura di), 2011, Politiche dell’abitare e progetto urbano, Editrice Compositori, Bologna Franz G., Zanelli M., (a cura di), 2010, Dieci anni di riqualificazione urbana in Emilia Romagna. Processi, progetti e risultati, Corbo Editore, Ferrara Nuova Quasco, (a cura di), Rapporto Provinciale 2010 sul Sistema abitativo, 2010
casi-studio a ferrara
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via fiume via paolo V barco 60/70 doro barco 90 luca farinelli alberto guzzon michele pastore lidia spano claudio tassinari
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forme urbane dell’abitare sociale
alberto guzzon
dall’isolato chiuso ottocentesco al tramonto del sogno di una città giardino operaia chilometri congiunge Padova con Santa Maria di Leuca. Il villaggio, costruito a supporto della zona industriale, dallo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari, ora divenuto Acer) era dimensionato per circa duecento famiglie. Seguendo alcuni principi insediativi ancora attuali, rimaneva arretrato rispetto alla statale e separato da essa con un’ampia fascia di verde. Esso, con il progetto di case indipendenti dotate d’orto e di spazi per piccoli allevamenti (ad integrazione del salario), in un certo senso, era la materializzazione dell’idea stessa della dignità del lavoro, di una società operaia e contadina basata sull’autosufficienza, ma anche dell’illusione di poter vivere in una “villetta”, con giardino, con i servizi necessari alla vita della comunità: chiesa, scuola, infermeria, dopolavoro. L’aspetto urbanistico del villaggio, se visto in relazione alla città, alle vie di comunicazione e alla fabbrica situata lungo il fiume, è da considerarsi uno straordinario esito della cosiddetta “fabbrica totale”, un misto di socialismo utopico e paternalismo padronale, di memoria ottocentesca.
A Ferrara il problema della casa si presentò agli inizi del Novecento, con matrici segnate da un’industria strettamente legata all’agricoltura e alle bonifiche: dopo aver, per anni, richiamato nelle campagne ferraresi i lavoratori, anche dalle regioni vicine, con la fine della bonifica e l’inurbamento del bracciantato agricolo, la situazione degli alloggi precipitò; la massa di braccianti, senza prospettive di lavoro, in gran povertà e spesso senza tetto, si sommava a quella dei reduci della prima guerra mondiale e finiva per riversarsi nelle aree degradate della città medievale per cercare occupazione. Con la legge di Napoli, del 1885, si posero le basi di quello che divenne il lungo dibattito sul risanamento di San Romano, col quale, oltre all’apertura di nuovi assi viari “igienizzanti” si progettava la realizzazione di case operaie nel quartiere Arianuova. Nel Ventennio fascista, nell’ambito della creazione della nuova zona industriale, seguendo un nitido disegno anticipatore dell’attuale “metropolitana di superficie”, si progettò la sistematica costruzione di alloggi operai ad ovest della città, sulla direttrice ferroviaria che andava dalla stazione di Foro Boario a quella di Pontelagoscuro: in particolare, furono interessate le aree dell’ex Fortezza (attuale quartiere Giardino) e Arianuova, gravitanti attorno alla stazione centrale e il villaggio operaio del Barco. Questo disegno ha mantenuto la sua attualità fino ai nostri giorni, generando tessuti urbani d’edilizia sociale che si sono, via via, evoluti per rispecchiare le concezioni urbanistiche e architettoniche dei momenti della loro realizzazione.
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Il secondo dopoguerra, è segnato dalle espansioni residenziali pubbliche INA-Casa del Barco, nelle quali è stata completamente abbandonata la tipologia del villaggio operaio e quella dell’isolato chiuso a favore di nuovi isolati aperti, inseriti nel verde di parchi e giardini e dotati di servizi sociali esterni all’abitazione. Dal punto di vista urbanistico si faceva riferimento alla stagione del riformismo del centrosinistra degli anni Sessanta che guardava con interesse alle esperienze delle città giardino, all’architettura organica scandinava e di Frank Lloyd Wright, con palazzine immerse nel verde ricche di rientranze, porticati, sporgenze e balconi che sembrano voler “agganciare” un rapporto con l’ambiente e la socialità esterna pur mantenendo uno status privato.
Tra il 1920 e il 1930, l’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP) realizzò nuove costruzioni nella zona dell’ex Fortezza, adottando la tipologia dell’isolato ottocentesco chiuso sui fronti stradali, sviluppando le regole insediative della città europea tradizionale. Attraverso tale soluzione, anche se i lavoratori stavano fuori per tutta la giornata, nella grande corte interna, come in un microcosmo, il reciproco controllo sociale delle famiglie e dei ragazzi era assicurato dall’immancabile vecchietta sul balcone che poi riferiva tutto ai genitori. A tal proposito, l’utopia dell’abitare sociale pareva fondersi con le esigenze di economicità e praticità, come risulta dalle indicazioni dell’ing. Ciro Contini, impegnato agli inizi del Novecento nella pianificazione della città e dell’ex Piazza d’Armi*. Egli, nel testo che riportiamo di seguito, fornisce alcune indicazioni che evidentemente facevano riferimento ad un’organizzazione familiare ben diversa da quell’attuale, che vedeva la casa come centro del lavoro domestico, che trovava il suo spazio complementare e di relazione col vicinato nell’ampio cortile all’interno dell’isolato:
Il problema della disposizione degli ambienti di una civile abitazione in rapporto alla più razionale utilizzazione del lavoro, interessa, in modo particolare, le abitazioni economiche e quelle di tipo medio, nelle quali le attività domestiche vengono svolte direttamente dalle massaie, […] Comunque è fuori di dubbio che la migliore utilizzazione del lavoro in qualsiasi tipo di abitazione si consegue anzitutto colla massima riduzione dei «passi perduti»; [...] Così è che può ritenersi ben distribuito l’appartamento dove: l’ingresso, dal quale direttamente si acceda ai vani di rappresentanza, sia indipendente dai servizi interni. Successivamente, nel 1940, si assistette alla nascita del Villaggio Operaio del Barco, tra la città e il fiume Po, lungo la statale n. 16, la più lunga strada italiana, che con i suoi oltre mille
Ogni isolato ha sperimentato una sua forma particolare, con edifici ben allineati o in apparente casuale disordine, creando un caleidoscopio di soluzioni che rompe i rigidi schemi delle esperienze tedesche e sovietiche. Si assiste così alla “dissoluzione” dell’architettura a favore dell’urbanistica, in una sequenza di spazi aperti, legati l’uno all’altro, affinché fosse possibile, percorrendone uno, percepire una sensazione di unità nella varietà. Nelle corti si svolgono le attività di svago e di riposo a carattere condominiale. I differenti gruppi d’edifici convergono verso i servizi alla collettività (scuole elementari, asilo, centro sociale, negozi, area sportiva, zona verde).
* Lucio Scardino, Ciro Contini ingegnere urbanista Liberty House Ferrara tip. Artigiana 1987 Le abitazioni civili da L’organizzazione scientifica del lavoro, a. XII, f.I, gennaio 1938.
Le abitazioni, in genere a tre piani, secondo le indicazioni della Gestione INA-Casa, hanno facciate prevalentemente in mattoni faccia a vista. In esse i dettagli costruttivi sono stati particolarmente curati, con finalità decorative “individualizzanti”, pur in una certa uniformità della tipologia edilizia; lo stesso ingegner Pierluigi Giordani, coordinatore generale del Piano INA-Casa «Barco», affermava di non essersi mai preoccupato di lasciare una «cifra stilistica», personale; ma di essersi invece rapportato al territorio, visto come storia e sedimentazione d’eventi: se il secolo scorso si era aperto nel Delta con la ribellione bracciantile, con la «terra ai contadini» e con gli interventi negli spazi ancora liberi e nelle periferie urbane, gli interventi INA-Casa, andavano osservarti alla luce del momento storico, funestato della distruzione di gran parte del patrimonio edilizio in seguito all’evento bellico, e dell’imponente migrazione interna (dalle campagne alla città, dal mezzogiorno al nord). In quel contesto, il Piano INA-Casa interpretava una visione dell’economia governata dalla politica, una politica fondata sul valore cristiano della solidarietà. Insomma si cercava di conciliare le teorie economiche keynesiane con la carità cristiana per riattivare il ciclo occupazionale, come base per la ricostruzione.
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L’intervento del Barco ha fornito un contributo morfologico importante, che ha salvato la città dal disordine delle periferie che si diffondeva in quegl’anni in altre realtà. Riprendendo le parole di Pierluigi Giordani**:
L’atteggiamento progettuale nel «Barco» è basato, in primo luogo, sulla volontà dialogica (con il luogo, l’utenza); in secondo luogo sulla volontà di personalizzare questo rapporto attraverso i mezzi a mia disposizione, spaziali e costruttivi […] Amavo il dettaglio, esteso non soltanto all’impaginato delle facciate, ma anche agli spazi interstiziali fra gli edifici, alle recinzioni, ai particolari di arredo. Gli interventi nel «Barco» hanno cercato una «spazialità dialogica» [...] ricordando che la collettività è un «insieme di individui». Una volta avviata l’urbanizzazione a nord-ovest, tra la stazione ferroviaria e il Barco, altre aree divennero edificabili per interventi d’edilizia sociale, come, ad esempio, la zona del Doro. Zona che ancora oggi ci appare piuttosto isolata nel tessuto periferico, ma che in realtà è molto vicina all’entromura di via Arianuova e alla zona industriale: per questo motivo, inizialmente era stata concepita come naturale proiezione della città all’esterno delle mura, con un semplice attraversamento della ferrovia.
** Cfr. Immagini della Riforma Agraria, a cura di Alberto Pedrazzini, Longo Editore s.n.c., Ravenna 2003
erano previsti circa 500 alloggi adeguati agli standard contemporanei (che furono poi ridotti per adottare le più richieste tipologie a schiera al posto di quelle in linea).
*** Edilizia Popolare, 277-278, 2003/04, Federcasa, Roma
Gli edifici già costruiti nell’ambito del piano particolareggiato originario risalgono al 1996. Il programma prevede la realizzazione di ottanta alloggi distribuiti nelle due torri e di settantadue nei due edifici a corte. Le torri interpretano il ruolo di “segni” urbani, assecondando le propensioni per l’isolamento e la disgregazione sociale dei piccoli nuclei familiari di una o due persone, con piccolissimi alloggi che comunicano con l’esterno attraverso minuscole loggette che non si guardano tra loro. Le corti riproducono l’idea protettiva del recinto nel quale la socialità riguarda solo chi vi si trova all’interno, tendenzialmente avulso dal contesto urbano circostante. Questa ormai pare essere la “domanda” dell’utenza, dei nuclei famigliari sempre meno numerosi. I servizi, sono i nuovi luoghi della socialità e attraggono utenti dal quartiere e da tutta la città, come la grande palestra, il supermercato, la piazza e, soprattutto, la nuova biblioteca Bassani***.
Oltre i binari, in via Medini di particolare interesse è il complesso della Coopcastello. Pensato per dare una risposta all’urgente bisogno di nuove abitazioni degli anni Settanta, prima d’essere una costruzione architettonica, è un progetto urbano, che si articola su otto blocchi in linea, isolati l’uno dall’altro, ma concepiti in modo unitario per ospitare una gran quantità di alloggi. All’interno di essi, sull’asse longitudinale, sistemato a parco-giardino, vi è un percorso ‘protetto’ che si mantiene comunque permeabile al tessuto urbano circostante. Pur essendo motivato dalla massima economicità del sistema costruttivo (che utilizza la prefabbricazione pesante in cemento) e da un disegno elementare dei fabbricati a forma di semplice parallelepipedo, compensa le proprie limitazioni con diversi accorgimenti ‘sociali’ che ne aumentano la fruibilità, come le loggette lungo i ballatoi, gli stenditoi comuni, i giardini, il garage seminterrato, le sale condominiali, ecc.
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Tornando agli interventi del Barco, Infine, negli anni Novanta si progettò di dare nuova vita al Villaggio Operaio, seguendo una diffusa visione urbanistica orientata alla riqualificazione dei tessuti periferici, piuttosto che verso nuove espansioni. Ferrara, infatti, col progetto dell’Acer per la rigenerazione del villaggio s’inserisce a pieno titolo in tale ottica più generale dopo che, con la crisi e la dismissione generalizzata dell’industria, nel corso degli anni Ottanta, si dovette assistere ad un suo lento decadere. Per andare incontro alle nuove esigenze del cittadino consumatore e dare una risposta al degrado che ormai si manifestava nel villaggio (incapace di rinnovarsi da solo), l’Acer, gestore degli immobili, ha intrapreso un ampio programma di ricostruzione piuttosto che di manutenzione delle case, per conferire al Barco un carattere più cittadino, con tipologie edilizie più diversificate, a maggiore densità e, soprattutto, con una diversa concezione dei servizi a carattere urbano e non più di solo vicinato. Nelle testate sono state previste tipologie a corte e a torre mentre, lungo l’asse longitudinale, erano progettati vari blocchi in linea con una piazza al centro. Al posto di circa 200 alloggi in modeste casette quadrifamiliari (anche se dotate di orto giardino)
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introduzione ai casi scelti
Ferrara ha una antica e consolidata tradizione di interventi in edilizia sociale, almeno fino al secolo scorso. A partire dal primo 900 con le case popolari costruite fuori le mura a Porta San Giovanni, passando per gli interventi del Piano Contini (zone Acquedotto e Arianuova 1926) e poi del Programma di Fabbricazione di Ferrara e Pontelagoscuro con i Piani Particolareggiati di ricostruzione (di Arianuova e del Barco 1950-1955 consulente Michelucci) fino al piano PEEP, primo progettato e realizzato in Italia, in applicazione della Legge 167, con la realizzazione dei Piani PEEP di alta qualità quali Foro Boario e Via Frutteti su progetto dell’arch. Vieri Quilici, già molto noti.
- Il terzo caso è relativo ad un complesso di 8 edifici, di 3 piani più piano terra con autorimesse e cantine, che sostituiscono un isolato del Barco definito dalle vie Gatti Casazza, Guercino, Fratelli Rosselli e Martiri del Lavoro, costruito dall’IACP nel 1972 con fondi ricavati dalla vendita di alloggi. Gli 8 edifici, tutti di una medesima tipologia sono composti da una scala che serve 3 alloggi per piano, ogni alloggio è composto da 2 camere da letto, cucina, soggiorno e servizio. L’isolato è strutturato in modo da dotare tutti gli 8 edifici di spazi verdi verso le strade, afferenti ad ogni singolo edificio, e di formare un’ampia zona verde centrale interna protetta dal traffico veicolare comune a tutti ma anche percorribile e fruibile dall’esterno.
In questa occasione abbiamo pertanto cercato di analizzare alcuni casi meno conosciuti ma significativi rispetto all’epoca in cui sono stati costruiti per valutarne gli aspetti urbanistici e tipologici e le trasformazioni degli spazi interni generate dalle necessità ed abitudini abitative oltrechè dalle normative di riferimento, spesso non positivamente condizionanti. Infatti a mano a mano che si passa dagli anni 50 agli anni 70 si ha una sempre maggiore differenziazione dei vani e delle loro funzioni.
- Il quarto caso è della seconda metà degli anni 70, ubicato nella zona Doro e precisamente nel piano 167 Est Doro zona d, e a differenza dagli altri è stato realizzato per conto del “Consorzio Cooperative di Produzione e Lavoro” committente la “Cooperativa edificatrice a Proprietà Indivisa Castello” . E’ questo un complesso di 6 edifici di notevole dimensione realizzati con sistemi di prefabbricazione del tipo “a tunnel” per un totale di 318 alloggi (in origine) di varie e interessanti tipologie, con vari servizi comuni al piano terra, quali sale per riunioni e assemblee condominiali oggi in parte modificati, e sul coperto (stenditoi) e autorimesse interrate, finanziati con la legge 166. I 6 edifici posizionati sfalsati sul lotto, con andamento nord-sud e di conseguenza affacci est-ovest, per consentire maggiore aerazione e articolazione degli spazi esterni, hanno caratteristiche distributive diverse nei vari piani con tipologie variabili dai monolocali agli alloggi con tre camere da letto, con superfici da 40 a 88 mq, ed una interessante articolazione degli spazi di derivazione dalle Norme GESCAL (es. il locale “pluriuso” collocato tra soggiorno e zona notte e le logge abitabili molte delle quali nel tempo sono state chiuse) interessante anche la collocazione di cantine e ripostigli lungo i corridoi a tutti i piani e di una zona stenditoio, nei piani con distribuzione centrale, ad interrompere ed illuminare i corridoi interni. Questo intervento ci è parso particolarmente significativo sia per il sistema di costruzione che per il sistema di accesso all’abitazione con locazione permanente a prezzi calmierati gestito direttamente dalla Cooperativa le cui costruzioni, fino agli anni 80, erano realizzate con finanziamenti di edilizia sovvenzionata su terreni ceduti a condizioni particolari dal Comune. Attualmente la Coop. Castello gestisce la manutenzione mentre la costruzione di nuovi alloggi , diventata molto più difficile ed onerosa a causa della riduzione dei finanziamenti e della quasi totale indisponibilità di accesso alle aree, è demandata al Consorzio Servizi Urbani.
Dei cinque esempi che abbiamo analizzato uno è stato costruito con fondi del Piano INA Casa ed attualmente tutto di proprietà privata, tre sono di proprietà e gestione ACER (ex IACP) ed uno della Cooperativa Castello (cooperativa a proprietà indivisa) costruito e gestito da soci. Tutti gli edifici esaminati erano caratterizzati dalla ricerca di soluzioni nelle quali il tema degli spazi esterni condominiali-pubblici era prioritario e questo è ancora chiaramente individuabile. Il tema dell’inserimento dell’edificio nella città qualifica gli interventi facendo diventare “l’abitare” non solo soddisfatto dal “pieno”, la casa, ma anche dal “vuoto”, la strada la corte condominiale, gli spazi collettivi ove si svolgono attività comuni di vicinato. In ordine cronologico:
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lidia spano
- il primo caso riguarda uno degli edifici della Zona Acquedotto (ex Fortezza)inserito nel Piano Contini ma realizzato negli anni 40. L’edificio si sviluppa nell’angolo tra le vie Fiume e Corso Piave, è stato costruito dall’IACP e a tutt’oggi è ancora gestito dall’ACER. E’ da notare che ha subito modifiche per messa a norma degli spazi abitativi (es. servizi igienici) ma qui presentiamo le planimetrie dei progetti originali. Si tratta di un edificio in linea che assieme ad altri tre definisce l’incrocio delle due strade, formando degli spazi interni a verde originariamente di dimensione consistente, ancora leggibili anche se parzialmente occupati da autorimesse . E’ dotato di 4 corpi scale, con 2 alloggi per piano, che servono 4 piani . Gli alloggi sono prevalentemente a 2 camere da letto con soggiorno, cucina di notevole dimensione e servizio igienico al contrario di dimensioni molto ridotte. Accurata è la ricerca delle finiture esterne e delle soluzioni d’angolo. - Il secondo fa parte di un intervento Piano INA Casa –primo settennio- progettato nell’area dell’ex fortezza e costruito nei primi anni 50. E’ un edificio in linea, con due corpi scala, di 4 piani più un piano seminterrato con cantine singole e servizi collettivi quali lavanderie comuni e depositi cicli. Gli alloggi sono in totale 16, 2 ogni pianerottolo e sono dotati di vani di dimensioni notevoli con una interessante collocazione di un vano pranzo che può diventare anche letto, anticipazione del “pluriuso” richiesto dalle successive norme Gescal. Tutti gli alloggi sono quindi a 2 o 3 camere da letto.
