Di Spazi. città genere specie una pubblicazione di Ordine degli Architetti PPC di Ferrara redazione scientifica per Fondazione degli Architetti di Ferrara Diego Farina Sergio Fortini Cristina Chersi Maria Elena Mantellini per l’Associazione di Promozione Sociale “Basso Profilo” Maria Giovanna Govoni Silvia Tarantini Fabio Venneri per AGAF - Associazione Giovani Architetti della Provincia di Ferrara Denis Zaghi progetto grafico di Fabio Venneri testi delle sezioni tematiche di Denis Zaghi illustrazioni di Giacomo Nanni in copertina: “nuvole” di Giacomo Nanni
editore ferrara tutti i diritti riservati finito di stampare nel mese di marzo 2013 presso la tipografia italia ferrara ISBN 978 - 88 - 97282 - 05 - 01
Di Spazi. cittĂ genere specie Fondazione degli Architetti di Ferrara Associazione di Promozione Sociale Basso Profilo AGAF - Associazione Giovani Architetti della Provincia di Ferrara
nella pagina accanto, citazione tratta da PEREC Georges, Specie di Spazi, trad. Roberta Delbono, Torino, Bollati Boringheri, 1989 (Titolo originale: Espèces d’espaces, Editions Galilèe,1974, Paris)
MANCANZA DI spazio spazio LIBERO spazio CHIUSO spazio PRECLUSO POSIZIONE NELLO spazio spazio CONTATO spazio VERDE spazio VITALE spazio CRITICO SCOPERTA DELLO spazio spazio SCOPERTO spazio spazio OBLIQUO spazio VERGINE spazio EUCLIDEO spazio AEREO spazio GRIGIO spazio STORTO spazio DEL SOGNO BARRA spaziATRICE PASSEGGIATE NELLO spazio GEOMETRIA NELLO spazio SGUARDO CHE PERCORRE LO spazio spazio-TEMPO spazio MISURATO LA CONQUISTA DELLO spazio spazio MORTO spazio D’UN ISTANTE spazio CELESTE spazio IMMAGINARIO spazio NOCIVO spazio BIANCO spazio DEL DIDENTRO IL PEDONE DELLO spazio spazio SPEZZATO spazio ORDINATO spazio VISSUTO spazio MOLLE spazio DISPONIBILE spazio PERCORSO spazio PIANO spazio TIPO spazio INTORNO GIRO DELLO spazio AL LIMITAR DELLO spazio spazio DI UN MATTINO SGUARDO PERDUTO NELLO spazio I GRANDI spazi L’EVOLUZIONE DEGLI spazi spazio SONORO spazio LETTERARIO ODISSEA NELLO spazio
INDICE
INTRO
di Diego Farina e Sergio Fortini
PREFAZIONE di Diego Marani spazio /CULTURA
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Lo spazio tra cultura contemporanea e città
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Spazi per la produzione culturale
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Investire sui musei: Palazzo Massari
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Pubblico, Privato e governance culturale
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Lo spazio pubblico aperto alla bellezza e alla cultura
di Diego Farina e Sergio Fortini di Fabio Venneri
di Maria Luisa Pacelli di Fabio Donato
di Corrado e Saltini
spazio /TEMPO
36
Dinamiche rururbane
40
Il tempo dello spazio
46
Antonioni e le arti: una scenografia narrativa
52
Lo spazio tra impresa e cultura
di Davide Bregola
di Richard Ingersoll
di Dominique Païni di Giulio Bargellini
spazio /IDENTITÀ
58
Targhe
62
Lo spazio pubblico
66
Spazio libero
70
Protestare o partecipare?
74
A ripensarci. Art Spazi informali per l’arte
di Maurizio Garuti di Giuseppe Scandurra di Denis Zaghi
di Paolo Bruschi
di Monica Pavani
INTRO
Diego Farina e Sergio Fortini
Nella migliore delle ipotesi (che peraltro mai
“Bene. Un gruppo di architetti tra loro concordi. Un inaspettato inizio” 8
si avvera) il mestiere di architetto porta con sé almeno un problema: la difficoltà nello spiegare agli altri a cosa serve davvero questa professione, nel descrivere loro che il lavoro di progetto ruota attorno allo spazio, vuoto o pieno che sia, non attorno a una trave o a un docfa. Di questo, purtroppo, spesso si parla tra architetti, il più delle volte in modo ridondante, vittimistico e poco produttivo; ma, quel che è peggio, di questo mestiere non si parla affatto sugli organi di stampa. Come, dunque, aggirare l’ostacolo? Come cercare di coinvolgere le persone in un dialogo aperto sulla città e sul territorio? In quale modo stimolare la consapevolezza che ogni singolo oggetto urbano è frutto di un progetto, buono o cattivo, ma in ogni caso destinato a influenzare il quotidiano di ogni cittadino? Coscienti di questa lacuna dialettica, abbiamo pensato di far parlare altre professionalità al posto nostro. Quando ci siamo riuniti la prima volta attorno a un tavolo, in sei o sette progettisti, pensavamo di avere le idee chiare sull’obiettivo, un po’ meno sulla strategia: costruire, con il favore
della stampa locale (La Nuova Ferrara e Il Resto del Carlino), un percorso mirato a far comprendere a chiunque come l’importanza di questa professione trasparisse, nel bene e nel male, nella concretezza dei luoghi che la collettività abita e frequenta. Chiamare a parlare di città e territorio competenze non direttamente attinenti al mestiere di architetto, ma altrettanto e forse più capaci di parlare intorno a quei temi da altra angolazione ci è sembrata la strada più corretta. Abbiamo dunque riflettuto sul titolo. Specie di Spazi è arrivato quasi in automatico. Avevamo letto tutti il libro di Georges Perec? Può darsi. Ma non volevamo apparire ancora una volta come i soliti architetti che sanno ben figurare in un consesso parlando di Heidegger (altra ipotesi ottimistica) poi non ti risolvono il problema dell’umidità. Quindi, tacendone la fonte, abbiamo concluso che Specie di Spazi poteva essere per suono delle lettere e ritmo delle parole il titolo giusto. Bene. Un gruppo di architetti tra loro concordi. Un inaspettato inizio che ci avrebbe fornito l’abbrivio per risolvere agilmente anche la domanda successiva: quali temi? Specie di Spazi, di per sé, è locuzione capiente e generosa. Non restava dunque che sbizzarrirci sulle possibilità. Abbiamo così dismesso i panni della professione e ci siamo calati in quelli di cittadini, mescolando volutamente luoghi, temi e problemi: socialità, margini, arte, tempo, cultura, tutela. Non immaginavamo, ovviamente, le modalità con cui ogni interlocutore da noi contattato avrebbe sviluppato ciascun argomento, ma abbiamo deciso di non modificare nulla di ciò che sarebbe stato scritto. Non potevamo sapere
che qualcuno tra loro avrebbe snocciolato numeri, invitato a sognare, rimarcato un’assenza o prefigurato una storia. Ma l’hanno fatto e questo libro contiene tutto questo. Anzi, qualcosa in più. Perché, da architetti adusi a interagire con altre professioni, abbiamo pensato: passi per il logo da noi elaborato (ci siamo accordati pure su quello, cosa non da poco), ma in una pubblicazione come questa ci vogliono illustrazioni. Disegni o foto? Disegni, disegni. Chi chiamiamo? C’è n’è uno bravo, tratto pulito e idee brillanti. Fatto. Il risultato è l’oggetto che avete tra le mani. Passatevelo, fate bookcrossing, dimenticatevelo in città. Costruire consapevolezza civica e attenta nel modo di vedere i luoghi, anche quelli apparentemente più familiari, è impresa lenta, paziente, capillare. Per lo spazio, ci vuole tempo.
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PREFAZIONE Diego Marani
Un mio compaesano per spiegare l’irresistibile
“Lo sapranno i cinesi che condizionano perfino il nostro paesaggio?”
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attrattiva che anche il più insignificante luogo può avere, chiedeva a un nuovo venuto se per caso sentisse la bicicletta come se fosse in discesa quando si avvicinava al paese. “È vero!” rispondeva lui meravigliato: “È come se tutto converga verso questo luogo!”. Ogni luogo segna e disegna, ci pervade delle sue forme e non è la stessa cosa crescere nella tundra o fra marmi cinquecenteschi. La nostra concezione del vuoto e del pieno, del bello e del brutto si costruisce su quel che ci circonda. Ma anche l’informe forma e sotto il sole del tempo ognuno di noi fa l’ombra non tanto di quel che è ma di quel che porta dentro di sé. Ferrara come ogni luogo ha la sua peculiarità e più di altri il tessuto urbano ferrarese si individua attorno a cardini da cui non si può transigere. Non sono solo definizioni urbanistiche ma vere e proprie percezioni condivise. La storia e la fama urbanistica della città le hanno consolidate fino a renderle ineluttabili. Ci intimoriscono e non consideriamo possibile contestarli. Ma la loro persistenza è rigida e morta come quella di uno scavo archeologico. Fuori la città cambia
e che lo si voglia o no questo incide anche sul suo centro. Non rimane un nucleo congelato ma suo malgrado viene risucchiato dall’informe che incombe, che brulica, rimescola e scardina gli antichi cardini. Che a Ferrara esista il Palazzo degli Specchi ha un effetto anche sul Palazzo dei Diamanti, anche se li separano molti chilometri. Che il nostro più grosso centro commerciale si chiami Castello incide anche sul castello estense perché confonde monumento e mercato portando quest’ultimo al centro della città e rimuovendo quello antico in una dimensione sospesa, un limbo anticamera dell’elisione che fa venire in mente il cestino dei nostri computer dove tutto è recuperabile ma bisogna andare a cercarlo. Cercare in questo caso è strappare a una musealità paralizzante. Troppo spesso restauriamo soffocando, per il solo fine di conservare una memoria mummificata. Forse dovremmo restaurare meno e costruire meglio. Sperare che gli affreschi di Schifanoia se li mangi una volta per tutte l’umidità è forse indicibile ma non dover più andarli a vedere sarebbe una liberazione culturale. Qualcosa dobbiamo pur dimenticare per avere qualcosa da ricordare. Troppa memoria rischia di diventare zavorra. Si parla molto oggi di paesaggio e della sua protezione. Questo ha portato inevitabilmente a cercare di definire una gerarchia dei paesaggi: non valgono tutti allo stesso modo. Così abbiamo scoperto che il nostro non ha valore, è solo distesa di terre disegnata da un’economia che si decide molto lontano da qui. È dalle sconfinate aree urbane dell’Asia o dell’America che scaturisce il nostro paesaggio. A seconda del prezzo della colza, del riso o del granoturco che milioni di persone a noi totalmente
estranee sono disposte a pagare, avremo una campagna giallo limone o verde acqua. Lo sapranno i cinesi che condizionano perfino il nostro paesaggio? Bisognerà mandar loro una cartolina. Sospinta dalla nuova etica ecologista, la coltivazione dell’equino boliviano diventa sempre più redditizia e sta raggiungendo l’Europa. Che effetto avranno le sue piumose spighe colorate sul nostro paesaggio? Un grande latifondista ferrarese recinge di rete metallica ogni terreno che compra. Possiede migliaia di ettari in tutta la provincia e le sue terre si distinguono dalla rete. Senza che ce ne accorgiamo quella rete diventa un riferimento. Ci divide, ci impedisce un virtuale accesso, chiude l’incontenibile ma segretamente traccia in noi percorsi che finiscono per segnare anche la città. Ferrara vive avulsa dal suo paesaggio, quasi assediata da un vuoto che sembra non competerle. Come la pianta del ginseng, non lascia crescere nulla attorno a sé. Ma non ne resta immune. Periodicamente quel vuoto sale come una piena e finisce per tracimare nelle sue strade sommergendola di tutto quello che aveva creduto di poter tenere fuori. Queste sono solo alcune piste di pensiero che mostrano come sia attuale una riflessione sull’architettura libera da inibizioni scolastiche e fuori dalle piste battute. La registrazione di visioni diverse della città non serve tanto a contraddire il canone, quanto ad accogliere il mutamento. Per il ferrarese moderno la pensilina di una fermata dell’autobus può avere maggiore valore emotivo della statua del Savonarola. Censire quest’altra città può solo essere benefico e contribuire a sciogliere i coaguli che oggi occludono il flusso dal vecchio al nuovo, dal dentro al fuori. 11
In quali luoghi, in quali spazi, la pratica artistica può tradursi in Atto generatore di cultura? Ci sono ambiti urbani che, più di altri, possono facilitare ed indurre tale processo al punto da divenirne “contenitori” esclusivi o l’istituzione imposta di spazi specifici demandati a questa funzione ha portato ad un progressivo sfasamento fra l’arte contemporanea e la cultura contemporanea? Il rapporto con la storia di un luogo, le sue tradizioni, sono un vincolo, un’opportunità o uno spunto per iniziare un nuovo processo di genesi culturale? In un sistema socio-politico dominato dai mercati finanziari, qual è e quale potrebbe / dovrebbe essere lo “spazio” destinato alla cultura?