- L’ultimo caso analizzato, ancora a completa costruzione e gestione ACER, interessa l’ultimo intervento realizzato ed ancora in corso di completamento in zona Barco a parziale sostituzione del primo insediamento del “villaggio degli operai” progettato negli anni 20/40 e iniziato a costruire nel 1942. Dal sopralluogo effettuato si rileva che in questo caso, pur avendo cercato di ottenere il massimo di spazi aperti collettivi ed a disposizione dei condomini, il loro modo di fruizione è diverso e meno socializzato che negli altri casi esaminati. Qui la nostra presenza è stata colta comunque come una presenza estranea che doveva essere controllata con una domanda “voi chi siete dove andate”. Cosa che non ci era successa passeggiando negli altri cortili e giardini, forse a dimostrare quanto sia difficile definire spazi aperti pubblici nei quali poter socializzare liberamente. Nel caso del Barco l’artificiosità degli spazi aperti sopraelevati li fa intendere più come un prolungamento dello spazio privato della famiglia che non come uno spazio pubblico dei vari nuclei ed anche di esterni.
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interviste
D Come nasce questo intervento, sia dal punto di vista urbanistico che architettonico,in particolare ci interessano alcuni elementi: disposizione urbanistica, attacco a terra, logge, ballatoi, sistema distributivo che si distingue rispetto agli altri realizzati a Ferrara che avevano prevalentemente una scala che serve 2 o 3 alloggi per piano. E’ stato semplice arrivare a .questa distribuzione? Sono stati accettati i piani con gli alloggi serviti dai ballatoi? Come ha reagito l’Amministrazione? R L’ Amministrazione nella persona dell’assessore all’urbanistica mandò una lettera molto contraria in cui si diceva che l’intervento era “una cosa obbrobriosa per Ferrara” e veniva accettato solo perché i tempi erano ridotti e si rischiava di perdere il finanziamento. Invece fondamentale fu la collaborazione e l’appoggio dell’ing. Probo Prampolini, dirigente dell’urbanistica, con il quale mi sono confrontato a lungo e mi ha sostenuto. Fondamentale per me avere edifici sfalsati per avere visuali libere, prive di introspezioni, e per l’aerazione. Adesso ridurre tutto a 10 metri tra pareti finestrate crea situazioni insufficienti a garantire la privacy: La scelta di costruire edifici di grande dimensione, ancora attuale, ha consentito di avere grandi spazi verdi accorpati che ancora oggi sono tenuti con molta cura, in proporzione ha molto più verde per alloggio di altri interventi con meno appartamenti . Sembra un intervento ancora attuale, è invecchiato bene. Per quanto riguarda la distribuzione interna del corpo di fabbrica profondo 18 metri (mai visto prima a Ferrara) si trattava di proporre alloggi fuori dagli schemi normali per Ferrara, anche in questo caso ci fu l’approvazione dell’ing. Prampolini, ad esempio per la collocazione della zona pranzo centrale interna. La rottura della separazione rigidamente codificata tra zona notte e zona giorno, anche facilitata dalle Norme Gescal. Quando ho cominciato, ancora studente, a lavorare con Aulici al Foro Boario, ricordo la difficoltà a far accettare il soggiorno passante, non isolato come stanza buona da tutelare. Si facevano corridoi su corridoi per isolare le due zone con grandi perdite di spazio. Non è stato facile da far passare ma ci siamo riusciti. D Da cosa deriva la scelta di localizzare le cantine ai piani? R Fu una scelta molto semplice e abbastanza casuale derivata da spazi di risulta generati dagli alloggi monolocali nei piani a corridoi distributivi interni, più strutturale invece alla scelta distributiva la collocazione delle cantinette ai piani con i ballatoi esterni dove affacciano anche le cucine, con finestre alte per evitare introspezioni, e formano dei piccoli spazi esterni ora personalizzati. D Dal punto di vista normativo come sei riuscito a realizzare le logge abitabili? Oggi non si possono più fare perché fanno volume , le logge in questo progetto sono molto utili e ben collocate anche se nel tempo molte sono state chiuse R Non lo ricordo con precisione, ma le logge erano richieste dai parametri delle Norme Gescal. Per quanto riguarda il volume il progetto era collocato in una zona ampia e completamente vergine che ha fatto variante. Certo c’erano anche allora indici di volume ricordo che tutto il piano terra poteva essere detratto perché destinato a spazi di servizio collettivi, ora molto modificati, gli spazi di socializzazione non ci sono più. D Tutti i bagni sono ciechi come sono stati accettati? R Bene dagli utenti perché molto ben aereati e non c’era l’obbligo di avere almeno un bagno finestrato. Questo ha consentito una miglior distribuzione degli spazi interni, trattandosi di edlizia sociale più cose si riesce a fare e meglio è. Tante norme attuali sono stupidaggini o sono stupidamente applicate (es. l’ottavo di superficie finestrata, dovrebbe dipendere dall’orientamento..)E’ giusto avere una base normativa ma non ridursi a progettare per norme. D A proposito del sistema costruttivo, che condizionamenti ha dato la tecnologia costruttiva del “sistema tunnel” ?
all’architetto
bernardo bernardi progettista coop castello ferrara
Poiché dall’esame dei casi storici è risultato particolarmente interessante – per l’epoca e per Ferrara – il progetto del Doro, di 6 edifici realizzati dalla Coop Castello a proprietà indivisa con assegnazioni in affitto ai soci a tempo indeterminato e a canone di locazione calmierato, ci è sembrato opportuno intervistare il progettista arch. Bernardo Bernardi, allora direttore dell’ufficio di progettazione delle Cooperative di abitazione di Ferrara.
R E ’ stata molto utile per la velocità di realizzazione, venivano costruiti 2 tunnel al giorno, cioè 2 campate , i 6 edifici uno dei quali è diverso e progettato dall’arch. Adriano Lazzari, sono stati costruiti in tempi piuttosto brevi . I setti portanti in cls da 20 cm consentono una buona insonorizzazione dai rumori aerei, perché il calcestruzzo fa massa, mentre se si pianta un chiodo lo sentono dappertutto. Per quanto riguarda invece il contenimento energetico questo è insufficiente rispetto alle attuali normative e sono stati fatti successivamente interventi a cappotto. Durante la progettazione sono andato più volte a Bologna dall’arch. Masi, dirigente dell’ufficio di progettazione delle cooperative di abitazione bolognesi che erano molto più avanti nell’edilizia industrializzata e dal punto di vista delle tecnologia impiantistiche, che ha apprezzato il progetto e ha dato molti utili consigli. D Come è stato finanziato l’intervento? R Con i fondi dell’edilizia sovvenzionata. Allora anche i privati, e tali sono le cooperative di abitazione a proprietà indivisa, potevano accedere alla sovvenzionata per interventi di edilizia sociale da destinare all’affitto.. D Nel tempo sono stati modificati gli alloggi? R No non sono mai state fatte modifiche interne agli alloggi, a parte la chiusura delle logge che molti hanno realizzato con parziale peggioramento però delle condizioni climatiche estive. Sono viceversa stati fatti dalla Coop Castello costanti interventi di manutenzione ordinaria, tinte e pavimentazioni di scale e percorsi comuni, e più consistenti interventi sulle facciate per posa di cappotto coibente e sugli ascensori, tre per ogni edificio, uno dei quali di dimensioni che consentono anche una notevole facilità per i traslochi. D Di che tipo è il riscaldamento? R il riscaldamento è di tipo centralizzato, ogni due edifici c’è una centrale termica interrata D i residenti sopportano il percorso di altri condomini lungo i ballatoi? R Non ci sono problemi perché la distribuzione interna e l’arretramento degli ingressi, con la posizione delle cantinette consente un buon livello di privacy e l’utilizzo di un piccolo spazio esterno privato. D Poiché le uniche modifiche riguardano la destinazione d’uso di parte del piano terra, non più destinato a servizi comuni condominiali ma trasformato a uffici o servizi privati, c’è stato un abbassamento della socialità? R Non c’è più vita associativa condominiale, come anche nel quartiere, perché la popolazione residente è invecchiata, una volta c’erano più bambini, ora i giovani non vivono più qui, lavorano fuori e tornano solo a dormire, e gli anziani fanno molta più fatica ad uscire. Una volta negli spazi comuni a piano terra , oltre alle riunioni e assemblee condominiali si facevano feste e giocavano i bambini”. D Ci interessa molto avere il parere di un residente relativamente al funzionamento e soprattutto gradimento dei bagni ciechi, vi hanno mai creato problemi? R No anzi c’e sempre estrazione dell’aria, non c’è un filo di muffa non ci sono cattivi odori, perché dotati di motori a basso regime accesi 24 ore su 24 posizionati sul coperto, che garantiscono la vivibilità senza provocare eccessivi rumori e aspirazioni d’aria calda”. Alla fine della visita e passando per il garage interrato, a box aperti tra i setti strutturali che lasciano spazi per le auto molto ridotti, di poco più di 2 metri cadauna, abbiamo chiesto se è utilizzato la risposta è stata. “attualmente poco, prima le macchine erano più piccole e ce ne stavano tre, ora si mettono i motorini e a mano a mano che cambiano gli inquilini non gli si dà più il posto macchina in modo da arrivare a 2 posti auto per ogni intervallo strutturale”.
ad un residente
sopralluogo coop castello ferrara Durante il sopralluogo fatto al Doro abbiamo intervistato un residente che ci ha accompagnato nella visita al quartiere ed in particolare ad uno degli edifici, riportiamo qui alcune domande e risposte che ci sono sembrate significative:
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barco 90_2011 foto claudio tassinari
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ferrara | quartiere barco 90
urbanistica
via dell’industria
foto alberto guzzon
disegni luca farinelli
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foto alberto guzzon
foto luca farinelli
architettonico
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alloggio
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dalle politiche ai progetti 46
roberta fusari michele zanelli raffaele lungarella daniele guzzinati vieri quilici
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Il problema abitativo nelle sue più varie accezioni è sicuramente una delle principali questioni a cui oggi gli amministratori pubblici devono poter dare risposte. Il difficilissimo periodo di crisi economica che stiamo affrontando, per la sua durata, le sue caratteristiche e l’incapacità di intravederne un’uscita, ha acuito il problema da sempre presente della casa, estendendolo a nuove fasce di popolazione che fino ad oggi non immaginavano neppure di trovarsi in questa condizione. Se all’incertezza economica, declinata nella difficoltà quotidiana del gestire le economie, sommiamo i tagli drammatici che si stanno abbattendo ormai da un paio d’anni sulle Amministrazioni Locali e quindi anche sui servizi sociali, arriviamo direttamente al tema della coesione sociale, al divario dei redditi, e al conflitto sui servizi essenziali, casa compresa. Non è secondario il tema delle risorse pubbliche investite in questo campo, perché il dato certo è che senza una seria politica abitativa pubblica, non si riesce ad affrontare il problema. Del resto, negli anni ’80 dello scorso secolo ci sono stati gli ultimi interventi interamente finanziati dal pubblico (dalla “legge casa” del 1971 fino al 1988); poi un vuoto che ha determinato la riduzione della spesa pubblica per la casa sotto la media europea (0,1% del Pil italiano, a fronte di 0,72% di media europea, con ad esempio, la Francia a 1,9%). In Italia quindi si è passati da 34.000 alloggi interamente finanziati dal pubblico nel 1984, al 2004 dove gli alloggi erano diventati 1.000, come se improvvisamente il problema dell’edilizia pubblica e della casa in generale non esistesse più.* Se il pubblico non ha più la capacità di farsi carico del problema, deve trovare dei modi concertati con i privati per individuare gli strumenti necessari ad affrontarlo; in un momento in cui la fascia dei bisogni si allarga. La recente L.R.6/2009 sulla disciplina urbanistica, prevede che il 20% della residenza prevista negli strumenti urbanistici sia destinata a residenza sociale; questa misura apre alle Amministrazioni la possibilità di avere a disposizione delle aree da destinare ad edilizia convenzionata, e/o degli alloggi realizzati da privati da destinare direttamente ad uso pubblico per le esigenze abitative. Il Piano Operativo Comunale di Ferrara, in corso di elaborazione, ha inserito la norma prevista con la L.R.6/’09 volontariamente, in quanto essendo il Piano Strutturale approvato antecedentemente, avrebbe potuto non applicarla. E’ comunque vero che le uniche possibilità di poter porre sul mercato dell’edilizia convenzionata è offrire delle aree pubbliche. Ferrara ha saputo nel tempo dare delle risposte quantitative e qualitative al tema della casa. Si pensi ai quartieri INACasa ormai storici nel tessuto novecentesco della città, elaborati con sapienza progettuale e ancora oggi modello di aggregazione edilizia. Fino alle ultime esperienze, al quartiere del Barco, dove l’intervento residenziale pubblico diventa l’occasione di una completa riqualificazione urbanistica di una parte importante di città, densamente popolata, e con la necessità di trovare un’identità basata sulla qualità, anche edilizia. Oggi, il completamento del quartiere Barco è molto prossimo: un piano nato alla fine degli anni ’90, quasi concluso dopo una decina d’anni. Parallelamente si stanno eseguendo interventi che entrano nel tessuto storico della città, non più grandi nuovi quartieri, ma piccoli interventi che interagiscano con la città esistente, cercando di valorizzare la città socialmente, non solo dal punto di vista immobiliare. Una “città creativa” intesa come intelligente fatta di saperi e competenze, quale vuole essere Ferrara, deve anche essere una città accogliente e solidale. L’edilizia sociale risponde all’esigenza dell’accoglienza e della solidarietà. Verso chi ha meno o verso chi viene da fuori. I giovani, soprattutto quelli che scelgono di venire a vivere e lavorare a Ferrara, devono essere supportati. Gli immigrati devono essere inclusi. Entrambi sono risorse per la città, anche in termini demografici, e le nostre scarse risorse dovranno anche andare verso questo settore di domanda. Edilizia migliore, a minore impatto ambientale, che vada a migliorare, anche esteticamente, i tessuti urbani in cui sarà realizzata e non a peggiorarli. Che soddisfi le nuove domande di abitabilità (penso all’esperienza del cohousing presente in città che suscita molto interesse) e non soltanto astratti standard commerciali. Non dobbiamo mai dimenticare che gli interventi edilizi, anche quando sono totalmente privati, modificano parti di città e quindi un bene pubblico collettivo, che va tutelato, continuamente migliorato e riqualificato. La città è un bene pubblico di cui tutti i cittadini devono poterne godere o soffrire.
roberta fusari assessore all’urbanistica comune di ferrara
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l’azione della regione emilia romagna verso politiche integrate per le aree urbane
michele zanelli responsabile servizio qualità urbana regione emilia-romagna
La rigenerazione del patrimonio edilizio esistente è una priorità condivisa ormai da tutti, a cominciare dai costruttori, come è risultato chiaramente in un recente seminario strategico Censis-Ance (Come reintervenire sul patrimonio esistente. Bologna 7 ottobre 2011). Ma per raggiungere livelli significativi di qualità urbana contrastando la tendenza alla dispersione insediativa e al conseguente consumo di suolo questa attività di rigenerazione edilizia si deve integrare con gli obiettivi della inclusione sociale e della salvaguardia dell’ambiente. Includendo nella riqualificazione anche i sistemi di mobilità e le reti delle infrastrutture, di cui le città sono i nodi, senza sacrificare ulteriormente il paesaggio. Dobbiamo pensare le nuove infrastrutture come sistema che dialoga con il paesaggio, rendendolo più fruibile senza alterarlo, più accessibile senza corromperlo. Le città stesse sono infrastrutture: l’infrastruttura urbana è il modello e il motore delle relazioni che costituiscono “l’economia della conoscenza”. Nel migliorare le nostre città, nel renderle più vivibili ed accoglienti dobbiamo mettere a frutto tutta l’esperienza del passato, ma dobbiamo anche aprirci al nuovo, reinventare modelli di convivenza, progettare luoghi che favoriscano la coesione sociale, che ci aiutino a governare i processi di accrescimento della nostra società cogliendo la sfida della multiculturalità. In questa direzione si può leggere l’impegno del Piano Territoriale Regionale per le politiche urbane: ripartire dalle città per qualificarle al loro interno significa puntare sulla riqualificazione urbana come opzione prioritaria, una svolta decisiva per incentivare lo sviluppo della città su se stessa. Occorre tuttavia cogliere questa indicazione verso un più convinto sostegno alla riqualificazione urbana, passando dai provvedimenti settoriali che hanno finora caratterizzato la stagione dei “programmi integrati” a interventi più sistematici di rigenerazione dei tessuti urbani consolidati, a cominciare dalle periferie degli anni 60/70. E’ necessario adottare un indirizzo programmatico di stretto raccordo tra le politiche per la casa e le politiche urbane, ossia una scelta di integrazione tra gli interventi per la residenza e quelli per il miglioramento della qualità urbana, anche ricorrendo a forme di partenariato pubblico-privato: per moltiplicare gli interventi di rigenerazione sul territorio ed influire così in modo incisivo sulla qualità degli ambiti urbani complessivi; per generare un effettivo e durevole miglioramento della sicurezza urbana e della coesione sociale nella “città pubblica”, facendo leva sulla partecipazione attiva dei cittadini e sulla promozione di azioni immateriali che contribuiscono alla accessibilità e alla vitalità dello spazio pubblico.
* Da intervento del Prof.Giovanni Caudo “La questione abitativa ieri, oggi, domani”, nel seminario “La casa, le cose, i casi” del 5/5/2010 in Sala Estense a Ferrara.
Il criterio adottato dalla legge regionale in materia di riqualificazione urbana, nel quadro normativo rinnovato dalla L.R. 6/09, corrisponde a questo approccio integrato nel proporre un riavvicinamento della pianificazione generale (PSC e POC) alle tematiche e alle opportunità della programmazione di progetti attuativi in cui azioni locali di carattere anche settoriale (per esempio di riqualificazione dello spazio pubblico) possano assumere il ruolo di progetti pilota e catalizzare l’attenzione degli attori pubblici e privati verso una idea guida di valenza strategica per le città. A questo scopo, per favorire una attuazione concorsuale e partecipata della pianificazione locale, è stato introdotto nella formazione dei POC (e dei PRU) il Documento programmatico per la qualità urbana come strumento preliminare alla definizione di intese pubblico-privato per l’attuazione degli interventi.
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I temi della città pubblica, della sostenibilità ambientale e della rigenerazione urbana possono così incanalare progetti di qualità delle amministrazioni locali e promuovere, attraverso procedure concorsuali e partecipative, un reale confronto concorrenziale che si traduca in soluzioni progettuali di alto valore qualitativo e che richiamino anche investimenti esterni. A questi principi si ispira la più recente programmazione regionale in materia di riqualificazione urbana: il bando approvato a fine giugno 2011 e intitolato “Concorsi di architettura per la riqualificazione urbana”. Una iniziativa volta a diffondere la cultura del progetto urbano presso le amministrazioni locali invitandole a promuovere, con il contributo finanziario della Regione, concorsi di architettura, sulla base del’omonimo articolo di legge introdotto recentemente dalla riforma della normativa regionale . Per assistere le amministrazioni nella fase di predisposizione delle proposte, la Regione ha istituito un laboratorio di Creatività Urbana nel quale sono stati attuati due workshop molto partecipati da parte di professionisti e tecnici dei Comuni, che hanno intrapreso l’iniziativa dei concorsi non solo per concorrere al contributo finanziario che è previsto dal bando, ma per ricercare, in questa fase critica per l’economia e la finanza locale, nuove opportunità di intervento anche con il concorso dell’imprenditoria privata e dal mondo delle professioni.
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La risposta da parte delle amministrazioni locali è stata quantitativamente alta: 105 sono le proposte pervenute di cui il 70% da parte di comuni con meno di 15.000 abitanti. Dopo la fase della selezione delle proposte da parte della Regione si aprirà quella della definizione dei concorsi locali, che genereranno progetti di impatto qualitativamente rilevante e fortemente condivisi a livello locale attraverso le procedure partecipative che accompagnano quelle concorsuali e valorizzano il contributo dei cittadini. La maggior parte di queste proposte si riferisce a interventi di riqualificazione dello spazio pubblico negli ambiti storici (45%), ma anche in quelli della periferia consolidata (25%). I concorsi riguarderanno il rapporto tra edificato e vuoti urbani, la ricucitura di aree marginali, la definizione di piani coordinati per la sistemazione di piazze, strade e giardini. Sarà molto importante individuare, attraverso i bandi di concorso locale, criteri di valutazione e indicatori di risultato che consentano di premiare, e poi monitorare, la realizzazione di progetti di qualità per la riqualificazione urbana. Dal Piano nazionale di edilizia abitativa un rilancio dei “programmi integrati” Un altro esempio recente dell’impegno assunto dalla Regione verso un coordinamento delle politiche settoriali è rappresentato dal Programma integrato di promozione di edilizia residenziale sociale e riqualificazione urbana approvato con Deliberazione dell’Assemblea Legislativa n. 16 del 7 ottobre 2010. Il provvedimento promuove un programma coordinato di politiche abitative e riqualificazione urbana con riferimento alle linee di intervento del Piano Nazionale di Edilizia Abitativa approvato con il DPCM 16 luglio 2009. Si tratta dell’ultimo “piano casa”, delineato nella legge 133 del 2008, che ha riprogrammato parte dei 550 milioni di euro che erano già stati assegnati alle regioni nel 2007 con il Programma straordinario di interventi di edilizia sociale del Governo Prodi. Per attuare il Piano la Regione ha promosso il Programma integrato di promozione di edilizia residenziale sociale e di riqualificazione urbana, i cui esiti nel, novembre 2010 si sono tradotti
nella proposta di Accordo di Programma da sottoscrivere con il Ministero Infrastrutture e trasporti per destinare le risorse (Euro 22.436.560,02) assegnate dal Piano nazionale alla Regione Emilia-Romagna. I Programmi integrati di promozione di edilizia residenziale sociale promossi nella regione in continuità con i precedenti Programmi di riqualificazione urbana per alloggi a canone sostenibile sono finalizzati a intervenire negli ambiti urbani caratterizzati da scarsa qualità e disagio abitativo, allo scopo di innalzarne il livello di vivibilità, salubrità, accessibilità, sicurezza e sostenibilità ambientale ed energetica, anche attraverso la risoluzione di problemi di mobilità. I Programmi promuovono e valorizzano la partecipazione di soggetti pubblici e privati e contengono azioni ed interventi tra loro integrati per il raggiungimento dei seguenti obiettivi prioritari: 1. migliorare la qualità insediativa e favorire la coesione sociale; 2. migliorare le prestazioni degli edifici e degli insediamenti in riferimento sia alla efficienza energetica che alla sostenibilità ambientale; 3. incrementare la disponibilità di alloggi di edilizia residenziale sociale mediante interventi di recupero e ristrutturazione urbanistica finalizzati alla realizzazione di quartieri integrati con ampie dotazioni di servizi e spazi pubblici; 4. destinare gli alloggi così realizzati prioritariamente alle categorie tutelate dalla legge 8 febbraio 2007, n.9 (soggetti sottoposti a procedure esecutive di rilascio per finita locazione); 5. favorire il ricorso a strumenti di concertazione pubblico-privato per la disponibilità delle aree e a procedure innovative di attuazione degli interventi. (vedi art. A-6 ter LR 20/2000). Dopo quasi un anno dalla sua presentazione il Programma è stato approvato a seguito di parere favorevole del CIPE e lo scorso 18 ottobre è stato sottoscritto l’Accordo di Programma StatoRegione che consente di confermare i finanziamenti statali e di avviare nove programmi di riqualificazione a Piacenza, Reggio-Emilia, Modena, Ferrara, Pianoro e Calderara di Reno (Bo), Faenza (RA), Cesenatico (FC) e Fiorenzuola d’Arda (PC). Gli interventi sono localizzati sia su immobili di proprietà pubblica che di proprietà privata e realizzano una trasformazione urbanistica che mette sul mercato dell’affitto circa 320 alloggi, per lo più (175) frutto di riconversione di edifici esistenti. Le costruzioni sono improntate al miglioramento dell’efficienza energetica in misura superiore (almeno del 10%) ai minimi di legge . La maggior parte dei programmi finanziati prevede anche interventi urbanizzativi e miglioramenti nelle dotazioni dei servizi di quartiere e persegue un complessivo innalzamento della qualità urbana anche attraverso l’inserimento di funzioni commerciali e l’adozione di misure per la mobilità sostenibile come piste ciclabili, attraversamenti sicuri, zone 30km. Si realizza così l’obiettivo dichiarato nel Programma integrato di promozione di edilizia residenziale sociale e riqualificazione urbana: Gli indirizzi prioritari a cui questo programma si riferisce perseguono finalità di riequilibrio territoriale, sostenibilità ambientale e coesione sociale: la realizzazione di interventi per l’edilizia residenziale sociale deve avvenire in stretta integrazione con gli obiettivi delle politiche urbane e territoriali per conseguire uno sviluppo sostenibile.
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> L’incremento dell’offerta di alloggi di edilizia residenziale sociale deve pertanto realizzarsi evitando, o almeno contenendo al massimo, il prodursi di effetti negativi derivanti dal consumo di suolo mediante la dispersione degli insediamenti nel territorio e deve contribuire a realizzare ambiti urbani integrati e ricchi di servizi e funzioni complementari alla residenza. Conclusioni L’attività di trasformazione del tessuto urbanizzato nelle città della regione è stata progressivamante indirizzata, a partire dagli anni ’90, verso programmi di riqualificazione delle aree dismesse e degradate della città post-industriale come antidoto alla espansione urbana: ciò rispondeva ad una esigenza reale, per frenare un processo di urbanizzazione anonima che continua a produrre periferie emarginate e modelli insediativi insostenibili. Ma la pratica della riqualificazione, oltre al fatto che non ha inciso più di tanto nel contrasto alla dispersione insediativa finché questa è stata sostenuta dalla bolla speculativa dell’edilizia, si è limitata alla dimensione degli interventi circoscritti a parti di città ( o addirittura alla scala della ristrutturazione edilizia) producendo di rado quell’effetto migliorativo della qualità urbana che rappresentava il risultato atteso dai cosiddetti “programmi complessi”. Occorre dunque riformulare una strategia di riqualificazione urbana che coniughi in modo indissolubile obiettivi di contrasto al degrado urbano e al disagio sociale con un nuovo modello di sviluppo improntato alla sostenibilità ecologica, economica ed ambientale dei sistemi insediativi.
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La soluzione non può essere affidata soltanto, come ha indicato il recente Decreto Sviluppo, a politiche incentivanti che promuovano ulteriori interventi di densificazione in deroga, non accompagnati da una visione strategica di rigenerazione degli ambiti urbani nel loro complesso. Se si vuole realmente puntare ad un risultato che coniughi assieme obiettivi di miglioramento dell’efficienza energetica e di qualità urbana è necessario porre mano ad un rinnovo dello stock edilizio accumulato negli ultimi 30 anni, facendo convergere su questo obiettivo le politiche di incentivazione e gli strumenti della pianificazione territoriale in un “approccio integrato” tra le diverse politiche settoriali. Si tratta cioè di rintrodurre nella pianificazione locale e di area vasta una cultura del progetto sostenibile che vada oltre il criterio di “compensazione”. Si tratta di ricucire la trama territoriale del paesaggio urbano e periurbano, di recuperare il nesso tra natura e identità dei luoghi nelle trasformazioni urbane, affinché queste concorrano ad innalzare il complessivo livello di qualità della vita anziché riprodurre un modello insediativo che ha dimostrato la sua “insostenibilità” economica, ambientale e sociale.
i fondi immobiliari chiusi e le politiche per la casa appunti preliminari
1. È ormai dall’inizio degli anni ’90 dello scorso secolo che l’impegno statale per contribuire a risolvere il problema della casa per le famiglie e i soggetti che non sono in grado di farlo da soli non costituisce più una preoccupazione dei governanti succedutisi alla guida del paese. La più evidente e prima manifestazione di disinteresse è, naturalmente, di ordine finanziario: dall’approvazione della legge 179/1992 (che introdusse rilevanti innovazioni nella normativa del settore) ad oggi le risorse fresche per sostenere gli investimenti nel settore dell’edilizia residenziale sociale non vanno molte oltre il miliardo di euro. In tutto questo lungo periodo il baricentro delle politiche per la casa si è spostato progressivamente sulle regioni, anche per le modifiche intervenute nell’architettura costituzionale del nostro ordinamento. Anche il peso finanziario di quelle politiche è stato sostenuto, dove sono state fatte, dalle regioni, le quali sono state in grado di farlo in parte impiegando le risorse derivanti dalle economie che si formavano annualmente sui vecchi programmi del piano decennale per la casa promosso con la legge 457 del 1978. Con l’attuazione della legge 122/2010 questa possibilità è venuta meno.* Nella prima parte della legislatura in corso, il governo è sembrato intenzionato a rilanciare il ruolo dello stato nelle politiche per la casa. Al punto che l’articolo 11 della legge 133/2008 prevede la promozione di un piano di edilizia abitativa (che trovò una successiva specificazione in un decreto del presidente del consiglio dei ministri del 16 luglio 2009) impropriamente battezzato come piano casa e audacemente paragonato al piano Fanfani. Il piano presenta molte criticità di impostazione alle quali si aggiunge la quasi totale assenza di una dote finanziaria propria.** I pochi fondi messi a disposizione, meno di un miliardo di euro, sono stati recuperati interrompendo l’esecuzione di precedenti programmi di edilizia residenziale pubblica già avviati. Per accrescere l’offerta, con nuove costruzioni e con operazioni di recupero del patrimonio esistente, si prevede di far ricorso ad un ventaglio di strumenti, iniziative ed interventi a basso impatto finanziario sull’erario statale. Sono previste diverse linee di intervento per dare corpo al piano. Si va dalla realizzazione di programmi integrati per la promozione dell’edilizia “residenziale anche sociale”, alla concessione di agevolazioni “anche amministrative in favore delle cooperative edilizie costituite tra i soggetti destinatari degli interventi”. Entrambi questi tipi di interventi necessiterebbero di risorse finanziarie pubbliche che non ci sono (se si esclude l’esiguo rivolo di quelle riciclate per co-finanziare con circa 380 milioni di euro i programmi integrati di edilizia residenziale sociale). Difficilmente si riuscirà a far cassa con un altro degli interventi previsti dal piano: la vendita delle case popolari a condizioni di particolare favore agli assegnatari che le abitano. Di quel patrimonio non è proprietario lo stato, ma gli ex Iacp o gli enti locali e, se svenduto, i ricavi non permetterebbero di ricostruire neanche un terzo del patrimonio alienato. Le speranze di un incremento del numero di alloggi offerti con contratti, di vendita o di affitto, a prezzi più bassi di quelli di mercato sono, pertanto, riposte sulle iniziative elencate ai punti a) e c) del terzo comma della norma che disciplina il piano casa, entrambe facenti perno sulla mobilitazione di capitali privati. Il secondo di questi punti rinvia alla normativa del codice degli appalti pubblici sulla disciplina dei lavori pubblici realizzati con il ricorso all’istituto della concessione ed allo strumento della finanza di progetto. L’applicazione di questa particolare forma di partenariato pubblico-privato per realizzare interventi di edilizia residenziale sociale non costituisce una novità assoluta, essendo già stata sperimentata, con un certo successo, in qualche programma regionale (per esempio, quello dell’Emilia-Romagna denominato “3.000 case per l’affitto e la prima casa di proprietà”). Il punto di più rilevante innovazione della strumentazione attivabile è, dunque, quello che prevede la “costituzione di fondi immobiliari destinati alla valorizzazione e all’incremento dell’offerta
raffaele lungarella responsabile servizio politiche abitative regione emilia romagna
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* Per una sintetica illustrazione di questa ragione rinvio ad un mio breve scritto, Se il mutuo lo paga la regione, http://www. lavoce.info/articoli/pagina1002287-351. html ** Ho svolgo una disamina critica del piano ne Il diritto alla casa tra welfare state e mercato. Annotazioni sul “piano casa”, http://www.pausania.it/files/lungarella%20casa%20pescara.pdf (in versione ridotta anche in Inforum, n. 36 dicembre 2010
abitativa, ovvero, alla promozione di strumenti finanziari innovativi e con la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati, articolati anche in un sistema integrato nazionale e locale, per l’acquisizione e la realizzazione di immobili per l’edilizia residenziale”. Sulla realizzazione di una ragnatela di fondi immobiliari chiusi ha puntato molto il governo Berlusconi. Ma per fascino o per necessità il fondo immobiliare ha catturato l’attenzione anche degli altri protagonisti, istituzionali e non, delle politiche per la casa. La caduta del governo non determinerà, perciò, l’accantonamento di questo strumento, anche perchè nel tempo è diventata sempre più forte l’assimilazione tra fondi immobiliari ed edilizia residenziale sociale, giungendo a volte al paradosso di ritenere i primi quasi la sola possibilità per incrementare gli alloggi offerti a condizioni migliori di quelle di mercato per chi deve abitarli. Quali siano le carattersitiche di massima che permettono di classificare come sociale un alloggio sono state definitite da un decreto interministeriale. Esso stabilisce che i canoni di locazione degli alloggi sociali non possono essere superiori a quelli determinati dagli accordi locali tra associazioni dei proprietari e sindacati degli inquilini in applicazione della legge 431/1998 di disciplina dei regimi contrattuali degli immobili; questi canoni sono detti concordati; in alternativa viene richiamata una norma della legge finanziaria per il 2004 che permette di determinare il canone nella misura massima del 5% del valore convenzionale dell’alloggio. In ragione del rilievo centrale che essi sembrano destinati ad assumere nel contesto delle politiche per la casa è opportuno dedicare un po’ di attenzione ai fondi immobiliari chiusi accennando sinteticamente alle loro potenzialità ed alle loro criticità, ovviamente dall’ottica particolare di un loro impiego per accrescere l’offerta di alloggi di edilizia residenziale.