spazio /CULTURA
spazio /CULTURA
LO SPAZIO TRA CULTURA CONTEMPORANEA E CITTÀ
L’INVESTIMENTO CULTURALE Diego Farina e Sergio Fortini
Ogni spazio è uno spazio politico. Le nostre
città, sono il risultato in divenire dell’influenza di diverse culture: siamo stati invasi, abbiamo ospitato, siamo stati sottomessi, abbiamo inventato, abbiamo costruito. E continuiamo, lentamente, in modo talvolta conflittuale ma ineluttabile, a costruire cultura anche in un periodo storico fortemente segnato dall’influsso dell’economia, regolatrice di limiti e opportunità in ogni società. Spesso non ce ne accorgiamo. Anzi, accade con frequenza che gli impulsi di cultura contemporanea vengano
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individuati come forme di arte privilegiate e incomprensibili ai più, senza nessuna possibilità di lettura da parte della collettività. Siamo (quasi) tutti ignoranti? Possibile, ma non del tutto verosimile. Il punto è un altro: buona parte della produzione di cultura contemporanea si manifesta attraverso “eventi” completamente decontestualizzati rispetto al tessuto sociale che li ospita. Chi organizza solitamente punta su questo o quell’artista, non sulla ricaduta – economica e sociale - che può
spazio /CULTURA
avere nei confronti del territorio. Concetti come “investimento” e “produttività” non sono ad esclusivo appannaggio delle scienze economiche: i processi culturali sono, per propria natura, un investimento nei confronti della collettività; renderli produttivi diventa una scelta strategica. Come fare? Partendo dal basso. Gli spazi della città sono le sedi naturali di tali processi. Essi partono dalla convergenza tra un’esigenza sentita e un’opportunità anche solo sognata dai cittadini. Gli esempi ci sono, soprattutto fuori dal nostro Paese, aree incolte e dismesse che, con la partecipazione degli abitanti, vengono trasformate in orti urbani e contribuiscono a un’economia di microscala (i prodotti della terra venduti agli asili e alle scuole vicine), spazi inutilizzati e fatiscenti che diventano piccoli parchi gioco e ritrovi di quartiere, ex fabbriche trasformate in laboratori artigianali, caffè e luoghi di socialità. La stretta, ineludibile connessione tra urbano e sociale è il fondamento di una cultura (e di un’arte) che si può chiamare contemporanea. Conoscere e governare strategicamente queste connessioni significa capire quali sono le necessità e le attitudini di un territorio a
costruire con le idee i presupposti per produrre cultura. In questo modo la cultura diventa inclusiva, si pronuncia al plurale -culture- e trasforma i bisogni diffusi in possibilità, un investimento propulsivo atto a produrre altra economia e altri progetti, con ricadute tangibili sugli stessi territori e sui suoi attori sociali. Lo sviluppo sostanziale e sostenibile di un territorio, non può più prescindere da una politica contemporanea di cultura urbana. Investire in cultura non ha sicuramente un riflesso immediato nella corsa al consenso politico, ma è una delle più audaci speranze per il nostro futuro.
“i processi culturali sono un investimento nei confronti della collettività” FARINA Diego e FORTINI Sergio, “Gli ‘spazi’ degli architetti”, Il Resto del Carlino Ferrara, 27 Febbraio 2012 16
Diego Farina classe 1972. Laurea magistrale in Architettura e Master in Economia e Management dei Musei e dei servizi culturali. Socio fondatore nel 2008 e primo presidente del Centro Studi Dante Bighi, attualmente è Presidente della Fondazione degli Architetti di Ferrara e svolge la libera professione con lo studio associato UXA - Ufficio X l’Architettura, di cui è stato co-fondatore nel 2007. Si occupa di management del progetto architettonico e sviluppo di produzioni culturali... atipiche. Sergio Fortini (Ferrara, 1970). Laureato in Architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (I.U.A.V) nel 1999 con tesi di Laurea “Le parole sono pietre al silicio: città abitazione flussi nella narrativa contemporanea italiana 1990-2000”, Relatore Prof. Arch. Bernardo Secchi. Co-fondatore e progettista dello studio anguillAMetrica (2000-2005); fondatore dello studio Canapè cantieri aperti, in cui opera attualmente come libero professionista, occupandosi di lavori pubblici e privati in campo architettonico e urbanistico; premiato in diversi concorsi nazionali e internazionali. Docente a contratto del corso di Storia dell’Urbanistica presso la Facoltà di Architettura di Ferrara, dall’anno accademico 2005-2006; consigliere e segretario dell’Ordine Architetti della Provincia di Ferrara dal 2009. 17
spazio /CULTURA
SPAZI PER LA PRODUZIONE CULTURALE Fabio Venneri per Basso Profilo
“Ferrara 500 anni fa era New York!” recita una
scritta apparsa qualche tempo fa sotto ai portici tra Porta Reno e la piazza. Così, in poche parole e con un paragone di immediata comprensione, Andrea Amaducci, artista ferrarese, è riuscito a fissare un concetto di importanza cruciale per le politiche culturali della città. Di quel tempo di 500 anni fa, Ferrara ha la fortuna e la sfortuna di un’eredità pesante: la fortuna di una concezione urbanistica che ne ha fatto la prima città moderna d’Europa, da cui il riconoscimento da parte dell’UNESCO 18
come “patrimonio dell’umanità” quale mirabile esempio di città progettata nel Rinascimento; la sfortuna della difficoltà di ripensarsi al di là di questa immagine cristallizzata. Le due questioni non sono affatto slegate: una città non più in grado di elaborare nuova cultura difficilmente riuscirà a valorizzare il proprio patrimonio reperendo le appropriate e necessarie risorse intellettuali ed economiche. Guardando a quel formidabile (dal latino formidàre: temere) passato, dovremmo essere in grado di porre la nostra attenzione non solo sulla produzione tangibile di quell’epoca, quanto piuttosto sul “tessuto sociale generativo” che ne ha reso possibile l’ideazione e la realizzazione, fatto della compartecipazione di tutti gli attori della società e soprattutto di una comunità di cittadini che si sentiva direttamente chiamata in causa nella vita culturale della città.
“una città non più in grado di elaborare nuova cultura difficilmente riuscirà a valorizzare il proprio patrimonio” E dovremmo pensare che, accanto ad uomini di capacità fuori dal comune come Biagio Rossetti, il Boiardo, l’Ariosto, Cosmè Tura, ce n’erano molti altri mai assurti alla gloria per la loro arte, ma che ugualmente godevano della protezione mecenatesca degli Este e partecipavano di un ambiente ricco di
spazio /CULTURA
scambi intellettuali. Insomma, l’emergere di espressioni artistiche di rilievo non è legato alla sola presenza di talenti straordinari, ma è conseguenza di un fermento che coinvolge la società tutta. C’è un altro passato non meno importante ma verso il quale si nutre molto meno timore reverenziale, forse perché più recente e meno sedimentato: è quello novecentesco del Cinema Rivoli, dei magazzini fluviali di via Darsena, dell’intero Quartiere Giardino, del Teatro di Piazzetta Verdi, dei grattacieli. Alcuni di questi spazi si rendono di nuovo disponibili una volta assolta la funzione per la quale erano stati concepiti, o perché abbandonati in favore di nuove e più funzionali strutture. Si tratta di spazi di grande potenza narrativa e ricchi di potenzialità di trasformazione, che possano andare al di là dei cliché “spazio polifunzionale” e “bar-caffetteria”. Spazi in attesa di essere riempiti di senso, di accogliere quelle energie latenti che potrebbero riattivare processi di partecipazione consapevole, attiva e motivata alla vita culturale della città da parte dei cittadini. Edifici entrati a far parte della memoria collettiva di diverse
generazioni, la riappropriazione dei quali segnerebbe un atto di riconquista di uno spazio sociale per la collettività, assolverebbe la funzione di presidio costante del territorio, porrebbe in essere possibilità inedite di investire nella propria progettualità. Potrebbe portare, soprattutto, ad uscire dalla logica dall’eccezionalità rituale della manifestazione culturale - pensiamo a Ferrara durante i grandi eventi di importanza nazionale ed internazionale, e al giorno dopo - per reinserirla all’interno di una quotidianità che sia foriera di un coinvolgimento sempre più intenso e partecipe. In un periodo in cui è sempre più difficile reperire risorse adeguate, è quasi impossibile immaginare grandi progetti di recupero in grado di agire in maniera complessiva e in un lasso di tempo definito: finché non ce ne sarà la possibilità, approfittiamo di questo tempo per cominciare a pensarci, considerando le grandi trasformazioni come la somma di microinterventi, raccontando una storia, organizzando un piccolo spettacolo, riaccendendo una luce, riaprendo una porta.
“spazi di grande potenza narrativa e ricchi di potenzialità di trasformazione” VENNERI Fabio (APS Basso Profilo), “È il momento di pensare a come riappropriarsi di spazi”, La Nuova Ferrara, 10 Aprile 2012 20
Fabio Venneri nasce nel 1986 al nord da genitori del sud e vive la gran parte della sua vita al centro, prima di trasferirsi nella bassa dove si laurea in Architettura. Ha studiato alla Technische Universität München e viaggiato in tutta l’Europa occidentale. Dal 2011 è il responsabile della comunicazione per l’A.P.S. Basso Profilo, associazione di giovani architetti, designer, paesaggisti e urbanisti - e dal 2013 ne è il Presidente. 21
spazio /CULTURA
INVESTIRE SUI MUSEI: PALAZZO MASSARI Maria Luisa Pacelli
I
l complesso di Palazzo Massari, sede delle collezioni civiche di arte moderna, è un insieme ampio e articolato di edifici che già prima del terremoto necessitava di importanti opere di messa a norma, restauro e riqualificazione. Un primo stralcio di lavori, che avrebbe interessato il tetto, la facciata, il consolidamento di alcune porzioni, la messa a norma degli impianti e l’illuminotecnica dei musei del piano nobile, sarebbe dovuto iniziare nei primi mesi del prossimo anno. Con il sisma, gli edifici hanno evidenziato le 22
loro fragilità strutturali e non a caso Palazzo Massari è oggi uno dei complessi cittadini più problematici: è, infatti, inagibile in larga misura e in parte lesionato anche per quanto riguarda gli interni e le decorazioni del piano nobile. Rispetto a quanto pianificato prima del terremoto, è mutata la quantità e la priorità degli interventi da effettuare e, sebbene questi siano ancora da identificare nel dettaglio, certamente lo stanziamento che era stato previsto (circa due milioni e mezzo di euro) è insufficiente. Oltre a ciò, il problema del Massari si inserisce oggi in un quadro che ha visto affiorare molte altre emergenze di messa in sicurezza e ripristino del patrimonio monumentale e civile cittadino. Senza sottovalutare le oggettive difficoltà che una simile situazione presenta, e mentre viene dato corso agli interventi necessari per riaprire altri luoghi cruciali per la vita della
“Con il sisma, gli edifici hanno evidenziato le loro fragilità strutturali e Palazzo Massari è uno dei complessi più problematici nostra comunità, credo sia opportuno iniziare a riflettere sul futuro dei musei d’arte moderna. Non si tratta solo di capire come rendere di nuovo fruibile in tempi ragionevoli il loro importante patrimonio artistico, ma anche di interrogarsi sull’impatto che potrebbe avere sulla città il loro restauro e la loro riqualificazione.
spazio /CULTURA
Personalmente credo che per le sue collezioni, per l’architettura, per il contesto in cui è collocato - tra il parco e il centro cittadino - Palazzo Massari potrebbe diventare un’interessante occasione di sviluppo per Ferrara, sia in ambito turistico, sia per ridisegnare mappe e strategie per il futuro della città, e questo già in fase di progettazione e di cantiere. Per rilanciare Ferrara come città d’arte e di cultura non sono necessari, o utili, investimenti in ambito museale dell’estensione e della portata di quelli che hanno cambiato il volto di centri come, ad esempio, Torino o Bilbao, per altro impensabili nell’attuale frangente economico. Forti della bellezza e dell’interesse del nostro scenario urbano e di decenni di investimenti nell’ambito degli eventi culturali, basterebbe valorizzare con intelligenza il patrimonio, progettando musei funzionali e accoglienti, aperti all’arte e alla cultura nel senso più allargato, dei luoghi in cui far dialogare le collezioni storiche e il presente, gli interni dei palazzi e ciò che gli sta intorno. Con tutte le cautele dettate da una crisi economica pesante, questa era all’incirca l’idea, condivisa con l’Amministrazione, alla base di
“basterebbe valorizzare con intelligenza il patrimonio, progettando musei funzionali e accoglienti” 24
un ripensamento delle funzioni e possibilità dei musei d’arte moderna e degli interventi che sarebbero dovuti iniziare, per stralci, con il nuovo anno. Era un progetto ambizioso prima del terremoto e tanto più lo è oggi, ma, vista la quantità di risorse comunque indispensabili per riaprire in una qualsiasi forma il Massari, ritengo che da tale idea si debba ripartire se si vuole misurare la portata e l’opportunità di un eventuale investimento.
PACELLI Maria Luisa, “Investire sui musei”, Il Resto del Carlino Ferrara, 23 Luglio 2012
Maria Luisa Pacelli è stata curatrice delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara a partire dal 1999, assumendone la direzione dal 1° luglio 2011. Oltre a sovrintendere il Museo “Giovanni Boldini”, il Museo dell’Ottocento e il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea “Filippo de Pisis”, collocati presso il complesso di Palazzo Massari, è responsabile del programma espositivo di Palazzo dei Diamanti. 25
spazio /CULTURA
PUBBLICO, PRIVATO E GOVERNANCE CULTURALE Fabio Donato
Le
turbolenze dei mercati finanziari, i dati sulla produzione del Paese, le statistiche sull’andamento dell’occupazione dimostrano che la crisi economica non è di certo un capitolo chiuso. Si tratta di una crisi che ha la sua ragione nei comportamenti altamente speculativi del settore della finanza. Comportamenti speculativi, dunque, che si basano su ottiche di breve periodo, finalizzate a guadagni immediati. Anche quando questi sono in contrasto con lo sviluppo di imprese, territori, livelli occupazionali. Ma si tratta di una crisi che 26
non riusciamo a comprendere pienamente se indossiamo le soli lenti dell’economia. Perché questa crisi si basa principalmente su crisi di valori. È una crisi economico-finanziaria, ma è anche e soprattutto una crisi etica. Cosa c’entra in questo la cultura? Tipicamente la cultura è considerata strumentale all’economia in termini di attrazione turistica. Ma oggi la cultura è necessaria all’economia proprio in termini di trasmissione di questi valori che orientino i comportamenti di coloro che hanno responsabilità gestionali verso logiche di sostenibilità. Servono manager che siano anche persone di cultura. Il che non significa naturalmente conoscere una poesia a memoria. Ma significa aver interiorizzato dentro di sé quei valori di cui la cultura è portatrice, e che consentono di sviluppare, nelle proprie scelte, “pensieri lunghi”, “orizzonti ampi”, “radici
“si tratta di una crisi che non riusciamo a comprendere pienamente se indossiamo le sole lenti dell’economia” profonde”. La cultura in Italia non è certa stata graziata dalla crisi. Importanti ripercussioni si sono avute inevitabilmente anche in questo settore, con una variazione dei finanziamenti del -17% e una diminuzione delle sponsorizzazioni del 28%. La crisi ha agito come una cassa di amplificazione delle criticità preesistenti.
spazio /CULTURA
Tali criticità sono in primis dovute ad una visione tutta italiana che considera la cultura come “rendita”, da amministrare come eredità: un patrimonio da distribuire, attraverso il turismo culturale. E quasi mai come un’industria da gestire e da sviluppare, legando tra di loro conservazione, valorizzazione e partecipazione dei cittadini. È urgente un cambiamento dei modelli di gestione del patrimonio culturale. Serve innanzi tutto una governance unitaria a livello territoriale che gestisca in modo unitario un patrimonio culturale che del resto è per sua natura collegato e reciprocamente dialogante. In secondo luogo è indispensabile una formazione pluridisciplinare in grado di creare competenze per una gestione professionale del patrimonio culturale anche sotto il profilo economico manageriale. Infine, è essenziale sviluppare la cooperazione tra pubblico e privato per un’efficace gestione del patrimonio culturale tale da produrre esternalità positive e significative per entrambi i comparti. Il settore pubblico deve offrire regole e opportunità; il settore privato deve generare iniziative imprenditoriali autonome. La produzione di beni, servizi e tecnologie collegate al
“serve una governance unitaria a livello territoriale che gestisca un patrimonio culturale per sua natura collegato” 28
patrimonio culturale rappresenta il 3,3% del Pil a livello europeo. Noi che siamo il Paese con il maggior patrimonio culturale al mondo non riusciamo ad avvicinarci neppure lontanamente a tale percentuale. Il settore pubblico deve lasciare le imprese libere di sviluppare le proprie progettualità all’interno di regole pre-definite che devono essere fatte rispettare. Le imprese devono produrre beni, servizi e tecnologie ricercando spazi di mercato, e non semplicemente contributi pubblici. In questo senso, la cultura può rappresentare il motore per generare ricchezza e occupazione giovanile. In tempi di crisi la cultura ha quindi un ruolo diverso dal passato: non solo turismo, ma anche sviluppo di imprese. Ma non supereremo questa crisi sino a che non sarà chiaro che essa è figlia di comportamenti speculativi, atteggiamenti di breve termine, logiche di puro sfruttamento delle ricchezze locali. Per uscire dalla crisi economica non sono sufficienti gli strumenti dell’economia, perché alla radice di questa crisi economica c’è una crisi di tipo etico. E la valorizzazione della cultura può servire anche a questo: a riscoprire le nostre radici, le nostre identità ed i valori che stanno alla base della nostra società, prima ancora che della nostra economia.
DONATO Fabio, “La crisi ha radici nell’etica. La cultura può aiutare”, La Nuova Ferrara, 13 Novembre 2012
Fabio Donato è ordinario di Economia Aziendale presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Ferrara e attualmente docente di Economia Aziendale, Management Pubblico e Economia delle Aziende Culturali. Direttore del Master internazionale in Cultural Management (MuSeC), Università di Ferrara. Dal 2009 è componente del Board di ENCATC, European Network on Cultural Management and Policy Education, in Bruxelles. 29
spazio /CULTURA
LO SPAZIO PUBBLICO APERTO ALLA BELLEZZA E ALLA CULTURA Francesca Corrado e Stefania Saltini
L’arte
e la cultura rappresentano una dimensione rilevante del benessere individuale e della qualità della vita di un territorio, oggi e in futuro. Un territorio garantisce una buona qualità di vita se la sua popolazione può sviluppare le proprie potenzialità e condurre una vita degna di essere vissuta. Un territorio si proietta nel futuro se è produttore di cultura e se potenzia, a partire dall’oggi, la capacità di godere della bellezza e della cultura della sua popolazione, senza diseguaglianze e penalizzazione per nessun individuo.
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Godere della bellezza significa poter accedere alle bellezze naturali, architettoniche ed artistiche, e poter fruire delle attività e dei beni culturali senza forme di isolamento ed emarginazione; significa godere una cultura diffusa che vive in ogni spazio del territorio, in luoghi inediti ed in contesti inusuali, dove vita e arte si incontrano e si confondono continuamente e dove l’offerta culturale diventa la forma stessa della città. In questo senso, la capacità di godere della bellezza e della cultura è un traguardo raggiungibile che dipende oltre che da fattori individuali e familiari soprattutto da variabili sociali e da politiche pubbliche in grado di investire in visioni non solo innovative ma anche lungimiranti. Come ci ricorda Richard Rogers, le città sono soprattutto luoghi d’incontro e di formazione di reti sociali. Lo spazio urbano pubblico non è
“godere di una cultura diffusa che vive in ogni spazio del territorio, in luoghi inediti ed in contesti inusuali” solo spazio di produzione e consumo ma è lo spazio relazionale per eccellenza che permette lo sviluppo della socialità, l’eliminazione delle disuguaglianze, l’integrazione etnica. Per favorire le relazioni e stemperare le tensioni occorrono spazi di qualità perchè la bellezza non è solo un attributo ma un valore morale,
spazio /CULTURA
e a ciò contribuisce anche la rigenerazione degli spazi lasciati al degrado del tempo, senza snaturarli completamente della loro funzione ma conservandone l’identità originaria. Lo sviluppo della città del futuro dipenderà sempre più dalla capacità di essere luoghi incomune creativi, dalla capacità di valorizzare gli spazi aperti e di trasformare i paesaggi e gli arredi urbani in opere d’arte, all’interno di una dinamica complice tra pubblico e privato. Ma anche dalla capacità di coinvolgere la comunità nella fruizione della cultura in spazi diversi da quelli tradizionalmente intesi e spesso protetti da biglietterie, ed allo stesso tempo di attrarre e trattenere i talenti creativi in grado di trasformare la creatività in creazione generando così ambienti dinamici e favorevoli ai cambiamenti sociali e culturali in atto. Ferrara è certamente una città di cultura, con spazi che ospitano un’offerta di pregio. Una città ricca di menti creative, frutto anche dei percorsi formativi presenti sul territorio, spesso alla ricerca di spazi in cui poter esercitare, sperimentare ed alimentare le loro capacità, anche in maniera imprenditoriale, e di rimetterle al servizio del territorio, generando un impatto
positivo sull’economia e sulla qualità della vita urbana. Vale dunque la pena chiedersi cosa intendiamo fare degli spazi urbani di questa città, se lo spazio pubblico è il teatro della cultura urbana locale o se invece i luoghi della cultura non sono ancora riconosciuti da tutti come snodi identitari del territorio; e se non vi sia una parte non trascurabile della sua comunità che è tuttora estranea o solo occasionalmente coinvolta nelle attività artistiche e culturali. La capacità innovativa, tanto acclamata per la futura crescita dei territori e dei paesi, ha bisogno di arte e cultura, di infrastrutture culturali produttive, di spazi in cui esprimersi e luoghi in cui vivere. Solo prendendo consapevolezza che la città contemporanea ha bisogno di una riconoscibilità identitaria che passa per la cultura e per i processi di qualificazione dello sviluppo locale potremmo guardare al futuro senza insicurezze.