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2. L’affacciarsi sulla scena economica-finanziaria italiana dei fondi immobiliari chiusi è relativamente recente. Alla loro introduzione e disciplina si provvide meno di 20 anni fa con la legge 25 gennaio 1994, n. 86, più volte riformata nel tempo. Per i nostri fini non è necessario soffermarsi nella disamina dell’evoluzione della normativa e nell’analisi delle diverse caratteristiche e tipologie di fondi, aspetti entrambi sui quali può essere consultata un’ampia letteratura. Qui può essere, invece, utile un cenno alla rilevanza di questo strumento nel mercato immobiliare italiano. La conoscenza delle loro principali caratteristiche può offrire qualche riferimento per valutare le prospettive dei fondi immobiliari chiusi per l’edilizia a condizioni non di mercato. La rilevazione semestrale di Assogestioni ha censito, al 30 giugno di quest’anno , 163 fondi operativi, con un patrimonio di 24,334 miliardi di euro e un valore delle attività di 40,420 miliardi di euro. Del loro numero totale 140 (con quasi 19 miliardi di capitale) sono riservati agli investitori qualificati e 23 sono fondi retail, cioè sono destinati alla generalità degli investitori; in base al rapporto 2011 di Scenari Immobiliari l’intero mercato italiano di questo settore conta 320 fondi che hanno ricevuto l’autorizzazione ad operare dalla Banca d’Italia e concluso il collocamento, con un patrimonio netto di 36,500 miliardi di euro . Come si accennerà tra breve, il capitale dei fondi immobiliari chiusi con finalità sociali può essere sottoscritto solo da investitori istituzionali qualificati. Una caratteristica di rilievo da evidenziare è la modalità attraverso cui i fondi costituiscono il loro portafoglio. Sono nettamente prevalenti (129 su 163) i fondi “ad apporto”, mentre nei restanti 34 il patrimonio è costituito in modo ordinario. La differenza tra questi due tipi di fondi è che questi ultimi dapprima si dotano di risorse finanziarie e, successivamente, le investono nel settore immobiliare; nel fondo ad apporto, al contrario, il portafoglio viene costituito con il conferimento di un patrimonio immobiliare che viene suddiviso in quote finanziarie e collocato presso gli investitori. I fondi ad apporto hanno il vantaggio, per i sottoscrittori delle quote, di
conoscere in anticipo le caratteristiche degli immobili conferiti e possono, quindi, stimarne meglio il rendimento atteso prima di fare i loro investimenti mentre, nell’altro tipo di fondi, è più problematico valutare il rendimento di un investimento finanziario che non si sa in quali immobili si materializzerà. I fondi ad apporto sono adatti per operazioni di spin-off immobiliari, cioè operazioni di scorporo del patrimonio immobiliare di un’azienda e il suo conferimento ad un soggetto autonomo, come appunto può essere un fondo, per una sua valorizzazione o per esigenze di cassa. Sebbene non si debba escludere il conferimento di immobili anche per la costituzione del portafoglio di fondi immobiliari chiusi con finalità sociali, non sembra, tuttavia, che il fondo ad apporto possa costituire la forma più adatta a conseguire gli obiettivi che essi perseguono. Se gli immobili sono conferiti da soggetti privati, commerciali e non, devono essere valutati a prezzi di mercato e da essi ci si attende un rendimento di mercato; condizioni entrambe che contrastano con la socialità, misurata dal grado in cui la domanda di servizi abitativi può essere soddisfatta a condizioni più vantaggiose, per gli utenti, di quelle di mercato. Il patrimonio di alloggi di proprietà pubblica è già occupato, a bassissimo rendimento, e il suo conferimento ai fondi non accrescerebbe di certo le opportunità di soddisfazione dei bisogni degli utenti dell’edilizia residenziale sociale. Un’ulteriore caratteristica dei fondi immobiliari italiani, interessante ai nostri fini, è costituita dalle categorie di immobili in portafoglio. Dall’indagine Assogestioni risulta la netta prevalenza dei fondi che operano nei vari settori degli immobili con destinazione non residenziale. Il peso più rilevante è detenuto, sia per numero che per patrimonio, dai fondi che hanno in portafoglio immobili per le diverse tipologie di attività terziarie: 61 operano nell’edilizia per uffici (con patrimonio medio di circa 250 milioni di euro), 17 per le attività commerciali (patrimonio medio di 115 milioni circa). Per non dilungarsi molto, qui è sufficiente constatare come quello costituito da immobili residenziali costituisce un segmento relativamente ristretto del mercato nazionale dei fondi immobiliari: ne sono stati censiti 23 per un patrimonio complessivo di poco più di 1.350 milioni di euro e medio unitario poco al di sotto dei 60. L’edilizia residenziale non risulta, dunque, particolarmente attraente per i fondi immobiliari, anche quando il portafoglio è costituito da immobili con un rendimento di mercato. 3. Un fondo il cui portafoglio si compone interamente di alloggi dai quali ci si attende un rendimento di mercato, non è, evidentemente, lo strumento adeguato per l’edilizia residenziale sociale, qualunque tipologia di interventi si voglia raccogliere sotto questa locuzione (purché, naturalmente, si concordi di riferirsi, con essa ad alloggi offerti a condizioni migliori di quelle di mercato). D’altra parte, la costituzione di un fondo che persegue finalità sociali, non potrà essere promossa dall’autonoma iniziativa di operatori commerciali che assumono le loro decisioni di investimento sulla base di valutazioni di ordine economico, ma richiede il coinvolgimento di soggetti pubblici o comunitari che non perseguono fini di lucro, che lo promuovono o partecipano con contribuzioni (finanziarie o reali) e/o con l’accettazione di bassi rendimenti per i capitali da essi investiti. È sulla possibilità che si riesca a dettar questa condizione che si regge la sfida della norma sui fondi del piano nazionale dell’edilizia abitativa, che punta sull’effetto moltiplicatore e di lievitazione di una dotazione finanziaria statale di partenza di 140 milioni di euro. Questa cifra deve essere impiegata per promuovere una ragnatela di fondi immobiliari; il bando per la sua assegnazione ne delinea quella che dovrebbe esserne la struttura e i principali criteri operativi. In cima alla piramide avrebbero dovuto esserci uno o più fondi nazionali con una dotazione
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oscillante tra uno a tre miliardi di euro. Il capitolato d’oneri del bando prevedeva che “nella logica della snellezza la partecipazione al fondo nazionale, da parte degli investitori deve essere prevista esclusivamente attraverso il versamento in danaro “costruzione per cassa” . Unico partecipante al bando del ministero fu il “Fondo investimenti per l’abitare” (Fia) costituito dalla Cassa depositi e prestiti per operare ”nel settore dell’edilizia privata sociale (social housing) con la finalità di incrementare sul territorio italiano l’offerta di alloggi sociali a supporto ed integrazione delle politiche di settore dello Stato e degli enti locali”. Il capitale del fondo costituito, da “Cpd Investimenti Sgr, è detenuto per il 70% dalla stessa Cassa e per una quota del 15% ognuna dall’associazione delle fondazioni bancarie (Acri) e dall’associazione delle banche italiane (Abi). L’obiettivo è di arrivare ad una dotazione di 2 miliardi di euro che, investiti nei fondi locali, potrebbero generare un investimento diretto di almeno 5 miliardi. Ipotizzando che i fondi locali ricorrano al capitale di credito in misura pari alle loro proprie dotazioni (con una leva, quindi, del 50%) ci si attende un volume di attività doppio. L’obiettivo della sottoscrizione sembra ormai raggiunto: a metà dello scorso ottobre erano stati sottoscritti 1,768 miliardi, oltre ai 140 milioni in arrivo dal ministero delle infrastrutture e ai 20 della cassa di previdenza dei commercialisti per un totale di 1,928 miliardi. Per quanto non sia escluso, ed anzi è esplicitamente previsto, l’impiego diretto di questo capitale in operazioni immobiliari, questa rilevante cifra deve essere investita principalmente per sostenere la nascita di fondi immobiliari chiusi locali, con la partecipazione al capitale di ognuno di essi nella misura massima del 40%; se tutto il capitale nazionale potesse essere investito la rete dei fondi locali disporrebbe di un patrimonio di 5 miliardi; ipotizzando una leva del 50%, cioè un ricorso al credito pari all’importo del capitale proprio, 140 milioni di fondi statali riuscirebbero a mettere in moto un meccanismo in grado di generare un investimento potenziale di 10 miliardi di euro. La capacità di attrazione di questa rilevante massa di danaro sembra, tuttavia, si stia rivelando inferiore alle attese. La società di gestione del fondo ha dato la disponibilità ad assumere partecipazioni nei fondi locali per circa 400 milioni di euro (sui circa 2.000 di cui dispone), ma ha deliberato unicamente 50 milioni per la definitiva sottoscrizione al capitale di due sole iniziative, una a Parma ed una a Milano, entrambe ben avviate già prima della costituzione del Fia. L’amministratore delegato della società di gestione del fondo riconduce questo suo scarso appeal alle difficoltà delle banche nella concessione del credito e negli elevati tassi di interesse che non rendono conveniente ai fondi locali indebitarsi. Meno leva meno investimento, in volume complessivo. E, quanto a proporzioni tra tipologie di interventi, più alti diventano i tassi di interesse più si riduce la quota dell’investimento totale destinato all’edilizia residenziale sociale. 4. Indubbiamente il battesimo dei fondi immobiliari chiusi per l’edilizia residenziale sociale avviene in un contesto non favorevole. La stretta creditizia è causa e conseguenza di una crisi economica e finanziaria profonda e diffusa, originata principalmente sul mercato immobiliare nord-americano. Anche gli economisti più attrezzati sono in difficoltà nel predire quando l’economia si rimetterà nella carreggiata dello sviluppo. Prima o poi, però, dovrà succedere e verrà meno, o almeno si attenuerà, il motivo contingente che ostacola il decollo di questi strumenti. È opportuno, tuttavia, avviare una riflessione sulle effettive potenzialità che essi possono sviluppare, una volta ripristinate le ordinarie condizioni di erogazione del credito e rimessosi in moto il mercato immobiliare, operando come previsto dalle regole che per essi sono state definite; sulle eventuali condizioni ulteriori che occorre determinare per diffonderne l’attività ed
anche sugli effetti che possono essere riversati sulla struttura organizzativa di quel particolare segmento del mercato immobiliare costituito dall’edilizia residenziale realizzata con forme varie di contribuzione pubblica. Se l’intera cifra di 10 miliardi di euro fosse investita per la realizzazione di alloggi di edilizia residenziale sociale dal costo unitario di 200.000 mila euro, l’offerta di questa tipologia di abitazioni potrebbe essere incrementata di 50 mila unità; un risultato veramente sorprendente, considerando che tutto sarebbe partito da quei 140 milioni di euro messi a disposizione dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Naturalmente, non sarà così e questo non è neanche il risultato atteso dallo stato che ha incentivato la creazione della rete dei fondi come strumento di politica per la casa. L’obiettivo è certamente quello di massimizzare l’impatto sociale della modesta spesa pubblica di partenza: uno degli impegni che il bando di selezione chiedeva ai gestori dei fondi nazionali era di “selezionare i fondi immobiliari locali o altri strumenti finanziari nei quali investire i loro capitali, sulla base degli impegni di questi ultimi a finanziare programmi o progetti che riservino all’edilizia sociale una quota dell’investimento prestabilito”. Lo stesso bando introduce come criterio di allocazione delle risorse finanziarie nazionali la selezione delle iniziative che presentino requisiti di sostenibilità e fattibilità oltre che urbanistica, tecnica e ambientale anche economico-finanziaria. In altri termini nella scelta dei progetti nei quali investire, i fondi locali devono stare attenti al loro rendimento, che deve essere sufficientemente elevato da garantire la remunerazione del capitale del fondo nazionale, il quale “in termini di redditività del capitale investito e delle quote (..) si pone come obiettivo la ricerca di profili di investimento con rendimenti pari a quelli generati da strumenti comparabili presenti sul mercato”. Quali sono gli strumenti di mercato da prendere a raffronto per la determinazione dei rendimenti dei fondi non è indicato. La prima ragione che viene in mente per giustificare tale dimenticanza è che probabilmente non ve ne sono (d’altra parte, se vi fossero strumenti in grado di conciliare le esigenze dell’edilizia residenziale sociale con la remunerazione di mercato dei capitali investiti, il problema sarebbe già stato risolto, senza la necessità di mettere in campo iniziative e strumenti di una certa complessità e macchinosità) e che il mercato è stato richiamato per sottolineare che il capitale dei fondi è costituito “da disponibilità di risorse finanziarie che hanno natura di investimento e non di sussidio o contributo a fondo perduto” (se non per quei 140 milioni di cui si è già detto). Il bando del ministero, gia richiamato, per la scelta del gestore del fondo individuava come rendimento obiettivo del fondo nazionale il 2% annuo oltre l’inflazione misurata con l’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati. L’accettazione di questo livello di rendimento reale del fondo non costituiva, evidentemente, una condizione di ammissibilità alla gara, poiché la società di gestione vincitrice della stessa ha portato quella percentuale al 3% . L’innalzamento del tasso di rendimento si è, verosimilmente, reso necessario per poter far raggiungere una certa consistenza alla dotazione del fondo; non va dimenticato che la Cassa depositi e prestiti investe nel fondo capitali dei quali fa provvista attraverso la raccolta postale del risparmio (che va remunerato con tassi di interesse in linea con il mercato) e che gli altri sottoscrittori delle quote del fondo sono le fondazioni bancarie, le quali, soprattutto in tempi di carestia come quelli attuali ed in prospettiva, si aspettano un buon ritorno dai loro investimenti (attesa ancor meno eludibile per l’ipotizzata partecipazione alla dotazione dei fondi delle casse previdenziali degli ordini professionali). Lasciando da parte il come si è giunti a stabilire quel livello del rendimento atteso è, però, lecito chiedersi se un ritorno sul capitale investito del 3% annuo oltre l’inflazione può essere reso da un patrimonio di edilizia residenziale sociale. Il rendimento complessivo di un fondo è
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costituito da due parti: dai canoni di locazione e dall’incremento del net asset value (Nav), cioè dall’incremento del valore del patrimonio nel portafoglio del fondo, considerato non al prezzo di acquisto registrato a bilancio, bensì a quello di mercato definito da esperti indipendenti dalla società. Mentre la prima può essere quantificata con certezza alla fine di ogni anno, quando il gestore del fondo avrà pagato i canoni, non così è per la seconda, poiché l’effettivo valore degli immobili nei quali il capitale del fondo è stato investito può essere determinato solo quando essi saranno stati tutti venduti (nulla garantisce che quando il fondo giunge a scadenza il suo portafoglio valga più del prezzo al quale è stato acquistato e/o del costo al quale è stato realizzato). Ciò, naturalmente, introduce un fattore di incertezza nella determinazione del rendimento complessivo dell’investimento, che si aggiunge ad un altro fattore di incertezza, l’inflazione, rendendo problematico stimare il rendimento reale del fondo. Il rendimento è un fattore rilevante non solo per gli investitori, ma anche per valutare la potenziale socialità del fondo, cioè per stabilire se esso permette di affittare gli alloggi a canoni determinati secondo le modalità stabilite dalla normativa sull’edilizia residenziale sociale, e che devono anche essere più sostenibili per gli inquilini. I locatari degli alloggi non hanno interesse al rendimento reale dell’investimento (che invece interessa molto ai sottoscrittori delle quote del fondo); per essi ciò che ha importanza è il rendimento nominale (inteso come al lordo dell’inflazione) che costituisce uno dei fattori (l’altro è il valore a metro quadrato dell’alloggio) per la determinazione dell’importo del canone da applicare ad ogni determinato immobile. Non è indifferente, ai fini delle potenzialità sociali del fondo, se il rendimento reale atteso poggia su uno zoccolo di inflazione dell’uno, due, tre, quattro o anche oltre per cento. Saranno, naturalmente, le circostanze a definire di volta in volta se e come si riuscirà a comporre l’equilibrio tra le aspettative degli investitori e le finalità politico-sociali perseguite dalle autorità che hanno promosso e partecipano alla realizzazione di una rete di fondi immobiliari chiusi.
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5. Quelle autorità manifestano la consapevolezza che la sola sottoscrizione, da parte del fondo nazionale, di una quota, anche relativamente non trascurabile, del capitale dei fondi locali non sarà sufficiente a imprimere una fisionomia sociale a queste iniziative (verosimilmente già all’origine indirizzate principalmente a sostegno del rilancio del settore e dell’economia). Che i risultati attesi, quanto a socialità, dall’intera impalcatura dei fondi non fossero elevati è reso esplicito dall’inserimento, nel capitolato d’oneri della gara ministeriale alla quale si è già accennato, di un criterio di “significatività” al quale attenersi nella scelta delle iniziative alle quali il fondo nazionale deve partecipare . Si legge nel capitolato: “Un intervento sarà significativo, e pertanto ammissibile all’istruttoria, se consente la realizzazione di un numero di alloggi sociali superiori a quello che un investimento pubblico di pari valore, facendo riferimento alla quota percentuale di investimento attribuibile allo stato, avrebbe generato qualora effettuato direttamente mediante corresponsione di un contributo pari al 30% del costo di realizzazione o recupero degli alloggi”. Considerando alloggi del valore medio di 200.000 mila euro, questo criterio-obiettivo risulterebbe soddisfatto se con l’impiego dei 140 milioni di euro ministeriali venisse realizzato, da tutti i fondi immobiliari chiusi locali, un numero di alloggi di edilizia residenziale sociale che non arriva a 2.500. Architettare un meccanismo tanto complesso, come la rete dei fondi, per un risultato così modesto (ottenibile peraltro anche, e forse più celermente, con le tradizionali, e semplici, forme di incentivazione) rischierebbe di essere classificata come una delle manifestazioni di inefficienza della pubblica amministrazione. Le condizioni per attribuire ai fondi immobiliari chiusi la funzione di strumento per le politiche
per la casa devono essere create, quindi, principalmente a livello locale; livello sul quale ricadono, naturalmente, anche gli oneri. Anche i sottoscrittori dei fondi locali, si attendono un buon rendimento per i capitali investiti, almeno in linea con quel 3% più inflazione richiesto dal fondo nazionale; anche le società di gestione dei fondi locali selezioneranno gli investimenti sulla base di valutazioni economico-finanziari che danno la speranza di centrare quell’obiettivo. Quasi inevitabilmente l’edilizia residenziale sociale che i fondi locali riusciranno a realizzare dovrà essere sostenuta, in una forma o nell’altra, dal settore pubblico; la dimensione dell’offerta di alloggi sociali prodotta dai fondi sarà proporzionale a quel sostegno. Nei casi in cui si avrà, il sostegno finanziario delle regioni a queste iniziative non potrà essere significativo, per le note condizioni in cui versa la finanza pubblica. Neanche i comuni sono in grado di fornire alcun contributo finanziario; non di meno sono l’effettivo supporto pubblico sul quale queste operazioni possono fare perno, poiché quello dei comuni è l’unico livello dell’amministrazione pubblica dove è possibile creare le condizioni (sopportandone necessariamente l’onere) affinché in ogni fondo immobiliare chiuso locale convivano obiettivi economici e finalità sociali. Per iniziare a delineare i contorni di ciò che per la produzione di alloggi sociali attraverso i fondi può essere richiesto ai comuni può essere utile riprodurre questo brano dal vademecum già citato della cassa depositi e prestiti: “Al fine di preservare l’equilibrio economico-finanziario delle iniziative immobiliari realizzate dai fondi e i veicoli di investimento locali in cui investirà il fondo nazionale, i sussidi, oltre che pubblici, potrebbero pertanto essere interni ai progetti, prevedendo alcune iniziative che contribuiscono al sostegno di esse (alloggi con affitti e prezzi di vendita più elevati il cui sovra rendimento permetta e renda sostenibile la presenza di alloggi a canoni calmierati, ecc). A tal fine le iniziative possono prevedere un mix di destinazioni d’uso (residenziale a canone calmierato, residenziale a canone di mercato, commerciale, uffici, ecc) ed un mix locazione/vendita che permettano il raggiungimento degli obiettivi di investimento sempre in coerenza con la finalità sociale delle iniziative stesse” . Il lessico può forse risultare fuorviante, ma un’attenta lettura di ciò che viene proposto non dovrebbe lasciare dubbi sull’esito finale che si può prevedere. Il punto chiave di partenza è la constatazione che all’interno di ogni iniziativa potranno esserci alloggi sociali a condizione che ne venga sussidiata la realizzazione. Ogni progetto dovrebbe generare esso stesso i sussidi per l’edilizia residenziale sociale. Poiché si afferma che questi sussidi si aggiungono a quelli pubblici, di primo acchito si dovrebbe ritenere siano privati. Se così fosse i gestori dei fondi dovrebbero destinare una parte degli utili ottenuti su segmenti particolarmente redditizi del portafoglio immobiliare a compensare il sottorendimento del quale si accontenterebbero per gli alloggi sociali. Anche per quanto si è detto finora non sembra che questa sia la prospettiva. Un’interpretazione più plausibile della citazione sopra riportata indurrebbe a ritenere che le condizioni per i sussidi interni al progetto debba crearle l’amministrazione comunale attraverso le scelte di pianificazione urbanistica relative al suo territorio.
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edilizia residenziale sociale del gruppo sefim di ferrara Da quando le Coop.ve di abitazione della Lega Coop.ve operano nell’ambito dell’housing sociale? Le prime Cooperative di abitazione sono state promosse e costituite negli anni sessanta, allo scopo di favorire l’aggregazione dei cittadini e di costruire abitazioni per i propri soci usufruendo dei finanziamenti Gescal previsti dalla legge, riuscendo inoltre a realizzare strutture di servizio in quartieri residenziali, come negozi, uffici, ed altre per elevare il livello di qualità delle zone di intervento. I maggiori interventi di housing sociale a Ferrara sono stati realizzati dalla Coop.va Castello scarl a proprietà indivisa l’unica realtà significativa della provincia di Ferrara che tra gli anni 1977 e 1984 ha realizzato oltre 517 alloggi utilizzando in prevalenza finanziamenti pubblici agevolati in base alle leggi dello Stato e della Regione, ed assegnati a propri soci. Ora l’attività di housing sociale viene svolta dal Consorzio Servizi Urbani che grazie allo spirito di solidarietà e di Cooperazione profondamente radicato nella cultura e nelle tradizioni associative di questa provincia e della sua popolazione ed attraverso l’aggregazione delle Coop. ve a proprietà divisa ed indivisa rappresenta una base sociale di oltre 2.000 soci diventando una realtà consolidata e di riferimento per Ferrara e provincia dopo l’ACER per risolvere il fabbisogno abitativo per le fasce sociali più deboli o svantaggiate; ad oggi il patrimonio abitativo realizzato dalle Coop.ve a proprietà indivisa è di 754 alloggi.
intervista a daniele guzzinati legale rappresentante delle coop.ve di abitazione a proprietà divisa ed indivisa
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Che cosa rappresenta la proprietà indivisa ?
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La proprietà indivisa rappresenta una interessante e moderna soluzione abitativa per chi non può o non vuole impiegare ingenti capitali per una abitazione e per chi godendo di un reddito medio si trova ad essere escluso dalla assegnazione delle case popolari. La formula della proprietà indivisa considera la casa come: _ un bene intergenerazionale di proprietà della cooperativa a disposizione di tutti i soci iscritti e quindi sia degli attuali assegnatari che di quelli in attesa di assegnazione; _ un bene inalienabile destinato permanentemente ad essere assegnato in godimento ai soci in possesso di requisiti specifici quali: cittadinanza italiana; residenza o attività lavorativa nel Comune in cui si realizza l’intervento ed assenza di altre proprietà di alloggi; _ un bene da mantenere efficiente attraverso specifici programmi di manutenzione e di adeguamento alle norme riguardanti la sicurezza, l’impiantistica, le prestazioni energetiche,ecc _ un bene da concedere in uso e godimento ai soci a fronte del pagamento di un canone d’uso destinato al rimborso delle rate di ammortamento dei mutui e delle spese generali, e del fondo manutenzioni generalmente di entità inferiore agli attuali affitti di mercato. Attraverso la proprietà indivisa è possibile risolvere il problema abitativo di tutti coloro che non possiedono i requisiti per accedere agli alloggi di ERP e che contemporaneamente però non hanno neanche la capacità di spesa e di risparmio per comprare una casa o accedere all’affitto attraverso il mercato immobiliare di edilizia libera.