“attrarre e trattenere i talenti creativi in grado di trasformare la creatività in creazione” CORRADO Francesca e SALTINI Stefania, “La città del futuro tra arte e cultura”, La Nuova Ferrara, 11 Dicembre 2012 32
Stefania Saltini, laureata in Economia, con un dottorato in Economia della Comunicazione e un Master in Arts Management, è docente di Economia della Cultura presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. È socia fondatrice e consigliera di amministrazione dello spin-off universitario Well_B_Lab*. Francesca Corrado è dottore di ricerca in Storia del pensiero economico; docente a contratto di Storia del pensiero economico presso il Dipartimento di Economia di Modena; socia fondatrice e vicepresidente dello spinoff universitario Well_B_Lab*; community manager Instagramers Italia. 33
Con quali dinamiche il rapporto fra spazio e tempo incide sulla cultura, sulla vita e sullo sviluppo della cittĂ ? Come si differenziano le logiche ed i tempi di diverse realtĂ spaziali? Quali sono i principi in base ai quali ad azioni uguali svolte in tempi uguali (tempo inteso sia come epoca storica che come intervallo di durata) ma in luoghi differenti, corrispondono esiti differenti? E parimenti per quale motivo ad azioni uguali svolte nei medesimi luoghi ma in tempi diversi, corrispondono effetti diversi?
spazio /TEMPO
spazio /TEMPO /CULTURA
DINAMICHE RURURBANE LUCE
Davide Bregola
Io
guardo: sulla strada una donna sola, in attesa di qualcuno, sorride all’indirizzo di colui che ancora non appare: quei suoi singolari movimenti davanti alla vetrina, quella sua danza dell’attesa, quel suo mettersi le mani nei capelli, quel suo sbattere gli occhi, infine quel modo di sogguardarsi nella vetrina. Poi finalmente la figura desiderata appare, ed entrambi si dileguano, senza toccarsi, senza una parola, velocemente. Oggi c’è qualcosa che intacca il mio equilibrio: il fatto che mentalmente sono sempre un po’ 36
più avanti rispetto all’attività che di volta in volta dovrei eseguire; questo piccolo intervallo, questa frattura tra coscienza e attività impedisce il cristallizzarsi delle sensazioni: lavarsi con acqua fredda, per esempio, oppure camminare, correre, mangiare. I luoghi ideali di questa mia condizione sono quelli a favore del vuoto, degli spazi aperti, degli insediamenti spartani, dove nulla è preordinato ma tutto è possibile. Luoghi in via di definizione o spazi già usati e ora a riposo perché dismessi: barchesse pericolanti, capanni in disuso, ville disabitate, muri di case non ancora finite. A volte per trovare un po’ di pace mi fermo con l’auto in aperta campagna seguendo stradine senza asfalto e sto lì: de-pensarsi, derespirarsi. Mentre si giace nel sole finché non vi sia più nulla di me, e tutto si perda nel vento e nel sole; nulla, tranne un piccolo punto di dolore.
“a volte per trovare un po’ di pace mi fermo con l’auto in aperta campagna, seguendo stradine senza asfalto” Un giorno mentre ero steso al sole, le mani mi sono scivolate sopra una lastra di marmo levigato inserito nel terreno; ho spalancato gli occhi, ed essi sono stati invasi da un uniforme biancore; poi li ho richiusi e improvvisamente ho scoperto, scintillante nell’oscurità verdastra, la costellazione dell’Orsa Maggiore. In un batter
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d’occhio è arrivata tra la luce l’oscurità, senza tempo preordinato. Un altro giorno ho sentito momenti pregni di concordanze vitali, silenziosa atmosfera primaverile nella stazione dei treni di Ferrara; e poi giorni nei quali ci si morde il labbro sempre nello stesso punto. Piazza Ariostea che, avvolta dall’oscurità e ricoperta di foglie morte, assomiglia improvvisamente a un parco, provo un sentimento di felicità che potrei provare ogni giorno. Osservando le foglie morte mi viene l’idea che fra un anno potrebbe non esserci più nulla da scoprire. Così dovrebbe essere la felicità: una rotazione dello sguardo e ogni cosa, nel mentre, avere dignità di titolo, per un evento infinito. Così la giornata riuscita sarebbe una giornata senza bisogno della propria immagine riflessa, una giornata senza il mio intervento: «Oggi io esisto, ed esiste la natura». Ma forse alla fine l’interessato sarà contentissimo che la giornata riuscita sia terminata. Contento come dopo un sabba di spettri; infatti ho davvero temuto la perfezione. In ultima istanza l’immagine di chi è felice somiglia a quella di chi è angosciato. Nel contemplare il colossale tremolare, baluginare, luccicare, vagolare di fuochi fatui,
“osservando le foglie morte mi viene l’idea che tra un anno potrebbe non esserci più nulla da scoprire” 38
rabbrividire, fluttuare sull’acqua dello stagno, che passava via costante e lenta come un fiume e poi a volte stava soltanto lì, immobile, a strie, con il sole che schiudeva dalle nuvole e innalzava gli alberi sulle rive, io mi sentivo uno scienziato: multiforme si agitava il mondo sui rigagnoli d’acqua di Comacchio, e le parvenze sull’acqua, contemplate con calma, facevano l’effetto di un accalorante spasmo nelle mani. Com’erano belli tutti questi giorni! E intanto nei luoghi deputati arrivavano in continuazione segnalazioni di catastrofi per il notiziario della sera. Mentre allo stagno nel bosco vedevo passare il vento sull’acqua, nella nebbia venivano travolti gli operai addetti ai binari.
BREGOLA Davide, “Viaggio nello spazio della nostra anima”, La Nuova Ferrara, 13 Marzo 2012
Davide Bregola è nato a Bondeno di Ferrara nel 1971 e vive a Mantova. Ha pubblicato libri per adulti e bambini sulla Bellezza e la Felicità. Ha ideato e conduce laboratori di scrittura per scuole e biblioteche. Ama leggere dattiloscritti inediti di poesie e storie per farli diventare libri. È direttore artistico della “Festa del racconto” di Carpi e dirige la Collana di narrativa Centocinquanta per Barbera Editore. Nel 2013 uscirà il suo primo romanzo Tre allegri mascalzoni per Barbera Editore. 39
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IL TEMPO DELLO SPAZIO Richard Ingersoll
Il più diffuso rapporto delle Nazioni Unite indica
che nel 2010 oltre il 50% della popolazione mondiale viveva in insediamenti urbani pensati come città, ma dubito che la consapevolezza dell’aumento della popolazione avrà un impatto positivo sull’uso o sulla qualità dello spazio urbano. Nelle grandi città la maggior parte dei nuovi abitanti appartiene al ceto più basso e vive in baraccopoli periferiche prive di spazi pubblici e di infrastrutture. Una gran parte dei vecchi abitanti urbani, è il caso di molte città europee, 40
si sono trasferiti ai margini dei nuclei abitati per sfruttare il privilegio della semi-urbanità. Gli spazi centrali delle città dei paesi sviluppati vengono utilizzati per realizzare uffici e up-scale commerce. Liverpool One è una parte della città storica che è stata trasformata (1998-2008) in un centro commerciale dove la polizia privata protegge le strade pubbliche. Molti spazi urbani centrali sono attualmente sotto controllo della polizia grazie a telecamere a circuito chiuso CCTV (più di 5 milioni in UK) che, inseguendo la chimera della sicurezza, producono effetti sulla vita sociale, inibendo tradizionali forme di libertà (cfr Anna Minton, Ground Control, London: Penguin, 2009). Il geografo David Harvey, ha osservato che nel corso degli ultimi quattro decenni di crescente globalizzazione, il tempo è diventato il principale fattore economico a
“i vecchi abitanti urbani si sono trasferiti ai margini dei nuclei abitati per sfruttare il privilegio della semi-urbanità” scapito dello spazio. Lo spazio diventa sempre più vittima di forme di “distruzione creativa” ai fini dell’accumulazione del capitale (cfr D. Harvey, The Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, Londra: Profile Books, 2011). Quando gli spazi urbani migliorano è spesso segnale dell’arrivo della gentrification,
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del turismo di massa e dei cambiamenti di proprietà. Gli spazi urbani esistenti in Europa sono evoluti in spazi d’informazione. Il forum, la piazza, il mercato coperto, il grande viale, sono importanti connessioni tra spazio urbano e modi di vita. La quantità di tempo trascorso in uno spazio pubblico è proporzionale alle funzioni quotidiane dello shopping, del lavoro, dell’istruzione e del tempo libero. Le Corbusier, spesso messaggero di infauste teorie, affermò nel 1922 che “la città della velocità è la città del successo”. Con il miglioramento della velocità nella telematica e nei trasporti il tempo precedentemente dedicato allo spazio pubblico è diminuito e, in molti casi, scomparso. Lo shopping avviene con l’automobile, i luoghi del tempo libero e dell’università si trovano in enclave periferiche, gli uffici sono prossimi agli aeroporti. Prima dell’attuale crisi (2008) gli spazi più interessanti sono stati sviluppati lontano dai centri delle città, di conseguenza, molti abitanti, sono obbligati a muoversi esclusivamente tra spazi urbani storici (o simulazioni di essi) come turisti, in cerca di svago. Ma questi sono tempi duri, e nei momenti di bisogno le persone
trascorrono più tempo in uno spazio pubblico. Questo pensiero nasce dall’osservazione dei movimenti “Occupy” del 2011. Ciò che ha sorpreso tutti durante il camping degli “Indignados” alla Puerta del Sol di Madrid e durante “Occupy Wall Street” a New York City è stata la durata. Il tempo. I Giorni hanno portato a settimana che hanno portato a mesi e i manifestanti sono sempre rimasti sul posto. Al centro dello spazio. Mentre il futuro dello spazio pubblico, in generale, può sembrare in declino a causa dell’età dell’informazione che privilegia il tempo allo spazio, la breve stagione del campeggio pubblico ha generato un forte impatto sulla coscienza della città. La telematica, che tende a ridurre la dipendenza dallo spazio, in questo caso, ha portato i popoli dei movimenti “Occupy” a stare insieme. I partecipanti hanno usato la telematica (Internet, Facebook e Twitter) per prendere in consegna lo spazio pubblico come un mezzo di protesta contro la corruzione della politica e della finanza. traduzione di Maurizio Bonizzi
“con la velocità il tempo dedicato allo spazio pubblico è diminuito e, in molti casi, scomparso” INGERSOLL Richard, “Il tempo della piazza per gli Indignados”, La Nuova Ferrara, 10 Luglio 2012 42
The Time of Space, Time to Occupy The much-circulated UN report indicating that in 2010 more than 50% of the world’s population lived in urban settlements has drawn great attention to question of cities, yet I seriously doubt that the awareness of the increase in urban dwellers will have a beneficial impact on the use or quality of urban space. Most of the new urban dwellers belong to the lowest income level and live in peripheral shanty towns that have neither planned public spaces nor adequate infrastructure. A large part of the old urban dwellers, the case of most of Europe, have moved to semi-urban conditions of privilege on the fringe. Central city spaces in developed countries tend to be requisitioned for offices and up-scale commerce. Liverpool One is a section f the historic city that has been transformed into a shopping mall, with private police protecting the public streets. Many central urban spaces are currently undergoing extensive police controls in the form of the insertion CCTV cameras (already more than 5 million in the UK) that in the quest for security are having a chilling effect on social life, inhibiting traditional freedoms of association (see Anna Minton, Ground Control, London: Penguin, 2009). The geographer David Harvey observed that during the past four decades of increased globalization, time has become the most important economic determinant, much to the detriment of space. Space becomes ever more the victim of forms of “creative destruction” for the purposes of capital accumulation (D. Harvey, The Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, London: Profile Books, 2011). When
improvements to urban space occur they often signal the arrival of gentrification, noticeable in the arrival of mass tourism, changes in property ownership, and changes in lifestyles. Historically the urban spaces of Europe evolved as spaces of information. The forum, the piazza, the market hall, the great avenue, all carried important interconnections between urban space and a way of life. The amount of time one spent in public space related to questions of reproducing daily needs for shopping, work, education, and leisure. Le Corbusier, often the messenger of bad news, claimed in 1922 “the city of speed is the city of success.” With every improvement in the speed of telematic and transportation technologies the time one was previously required to spend in public space has diminished, and in many cases disappeared. Shopping takes place in automobile-accessed shopping malls, leisure and university occur in peripheral enclaves, offices are in business parks near airports. Previous to the current economic crisis that began in 2008, the most attractive living spaces were developed far from the center cities. As a consequence many urban dwellers only go to historic urban spaces (or in some cases simulations of them) as tourists, in pursuit of leisure. But these are hard times, and in moments of need people spend more time in public space, which brings me to the astounding “occupy” movements of 2011. What surprised everyone during the camping out of los indignados in Madrid’s Puerta del Sol and the Occupy Wall Street movement in New York City was the duration. Days led to weeks led to months, and the protestors remained in place. The question of how to bathe and solve the toilet 43
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needs of hundreds of participants in Zuccotti Park and other occupied public spaces was unfortunately not given serious attention and can be considered a determining factor for police intervention. While the future of public space in general may seem on the decline due to the Information Age’s privileging of time over space, the brief season of public camping, when bodies took over the urban realm, made a huge impact on the consciousness of the city. Telematics, which tend to reduce one’s dependence on space, in this case brought people of the “occupy” movements together, as the participants used the virtual media of Internet, Facebook and Twitter to take over space as a means of protesting the corruption of political and financial institutions. The occupiers resisted notions of an ideology or leadership to avoid being instrumentalized by the political system. Their endearing slogan “we are the 99%” emerged in September, 2011, yet in the end the occupations did very little to inhibit the 1%, a few of whom even contributed donations to the movement. Despite the liberal sentiments of Warren Buffet and Bill Gates to voluntarily increase the taxation of the wealthiest sector, a report in the Financial Times (June 27, 2012), indicates that during the past year the salaries of chief banking executives (including bob Diamond of Barclay’s who was recently forced to resign) have continued to escalate 12%, yielding a median income of 10 million euro! This news should probably inspire the 99% to renew their indignance and resume camping. If the 99% return to occupying public space, however, I recommend they procure a better infrastructure. In most of the campaigns 44
to expulse the protestors, the legitimating factor became sanitary issues. After the municipalities refused to provide public toilets, the participants were forced to use those of restaurants or in extreme cases went in public. While dog and horse shit remain tolerable urban problems, human shit became an unpardonable offense. In anticipation of this new return to urban nomadism I propose we learn from the most sophisticated nomads: the military. The Norwegian army developed an ingenious folding stool that could be taken on maneuvers by the troops. One uses it with disposable, biodegradable plastic sacks for collecting the urine and excrement. Every group of campers should be furnished with a stool, a month’s supply of “bio-bags,” and a folding separé for privacy. A collector should be hired to pass each morning and cart the sacks of refuse to a composting site outside of the city as a revival of the age-old tradition of “night soil.” Thus not only will “shit happen”, as the Buddhists say, but this incriminating factor can be turned into a productive ecological biproduct, freeing protestors to concentrate on the shittier activities of the banks! The more that people put their bodies in space as a form of resistance, the more that urban time and space will be brought back into equilibrium.
Richard Ingersoll ha insegnato Progettazione, Storia dell’architettura e Storia urbana presso Rice University (Houston,Texas), UC (Berkeley), ETH (Zurigo) e attualmente insegna presso la Syracuse University (Firenze), oltre ad essere visiting professor in molte università italiane e internazionali. Collabora come critico d’architettura con le più importanti riviste al mondo specializzate in architettura. 45
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ANTONIONI E LE ARTI: UNA SCENOGRAFIA NARRATIVA Dominique Païni
Il
fenomeno è recente: i cineasti ormai vengono esposti nei musei. Il materiale cinematografico è fatto di movimento, di tempo e di luce e impone agli architetti delle proposte scenografiche nuove. Nascono così alcune difficoltà inedite per il fatto che un’opera cinematografica è associata nello stesso spazio a oggetti appartenenti ad altre discipline artistiche: scultura, disegno, pittura, fotografia, ecc. Si tratta quindi di coniugare, in un solo gesto scenografico, immagini luminose proiettate (oggi attraverso videoproiettori digitali) E 46
immagini illuminate che hanno bisogno di luce direzionata direttamente su di esse. Si tratta poi di coniugare le immagini fisse della pittura o della fotografia sulle quali il visitatore è libero di spendere il tempo che desidera e le “immaginimovimento” che richiedono attenzione dallo stesso visitatore per un tempo corrispondente alla durata delle sequenze filmate. Si tratta infine di mescolare sulla superficie di una cimasa immagini dipinte o fotografate che invitano alla contemplazione E sequenze che assorbono il visitatore in una narrazione anche se queste non sono che un frammento di sequenza presa a prestito da un film più lungo. È su questo grado di complessità che vorrei soffermarmi, perché esporre l’opera di un cineasta non consiste solo nell’appendere, ad esempio, alle pareti di un museo, i ritratti di quel cineasta e quelli dei suoi attori, o
“il materiale cinematografico è fatto di movimento, di tempo e di luce e impone agli architetti delle proposte scenografiche nuove” svelare le fotografie del montaggio, né ancora i documenti che consentono di accedere ai segreti della costruzione di un film… Non è quindi solo la documentazione, fatta di oggetti immobili che diano conto dell’avventura della realizzazione di un film, a costituire una mostra cinematografica. Essa deve piuttosto tradurre
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nello spazio il talento di un artista che è prima di tutto, nella maggior parte dei casi del cinema non “sperimentale”, un narratore. Essa deve impiegare spazialmente un materiale che si attua nella durata, una durata che tende a offrire allo spettatore un sentimento di fusione della sua vita con quella dei personaggi con cui si identifica. Se l’essere rinchiuso per lo spettatore in una buia sala cinematografica favorisce questo viaggio immaginario nell’universo della finzione del film, per contro la mobilità del visitatore negli spazi delle sale di un museo non permette così facilmente questo coinvolgimento, questo ingabbiamento che dona tanto piacere all’ “uomo ordinario del cinema” (cfr Jean-Louis Schefer, Ed. Cahiers du Cinéma/Gallimard, 1980). La scenografia della mostra “Lo sguardo di Michelangelo, Antonioni e le arti” (Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 10 marzo – 9 giugno 2013) deve raggiungere diversi obiettivi. L’opera del cineasta de L’Avventura è esigente, se non addirittura radicale e non sempre si percepiscono tutti i diversi periodi che la compongono. Sono quattro i momenti forti che ne compongono la struttura: la nascita del neorealismo (gli anni ’50), l’invenzione di una scrittura moderna che traduce la perdita di riferimenti morali e ideologici del dopoguerra (gli anni ’60), la fuga dall’Italia (gli anni ’70), il ritorno in Italia (gli anni ’80). Servono però altri rilievi per strutturare un percorso che non si deve limitare alla proiezione di sequenze di film per catturare l’attenzione del visitatore e accompagnarlo. Le nebbie della valle del Po, questa umidità pittorica che invade la Ferrara natale E il chiarore annebbiante, la secchezza polverosa dei deserti, 48
si incatenano nel loro confrontarsi a partire dalle due prime sale. La bruna Lucia Bosè che incarna il debutto dell’opera di Antonioni E la bionda Monica Vitti, musa del periodo maturo, si oppongono e rimano in due sale dedicate a ciascuna attrice. L’universo pop eclatante di Blow-up E i chiaroscuri grigi colorati di Deserto Rosso si succedono in due sale e costituiscono uno dei punti centrali del percorso. Sono questi rilievi, questi contrasti che creano istanti di tipo narrativo durante la visita. La posta in gioco è proprio voler trasformare per partito preso scenografie in avvenimenti narrativi che, anche se non rimandano a questo o quel film in particolare, formano invece una suggestione stilistica dell’opera globale di Antonioni e una articolazione ritmata, profondamente punteggiata, per il percorso del visitatore. E questa cadenza scenografica controbilancia il fatto che il visitatore non può, nei novanta minuti circa di durata della sua visita, vivere drammaturgicamente tutti i racconti dei film evocati in mostra. Drammatizzare attraverso la scenografia, è l’ambizione di questa mostra dedicata ad Antonioni. Drammatizzare attraverso la scenografia non è anche l’identità stilistica di Antonioni che viene così museografizzata? traduzione di Tiziana Giuberti
PAÏNI Dominique, “Antonioni, le arti e la scenografia”, La Nuova Ferrara, 2 Ottobre 2012
Antonioni et les arts: une scénographie narrative
Le phénomène est récent : les cinéastes sont désormais exposés dans les musées. Le matériau cinématographique est fait de mouvement, de temps et de lumière et il impose aux architectes des propositions scénographiques nouvelles. Et certaines difficultés inédites naissent, du fait qu’une oeuvre cinématographique est associée dans un même espace à des objets appartenant aux autres disciplines artistiques : sculpture, dessin, peinture, photographie etc… Il s’agit donc de conjuguer, en un seul geste scénographique des images lumineuses projetées (aujourd’hui par des projecteurs numériques) ET des images éclairées qui nécessitent de la lumière dirigée sur elles. Il s’agit encore de conjuguer les images immobiles de la peinture ou de la photographie dont le visiteur est libre d’y consacrer le temps qu’il veut ET des “images-mouvements” qui exigent de ce même visiteur une durée d’attention correspondant à la durée des séquences filmiques.