Qual è stato il ruolo del sistema pubblico a sostegno della realizzazione di interventi di housing sociale? E’ necessario fare una distinzione tra il periodo che comprende gli interventi realizzati con risorse stanziate con fondi regionali e statali prima e post legge 457/78 in quanto cambia e si riduce
foro boario
sostanzialmente il meccanismo di sostenibilità finanziaria degli interventi. Con la legge 865/71 viene riconosciuto alle coop.ve edilizie ed in particolare alle indivise un ruolo primario nella programmazione pubblica riguardante l’edilizia residenziale agevolata convenzionata riuscendo a determinare le condizioni che consentirono di concretizzare le aspettative di molti lavoratori di accedere ad una casa in affitto o in proprietà a bassi costi. Con la legge 457/78 piano decennale della casa le Regioni assumono un ruolo sempre più importante e la Regione Emilia Romagna nell’ambito delle proprie competenze ha sempre privilegiato la cooperazione a proprietà indivisa garantendole una quota significativa delle risorse disponibili. Con la legge 179/92 si apre una nuova fase della programmazione pubblica per l’edilizia residenziale; si passa dalla localizzazione di singoli interventi alla localizzazione di programmi complessi (programmi integrati, programmi di recupero edilizio e di riqualificazione urbana). Cambia il contributo pubblico, si passa dal contributo in conto interessi al contributo in conto capitale e la Regione Emilia Romagna destina ancora una volta consistenti risorse alla realizzazione di interventi per la locazione permanente; viene inoltre favorita l’aggregazione di più soggetti operatori qualificati per affrontare programmazioni urbanistiche complesse e per affrontare le tematiche per raggiungere gli obiettivi posti dalla pubblica amministrazione. Vengono inseriti criteri selettivi di valutazione delle proposte di programma sulla base delle caratteristiche urbanistiche e tecniche dell’intervento regolanti il numero minimo degli alloggi, la loro superficie utile l’altezza, la limitazione delle superfici non residenziali. Il calo significativo delle risorse pubbliche induce la Regione ad una ulteriore modifica dei criteri di programmazione dell’edilizia residenziale pubblica privilegiando forme di locazione a termine e permanente, interventi innovativi e sperimentali, interventi per favorire la mobilità dei lavoratori o integrate con strutture di servizi sociali alla persona per bambini e o anziani.
Quale futuro ha oggi la Cooperazione a Proprietà Indivisa? I risultati ottenuti confermano la validità e l’attualità di questa particolare formula cooperativistica, testimoniata anche dalla crescente adesione di nuovi soci e dal rinnovato interesse alla proprietà indivisa, in particolare da parte di giovani ed anziani o di nuclei in separazione. La futura programmazione in considerazione delle pesanti difficoltà sociali ed economiche finanziarie che il nostro paese sta attraversando richiederà un ulteriore maggior impegno da parte dei soggetti pubblici e privati per poter realizzare nuovi interventi di edilizia residenziale sociale a costi compatibili con la limitata capacità di reddito e di risparmio di una fascia sempre più ampia di cittadini anche attraverso la disponibilità gratuita di aree pubbliche in grado di favorire la fattibilità degli interventi di edilizia sociale. La L.R. 20/2000 “disciplina generale sull’uso e tutela del territorio” è lo strumento necessario per le amministrazioni pubbliche per individuare nell’ambito di approvazione dei PSC e POC le aree da candidare per queste finalità. L’attività delle Coop.ve di abitazione è principalmente di gestione organizzativa dell’utenza e di collegamento tra i soci, le istituzioni pubbliche e le imprese che eseguono i lavori, al fine di soddisfare le esigenze dei cittadini soci in cerca di una casa; è strumento importante di attuazione dei piani degli Enti Locali per lo sviluppo ed il recupero urbanistico attraverso politiche abitative. L’edilizia sociale è sempre stata materia ad appannaggio esclusivo degli operatori edilizi, facendo sì che l’attenzione principale fosse rivolta alle tematiche edilizie e meno sull’aggettivo
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> sociale; ed è proprio da qui che le cooperative di abitazione aderenti al gruppo Sefim di Ferrara ultimamente stanno cercando di sostenere le tematiche del Social housing in collaborazione con le coop.ve sociali collaborando fianco a fianco sin dalla progettazione degli interventi per creare programmi edilizi studiati per i diversi bisogni sociali dei cittadini, soci, abitanti, con particolare attenzione ai punti di ascolto al portierato sociale ai servizi all’infanzia, agli anziani cercando di creare senso di comunità ed appartenenza e mantenere i contatti con i soci anche dopo la consegna dell’alloggio.
Quali interventi significativi a Ferrara negli ultimi anni?
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Nell’ambito di queste tematiche le coop.ve di abitanti hanno realizzato alcuni interventi significativi per il territorio di Ferrara in particolare su aree di riqualificazione urbana; per tutti gli interventi è stato necessario sin dalla programmazione e progettazione dei fabbricati lavorare insieme alle coop.ve sociali per rispettare i vincoli previsti dalle normative di riferimento e non solo quelli urbanistici o quelli previsti per l’utilizzo di finanziamenti pubblici. Inoltre si è reso necessario entrare nel merito della progettazione degli arredi e dell’allestimento degli spazi in quanto in particolare per il nido l’idea è stata quella di costruire, per quanto possibile, uno spazio polifunzionale in modo da non vincolarlo ad un unico servizio. - Nel PRU ex ATAM di Via Otello Putinati dove l’ACER ha realizzato uno studentato, il Consorzio Servizi Urbani su parte di area avuta in diritto di superficie dalla Amministrazione comunale ha realizzato 30 alloggi in locazione permanente. Il fabbricato è stato ultimato nel 2003 e ha potuto usufruire di fondi della Regione Emilia Romagna stanziati per i programmi di riqualificazione urbana; la progettazione è stata dell’arch. Emilio Manara. - Nel PRU di Foro Boario su area di proprietà comunale, assegnata in diritto di superficie le Coop.ve abitazione a proprietà divisa ed indivisa hanno realizzato 78 alloggi di cui 36 in locazione permanente. Il programma è stato ultimato nel settembre 2011 ed ha usufruito di fondi della Regione Emilia Romagna stanziati sempre per i programmi di riqualificazione urbana e dal bando Regionale “3000 alloggi in locazione e proprietà”. In questo programma inoltre è stato realizzato un nido nel fabbricato denominato “il posto dei piccoli” in memoria dell’Arch. Emilio Manara progettista insieme all’arch. Paolo Grazzi dell’intervento e dato in gestione in comodato d’uso gratuito alla Coop.va sociale Camelot. - In un area di proprietà della Coop.va di abitazione Borgo Punta a proprietà divisa in località Baura di Ferrara attraverso la Coop.va sociale ONLUS Integrazione lavoro si è realizzata una “casa famiglia” da destinare ad una piccola comunità familiare con lievi disabilità. L’abitazione è integrata in un maggior complesso di edilizia residenziale libera nel “Borgo degli Olivetani” in corso di costruzione; la progettazione è dell’arch. Paolo Grazzi.
via putinati
la partecipazione per il progetto, ieri per oggi Dovendo rievocare, in sequenza, le varie e diverse fasi di una lunga esperienza progettuale compiuta nel campo dell’edilizia residenziale -è questo il mio caso- non posso che riferirmi ad una sua particolarità: essa è sempre stata svolta nell’ambito del movimento cooperativo ed entro un orizzonte politico e sociale che comportava, oltre ad un personale impegno culturale, una notevole dose di certezza nell’evoluzione positiva del sistema in cui si stava operando. Non posso allora non iniziare con quello che è stato l’avvio di tale esperienza, la progettazione svolta per conto della cooperazione ferrarese tra la metà degli anni ’60 e i primi anni ’70. Quell’esperienza, per molti versi straordinaria, corrispondeva “al clima politico e civile che si era creato in una realtà sociale come quella ferrarese, idealmente coesa in rapporto sia alle aspettative che alla fiducia in un futuro correttamente gestibile, quasi naturalmente portata ad avvalersi della collaborazione tra istituzioni, tra diverse categorie e gruppi della popolazione urbana, tra imprese e varie entità produttive confluenti dal territorio verso il capoluogo” (1). Occorre poi collocare quegli anni entro una congiuntura storica (gli anni ’60, appunto) universalmente considerata, rispetto al secolo passato, un eccezionale parentesi innovativa. In quel clima a Ferrara sembrava riservato “un destino di sviluppo ordinato e regolare, come ordinata e regolare era la sua vita interna, e certa la prospettiva del suo riscatto”(2). Ma era anche forte e determinata l’aspirazione e la lotta per il suo reale conseguimento. Sembrava dunque vi fossero le condizioni ideali per sperimentare e mettere in pratica la progettazione di quella “qualità diffusa” dell’edilizia cittadina che, unitamente ad una pratica professionale a sua volta diffusa e più vicina alla domanda, quasi presentava i tratti di una mitologia del mestiere, alla ricerca di una nuova credibilità all’interno dei processi riorganizzativi della professione (3). Il lavoro progettuale poteva avvalersi di una partecipazione che rendeva contigua l’organizzazione politica (del movimento), i destinatari del bene-casa, i cittadini e la professionalità dei progettisti. Le cooperative di progettazione -per quel che riguarda la sede in cui operava il sottoscritto, la Coper di Roma- sembravano garantire una certa qual garanzia di continuità di lavoro all’interno dello stesso movimento come nell’ambito del mondo produttivo mosso da finalità analoghe, degli Enti locali, delle varie Associazioni di categoria, dei partiti della sinistra. E la cooperazione, “terza forza” o “terza via” dell’economia nazionale, sembrava favorire tale condizione. Così, progettare abitazioni sociali in cooperativa diventava quasi una scelta obbligata e suonava come Abitare in cooperativa, che era lo slogan dell’Associazione nazionale delle Coop di abitazione. Una scelta che mi avrebbe poi accompagnato nelle fasi successive della mia esperienza progettuale. Con il ben organizzato gruppo dei colleghi romani si sarebbero create condizioni analoghe in altri contesti nazionali, generalmente nelle regioni del Centro-Nord in cui la presenza del Movimento era già consistente (4). Si trattava generalmente di interventi di media e alta consistenza le cui tipologie (di alloggio e di aggregazione complessiva), discusse preventivamente, si caratterizzavano tra l’altro come prodotto di una continua, condivisa sperimentazione. La progettazione seguiva le fasi che oltre alle procedure previste per il reperimento delle risorse finanziarie e la destinazione dell’area, dovevano corrispondere, preliminarmente, alle esigenze espresse dalla base dei soci, normalmente organizzati in grandi cooperative (in genere a proprietà divisa, ma sempre a guida fortemente centralizzata). Si partiva da un planivolumetrico d’insieme, frutto delle discussioni preliminari e destinato a misurarsi con le previsioni di Piano regolatore. Spesso se ne proponeva anche una variante, vista la particolarità di una progettazione unitaria che rendeva possibile nuove forme di aggregazione tipologica e volumetrica (questo fu, appunto, il caso dell’intervento ferrarese di “Foro Boario”, la cui originale volumetria di Piano era prevista in palazzine isolate), per proseguire poi con le varie fasi della progettazione “definitiva”.
vieri quilici
(1). Cfr. V.Q., Ferrara e l’abitazione. Gli anni del riscatto sociale, in Annuario SocioEconomico Ferrarese, CDS 1997, pagg. 268-275. (2). Ibidem. (3). Una professionalità che andava perfezionandosi con l’espansione delle Cooperative di progettazione, che a loro volta si andavano organizzando in movimento. “Nell’arco di tempo di circa dieci-quindici anni si sarebbe assistito ad un indiscutibile salto qualitativo nel costume professionale. Gli scenari entro cui si collocava il lavoro di progettazione sembravano, soprattutto a chi vi partecipava, aver subito una profonda modificazione. Era convinzione-speranza di molti che tra il professionista legato alla firma individuale del ‘titolare’ di studio e le grandi società di progettazione, le maggiori imprese private e pubbliche, vi fosse lo spazio per altre forme di professionalità, fondate sull’integrazione delle esperienze e sulla caratterizzazione dell’offerta, in quanto continuamente a confronto con la domanda emergente”. Ibidem. (4). Si possono citare, tra i più importanti, i contesti in cui il movimento cooperativo si trovava nella fase politico-organizzativa iniziale, e in cui la Coper si trovò ad operare, nelle Marche (Ancona), come in Umbria (Perugia, Terni) ed infine, nel Lazio (Roma, Rieti). Tramite poi un intreccio di rapporti con Cooperative di progettazione e gruppi operanti in altre regioni si sarebbero create condizioni interessanti di lavoro in Piemonte, Lombardia, Liguria e Toscana. In tutti tali casi i gruppi erano sin dall’inizio coinvolti nell’attività di promozione politica, nella formazione delle cooperative, nell’offerta di informazioni e nell’assistenza tecnica da fornire alla base dei soci cooperatori.
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Il rapporto politico con le istituzioni pubbliche costituiva poi anche una garanzia per il corretto proseguimento del processo, includendovi il rapporto con i servizi e le connessioni con altre parti del Piano. Queste erano le condizioni che in un arco temporale anche piuttosto limitato (di circa un decennio) hanno reso possibile la realizzazione di una quantità di interventi notevole, ma soprattutto caratterizzati da una qualità d’insieme che li rende ancora oggi riconoscibili quale frutto di un metodo partecipativo e oculatamente non dispersivo delle risorse disponibili. Occorre tuttavia notare come le condizioni politiche generali del paese ed interne al movimento sarebbero poi mutate nel giro di pochi anni, inaugurando una fase (prolungatasi fino circa allo scadere degli anni ’80) in cui si sarebbe registrata, specie nelle grandi città, una progressiva perdita della funzione innovativa e socialmente positiva degli interventi cooperativi. Al contenuto prevalentemente socio-culturale sino ad allora presente nella progettazione degli interventi residenziali nei confronti dei relativi contesti urbani, sarebbero via via subentrate, nelle organizzazioni del movimento (dell’Abitazione e della Produzione e Lavoro), come negli orientamenti della stessa domanda sociale, finalità e metodi tipici della produzione edilizia corrente e/o “spontanea”, prevalentemente costituita da tipi edilizi “isolati” e del mercato immobiliare minore, della “palazzina” (5). Arrivando alle fasi più recenti della mia esperienza progettuale, debbo far riferimento, necessariamente, all’attività da me svolta a Roma, fino alla conclusione degli anni ’90 e all’inizio del nuovo secolo. E’ proprio in tale fase, per me conclusiva di una militante attività progettuale, che ho potuto misurare la perdita progressiva di contenuto che ha dovuto registrare un metodo ancora solo apparentemente in uso come organizzazione, ma in realtà tecnicamente ormai strettamente funzionale ad una pura logica aziendale e di mercato. Si può semmai riflettere sul senso dei cambiamenti sopravvenuti, soprattutto nel clima politico generale e nella più recente trasformazione delle aree metropolitane. Ma è certo che il fenomeno sia da connettersi sempre più all’indifferenza, negli interventi di edilizia sociale, agli aspetti locali della programmazione di nuovi complessi abitativi e alla qualità della loro vita interna. La grande scala dei problemi e la polarizzazione dei programmi attorno alle aree di maggiore criticità ha progressivamente portato, nel corso degli anni’80, a scelte rispetto alle quali intervento pubblico, imprese private e cooperative di Produzione e Lavoro si sono trovate a svolgere ruoli complementari in senso lato produttivistico. Un esempio tra i più noti ed emblematici di quel periodo è rappresentato dal quartiere romano di Tor Bella Monaca (6), dove le tre componenti produttive del settore edilizio avrebbero operato in parallelo, conseguendo grazie alla tipizzazione generalizzata del prodotto-casa (edifici e tipologie) la massima riduzione dei tempi, ma anche penalizzando nel rapporto residenza-servizi la qualità complessiva dell’intervento. Con la crisi politico-istituzionale apertasi all’inizio degli anni ’90 e successivamente, si entra in una fase ulteriormente complessa, in cui il ruolo dell’intervento pubblico e, accanto ad esso, quello cooperativo, denunciano un radicale ridimensionamento e soprattutto una minore incidenza sulla più generale offerta di abitazioni economiche a carattere sociale. Di contro, si fanno più consistenti gli interventi a grande scala dovuti all’iniziativa delle imprese private, agevolati anche dalle nuove strumentazioni urbanistiche, come gli Accordi di Programma, che consentono, in variante di piano, acquisizioni di suoli a basso costo e localizzazioni anche molto decentrate. La produzione di alloggi si sarebbe così assestata su di uno standard tecnologico sensibilmente più elevato, ma sempre più omologato rispetto a fasce di mercato ad alta solvibilità. Il costo unitario degli alloggi si sarebbe inevitabilmente innalzato e l’offerta si sarebbe orientata verso tipologie minime, alla portata di una media disponibilità. Sarebbe d’altro canto rimasta inevasa la domanda di ceti dotati di una scarsa disponibilità finanziaria e
(5). Va anche detto che in tale fase l’aumento della produzione nel settore e, contemporaneamente, la perdita di originalità nei confronti della produzione corrente fosse forse dovuto proprio alle agevolazioni finanziarie e alle favorevoli procedure riguardanti per legge gli interventi delle cooperative. (6). Il quartiere rispondeva alla legge n.25/’85 (detta “Legge Andreatta”) destinata ad arginare l’emergenza di massa dovuta allo sblocco dei fitti. All’urgenza del provvedimento avrebbe corrisposto una progettazione indifferente alle esigenze particolari dell’utenza e un’eccessiva uniformità del prodotto. Ai caratteri deficitari di quel tipo di intervento -e di quella metodologia- si cercò di por rimedio a metà degli anni ’90 con un programma europeo -il Progetto Urban- mirato al recupero ambientale e sociale dei maggiori casi di criticità metropolitane, tra cui appunto, tra i più problematici, il quartiere di Bella Monaca. Il caso fu preso ad emblema di una progettazione insensibile sia agli aspetti sociali che ad una corretta relazione tra funzione residenziale e dotazione di servizi, rimasta a lungo del tutto trascurata. Basti pensare che fu il sottoscritto ad attribuire tale tema al proprio corso di progettazione, al fine di prefigurare un sistema più integrato di relazioni.
difficilmente in grado di affrontare mutui a tassi d’interesse non agevolati. Si sarebbe insomma venuta a creare nel corso degli anni quella forbice tra domanda ed offerta, che avrebbe alla fine determinato l’attuale situazione di stallo del mercato e di crescente insoddisfazione sociale, specie per ciò che riguarda la produzione di alloggi per giovani e nuove famiglie. L’aspetto maggiormente inquietante di tale condizione di stallo e di insufficiente programmazione è costituito da una parte dalla mancanza di provvedimenti di tipo pubblico a sostegno delle situazioni più disagiate (ricorrendo a mix di tipologie di finanziamento, non solo quindi pubblico e/o statale), dall’altra dall’indifferenza rispetto a studi e sperimentazioni che si vanno compiendo in contesti più e meglio organizzati presenti nel panorama europeo ed anche, in determinati casi, in ambito nazionale (7). Mi si chiede poi di viaggiare nel tempo, non nel senso retrospettivo del passato, ma in un ipotetico futuro, concepibile però a partire dalla condizione del presente. Mi si chiede di formulare un’ipotesi progettuale del tutto improbabile, di pronunciarmi cioè sull’eventualità di una nuova soluzione progettuale da riferire ad un’opera compiuta in passato, a conferma, ad integrazione-correzione o in alternativa ad essa. La prima idea che può venire al progettista non può che essere quella che lo contraddistingue come custode delle proprie convinzioni e della loro traduzione in azioni compiute materiali: la conservazione, possibilmente salvando quanto più possibile delle tracce della prima, originaria ideazione, attraverso un’azione mirata al continuo mantenimento di senso. In seconda istanza al progettista può emergere un desiderio di aggiornamento dell’opera in relazione ai cambiamenti sopravvenuti nel contesto, ovvero di suo parziale ripensamento e di correzione dei difetti rivelatisi nel tempo. Raramente si può supporre che venga dallo stesso progettista la formulazione di un’ipotesi più radicale e cioè la demolizione e ricostruzione su basi ideali e materiali del tutto nuove rispetto al senso originario dell’opera ed al rapporto che essa ha stabilito con il contesto. A riprova della sua improbabilità, si inizi, ipoteticamente, da quest’ultima ipotesi e si cerchi, prendendo ad esempio il quartiere di Foro Boario, di rispondere alla questione nell’unico modo possibile, esercitando cioè l’immaginazione. Si vedrà come qualsiasi soluzione alternativa basata su di una diversa forma del costruito reclamerebbe una verifica di senso che a sua volta non potrebbe non scaturire dalla considerazione delle modificazioni sopravvenute. Un’immaginazione, cioè, che scaturisse da pura invenzione, priva di riferimenti al divenire delle stesse modificazioni, non ne costituirebbe una risposta dotata di senso, non potrebbe che risultare gratuita. Si entrerebbe nel gioco dell’immaginario fantastico, delle forme virtuali e (se del caso) del bello puramente formale. Altro discorso, di ben diversa possibilità/probabilità di acquisizione di senso (e/o di “risignificazione”), deriverebbe dalla considerazione di un ripensamento e di un adeguamento alle questioni che verrebbero poste dalla trasformazione/i di contesto/i sopravvenuta/e. Ci si troverebbe nella normale situazione di attenzione alla vita delle opere (8), alla loro curabilità, nel senso non solo materiale. Si presenterebbe la situazione del medico che interviene sul corpo vivente dell’opera quando vi sopraggiungano le malattie e la senescenza, valutandone la compatibilità con le richieste provenienti dal mondo circostante. Ogni opera ha la sua età, si dice comunemente. Ma si dice anche che possieda un suo destino. Ad ogni stadio della sua vita possono naturalmente sopravvenire novità e modificazioni, come gli adeguamenti e i semplici aggiustamenti, come anche le correzioni, le demolizioni e gli interventi per sostituzione. Tutto è ammissibile, purchè sussistano le condizioni di senso derivanti dal rapporto bifrontale con il sistema/i di appartenenza, in un crescendo di sfere di relazioni, dalle più vicine (locali) alle più generali (di sistema).