Il s’agit enfin de mêler sur la surface d’une cimaise des images peintes ou photographiées qui invitent à la contemplation ET des séquences qui absorbent le visiteur dans une narration même si celle-ci n’est qu’un fragment de séquence empruntée à un film plus large. C’est à cette complexité que je voudrais m’arrêter car exposer l’oeuvre d’un cinéaste ne consiste pas seulement à accrocher par exemple, aux murs d’un musée, des portraits de ce cinéaste et ceux de ses acteurs, ou à dévoiler des photographies de tournage, ni encore des documents permettant le secret de fabrication des films… Ce n’est donc pas seulement une documentation, faite d’objets immobiles qui restituent l’aventure de la réalisation d’un film, qui constitue une exposition cinématographique. Elle doit plutôt traduire dans l’espace le talent d’un artiste qui est avant tout, dans la majeure partie des cas du cinéma non « expérimental », un narrateur. Elle doit déployer spatialement un matériau qui s’accomplit dans de la durée, durée visant à offrir au spectateur un sentiment de fusion de sa propre vie avec la vie de personnages auxquels il s’identifie. Si la captivité du spectateur dans une salle de cinéma obscure favorise ce voyage imaginaire dans l’univers de la fiction du film, en revanche, la mobilité du visiteur dans l’espace des salles d’un musée ne permet pas aussi aisément cette capture, cet emprisonnement qui donne tant de plaisirs à “l’homme ordinaire du cinéma” ((Jean-Louis Schefer, Ed. Cahiers du Cinéma/Gallimard, 1980). La scénographie de l’exposition Le regard de Michelangelo, Antonioni et les arts (Ferrare, 49
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Palazzo dei Diamanti, Mars 2013) doit atteindre plusieurs objectifs. L’oeuvre du cinéaste de L’Avventura est exigeante, sinon radicale et on ne perçoit pas toujours les différentes périodes qui la composent. Quatre moments forts la structurent pourtant : la sortie du néo-réalisme (les années 50), l’invention d’une écriture moderne qui traduit la perte des repères moraux et idéologiques de l’après-guerre (les années 60), la fuite hors d’Italie (les années 70), le retour en Italie (les années 80). Mais d’autres reliefs sont nécessaires pour structurer un parcours qui ne doit pas se limiter à la projection de séquences de films pour retenir l’attention du visiteur et le conduire. Les brumes de la plaine du Pô, cette humidité picturale envahissant la Ferrare natale ET la clarté éblouissante, la sécheresse poussiéreuse des déserts, s’enchaînent en s’affrontant dès les deux premières salles. La brune Lucia Bosè incarnant le début de l’oeuvre antonionienne ET la blonde Monica Vitti, muse de la période de maturité, s’opposent et riment en deux salles dédiées à chaque actrice. L’univers pop éclatant de Blow-up ET les camaïeux gris colorés de Deserto Rosso se succèdent en deux salles et constituent un des points centraux du parcours. Ce sont ces reliefs, ces contrastes, qui créent des instants de type narratif dans la visite. L’enjeu est précisément de transformer des partis pris scénographiques en évènements narratifs qui, s’ils ne renvoient pas à tel ou tel film en particulier, forment en revanche une suggestion stylistique de l’oeuvre globale d’Antonioni et une articulation rythmée, vivement ponctuée pour la déambulation du visiteur. Et cette cadence scénographique 50
contrebalance le fait que le visiteur ne peut en quatre-vingt dix minutes environ que dure sa probable visite, vivre dramaturgiquement tous les récits des films évoqués dans l’exposition. Dramatiser par la scénographie, c’est l’ambition de cette exposition consacrée à Antonioni. Dramatiser par la scénographie n’est-ce pas également l’identité stylistique d’Antonioni qui est ainsi muséographiée?
Dominique Païni è un scrittore e critico francese. È stato direttore della Cinémathèque française dal 1993 al 2000. Ha scritto per varie riviste tra cui Art Press. Tra i suoi libri: Le temps exposé. Le cinéma, de la salle au musée (Éditions Cahiers du cinéma 2002), L’attrait de l’ombre (Yellow Now 2007) e L’attrait des nuages (Yellow Now 2010). Insegna storia del cinema a l’École du Louvre. 51
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LO SPAZIO TRA IMPRESA E CULTURA
uno spazio dal grande potenziale, nel quale ho immaginato di realizzare, con il supporto di uno staff illustre, un ampliamento del museo ed un borgo moderno costruito rispettando i parametri del tessuto urbano medievale, del “paese porticato”. Un luogo attuale ma pieno della cultura, dell’intelligenza e delle tradizioni del posto.
Giulio Bargellini intervista di Denis Zaghi
DZ - Volendo parlare di spazio pubblico, inteso come luogo - fisico o virtuale - di socializzazione, di interazione, di dialogo e di scambio, qual è, nella sua esperienza quotidiana, quello che più si conforma a tali parametri? GB - Senza alcun dubbio la piazza. Ogni città italiana, per grande o piccola che sia, si struttura attorno alla piazza. Luogo di incontro e di socialità è lo spazio in cui, il parlar di niente, mantiene vive le relazioni e contribuisce a dare quel senso di “appartenenza” ad uno specifico posto.
DZ - Tralasciando ogni timore di giusto o sbagliato, le definizioni “da vocabolario” o specifiche connotazioni culturali, qual è il concetto sotteso al termine SPAZIO? Cos’è per lei lo SPAZIO? GB - Intendo lo spazio come un luogo vuoto nel quale possiamo riversare i nostri sogni, le nostre aspettative. A Pieve di Cento, in prossimità del museo Magi 900, un campo sportivo viene percepito in questo modo: 52
DZ - Ciascuno spazio vive e si modifica influenzato dal momento storico che attraversa. Ha la capacità di adattarsi e piegarsi alla cultura che lo fruisce, divenendone a sua volta fautore. Quale, secondo lei, fra le infinite possibili contaminazioni che un momento storico può generare, è quella che più di ogni altra contribuisce alla trasformazione dello spazio? GB - Direi quella culturale. Ogni azione, comprese quelle catastrofiche, come ad esempio il recente sisma, possono far vacillare fortemente lo stato delle cose, ma la cultura del posto e il desiderio di preservare un’identità, tendono a rigenerare il tessuto colpito. Se il
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cambiamento avviene invece a livello culturale e gli interessi cambiano, anche lo spazio della città si adegua a tale cambiamento. A Pieve di Cento, l’apertura del museo ed il programma culturale che lo accompagna nel tempo, ha originato un nuovo centro di aggregazione, diverso da quello geografico, che è divenuto il luogo identificativo ed il riferimento per la comunità. DZ - Nel tessuto sociale locale quali sono le potenzialità che genera il creare punti di contatto tra la realtà produttiva e quella culturale? Quali sono i presupposti e le risorse necessarie perché questo avvenga? Crede che oggi le condizioni sociopolitiche siano favorevolmente orientate a determinare una sinergia in questo senso? GB - Alla base di ogni impresa c’è una forte volontà. Posto questo, io ho avuto l’opportunità di fare ciò che ho fatto perché la mia azienda mi ha fornito i mezzi economici per sostenere il mio sogno. Oggi, con lo scenario economico che si sta configurando, sarebbe più difficile intraprendere un percorso simile al mio, non
“se il cambiamento avviene a livello culturale, anche lo spazio della città si adegua a tale cambiamento” 54
solo per questioni di possibilità ma anche perché gli imprenditori tendono a limitare il collezionismo alla sfera del privato, alla costituzione di collezioni esclusive. La mia scelta di condividere e di rendere fruibile a tutti la bellezza dell’arte, oltre che dall’amore per la cultura è mossa dalla volontà di fornire una testimonianza storica viva sul territorio e sviluppare nuovi progetti artistico/culturali che possano essere qualificanti per il luogo. Il museo diviene un focolare vivo di sviluppo, di crescita e di socializzazione. DZ - Associ alla parola spazio ciò che le viene in mente d’istinto. Se dovesse connotare un’accezione della parola SPAZIO con un aggettivo, quale sceglierebbe? GB - Prezioso – come tutto ciò che è limitato, è un qualcosa che va’ preservato. Il nostro dovere sarebbe quello di utilizzarlo bene.
BARGELLINI Giulio (intervistato da Denis Zaghi), “Lo spazio come un bene prezioso”, La Nuova Ferrara, 14 Agosto 2012
Giulio Bargellini (Pieve di Cento, 1932). Imprenditore, mecenate e collezionista d’arte, fonda nel 1963 l’Azienda OVA, leader nella produzione di sistemi per l’illuminazione e l’energia d’emergenza. Insignito del diploma ad honorem dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, e della medaglia quale “imprenditore, filantropo e mecenate dell’arte” dall’Università degli Studi di Ferrara, è fondatore del Museo MAGI ‘900. Da tempo è protagonista di iniziative culturali, ambientali e umanitarie di ampio respiro. 55
Quali sono i caratteri che rendono un luogo espressione di un’identità comune, di una cultura condivisa? La percezione di questi luoghi avviene ancora a livello sensoriale o ciò che percepiamo è una proiezione di quanto la nostra mente, le nostre abitudini ed i nostri ricordi ci inducono a cogliere? In quale modo la consapevolezza di un’identità socioculturale può divenire strumento di crescita e di sviluppo?
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TARGHE Maurizio Garuti
A Gianni Morandi hanno già intitolato una via.
Condurre due Sanremo di fila non è da tutti. Dove si trova questa via? Ovunque, basta alzare gli occhi: “via g. morandi”. Nessuno venga a dire che si tratta di Giorgio, il grande artista delle bottiglie metafisiche. Come notorietà, il cantante batte il pittore due a zero. Quindi è lui il titolare della via. A De Chirico è andata meglio, non c’è nessun divo della canzone o della tivù a insidiargli il nome. Però hanno trovato il modo di sfregiare pure lui. C’è da qualche parte una targa così
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concepita: “via g. de. chirico”. Intanto non c’è il nome, si vede che Giorgio porta male. C’è solo l’iniziale. In compenso dopo “de” c’è un punto. Dal che si deduce che si tratta di una abbreviazione, e che quindi il Nostro doveva avere un doppio cognome, tipo Degli Esposti Chirico. A volerla dire tutta, mancano i puntini sulle “i”: il computer si rifiuta di riprodurle in scrittura così amputate, perché a tutto c’è un limite. Un’altra via interessante, per rimanere nel ramo, è quella che si legge nella targa “via del tiziano”. Le minuscole sono testuali. Ora, di fronte a questo cartello, ci si chiede se Tiziano sia cugino di qualcuno all’ufficio comunale che si occupa dell’intitolazione delle vie. O se non si tratti di una consonanza con la parlata milanese, per cui Gaber racconta del Riccardo, Jannacci dell’Armando, e il Comune del Tiziano.
“a De Chirico è andata meglio, non c’è nessun divo della canzone o della tivù a insediargli il nome” Un altro caso riguarda un papa che ha avuto un ruolo di primo piano nella storia dell’800. All’inizio della strada si trova la targa “via Pio IX”, al termine della stessa via, sua santità perde la maiuscola e diventa più informalmente “via pio IX”. Forse perché durante il tragitto è caduto il potere temporale della Chiesa.
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Ce n’è per tutti: cantanti, pittori, pontefici. E santi. Per esempio, un’altra via censita è “via S. AlleNde” (sic). Si tratta probabilmente di un santo (o di una santa) del Terzo Mondo, proclamato forse da papa Wojtyla, che nel suo lungo pontificato ne ha santificati tanti; e fra questi molti extracomunitari, mica solo cittadini regolari dell’Unione Europea. Qualcuno però avanza l’ipotesi che si tratti del presidente cileno Salvador Allende, assassinato dai golpisti nel 1973. È possibile, è un’interpretazione che non si può scartare a priori. Ma quella “N” maiuscola che ci sta a fare? Che messaggio ci trasmette? Ebbene, chi scrive è in grado di rivelarlo per aver fatto un’approfondita indagine al riguardo: “erano finite le minuscole, così abbiamo ficcato dentro una maiuscola”, si è sentito dire. Sorge dunque il dubbio che, per quanto riguarda De Chirico, gli addetti comunali avessero esaurito i puntini. E che procurarsene di nuovi avrebbe rotto il patto di stabilità. Tirando le somme. Un certo modo sciatto, pressapochista, ignorante e volgare di trattare questa materia è l’esatto equivalente delle scritte a spruzzo che deturpano muri, serrande e porte del paesaggio urbano. Stesso disprezzo
“siamo gente che fuori di casa si sente in terra straniera, siamo una città che non si riconosce e non si vuole più bene” 60
per le regole di convivenza, per il decoro della città, per il rispetto della sua memoria, della sua qualità urbana. Non è una pustola marginale fra le tante; è la spia di un disagio, di una deriva generale: siamo gente che fuori di casa si sente in terra straniera, siamo una città che non si riconosce e non si vuole più bene. Le targhe sulle pubbliche vie servono a illustrare i nomi di chi ci ha dato qualcosa. Attraverso il loro nome e il loro esempio, si rinsalda il nostro vincolo di appartenenza alla comunità. Le targhe stradali sono un “genere” di comunicazione che dovrebbe essere improntato alla più rigorosa uniformità di caratteri tipografici, di grafica, di formulazione. Nome e cognome, per intero. Sotto, in corpo più piccolo, una parola che ci dica chi è: scrittore, musicista, poeta, navigatore, scienziato. Fra parentesi, sempre in corpo piccolo, data di nascita e di morte. Si chiede troppo? Si rischia il default?