(7). Molto interessante per es. la sperimentazione in atto in provincia di Bolzano, dove si tende ad applicare metodologie di programmazione ed intervento ispirate alle Best pratices dei processi di progettazione ed esecuzione degli interventi di edilizia residenziale pubblica. Così come in contesti europei come quelli di Olanda, Danimarca, Francia, oltre che all’aggiornamento delle esigenze in termini di “appropriatezza” e “convenienza”, si vanno studiando nuove normative che consentono maggiore libertà ideativa del progettista e maggiore qualità degli esiti conseguiti. L’indifferenza qui lamentata riguarda anche studi che in questa direzione vengono svolti in ambito universitario nazionale (cfr., tra l’altro: S.Sarcineto, Best practices-progettare la complessità; F.Ortolani, All-oggi contemporanei-da cosa nasce casa, Roma 2010, Scuola dottorale in “Culture e trasformazioni della città e del territorio”, Sezione di Progetto Urbano Sostenibile, XXI Ciclo). (8). E’proprio questo -mi permetto di segnalarlo- il titolo della mia recente pubblicazione dedicata al tema della durata in architettura. Cfr. La Vita delle Opere, una riflessione e vari pretesti sulla durata in architettura, Palombi ed. , Roma 2011.
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casi-studio europei italia
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siena firenze
francia
villeneuve-la-garenne lorient lorient
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rotterdam lorenzo bergamini azzurra carli francesca pozzi claudio tassinari
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introduzione ai casi scelti
entusiasmo sociale
lorenzo bergamini
Questo lavoro di ricerca della commissione cultura ha permesso di mettere a fuoco e di dare possibili risposte alle questioni che assillavano le nostre riunioni: che cosa ci insegnano queste nazioni? Come si rigenera? In Italia si rigenera? Quali sono gli esempi italiani? Il panorama dell’housing sociale, attualmente così in fase di sviluppo e crescita, ci ha spinti a trattare il tema del recupero del nostro patrimonio esistente perchè interessati ad evitare l’ulteriore consumo di territorio e per ridare energia e sviluppo alle periferie, in particolare a quelle dei comuni della nostra Ferrara. Gli esempi scelti, tre francesi, uno olandese e due italiani, che qui e nelle pagine dedicate ai casi studio si trovano documentati, descrivono realtà problematiche analoghe per il degrado sociale e ambientale, ma profondamente differenti per le modalità di approccio: i soggetti, l’uomo e l’ambiente, sono trattati con metri e attenzioni sostanzialmente disomogenei. Se in Francia, in Olanda e in Germania il recupero degli insediamenti residenziali postbellici è normale consuetudine, in Italia ciò avviene con poca frequenza, con relative limitate risorse, e i pochi casi rintracciati possiamo considerarli comunque rari ed esemplari. L’esempio francese rappresenta un concreto modello di riferimento e pertanto verrà trattato con doviziosa attenzione per comprendere i segreti e le strategie di come si possano raggiungere traguardi importanti soprattutto grazie all’emergia e perseveranza umana più che ad una forza economica.
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sociale. Originariamente fondata sull’idea di un partenariato congiunto del sindaco, dell’architetto, del direttore dell’ufficio HLM e dell’impresa, la realizzazione del progetto urbano di Lorient testimonia del ruolo decisivo dell’architetto, del suo talento e dei suoi limiti. “Cambiare tutto tranne le persone”, l’affermazione-slogan del sindaco di Lorient ha guidato tutti i collaboratori al progetto negli scambi con gli abitanti.
Tipologia di sostegno Sono stati proposti 4 diversi canoni di affitto e 48 tipologie di appartamenti*. Interessante è comprendere come al di fuori di un quadro normativo preciso, senza fondi mirati e senza esperienze pregresse di riferimento si sia riusciti a completare con successo e con grandi risultati un’operazione di grande complessità urbana e soprattutto sociale: il contributo è su diversi piani, sociale, politico amministrativo ma la riuscita è dovuta all’entusiasmo e alla volontà di trovare soluzioni. Impiegare e coinvolgere gli abitanti nel processo di trasformazione del loro quartiere cambia lo sguardo che essi hanno verso la loro città e verso il loro quartiere che risulta così doppiamente modificato, in senso fisico e psicologico. Da abitanti essi diventano attori che si riappropriano dei luoghi, partecipando alla loro trasformazione piuttosto che subirla. Diventa curioso approfondire le varie componenti di contributo. Componente sociale Il quadro sociale mostra uomini, donne, persone anziane però molto radicate nel loro quartiere fino agli ultimi arrivi, famiglie in situazione di grande precarietà, che condividono tutti un disagio comune: la disoccupazione (40%), coabitazione conflittuale, cattivo isolamento acustico, parti comuni e spazi esterni degradati, emarginazione del quartiere. La squadra dei sociologi, chiamata Antenne DSQ (Développement Social des Quartiers), diretta da Serge Brunet, molto entusiasta, coinvolge sul campo un’altrettanto motivata Brigitte Maltais. L’Antenna DSQ stabilisce i propri uffici nella città, impiega degli abitanti del quartiere, riunisce capi cantiere, architetti, partecipanti al progetto, per instaurare un dialogo sistematico con la popolazione: il ruolo della DSQ è di intermediario fra tutti i protagonisti assicurando così una miglior comprensione e realizzazione del progetto.
Gli esempi francesi Il modello francese, nel Quartiere “Quai de Rohan” a Lorient, mettendo in campo una governance a più livelli di coinvolgimento e cooperazione, riesce a risolvere il degrado fisico e sociale dei quartieri. La preziosa esperienza francese ci insegna: che la materia, umana che vive in una dimensione urbana, va approfondita con diversificate competenze, in particolare sociologi e psicologi; che gli abitanti, in quanto attori della trasformazione, ameranno i loro luoghi perché, collaborando, hanno contribuito al loro miglioramento; che ci vogliono entusiasmo, volontà nel trovare soluzioni e fiducia, soprattutto presso le amministrazioni. Vediamo nel dettaglio qual è la struttura della governance.
Ente promotore e tipologia di governance alla base del progetto L’ente promotore è LORIENT HLM. Per il quartiere viene proposto un DSQ (Développement Social des Quartiers*, programma di tipo complesso teso a stimolare la cooperazione tra enti pubblici locali, organizzazione della società civile e singoli cittadini), con l’obiettivo di agire non solo sulle condizioni fisiche degli edifici, ma anche sulle cause del degrado sociale associando agli interventi sull’edificato, politiche di sviluppo economico e sociale per gli abitanti**. Sviluppo di attività di partecipazione pubblica al progetto Lorient: avventura urbana, avventura umana*** è il titolo del libro in cui si descrivono gli esiti di questa interessante operazione. La riuscita del progetto di ristrutturazione è stata possibile essenzialmente grazie al coinvolgimento e alla partecipazione dei suoi abitanti che hanno potuto reinterpretare il proprio quartiere in un modo nuovo, al contempo architettonico e
* Emanuele Piaia, Recupero e nuove politiche abitative per il social housing , Tesi di dottorato di ricerca in Tecnologia dell’Architettura - XXI ciclo (Tutor. Prof. Roberto Di Giulio), 2009 Facoltà di Architettura di Ferrara.
* Sitografia: http://www.crpve91.fr/02politique_ville/historique.php# ** Eleonora Giovene di Girasole, Giuseppe Guida, Città, mare, periferia. riconversione dei waterfront e strategie di riqualificazione sostenibile della città pubblica, Il progetto dell’urbanistica per il paesaggio. XII Conferenza Nazionale degli Urbanisti. 2009, Bari. *** LE DRIAN Jean-Yves , CASTRO Roland, BRUNET Serge , Lorient : aventure urbaine, aventure humaine, PROJET URBAIN. (FRA). n°9, 1996.- pp. 18-20, pl., ill.
Componente politica Il lavoro del team coordinato dall’atelier Castro Dennisof è stato costellato di innumerevoli incontri tra architetti, sociologi, associazioni, politici, abitanti, una rete di competenze, di interessati e di fiducia. Tutto ciò è alla base del successo dell’impresa. Il progetto beneficia anche di una forte volontà politica M. Jean-Yves Le Drian, sindaco della città accorda il proprio sostegno nonostante il progetto non sia inquadrabile dal punto di vista normativo: non si tratta di nuovo e non è restauro. Componente amministrativa Alain Lampson, inizialmente impiegato e poi futuro direttore degli HLM di Lorient, che si ingegna a trovare soluzioni per far passare il progetto nelle maglie amministrative mettendo a contributo il più grande ventaglio di partenaires finanziari quali: Lorient hlm, Municipalité, Fond Social Urbain, Palulos, Pla
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Componente tecnica Oltre allo studio Castro Dennisof il progetto viene seguito anche da altri attori motivati: il paesaggista Ronan Desormeaux, il pittore Annick Démier e l’impresa GTB che, oltre che trovare delle soluzioni tecniche adattate a specifiche costruzioni o demilizioni complesse, ha colto perfettamente la dimensione sociale del progetto perchè l’impresa decide di assumere gli abitanti stessi del quartiere. L’esempio olandese L’approccio olandese, come quello francese, è di tipo integrato a largo spettro d’azione. Si pone molta attenzione alle questioni socio-economiche più che ai problemi fisico-ambientali, ed in particolare cinque sono i temi affrontati nel programma di rinnovamento urbano: • Il vivere (alloggio e l’ambiente locale); • Il lavoro (in un lavoro regolare o formazione); • Apprendimento (scuola, qualifiche professionali, corsi di lingua); • Integrazione (mix sociale di persone di diverse etnie, età e reddito); • Sicurezza (criminalità, droga, fastidi, macchie di sicurezza). Nel caso trattato, quello a Rotterdam, si opera contemporaneamente sul piano del vivere, dell’integrazione e della sicurezza. Riguarda, in particolare, il tentativo di contrastare il fenomeno dello spopolamento attraverso un sistema di assegnazione ad estrazione al di sotto del prezzo di mercato, ma con l’obbligo di rispettare alcuni vincoli imposti dal Comune nella fase di ristrutturazione. L’esempio olandese ci insegna che recuperare un quartiere, un brano di città significa contribuire alla costruzione di una società che ha alti livelli di civilizzazione e che pretende il benessere e il perfetto inserimento dei suoi cittadini e non è limitato semplicemente al risanamento fisico degli alloggi.
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Gli esempi italiani Nel confronto con i casi europei, l’approccio, che traspare nell’esemplarità e rarità dei due casi italiani, è di tipo parziale, poiché sbilanciato soprattutto sulle questioni architettonico ambientali, considerando, nel caso senese, le questioni sociali solamente grazie alla grande sensibilità del progettista o presentando, nel caso fiorentino, poca capacità di dialogo tra realtà sociali ed amministrazioni. Nell’esempio senese, molto interessante e pregevole è tutta la parte legata all’attenzione con cui si tratta la metamorfosi del rurale in urbano e con cui si immettono squarci di paesaggio all’interno delle abitazioni. E’ altrettanto molto sociale permettere che in quella zona di città, così prossima al centro quindi fuori mercato*, si prevedano case sociali. Tuttavia fa i conti con un inquilino inesistente perché siamo in presenza di una trasformazione da casa colonica ad abitazione sociale. Gli inquilini non partecipano alla fase progettuale e quindi vi è una sorta di standardizzazione ipotizzata delle richieste, sia all’interno delle abitazioni sia all’esterno, nell’uso degli spazi comuni come l’aia, il forno la pendice e gli ulivi. Il caso fiorentino prevede il Contratto di Quartiere, uno strumento messo in campo per intervenire sul fronte urbano, edilizio e sociale, proposto dal DM 210/1997 e simile come finalità e attuazione al DSQ francese. Gli esiti dimostrano che i risultati sono ancora parziali perché si sono raggiunti soprattutto a livello di alloggio ed edilizio e molto meno a livello urbano o sociale. Il coinvolgimento degli abitanti ha sì creato una comunità forte e identificante, ma ha evidenziato gruppi sociali chiusi in sé stessi, con limitata capacità di raffronto con l’Amministrazione
* Sitografia: http://italianostrasiena. wordpress.com/2010/02/25/il-restauro-el%E2%80%99aumento-di-volumetria-delpodere-caselunghe-a-scacciapensieri-3la-replica-di-augusto-mazzini-lautore-delprogetto/
promotrice dell’intervento. E’ così che su tutto il quartiere il recupero è stato progettato ed effettuato ad oggi su solamente due fabbricati migliorando ed attualizzando la risposta abitativa degli alloggi e degli spazi comuni inesistenti nel progetto originario. L’attenzione sul quartiere sollecitata da una comunità presente è stata forte, lo dimostrano gli studi successivi, il Piano Guida di De Carlo, la partecipazione a ricerche di respiro europeo come SuReFit. Si può concludere che il problema principale è evidente essere nella poca capacità di promuovere e attuare un programma generale condiviso con un disegno unitario e con interventi costanti di recupero; questo limite congenito ha offuscato l’efficacia dei singoli interventi di pregevole livello architettonico e alto livello tecnico. Identificazione, partecipazione sociale e autocostruzione sono gli insegnamenti che ci provengono dalle esperienze europee assieme ad uno sguardo allargato non solo al quartiere come fenomeno urbano e come quartiere sensibile, ma come espressione del livello alto di civiltà raggiunto dalla società.
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italia | siena podere caselunghe a cura di claudio tassinari
schedatura del progetto Dati dimensionali Superficie abitativa netta 670 mq Numero alloggi 10 Costo complessivo comprese sistemazioni esterne 1395 €/mq
[01]
Luogo Siena, via Orlandi
[02]
Cronologia 2004-2007 concessione 2008-2010 costruzione
[03] [04]
Progettisti Architetto Augusto Mazzini Architetti collaboratori: Carla Falleroni Andrea Matteini Rita Lucci Arturo Dapporto Strutture: Studio Casini
[05]
Ente promotore e tipologia di governance alla base del progetto Committente: Società di Esecutori di Pie Disposizioni le cui finalità statutarie sono di Assistenza e Beneficienza Pubblica. Il recupero e riuso del podere è rivolto a categorie socialmente deboli
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Tipologia di sostegno affitto concordato con il Comune di Siena
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Impresa appaltatrice E.A.CO.S. Soc. Coop. / AM Costruzioni
foto bruno bruchi
da casa colonica ad abitazione sociale
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Il Committente di questo intervento di recupero abitativo è la Società di Esecutori di Pie Disposizioni. Essa amministra un grande patrimonio, frutto di donazioni, lasciti e saggia gestione. Si tratta di un patrimonio non solo immobiliare, ma anche agricolo di beni storico-artistico spesso di altissimo valore. Le finalità statutarie sono di Assistenza e Beneficienza Pubblica. Questa istituzione è attiva da quasi mille anni: il primo statuto conosciuto risale al 1295. Il recupero e riuso del podere Caselunghe, situato da tempo entro il perimetro urbano e molto vicino al policlinico delle Scotte, è pertanto rivolto a categorie socialmente deboli. Nel vecchio podere ormai in disuso sono stati realizzati dieci appartamenti: uno diverso dall’altro. Sono destinati a soggetti abituati ad essere assegnatari ad affitto concordato con il Comune di Siena. La diversità degli alloggi vuole corrispondere il più possibile ai differenti bisogni degli abitanti; ma proprio per questo potrà anche divenire un fattore di aggregazione, insieme all’uso in comune degli spazi esterni: l’aia, il forno, la pendice ad ulivi. I bow-windows (in realtà volumi fortemente aggettanti) guardano a sud, cioè verso la città storica; essi ampliano e arricchiscono lo spazio degli appartamenti. I principali materiali usati sono: strutture portanti metalliche, ampie superfici vetrate con brisoleil, pareti chiuse all’esterno in rheinzink e all’interno in legno. La evidente bifrontalità con il quasi totale mantenimento del fronte a monte lungo la via Orlandi, e l’adozione di strutture di materiali innovativi sul retro, verso la città, contestualizza Caselunghe con l’intorno urbano. Proprio in questo consiste la coerenza con il luogo, nel passaggio difficile tra il reperto rurale e l’urbanità. La bifrontalità (Janus e janua) è il fattore principale di contestualizzazione. E i materiali e le soluzione tecniche costituiscono il ponte verso le case costruite più in basso. Gli alloggi sono stati disegnati in modo da rispettare le strutture esistenti e, in qualche caso, anche mantenere elementi che ne richiamassero l’origine rurale. Ma la spazialità è più libera: non solo per andare oltre la mera dimensione degli alloggi (tutti di limitata superficie), quanto anche per sfruttare tutte le possibilità di garantire ventilazione e luminosità. Ovviamente le pareti esterne sono state realizzate in modo da ottenere l’isolamento termico necessario anche ai fini del risparmio energetico. Verrebbe da dire, meno burocraticamente, per assicurare il giusto benessere ambientale. I materiali usati per le finiture (pavimenti, porte, scale, etc.) sono economici e, insieme, di ottima qualità e messa in opera. Gli spazi esterni di uso comune sono stati sistemati senza cancellarne il carattere ormai semi rurale dell’immediato contesto e, nello stesso tempo, assumendo un tratto di urbanità. Ora le case sono già abitate: il destino dell’architettura racconta che nel tempo l’uso comporterà cambiamenti. In meglio?
urbanistica
augusto mazzini
...il primo cambiamento 75
architettonico
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alloggio
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italia | firenze quartiere le piagge
schedatura del progetto
a cura di francesca pozzi
Dati dimensionali
[01]
Luogo Firenze, Italia via Liguria nn.cc. 3/7/11 e 6/10/14, località “Le Piagge”
[02]
Cronologia Progetto definitivo ed esecutivo 2001-2002; realizzazione per stralci 2003-2009
[03]
Progettisti Associazione Temporanea (ATI) Progetto architettonico STS s.p.a. , consulenza Ipostudio Architetti Associti progetto strutture Studio Baroni, progetto impianti Consilium s.r.l., coordinamento sicurezza Studio Giannini
[04]
Ente promotore e tipologia di governance alla base del progetto Comune di Firenze, Assessorato al patrimonio immobiliare e alle politiche della casa, Ufficio edilizia residenziale pubblica, RUP Arch. R. Melosi. Programma di Recupero Urbano ex art. 11 della L. 494/93, Contratto di Quartiere ex DM ll.pp. 22/10/1997 n. 238, Protocollo d’intesa per l’edilizia sperimentale ex art. 2, lett. F) della L. 457/78
[05]
Sviluppo di attività di partecipazione pubblica al progetto Il Comune è promotore unico del progetto.