GARUTI Maurizio, “Povere vie quanti errori”, Il Resto del Carlino Ferrara, 27 Marzo 2012
Maurizio Garuti, narratore e autore teatrale. Nato a San Giorgio di Piano, vive e lavora a San Giovanni in Persiceto (Bologna). Interpreti dei suoi testi, fra gli altri: Vito, Ivano Marescotti e Daniela Poggi. Tra i suoi ultimi scritti ricordiamo “La lingua neolatrina” (visite guidate ai luoghi comuni dell’italiano del terzo millennio), “Italiani! La Storia che ride”, Aliberti editore ed il recentissimo romanzo “Fuoco e neve”, Pendragon. 61
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LO SPAZIO PUBBLICO Giuseppe Scandurra
Non
sono pochi gli scienziati sociali, gli architetti, gli urbanisti che hanno provato a ricostruire la storia dell’Occidente concentrando la loro attenzione sul tema dello spazio pubblico, sulle diverse forme di convivenza urbana, la costituzione di differenti “comunità” di abitanti, mettendo in relazione i vari modelli di partecipazione alla vita cittadina con lo spazio fisico. La polis, per esempio, ovvero la città che coincide fisicamente con la sua forma di autorappresentazione politica; la cittadella medievale che esprimeva simbolicamente e
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fisicamente il potere sovrano e quello della comunità; quella piccola e “municipale”, dove lo spazio pubblico più rappresentativo era quello della chiesa. Per questo molti urbanisti e architetti, ma anche numerosi sociologi e antropologi urbani identificano lo spazio pubblico con le piazze, le strade, i mercati, categorie spaziali attraverso le quali, nella modernità, si è autorappresentato il cittadino. Non sono pochi, tra questi studiosi, quelli che oggi denunciano la scomparsa dello spazio pubblico e la sua riapparizione solo in forme surrogate - dai “non-luoghi” di Marc Augé agli spazi di consumo e i nuclei suburbani costruiti attorno ai grandi centri commerciali sempre più numerosi nelle periferie delle nostre città, anche quelle di piccola e media dimensione. Eppure, mai come oggi, a mio parere, lo spazio pubblico sembra essere vivo, soprattutto
“non sono pochi quelli che oggi denunciano la scomparsa dello spazio pubblico e la sua riapparizione solo in forme surrogate” in quanto oggetto di contesa e di conflitto. Conducendo diverse ricerche nella nostra regione, insegnando antropologia urbana a Ferrara, ritengo che lo spazio pubblico non sia per nulla scomparso nelle sue molteplici forme, piuttosto ci aiuta a comprendere l’origine e l’esplosione di temi così tanto evocati in questi
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ultimi anni dai media locali, come quelli di “sicurezza”, di “degrado”, di “legalità”. Compito di noi ricercatori, antropologi urbani in primis, oggi, dovrebbe essere quello di condurre ricerche proprio negli spazi pubblici delle nostre città. Riportare l’attenzione, per esempio, su determinati contesti urbani indagando il perché questi siano sempre più rappresentati come luoghi simbolici del degrado cittadino. Comprendere come vengono prodotte queste rappresentazioni analizzando le problematiche, le aspettative, i bisogni messi in evidenza dalla molteplicità degli attori sociali che frequentano tali territori. L’identità di tali spazi pubblici, in effetti, è ricostruita quotidianamente da questi stessi abitanti. Concentrare lo sguardo analitico su specifici spazi pubblici (piazze, giardini, etc.), anche ferraresi, vorrebbe dire non negare, “snobbare”, una percezione di “insicurezza”, “degrado”, che molti cittadini denunciano (i quali ora osservano tali spazi con una forte carico di nostalgia verso un passato sempre più reinventato come “glorioso”), ma piuttosto comprendere (in una prospettiva transdisciplinare, dialogando con urbanisti, architetti, etc.) quanto sia necessario
uscire dalla retorica sulla fine dello spazio pubblico per studiare come molto spesso le difficoltà che denunciano i cittadini siano il risultato della difficile convivenza di soggetti eterogenei che percepiscono differentemente l’identità di tale aree urbane e fanno uso di queste in modi la cui coesistenza è vista come impossibile (con la crisi di un modello produttivo e il contemporaneo arrivo di flussi migratori, quanto sono cambiati i nostri territori in termini di uso, consumo?). Studiare lo spazio pubblico, i suoi attori, è anche un modo per uscire dalla paradossale “modernità rinascimentale” di Ferrara e offrire i nostri dati, quelli che emergono dal campo, a chi tra gli amministratori volesse poi leggerli prima di agire necessari progetti contemporanei di trasformazione urbanistica, politica, sociale, culturale nel cuore della nostra città.
“comprendere quanto sia necessario uscire dalla retorica sulla fine dello spazio pubblico” SCANDURRA Giuseppe, “Luoghi simbolo del degrado”, Il Resto del Carlino Ferrara, 30 Aprile 2012 64
Giuseppe Scandurra insegna Antropologia Culturale e della Comunicazione presso il dipartimento di Studi Umanistici - Università di Ferrara. Ha pubblicato numerosi saggi e volumi in tema di antropologia urbana. Tra le sue ultime pubblicazioni “Tranvieri” (2010), “Memorie di uno spazio pubblico” (Clueb 2011), “Tracce Urbane” (2012). Attualmente sta conducendo una ricerca su un gruppo di ultras del Bologna calcio. Membro del gruppo di studio transdisciplinare “Tracce Urbane” e Direttore del Laboratorio di Studi Urbani Università di Ferrara. 65
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SPAZIO LIBERO Denis Zaghi per AGAF
La
città ci parla; cartelli stradali, insegne pubblicitarie, manifesti, menù, cartelli di cantiere, locandine, luci, indicazioni e segnaletica sono il linguaggio attraverso cui comunica la cultura del tempo e la trasmette a noi (che ne siamo quindi sia autori che fruitori). Le vie, che giorno per giorno percorriamo in maniera ripetitiva, anche se costellate di segni e di linguaggi differenti, divengono per noi uno spazio apparentemente noto, cui ci abituiamo perdendo ogni interesse ad interrogarlo, a dialogare con esso. L’abitudine ci porta a non 66
vedere ma semplicemente a guardare, ad eliminare la percezione del bello e del brutto, eliminando ogni atto critico di fronte a ciò che ci viene proposto. Tutto si appiattisce e perde di interesse ricadendo nella nostra percezione di conosciuto. Questo fa’ sì che solo azioni traumatiche (intese come in grado di scuoterci da uno stato di inerzia psicologica) riescano a catturare la nostra attenzione. I cartelli quindi divengono più grandi, le insegne più luminose, i colori più accesi, i materiali più arditi, ponendoci innanzi ad un caleidoscopio di informazioni. Sono proprio queste informazioni, a volte “gridate”, a volte “sussurrate”, ad esprimere la cultura del tempo, palesandoci molto di ciò che la città vive, ha vissuto, e vivrà. I testi delle scritte cambiano lingua; inglese, francese, tedesco, ebraico, arabo, cinese, giapponese affiancano o sostituiscono l’italiano nelle insegne dei
“l’abitudine ci porta a non vedere ma semplicemente a guardare, ad eliminare la percezione del bello e del brutto” negozi, negli spazi pubblicitari, negli spazi vuoti lasciati per la comunicazione; connotano aree della città in cui una “cultura geografica” è maggiormente sviluppata, esprimono le mode e le tendenze contemporanee, ri-affermano l’importanza storica che alcune culture hanno avuto nella vita della città (pensiamo ad
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esempio alla forza che avrà la facciata del nuovo edificio progettato per il Museo nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah - MEIS) o mandano segnali su possibili futuri sviluppi di alcune aree (le immagini riportate sui cartelli di cantiere ad esempio forniscono scorci sul futuro della città). Tutto questo “collage” di segni e di messaggi tuttavia si ferma per lo più al piano strada, al livello cui lo sguardo solitamente si posa. Se rallentiamo un attimo e trasgrediamo la quotidiana routine di cercare sicurezza nelle immagini che già conosciamo, alzando gli occhi verso il cielo, rimarremo stupiti nel cogliere quasi una fotografia della Ferrara antica, raramente segnata dalle mode del tempo (le vetrine dei negozi ne sono la massima espressione) e difficilmente contaminata da un linguaggio diverso da quello architettonico. Sarà un po’ come leggere la stratificazione della storia dal basso (più recente) in alto (più antico) notando, talvolta, contrasti che ci faranno sorridere: vetrine patinate e scintillanti di locali di grido al piano strada, inseriti in edifici profondamente marchiati dallo scorrere del tempo, appaiono come “mature” cantanti
“alzando gli occhi verso il cielo, rimarremo stupiti nel cogliere quasi una fotografia della Ferrara antica” 68
d’opera rese splendenti da un irriverente makeup imposto da esigenze di scena. Con un semplice gesto (alzare la testa) possiamo fare un tuffo nel passato, cambiare punto focale, arricchire ogni spostamento alla ricerca di nuovi dettagli, di nuovi segnali che la città ci offre. Mentre nei locali il minimalismo del bianco abbagliante “grida” per catturare il nostro sguardo, cornicioni modanati, trabeazioni dipinte e deliziosi balconi sorretti da mensole elaborate osservano silenziosi dall’alto l’evoluzione della città.