[06]
Tipologia di sostegno “Il Contratto di Quartiere è un’iniziativa del Ministero dei Lavori Pubblici. Due sono gli obiettivi principali di questo programma: realizzare interventi edilizi su immobili di proprietà comunale; ridurre le condizioni di disagio sociale e le carenze determinate dal degrado ambientale e dalla inadeguatezza dei servizi del quartiere. Per fare questo il Contratto di Quartiere si caratterizza come un intervento non settoriale e non limitato nel tempo, ma come il primo passo di un processo più ampio, che, in futuro, coinvolga nuove risorse. E che fin da subito coinvolga gli abitanti della zona, chiamati a partecipare alla progettazione e realizzazione degli interventi.” * Il Laboratorio di Quartiere è poi il frutto successivo, operativo per coinvolgere gli abitanti nella gestione del quartiere (nelle Navi riqualificate è predisposto uno spazio come sede permanente) per promuovere “l’integrazione di questa realtà urbana al suo interno e con la restante parte della città per realizzare la Coesione Sociale. Inoltre al Contatto di Quartiere è abbinato all’Obiettivo per la promozione di interventi agevolati, finalizzati al miglioramento delle condizioni di lavoro ed alla creazione di nuove imprese (D.M. Bersani).” **
Superficie utile complessiva 20.825 m² Superficie non residenziale 13.735 m² Alloggi 312 importo a base d’asta Complessivo edilizio € 13.563.230,00 Spazi urbani e aree verdi € 1.378.891,00
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* estratto dall’opuscolo del Comune di Firenze “Piagge. Cinque piani per il futuro” **Roberto Melosi, architetto, Comune di Firenze, Ufficio Edilizia Residenziale Pubblica, Le Navi – il contratto di quartiere http://www.arvha.org/sitescd/ paris_barcelona_firenze/paris_firenze_ barcelona_macpc/firenze/fir5_it.HTM foto ipostudio
obiettivi | processi | governance Le Piagge è un moderno quartiere della frazione di Brozzi, che sorge nella periferia ovest di Firenze. Il primo progetto di espansione edilizia risale al PRG del 1962. Dopo un’alterna realizzazione del progetto “Le Navi” sono frutto di una nuova emergenza abitativa negli anni Ottanta che però realizzò abitazioni senza il supporto di servizi e viabilità adeguati. “La costruzione affrettata di numerosi edifici di grandi dimensioni disposti disordinatamente sul suolo, senza un disegno complessivo, con scarsi servizi, e in mezzo ad aree di risulta degradate, ha originato un ambiente tipicamente periferico e marginale anche dal punto di vista sociale. L’area è così divenuta oggetto di numerosi piani e programmi speciali di iniziativa comunale … culminati nel Progetto Guida elaborato dall’arch. Gian Carlo De Carlo nel 2004”. * Il quartiere è stato ulteriormente oggetto di studio da parte di Ipostudio Architetti Associati nel Progetto di ricerca finanziato dall’Unione Europea nell’ambito di “IEE – Intelligent Energy-Europe”: Sure-Fit: Sustainable Roof Extension Terofit for HighRise Social Housing in Europe”, 2006-2008
Il progetto di recupero e riqualificazione dei due fabbricati de “le Navi” si completa di un progetto di recupero degli spazi urbani e di recupero delle aree verdi limitrofe per migliorare l’aspetto sociale della vivibilità degli spazi ma che solo un disegno generale a più ampia scala come il suddetto Progetto Giuda potrà forse risolvere problematiche a scala paesaggistica, urbanistica e sociale.
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* http://www.urba.unifi.it/upload/sub/ MassaMarco/2010/progetto-piagge.pdf
urbanistica
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architettonico
alloggio
“Lo stato di fatto vede la presenza, nei due edifici in oggetto, di quattro tipologie di alloggio basate sulla ripetizione di un modulo corrispondente all’interasse costante (pari a circa m 6,80) fra i setti portanti trasversali. In relazione alla tipologia “a galleria” dell’edificio, tutte le tipologie sono monoaffaccio (un discorso diverso vale per gli alloggi duplex nei quali l’affaccio su due livelli compensa l’assenza di ventilazione trasversale). Le modifiche apportate dal progetto alle tipologie di alloggio riguardano: - la ridistribuzione quantitativa delle varie tipologie di alloggio al fine di soddisfare la reale articolazione dei nuclei familiari - la messa a punto degli schemi distributivi degli alloggi in relazione alle esigenze manifestate dall’utenza ed evidenziate sia nei documenti del Progetto Preliminare che dalla stessa utenza durante gli incontri programmatici con i referenti dell’Autogestione - l’inserimento, per i tipi A2 e A4, di una versione attrezzata per utenti disabili Le variazioni apportate allo schema distributivo dei vari tagli di alloggio prevedono in particolare: - la riorganizzazione dei bagni (nuove dotazioni e diversa distribuzione dei sanitari) in tutte le tipologie di alloggio - l’inserimento di un secondo bagno nel tipo A6 e lo spostamento del secondo bagno al primo livello nei Duplex - una nuova distribuzione della zona cottura-soggiorno nella tipologia A6 - l’inserimento di nuovi balconi al fine di dotare di tale spazio (in alcuni casi incrementandone la superficie) tutte le tipologie di alloggio - la predisposizione, per tutti gli alloggi, di una zona protetta, nei balconi, destinata ad alloggiare la caldaia e un pilozzo Tali trasformazioni, che portano peraltro all’incremento del numero di alloggi complessivo, comprendono anche, sulle testate, la saturazione dello spazio al piano terra corrispondente all’ultimo modulo al fine di creare uno spazio da destinare ad attività di servizio alla residenza.” *
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Sul piano architettonico si è lavorato per un miglioramento visivo (per soddisfare esigenze di “identificazione” e “appartenenza” richieste dall’utenza), di qualità tecnologica e di confort. Le soluzioni di facciata adottate tendono ad attenuare la serialità e la ripetitività degli elementi, l’introduzione di balconi come variazione del ritmo e della forma, i frangisole introdotti nelle testate e i parapetti con soluzioni diverse leggere e trasparenti o compatte in muratura. L’inserimento delle “chiostrine” nei ballatoi divide i vani scala, migliora l’illuminazione e il ricambio d’aria, nonché il microclima degli alloggi.
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* Relazione di Progetto, STS s.p.a. Ringraziamenti: Ing. E. Arbizzani di STS s.p.a., Arch. R. Di Giulio e Arch. L. Belatti di Ipostudio Architetti Associati
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francia | quartiere la caravelle villeneuve-la-garenne a cura di lorenzo bergamini
[01]
Luogo Villeneuve-La-Garenne, Francia
[02]
Cronologia 1995-2001
[03]
Progettisti Roland CASTRO - Sophie DENISSOF (Agence Castro-Denissof) BET HANNETEL & ASSOCIES, paesaggista CARBONNET DEGOUY, parcheggi sotterranei ATEC, BET strutture e economista BECT, BET e economista CET, BET impianti
[04]
Impresa SEM 92, SCIC HLM TP, SAGECO, OPDHLM 92, OGIF (ANCIENNEMENT SARELI)
[05]
Ente promotore e tipologia di governance alla base del progetto Si tratta di una applicazione concreta della metodologia Pacte Hauts-de-Seine* , un’associazione al servizio degli abitanti, incaricata e finanziata dallo Stato, dalla Regione e da Hauts-de-Seine
[06]
Sviluppo di attività di partecipazione pubblica al progetto La metodologia Pacte Hauts-de-Seine che si fonda sui partenariati e su strumenti tradizionali utilizzati in modo innovativo ha permesso di: • costituire una squadra operativa sul sito al fine di instaurare una procedura permanente di accompagnamento sociale, di inserimento sociale e di sostegno al rialloggiamento • dialogare e concertare gli abitanti, le associazioni, i progettisti e i capocantiere • smembrare la comproprietà globale per creare una struttura d’ascolto e di gestione urbana di prossimità quale l’Association foncière urbaine libre (AFUL)**
schedatura del progetto Dati dimensionali Superficie totale 130.000m² Ristrutturazioni 99.338 m² Alloggi nuovi 9.196 m² Commerciale 3.000 m² Centri socioculturali 5.660 m² Numero alloggi 1700 Demolizione alloggi 165 Inserimento nuove vie 2 Prolungamento di vie esistenti 1
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* Sitografia: http://www.pact-hauts-de-seine.org/ index.php. ** Sitografia: http://coprop.free.fr/aslaful.htm
foto castro-denisoff
obiettivi | processi | governance Il grande complesso insediativo della Caravelle, costituito da 1.620 alloggi, è un’enclave refrattaria al resto della città, rigida e monotona nella sua massa, ed impedisce ogni forma di appropriazione dei luoghi. Il progetto dello studio Castro-Denissof *, uno dei maggiori studi francesi con ampia esperienza nel campo della rigenerazione urbana, mira a ri-inscrivere questo luogo nella città e a modificare la percezione che ne hanno gli abitanti di Villeneuve-LaGarenne. La città si arrestava alle porte della Caravelle e gli abitanti difficilmente l’attraversavano. Il remodelage de La Caravelle è un progetto urbano il cui primo obiettivo è proprio quello di aprire questo quartiere alla città rendendolo più permeabile. Interessante è l’approccio globale - afferma Emanuele Piaia ** - con il quale l’Atelier Castro-Denissof è intervenuto facendo riferimento alla complessita delle problematiche affrontate. La scelta, in area francese, dell’Architetto Roland Castro e del suo studio è spiegabile per due ragioni: la precocità con cui riconosce l’importanza della rigenerazione del parco edilizio esistente, siamo negli anni ’80, e il ruolo che egli attribuisce agli abitanti dei quartieri, come fautori della qualità urbana ***. L’Architetto Castro si oppone alla demolizione e propone il remodelage, che consiste in un intervento a differenti scale, dall’urbano fino all’alloggio, intervento che modifica e aggiunge usi, ma soprattutto che tenta di migliorare la percezione del quartiere. Alla scala dell’alloggio, egli propone la concezione delle case sovrapposte favorendo una sorta di appropriazione individuale all’interno di un insediamento collettivo.
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* Sitografia: http://www.castrodenissof. com/index.htm ** Emanuele Piaia, Recupero e nuove politiche abitative per il social housing , Tesi di dottorato di ricerca in Tecnologia dell’Architettura - XXI ciclo (Tutor. Prof. Roberto Di Giulio), 2009 Facoltà di Architettura di Ferrara *** CHAVIGNY Dominique, CONAN Michel, CASTRO Roland, Les habitants acteurs de la qualité, C. DE L’HABITAT. (FRA). n°9, déc. 1989.- pp-46-62 (Acteurs de la qualité) **** Italo Calvino, Le città invisibili, (le città e gli scambi. 4. Ersilia), 1993 Milano.
soggiorno prima dell’intervento soggiorno dopo l’intervento foto castro-denisoff
urbanistica
Il remodelage urbano di un quartiere di 1700 alloggi parte da opportune riflessioni sulla necessità di ridurre la intensità edilizia ed abitativa e sul potenziamento della rete viaria ed avviene: 1. creando perimetralmente sui bordi dei punti di aggancio: una piazza per le attività commerciali, lato Charles de Gaule e una piazza sull’avenue de Verdun; 2. creando delle aperture nelle stecche continue, anche a costo di demolizioni di parte degli edifici (161 alloggi demoliti), per prolungare il collegamento fino all’Avenue de Verdun e per aprirsi in direzione est ed ovest tra le vie Charles de Gaulle e il maresciallo Leclerc. La rete di strade e di viali alberati permette di ritessere una rete di strade e giardini che attraversano La Caravelle, trasformando questo insieme compatto in numerosi quartieri. Si tratta quasi di un gioco surreale di fare entrare la città nella città, tagliando, conferendo spessore, innestando delle parti nuove, aggiungendo spazi verdi attrezzati. Ciò è possibile grazie all’introduzione di nuove scale di costruito sui bordi del quartiere, gli edifici della piazza del commercio, il centro socio-culturale, e lungo il viale dei tigli, dei palazzi di 4 piani all’incrocio di ogni strada creata. Allo stesso tempo, la scelta di una mixité funzionale, vale a dire alloggi, attività socioculturali e commercio, permette di differenziare e di variare le letture percettive dei luoghi. Il quartiere La Caravelle è, di fatto, una città-giardino, gode di numerosi spazi verdi che, nella proposta dello studio Castro-Denissof, sono riqualificati, implementati e permettono di riconnettere quei luoghi senza anima alla città circostante aderendo pienamente ad un altro tema che è quello dell’introduzione della complessità urbana, fatta di abitazioni, strade piazze etc. e di tutti quelle “ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma”**** . In questa manovra di riadesione al tessuto urbano e di riappropriazione delle euritmie urbane è necessario gerarchizzare gli spazi e definirne il limite, introducendo alla base degli edifici dei giardini per le residenze, dei giardini semi-privati, di proprietà degli abitanti dell’immobile.
foto castro-denisoff
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architettonico
alloggio
foto castro-denisoff
foto castro-denisoff
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Le remodelage a scala architettonica lavora contemporaneamente sulla PERCEZIONE e sulla DESTINAZIONE D’USO. Per gli abitanti è fondamentale avere riferimenti a livello del piano di campagna e a livello del coronamento, mentre il complesso residenziale, monofunzionale, appare liscio e con reiterazione monotona che comporta alienazione e soprattutto estraniamento, quindi a livello sociale una sorta di assenza identitaria. Questi aspetti vengono affrontati attraverso le seguenti operazioni, volte alla riduzione della monoliticità e a conferire un aspetto più puro grazie alla tinteggiatura bianca, che consistono nell’inserimento di: 1. balconi, logge e bow-windows; 2. aperture di finestre più ampie; 3. piccoli giardini ai piedi degli edifici; 4. hall nuove e più sicure; 5. cappotto esterno e copertura coibentata.
Le remodelage a scala degli alloggi lavora contemporaneamente sulla diversificazione delle tipologie e delle metrature e sul miglioramento delle prestazioni energetiche. L’attività di partecipazione degli utenti ha permesso di adeguare i loro alloggi ed aggiornarli alle nuove e diverse necessità: 1. nuovi balconi e logge e finestrature più ampie; 2. nuovi servizi igienici ed adeguamento degli esistenti; 3. miglioramento di tutti gli aspetti energetici, compresi nuovi serramenti. I lavori sono stati eseguiti senza creare disagio alle famiglie
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francia | quartier quai de rohan lorient a cura di lorenzo bergamini
[01]
Luogo Lorient, Francia
[02]
Cronologia Concorso 1989, inizio lavori
[03]
Progettisti Roland CASTRO - Sophie DENISSOF (Agence Castro-Denissof) J. L. PELLERIN, AURA, C. GAUTIER, AUL BET Strutture: AUA Strutture: ETHIS Ufficio di controllo: APPAVE Coordinazione: CSP Paesaggista: R. DESORMEAUX
1992, fine lavori 1996
[04] Ente promotore e tipologia di governance alla base del progetto L’ente promotore è LORIENT HLM. Per il quartiere viene proposto un DSQ (Développement Social des Quartiers*, programma di tipo complesso teso a stimolare la cooperazione tra enti pubblici locali, organizzazione della società civile e singoli cittadini), con l’obiettivo di agire non solo sulle condizioni fisiche degli edifici, ma anche sulle cause del degrado sociale associando agli interventi sull’edificato, politiche di sviluppo economico e sociale per gli abitanti**. [05] Sviluppo di attività di partecipazione pubblica al progetto Lorient: avventura urbana, avventura umana*** è il titolo del libro in cui si descrivono gli esiti di questa interessante operazione. La riuscita del progetto di ristrutturazione è stata possibile essenzialmente grazie al coinvolgimento e alla partecipazione dei suoi abitanti che hanno potuto reinterpretare il proprio quartiere in un modo nuovo,al contempo architettonico e sociale. Originariamente fondata sull’idea di un partenariato congiunto del sindaco, dell’architetto, del direttore dell’ufficio HLM e dell’impresa, la realizzazione del progetto urbano di Lorient testimonia del ruolo decisivo dell’architetto, del suo talento e dei suoi limiti. “Cambiare tutto tranne le persone”, l’affermazione - slogan del sindaco di Lorient ha guidato tutti i collaboratori al progetto negli scambi con gli abitanti. [06]
Tipologia di sostegno 4 diversi canoni di affitto e 48 tipologie di appartamenti****
schedatura del progetto Dati dimensionali Superficie totale 38.000 m² Numero alloggi 480 Demolizione alloggi 30 Inserimento nuove vie 2 Prolungamento di vie esistenti 1
*Sitografia: http://www.crpve91.fr/02politique_ville/historique.php# **Eleonora Giovene di Girasole, Giuseppe Guida, Città, mare, periferia. riconversione dei waterfront e strategie di riqualificazione sostenibile della città pubblica, Il progetto dell’urbanistica per il paesaggio. XII Conferenza Nazionale degli Urbanisti. 2009, Bari.
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***LE DRIAN Jean-Yves , CASTRO Roland, BRUNET Serge , Lorient : aventure urbaine, aventure humaine, PROJET URBAIN. (FRA). n°9, 1996.- pp. 18-20, pl., ill. ****Emanuele Piaia, Recupero e nuove politiche abitative per il social housing , Tesi di dottorato di ricerca in Tecnologia dell’Architettura - XXI ciclo (Tutor. Prof. Roberto Di Giulio), 2009 Facoltà di Architettura di Ferrara. foto castro-denisoff
obiettivi | processi | governance Il complesso residenziale HLM (abitazioni ad affitto moderato) nel Quai de Rohan, risale al 1960-61, opera dell’Architetto Georges Tourry, comprendeva circa 480 alloggi distribuiti in tre stecche parallele di 11 piani, lunghe dagli 80 ai 160 metri, che costituivano un reale sbarramento al fronte mare e al porto turistico di Lorient. Nonostante l’area fosse di grande interesse per la sua prossimità al centro storico e alla marina con l’ormeggio degli yacht e la partenza delle regate, il degrado sociale ed architettonico aveva raggiunto livelli inaccettabili. Per affrontare queste problematiche, viene bandito un concorso, vinto dallo studio Castro-Denissof, che propone l’ipotesi della “rimodellazione” al posto dell’abbattimento, già ventilato dal comune ed osteggiato dalla popolazione.
Componente amministrativa Alain Lampson, inizialmente impiegato e poi futuro direttore degli HLM di Lorient, che si ingegna a trovare soluzioni per far passare il progetto nelle maglie amministrative mettendo a contributo il più grande ventaglio di partenaires finanziari quali: Lorient hlm Municipalité Fond Social Urbain Palulos Pla Componente tecnica Oltre allo studio Castro Dennisof il progetto viene seguito anche da altri attori motivati: il paesaggista Ronan Desormeaux, il pittore Annick Démier e l’impresa GTB che, oltre che trovare delle soluzioni tecniche adattate a specifiche costruzioni o demilizioni complesse, ha colto perfettamente la dimensione sociale del progetto perchè l’impresa decide di assumere gli abitanti stessi del quartiere.
Interessante è comprendere come al di fuori di un quadro normativo preciso, senza fondi mirati e senza esperienze pregresse di riferimento si sia riusciti a completare con successo e con grandi risultati un’operazione di grande complessità urbana e soprattutto sociale: il contributo è su diversi piani, sociale, politico amministrativo ma la riuscita è dovuta all’entusiasmo e alla volontà di trovare soluzioni. Impiegare e convolgere gli abitanti nel processo di trasformazione del loro quartiere cambia lo sguardo che essi hanno verso a loro città e verso il loro quartiere che risulta così doppiamente modificato, vale a dire in senso fisico e psicologico. Da abitanti essi diventano attori che si riappropriano dei luoghi, partecipando alla loro trasformazione piuttosto che subirla. Diventa curioso approfondire le varie componenti di contributo.
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Componente sociale Il quadro sociale mostra uomini, donne, persone anziane però molto radicate nel loro quartiere fino agli ultimi arrivi, famiglie in situazione di grande precarietà, che condividono tutti un disagio comune: la disoccupazione (40%), coabitazione conflittuale, cattivo isolamento acustico, parti comuni e spazi esterni degradati, emarginazione del quartiere. La squadra dei sociologi, chiamata Antenne DSQ (Développement Social des Quartiers), diretta da Serge Brunet, molto entusiasta, coinvolge sul campo un’altrettanto motivata Brigitte Maltais. L’Antenna DSQ stabilisce i propri uffici nella città, impiega degli abitanti del quartiere, riunisce capi cantiere, architetti, partecipanti al progetto, per instaurare un dialogo sistematico con la popolazione: Il ruolo della DSQ è di intermediario fra tutti i protagonisti assicurando così una miglior comprensione e realizzazioned el progetto. Componente politica Il lavoro del team coordinato dall’atelier Castro Dennisof è stato costellato di innumerevoli incontri tra architetti, sociologi, associazioni, politici, abitanti, una rete di competenze, di interessati e di fiducia. Tutto ciò è alla base del successo dell’impresa. Il progetto beneficia anche di una forte volontà politica M. Jean-Yves Le Drian, sindaco della città accorda il proprio sostegno nonostante il progetto non sia inquadrabile dal punto di vista normativo: non si tratta di nuovo e non è restauro.
urbanistica
foto castro-denisoff
Il programma dell’atelier Castro Denissof si fonda su 3 punti fondamentali: reinserire la città nella città; conservare la realtà sociale mantenendo la presenza di alloggi sociali di qualità in centro storico; ridare a Lorient un aspetto marittimo. Questi 3 punti si articolano all’interno del remodelage e tricot urbain* che consiste in interventi alla scala urbanistica quali: inserire una strada che scinda in 2 la stecca di 160 m situata sulla banchina Jean Bart, quella più vicina al mare. Gli architetti scelgono di svuotarla al centro, creando una veduta luminosa e aprendo il quartiere verso il porto e la sua rada; sottrarre 30 alloggi e ridurre l’altezza con dei salti di 2 livelli; compensare la stecca tagliata in 2 e la sottrazione di alloggi con la costruzione di alcuni edifici nuovi di 3 piani perpendicolari alla stecca e che delimitano lo spazio pubblico e costituiscono un sistema di isolati aperti riqualificare gli spazi pubblici.
foto castro-denisoff
*Sitografia: h t t p : / / w w w. c a s t r o d e n i s s o f . c o m / f r / agence/lorient.htm#part2
architettonico
alloggio
foto castro-denisoff prima
I 3 punti del programma dell’atelier Castro-Dennisof si articolano all’interno del remodelage che consiste in interventi alla scala architettonica quali: aggiungere delle terrazze, dei balconi, dei bow-window compensare la stecca tagliata in 2 e la sottrazione di alloggi con la costruzione di alcuni edifici nuovi di 3 piani perpendicolari alla stecca
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foto castro-denisoff dopo
foto castro-denisoff
I principali punti del programma dell’atelier Castro-Dennisof si articolano all’interno del remodelage che consiste in interventi alla scala dell’alloggio quali: rimettere a norma gli appartamenti sotto gli aspetti impiantistici ed energetici ricomporre gli spazi interni secondo le nuove esigenze e le nuove tipologie (48 tipologie)
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francia | quartier la barre république lorien a cura di lorenzo bergamini
[01]
Luogo Lorient, Francia
[02]
Cronologia Concorso 1996, inizio lavori 1999, fine lavori 2003
[03]
Progettisti Roland CASTRO - Sophie DENISSOF (Studio Castro-Denissof) BET Strutture: AUA Impianti: ETHIS Economie: ATEC Paesaggista: R. DESORMEAUX
[04]
Ente promotore e tipologia di governance alla base del progetto L’ente promotore è l’OFFICE PUBLIC COMMUNAL DE LORIENT
[05]
Sviluppo di attività di partecipazione pubblica al progetto Lorient: avventura urbana, avventura umana * è il titolo del libro in cui si descrivono gli esiti di questa interessante operazione. La riuscita del progetto di ristrutturazione è stata possibile essenzialmente grazie al coinvolgimento e alla partecipazione dei suoi abitanti che hanno potuto reinterpretare il proprio quartiere in un modo nuovo, al contempo architettonico e sociale. Originariamente fondata sull’idea di un partenariato congiunto del sindaco, dell’architetto, del direttore dell’ufficio HLM e dell’impresa, la realizzazione del progetto urbano di Lorient testimonia del ruolo decisivo dell’architetto, del suo talento e dei suoi limiti. “Cambiare tutto tranne le persone”, l’affermazione-slogan del sindaco di Lorient ha guidato tutti i collaboratori al progetto negli scambi con gli abitanti.
schedatura del progetto Dati dimensionali Superficie totale 6.055 m² Superficie nuovi alloggi 4.683 m² Superficie ristrutturati 1.372 m² N°nuovi alloggi 55 (di cui 5 per disabili) N°alloggi ristrutturati dai 120 iniziali se me ottengono 99 Demolizione alloggi 30 Inserimento nuove vie 2 Prolungamento di vie esistenti 1 Inserimento di: asilo e guardiania
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* LE DRIAN Jean-Yves , CASTRO Roland, BRUNET Serge , Lorient : aventure urbaine, aventure humaine, PROJET URBAIN. (FRA). n°9, 1996.- pp. 18-20, pl., ill. foto castro-denisoff
obiettivi | processi | governance
urbanistica
foto castro-denisoff
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Alla fine del cantiere del Quai de Rohan* , nel 1996 lo studio Castro Denissof si aggiudica il concorso per la Barre République sempre a Lorient. La Stecca Rèpublique, in origine di 11 piani, subisce un’autentica metamorfosi: una parte nuova verso la prua sale fino a 13 piani mentre la parte esistente è ridotta a 6 con andamento a gradoni verso Sud, con l’inserimento di terrazze ad uso degli alloggi.
* Consultare scheda contenuta in questa stessa pubblicazione e dello stesso autore.
foto castro-denisoff
La creazione del Corso Rèpublique, tracciato in modo perpendicolare alla darsena, una nuova via fiancheggiata da un grande percorso pedonale sfocia in una piazza alberata ai piedi della stecca rimodellata. Questo dispositivo urbano, mettendo in scena la nuova silhouette, riavvicina questo quartiere al centro e si inserisce nella grande riflessione urbana del Grande Asse di Lorient partecipando alla riconciliazione della città con se stessa. Il lavoro dell’atelier Castro Denissof procede per sensibili addizioni e sostanziose sottrazioni, lavora con rimandi per la cromia candida bianca, per le cornici, e per l’abbondanza delle superfici vetrate al già terminato quartiere e Rohan ed a figure iconiche come il faro.
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architettonico
alloggio
foto castro-denisoff
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foto castro-denisoff
Gli interventi alla scala architettonica sono:
Gli interventi alla scala dell’alloggio quali:
aggiungere delle terrazze, dei balconi, dei bow-window soprattutto nei muri ciechi
rimettere a norma gli appartamenti sotto gli aspetti impiantistici ed energetici
compensare la stecca tagliata in 2 e la sottrazione di alloggi con la costruzione di alcuni edifici nuovi
ricomporre gli spazi interni secondo le nuove esigenze e le nuove tipologie (48 tipologie) ampliare gli esistenti destinarne una quota ai disabili
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olanda | rotterdam a cura di azzurra carli
schedatura del progetto
urbanistica
Dati dimensionali Superficie totale 25.000 mq Numero alloggi 169 Persone allocate 2500
[01]
Luogo Rotterdam, NL
[02]
Cronologia 2002-2007
[03]
Progettisti Fabiana Toni (FT Studio), Rocco Reukema (2by4-architects) PROMOTORI: Comune di Rotterdam, Società di consulenza Urbannerdam
[04]
Tipologia di governance alla base del progetto Programma di riqualificazione urbana denominato “169 Klushuizen “ Il progetto, iniziato grazie ad un finanziamento ministeriale (Ministerie van VROM), viene usato come strumento di riqualificazione urbana in diverse citta’ olandesi. Il comune di Rotterdam dal 2006 ha venduto piu’ di 250 residenze in stato di decadenza a privati, che, per impedire le speculazioni edilizie, si impegnano a viverci per almeno tre anni. Questo nella convinzione che un futuro proprietario sia interessato nella riqualificazione della sua residenza ma allo stesso tempo anche del quartiere e dello spazio urbano. L’assegnazione avviene per mezzo di una lotteria. Le case vengono vendute al di sotto del prezzo di mercato, ma i nuovi proprietari si devono impegnare a rispettare e realizzare le imposizioni dettate dal Comune. Urbannerdam è la organizzazione che si occupa di guidare i nuovi proprietari in questo percorso, a partire dalla organizzazione della lotteria, dalla consulenza giuridica, fino al controllo delle fasi del processo di ristrutturazione. Il risultato è peculiare poichè le abitazioni vengono riqualificate sia da un punto di vista tecnologico-costruttivo che nella configurazione tipologica-distributiva, più rispondente agli usi contemporanei.
[05]
Sviluppo di attività di partecipazione pubblica al progetto Il comune è coinvolto in tutto il processo attraverso la società di consulenza Urbannerdam
[06]
Tipologia di proprietà, o di affitto o di altra forma di sostegno edilizia agevolata, prezzo di vendita calmierato
distribuzione degli interventi del programma “169 Klushuizen” nella città di Rotterdam
[07]
Scelte progettuali nel campo della definizione del sistema degli spazi pubblici e delle funzioni inserite nel progetto abitativo Il progetto per l’unità abitativa in Gerrit Van Den Lindenstraat 8b risponde alle esigenze di un moderno life-style ma rispetta allo stesso tempo i dettagli storici e l’ atmosfera dell’ elegante residenza del 1911. Sul fronte principale, la facciata e’ stata riqualificata nel rispetto dello stato originario: per le finestre e’ stato usato un vetro singolo ad alto valore termoisolante che ha consentito il mantenimento dei profili in legno originali, ed i balconi sono stati consolidati (sostituzione delle travi metalliche). La facciata sul retro invece e’ stata modificata dall’ arretramento della facciata in favore di un terrazzo.
103
foto ftstudio
architettonico
studio delle soluzioni tipologiche
pianta p2
pianta p3
alloggio
sezione di dettaglio copertura
pianta p sottotetto
stato di fatto
dettagli costruttivi
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pianta p2
sezione trasversale progetto
pianta p3
sezione longitudinale
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pianta p sottotetto
fasi di cantiere foto ftstudio
foto ftstudio
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per una governance ‘snella’
Mi viene chiesto un contributo su di una delle questioni più complesse e controverse riguardanti in generale, nell’attuale fase storica, il governo del territorio (e, naturalmente, soprattutto, della sua trasformazione). La questione, poi, della “snellezza” richiederebbe uno spazio ed un tempo di sperimentazione dal vivo, di valutazione e di riflessione, che non è consentito a chi come me ha solo l’occasione, ormai, di osservare, da studioso, quanto sta accadendo nel mondo circostante. Mi limito, pertanto, ad enunciare alcuni concetti di principio, nel convincimento che le questioni complesse vanno innanzi tutto ricondotte a poche fondamentali regole di base. Prima regola. Il governo del territorio, delle sue parti, quindi della città, dei suoi insiemi e dei suoi elementi, va considerato nella sua interezza, come di un tutto che si trasforma auto/eteroregolandosi continuamente. Per usare un termine abusato, ma anche troppo spesso dimenticato, come un organismo vivente. Non si tratta di una metafora: il territorio è un organismo vivente. Seconda regola. Le relazioni tra le parti formano un sistema che va salvaguardato in modo da evitare che vi siano parti favorite ed altre sfavorite o portate ad esaurirsi. E’ questione di equilibrio, non statico, ma dinamico, e la sua continua messa a punto costituisce l’aspetto vitale della trasformazione complessiva dell’organismo, la misura del suo stato di salute. Terza regola. La trasformazione continua dell’organismo va vista, nella sua durata, quindi in termini spazio-temporali, come successione di trasformazioni parziali, inanellate le une nelle altre, le parti esistenti, già funzionalmente organizzate nel corpo vivente, con le nuove, da inserire in un nuova organizzazione d’insieme. Sono tre regole semplici, ma, appunto, fondamentali, quindi non “facili”. Appartengono ad una cultura certamente non nuova, ma che a ben vedere si può definire come una costante del buon governo, da che mondo è mondo. E’ su questa base che si può tentare di individuare alcuni aspetti della questione che, soprattutto oggi, assumono un particolare valore, un valore aggiunto. Primo aspetto, le risorse. La vitalità o più semplicemente la vita dell’organismo territoriale dipende in primo luogo dal buon uso delle risorse, che sono materiali (misurabili quantitativamente in termini di costo e di economicità, come di consumo e di spreco, ecc.) ed immateriali, più difficilmente misurabili perché “umane”, quindi soggette alle variabili dovute alla disponibilità di una comunità alla collaborazione e alla determinazione consapevole/inconsapevole delle esigenze, di comfort individuale come del welfare sociale. Secondo aspetto, la convergenza. Se è vero -come logicamente sembrerebbe- che la presenza della risorsa umana, immateriale, sfuggente, ma determinante, costituisce il punto-chiave del buon uso in generale delle risorse esistenti in un dato territorio (vivo in quanto animato da popolazione insediata), se è fondata questa considerazione, è altrettanto fondato sostenere che la sua massima valorizzazione non può non risiedere nell’esistenza o meno di obiettivi (visioni, prospettive, desideri, sogni, ecc.) comuni e condivisi, o quanto meno convergenti e, nella dialettica della conflittualità, accettati. Terzo aspetto, la praticità. Stabilita la condizione perché la risorsa umana sia degnamente valorizzata, occorre naturalmente individuare un’ulteriore condizione, perché siano evitati inutili entropie, dispersioni di energie, di tempi e risorse materiali. A tal fine appare evidente come ogni semplificazione sia bene accetta. Ma, occorre ribadire una volta ancora, nel rispetto delle regole generali. Se queste sono rispettate, è evidente come il massimo decentramento delle decisioni, oltre che opportuno, divenga possibile. Ad ogni scala il suo decentramento. Ad ogni problema il suo decisore ed i suoi interlocutori. Mi fermo qui. Ogni ulteriore specificazione (assolutamente necessaria) non può che risultare da quella sperimentazione, osservazione e valutazione dal vivo di cui sopra.
vieri quilici
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considerazioni finali
Risalendo dagli esiti di azioni compiute e già maturate all’interno di un processo di sviluppo urbano è possibile comprendere le dinamiche e le ragioni che hanno portato al compimento o meno delle aspettative che li hanno originati. La definizione di un metodo o di linee guida a supporto di una visione condivisa e integrata per le politiche abitative è un compito molto complesso, e non è certamente questa la sede per tali valutazioni. Nonostante questa consapevolezza, alcune tracce sono emerse chiaramente; tenerne conto in fase pianificatoria non è garanzia di successo, ma ignorarle potrebbe compromettere il buon esito di metodi che sono nei presupposti buoni. Sintetizzando potremmo riassumerle nei seguenti punti: Idea di città. E’ necessario che la pianificazione sia conseguente e coerente con un’idea di sviluppo urbano condiviso e di lungo termine. L’iper-progettualità normativa non può sostituirsi ad una carente visione culturale e sociale della casa e della città. Il sistema della partecipazione deve avvenire nel rispetto delle competenze: abitanti, tecnici, amministrazioni, ma deve essere biunivoca. Deve servire agli amministratori per indirizzare le trasformazioni urbane nella direzione auspicata dagli abitanti, ma deve servire anche alla cittadinanza e ai tecnici per comprendere le problematiche e i limiti del governo della città. Tessuto funzionale. Gli “estremi” pianificatori si sono rivelati non adeguati per generare insediamenti sostenibili. Le città dormitorio ci appaiono oggi come ghetti per emarginati e la città indefinita che invade le campagne mescolando indistintamente attività agricole, residenziali e produttive, ha congestionato il territorio e diffuso traffico ed inquinamento. Risulta necessario combinare nel tessuto degli insediamenti abitativi, tutte le funzioni con esse compatibili: di interesse pubblico-culturale, commerciale, del tempo libero; al fine di garantire sicurezza urbana ed evitare esclusioni sociali. Pubblico e Privato. Pubblico e privato hanno finalità e competenze differenti e sono ugualmente necessarie. Un processo pianificatorio che voglia giungere a degli obbiettivi di qualità deve necessariamente coinvolgere entrambi. Luoghi ed identità. Le società umane hanno generato modi di relazionarsi, di agire e di vivere differenti. Per questa ragione un progetto che avrebbe un sicuro esito in un luogo, potrebbe essere fallimentare in un altro. Gli operatori, politici o tecnici, lavorando all’interno di relazioni culturali consolidate devono operare in continuità con le morfologie urbane e sociali preesistenti. Programmazione di lungo termine. La trasformazione dei sistemi urbani avviene in tempi lunghi e con programmi che richiedono una visione di ampio respiro. La città non si risolve con uno slogan o con premialità volumetriche una tantum. Le varie parti che la compongono maturano e si trasformano. Anche gli interventi puntuali destinati ai singoli edifici ed al rinnovamento di intere aree devono quindi essere coerenti con una idea di conurbazione ampia e strutturata.
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autori
Commissione Cultura Fondazione Architetti di Ferrara Lorenzo Bergamini Azzurra Carli Luca Farinelli Alberto Guzzon Maria Elena Mantellini Michele Pastore Federica Poggi Francesca Pozzi Lidia Spano Claudio Tassinari autori dei contributi Roberta Fusari, assessore all’urbanistica del Comune di Ferrara Daniele Guzzinati, legale rappresentante delle cooperative di abitazione a proprietà divisa ed indivisa, Ferrara Raffaele Lungarella, responsabile servizio politiche abitative della Regione Emilia Romagna Augusto Mazzini, docente presso l’Università di Firenze Vieri Quilici, docente presso l’Università Roma 3 Michele Zanelli, responsabile servizio qualità urbana della Regione Emilia Romagna ringraziamenti
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Bernardo Bernardi, Sergio Benini, Marco Cenacchi, Franco Vincenzi, Paolo Grazzi, Luca Lanzoni, Michele Ronconi, Andrea Mangialardo, Barbara Cestari, Maria Giovanna Govoni
Consiglio Fondazione e Ordine Architetti PPC della Provincia di Ferrara Gianni Pirani, presidente ordine Diego Farina, presidente fondazione Maria Elena Mantellini, vice presidente ordine e fondazione Vittorio Anselmi, tesoriere Sergio Fortini, segretario Pietro Baraldi Cristina Chersi Leonardo Monticelli Riccardo Orlandi