ZAGHI Denis (AGAF), “La città che cambia anche nei cartelli”, La Nuova Ferrara, 15 Maggio 2012
Denis Zaghi si laurea in Architettura a Venezia e fonda con alcuni amici il gruppo 4AD. Dal 2006 collabora con Ferrara Arte per la progettazione degli allestimenti museografici di Palazzo dei Diamanti. Il suo lavoro “Musica in Luce” viene selezionato per la monografia UTET dedicata a progetti di architetti italiani under 40 ed esposto alla Triennale di Milano. Nel 2011 fonda la sua “Piccola Bottega di Architettura” (www.pbda.it). 69
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PROTESTARE O PARTECIPARE? L’IMPORTANZA DI COSTRUIRE PONTI, ANCHE TRA I CITTADINI Paolo Bruschi
Guardiamo
con ammirazione le meraviglie del Rinascimento nella nostra città, ora messe così a dura prova dagli eventi sismici in corso, ma quanti di noi accetterebbero oggi i modi autoritari in cui tali opere e trasformazioni urbane furono decise e realizzate? Direi quasi nessuno, se è vero che l’anno passato sono quasi raddoppiati i cantieri di grandi infrastrutture bloccati dalle opposizioni locali e, anche nel nostro territorio, si è perso il conto dei progetti contestati, paralizzati e messi sotto accusa. Eppure il cambiamento talvolta è
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necessario, tutti vogliamo servizi più efficaci, luoghi più accoglienti in cui vivere, collegamenti più rapidi, strutture più sicure. Dunque, cosa possiamo fare per uscire da questa impasse, che al tempo stesso ci toglie competitività e avvelena il clima sociale? Si dice che “per ogni problema complesso, c’è sempre una soluzione semplice... che è sbagliata” e in tutti questi anni in prima linea nel mondo delle relazioni pubbliche applicate al territorio, questo è l’approccio che più spesso ho visto utilizzare. Tra chi si arrocca in una populistica opposizione a ogni proposta e chi, tra i committenti, pensando di fare prima, decide, approva e inizia i lavori in sordina e solo quando esplodono le proteste inizia a pensare a come “metterci una pezza”.Tutto ciò con gravi conseguenze sull’armonia sociale, sui tempi e i costi di realizzazione e talvolta anche sui
“tutti vogliamo servizi più efficaci, luoghi più accoglienti in cui vivere, collegamenti più rapidi, strutture più sicure” risultati finali, frutto di compromessi tardivi. Il punto è che realizzare un’opera strategica dovrebbe significare innanzitutto condividerla, coinvolgendo nella progettualità cittadini e territori, dando loro la possibilità di essere soggetti attivi (e non soltanto oggetti) dei processi decisionali. È lo spazio della
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democrazia partecipata, del dibattito pubblico che in altre nazioni è iter obbligatorio per legge e ha dato finora risultati positivi, aumentando le probabilità di successo di un progetto. Esperimenti di partecipazione non sono del tutto mancati nel nostro Paese: è il caso dei bilanci partecipativi sperimentati a Modena e nel Lazio, oppure degli interessanti laboratori di urbanistica partecipata attivati a Bologna per decidere come riutilizzare aree ex-industriali. Si guarda poi con invidia al cosiddetto Dibattito Pubblico alla francese, ideato per sbloccare la costruzione di infrastrutture: una procedura formale, dalla durata prestabilita, che prende il via fin dalle primissime fasi di ideazione del progetto e include chiunque possa essere coinvolto dalla sua realizzazione, davanti a una commissione indipendente. Questo modello, che secondo stime ha portato a una riduzione della conflittualità dell’80%, è stato auspicato dal presidente Monti su scala nazionale, è già previsto dallo Statuto della Regione Toscana ed è diventato realtà a livello locale, in particolare con la felice sperimentazione compiuta per coinvolgere i cittadini sulle decisioni relative alla gronda autostradale di Genova.
“andare oltre preconcetti e opposizioni strumentali, per concentrarsi sulla ricerca di soluzioni concrete” 72
Ciò che accomuna questi casi è il tentativo di andare oltre preconcetti e opposizioni strumentali, per concentrarsi sulla ricerca di soluzioni concrete. Per fare ciò non bastano le buone intenzioni, ma servono metodologie strutturate, mediatori esperti e indipendenti, un’informazione aperta ed equilibrata. Certo, non esiste una ricetta segreta e il cambiamento non avverrà dalla sera alla mattina, ma se metteremo in moto questo processo, se attiveremo questi spazi di partecipazione, ciò che otterremo sarà non soltanto un ponte costruito più in fretta o un’autostrada meno invasiva, ma preziosa linfa al nostro vivere insieme, attraverso lo sviluppo di nuovi diritti di cittadinanza e delle capacità dei cittadini di utilizzarli, percorsi seri e trasparenti per le aziende che rilancino l’economia, ma anche una rilegittimazione del sistema politico, attraverso l’aumento d’efficacia dell’azione pubblica, l’incremento della giustizia sociale e una maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale. Questa non sarà la soluzione più semplice, ma probabilmente è quella giusta.
BRUSCHI Paolo, Il Resto del Carlino Ferrara, 4 Giugno 2012
Paolo Bruschi è nato 57 anni fa a Codigoro (FE). Da allora è stato amministratore pubblico, figura innovativa dell’associazionismo e imprenditore, sempre con la stessa passione e tenacia. È attualmente presidente e CEO di Segest, che ha fondato ed è oggi una delle principali aziende italiane di comunicazione e relazioni pubbliche. Dal 2012 è direttore dell’Istituto per le Relazioni Italo-Vietnamite, associazione che si prefigge di promuovere e sviluppare i rapporti sociali, culturali e di amicizia tra l’Italia e il Vietnam. 73
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A RIPENSARCI. ART SPAZI INFORMALI PER L’ARTE Monica Pavani
A ripensarci, credo di poter dire che tutto è
cominciato alla Marfisa... no, non il tennis – quello è arrivato molto tempo dopo. Proprio la Marfisa palazzina, con il suo bel giardino e quella sfilza di cespugli che da certe fessure lasciano intravedere il tennis. Sì, direi che è in quel giardino che sono iniziati i sintomi e, come sempre avviene per il primo manifestarsi di ogni malattia, lì è cominciata non tanto la cura quanto la salvezza. Ai tempi avevo la fortuna di passare molto tempo in compagnia di L. (ai tempi sette anni e
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qualcosa) e S. (attorno ai quattro) e, senza fare torto a nessuno, potrei dire che non eravamo tipi da parchi giochi. Cioè, ci piacevano un mondo, soprattutto la cesta-dondolo che c’era al Parco Massari, dove di sera anche gli adolescenti e gli adulti potevano azzardare un giro vorticoso e inebriante. Erano però altri i luoghi dove noi sentivamo... che cosa esattamente? un pizzicorino? la luce di un silenzio? un equilibrio fra noi e gli spazi intorno che ci coglieva alla sprovvista e ai nostri occhi non era che puro divertimento? Fatto sta che una bella giornata di primavera, o di primo autunno, L., con mio grande stupore, chiede di andare “alla Mazscisa” (la ‘r’ è ancora incerta, più che una lettera è una sfumatura che con il tempo lo abbandonerà ma il ricordo di quell’impasto così tenero io me lo tengo ben stretto). Mi sembra che fosse tardo pomeriggio,
“un equilibrio fra noi e gli spazi intorno che ci coglieva alla sprovvista e ai nostri occhi non era che puro divertimento?” il giardino era avvolto di luce dorata mista a ombra, e anche S., per quanto allora così piccola, ancora oggi ricorda una pozzanghera in giardino, vicino alla panchina di marmo, segno che doveva esser piovuto da poco. Oltrepassato il cancello, mi ostino a credere di dover inventare mondi per incantarli. Veloce mi
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approprio di un volantino, e accenno alla storia degli amanti uccisi da Marfisa che seguono il suo cocchio come un corteo di fantasmi. Davanti agli occhi sgranati e interrogativi di quei due piccoli per me così grandi, trovo che l’immagine non sia particolarmente evocativa. Indico allora i portoni imponenti, descrivo carrozze che sopraggiungono nella notte, quando al posto della luce artificiale odierna ci sono fiaccole infuocate, e tutt’intorno la città dorme sprofondata nel buio. S., però, sporgendosi dal passeggino, ammira più di tutto i ritratti all’interno. “Che bei quadri!”, esclama, e gli anziani guardiasala – non capiamo bene perché – scoppiano a ridere. Poi ci fermiamo a lungo nel giardino, senza parlare tanto mi sembra. Da allora – sono passati ormai più di una decina d’anni – siamo salvi e strampalati: in quest’epoca di navigatori in rete, amori e amicizie consumati sui social network, tragitti stradali dettati da metalliche voci infallibili, noi siamo viaggiatori ingenui e creduloni. Esploratori appiedati, insomma, sempre con la sensazione che anche le vie contigue a casa nostra non ci siano mai svelate fino in fondo.
Una volta, camminando dalle parti di piazzetta S. Anna, abbiamo un po’ riso pensando a Byron che si fa rinchiudere nella cella del Tasso per sentire la sua sofferenza, e ovviamente scriverci sopra un lungo poema – applicando quello che si può definire un metodo Stanislavskij ante litteram. Per quanto ci riguarda, preferiamo aggirarci fuori dalle scene. Ci sentiamo a nostro agio, per così dire, dietro le quinte della città che ci sembrano aprirsi dietro ogni angolo. Anzi, più ripercorriamo nostalgici i nostri tracciati preferiti, e più ci si rivela qualcosa dietro, di fianco, in contrasto, un resto trascurato, un segno indecifrabile, un messaggio mai letto.
“in quest’epoca di navigatori in rete, noi siamo viaggiatori ingenui e creduloni” PAVANI Monica, “Tutto cominciò alla Marfisa”, Il Resto del Carlino Ferrara, 3 Settembre 2012 76
Monica Pavani, ferrarese, coltiva in parallelo le passioni per la poesia e per la traduzione. Ha pubblicato tre raccolte di poesia (Fugatincanti, Con la pelle accanto e Luce ritirata) e un itinerario bassaniano dal titolo L’eco di Micòl. Tra le sue più recenti traduzioni: La sovrana lettrice di Alan Bennett (Adelphi) e Movimento dalla fine di Philippe Rahmy (Mobydick). 77
a cura di
Fondazione degli Architetti di Ferrara
La Fondazione degli Architetti di Ferrara è un ente senza scopo di lucro, apolitico e non confessionale. Ha per scopo la valorizzazione della professione dell’architetto così come configurata dall’Ordinamento professionale. Realizza tale scopo attraverso l’istruzione e costante aggiornamento tecnico-scientifico e culturale dell’architetto, l’individuazione di specializzazioni all’interno della professione, la promozione e l’attuazione di ogni iniziativa diretta all’istruzione ed alla formazione professionale degli aspiranti Architetti.
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Basso Profilo Associazione di Promozione Sociale
AGAF Associazione Giovani Architetti della Provincia di Ferrara
“Basso Profilo” nasce nel 2007 all’interno della Facoltà di Architettura di Ferrara e nel primo periodo della sua attività proprio il mondo universitario e gli studenti sono stati i suoi interlocutori privilegiati. Con il passare degli anni il respiro dell’associazione si è fatto più ampio: l’affermarsi del suo spin-off Rigenerazione Urbana -esperimento di ricognizione e ripensamento dei luoghi marginali e degli spazi pubblici della città- e di tutta una serie di progetti legati al mondo dell’espressione artistica, hanno fatto di “Basso Profilo” un punto di riferimento nel panorama culturale della città. Dal 2011 è capofila del Consorzio Wunderkammer, la cui sede operativa è da alcuni mesi uno spazio all’interno del centro polifunzionale “Palazzo Savonuzzi”, lungo la darsena del Po di Volano, nel centro storico della città di Ferrara.
AGAF nasce nel 2004 dalla volontà di alcuni giovani professionisti, formati nello stesso ambito universitario, di costituire un gruppo assolutamente indipendente, dal punto di vista intellettuale, con la finalità di promuovere attività culturali. Fra le più importanti degli ultimi anni le mostre itineranti NW (Norwegian Wood) e Architetti una Faccia (in collaborazione con AGAV di Verona), la collaborazione con Multimedia Tre e l’ente Fiera di Ferrara per il salone Habitat, il Festival annuale Semplicemente Legno e la collaborazione con GGAF (Gruppo giovani Architetti Firenze) per ospitare a Ferrara la mostra NEEDS (Architetture nei paesi in via di sviluppo). AGAF è una delle sette associazioni firmatarie e fondatrici del Coordinamento Nazionale dei Giovani Architetti Italiani (GiArch). 81
grazie a tutti gli autori degli articoli a La Nuova Ferrara e il Resto del Carlino Ferrara un ringraziamento particolare a Paolo Boldrini ed Erica Zambonelli
Consiglio Fondazione e Ordine Architetti PPC della Provincia di Ferrata Gianni Pirani, Presidente Ordine Diego Farina, Presidente Fondazione Maria Elena Mantellini, vicepresidente Ordine e Fondazione Vittorio Anselmi, tesoriere Sergio Fortini, segretario Pietro Baraldi Cristina Chersi Leonardo Monticelli Riccardo Orlandi