Poste italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/03 70% Roma Aut C/RM/10/2014 - ISSN 2284-4333
LA GESTIONE DEL COMBUSTIBILE RIMOSSO DAL REATTORE NUCLEARE:: DALL´’ESTRAZIONE ALLO SMALTIMENTO
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ALCUNE PARTICOLARITÁ DELLE COSTRUZIONI CON STRUTTURA IN LEGNO STORIA ED EVOLUZIONE DELLA MANUTENZIONE DEGLI IMPIANTI
COLTIVARE SULLA LUNA IL NOSTRO VILLAGGIO SULLA LUNA
T R I M E S T R A L E ANNO IX - N o 2/2022
RIVISTA DELl’ORDINE DEGLI I NGEGNERI DELLA PROVINCIA DI ROMA
INGEGNER
È possibile consultare tutti i numeri all’indirizzo Internet rivista.ording.roma.it
IN COPERTINA VISTA DEL SUOLO LUNARE E DELLA TERRA, NASA
RIVISTA DELL’ORDINE DEGLI INGEGNERI DELLA PROVINCIA DI ROMA
roma TRIMESTRALE ANNO IX - N. 2/2022
Credits: Antmoose [CC by 2.0 (https://creativecommons.org/licenses\by/2.0]
FOTO DI repertorio
LETTERA DEL DIRETTORE EDITORIALE La Luna e lo Spazio
Ing. Francesco Marinuzzi
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I
n questo numero ospitiamo, come focus, ben due articoli sulla Luna a cura di Giorgia Pontetti sulle coltivazioni e di Valentina Sumini su un nostro ipotetico villaggio da costruire sempre sulla Luna. Nell’ultimo anno la commissione aerospazio, con tutti i suoi numerosi membri, presieduta dal collega Giovanni Nicolai, ha organizzato numerosi eventi e seminari sul tema di estremo interesse e fascino. Addirittura, si sta pianificando una rete 4G di telecomunicazione da mettere sul suolo lunare per agevolare le trasmissioni massive di immagini e dati. Dopo circa 50 anni dal primo allunaggio vi è nuovo interesse, probabilmente, anche per la presenza di molte terre rare, sempre più preziose in specifici comparti legati alle nuove tecnologie, terre che non sono distribuite equamente sulla superfice terrestre rischiando così di creare forti dipendenze verso i paesi che le possiedono quali, ad esempio, la Cina. Ma la Luna può anche esser pensata come primo hub verso lo Spazio come, ad esempio, Marte. Il nostro mondo della Terra sta diventando sempre più piccolo sia per la crescita demografica degli ultimi 100 anni sia per l’aumento incredibile delle velocità di trasmissione e trasferimento dei bit e degli atomi. Nei nuovi scenari di infowar o vera e propria guerra in pochi secondi, o decine di secondi, una notizia o un ordigno può raggiungere la parte opposta del pianeta con conseguenze imprevedibili.
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Se studiamo la storia delle tecnologie dei Razzi una delle figure principali fu Wernher Magnus Maximilian von Braun prima esperto della missilistica tedesca nazista e, di poi, ritenuto, da molti, capostipite del programma spaziale americano in una alternanza fra dimensioni militari e civili non nuova nella storia dell’innovazione. La stessa internet può esser vista come derivata della rete ARPANET della DARPA (dipartimento della difesa USA). Molte superpotenze militari hanno anche un forte interesse e ruolo nelle tecnologie dello spazio e dei lanciatori: la capacità di lanciare in orbita o a lunghissima distanza con una velocità non intercettabile rappresenta infatti un fortissimo deterrente militare. Viviamo in un mondo sempre più VUCA dove l’ambiguità (A) e l’incertezza (U) sono sempre più costanti facendo sfumare i confini e i significati delle complesse (C) azioni e progetti fra gli estremi delle tipiche dicotomie civile/militare, costruzione/distruzione, cooperazione/competizione. Sicuramente il fattore umano, le competenze e soprattutto gli ingegneri possono svolgere un ruolo fondamentale soprattutto in funzione dei valori etici che guidano le loro invenzioni e soluzioni. Così come nel dopoguerra gli Stati Uniti furono capaci di creare un ecosistema economico e sociale molto attrattivo delle migliori menti e competenze internazionali, oggi la sfida è riproposta in un mondo multipolare dove l’Europa con le sue bellezze naturali e culturali e soprattutto l’Italia può giocare un ruolo decisivo. Ing. Francesco Marinuzzi, Ph. D. Direttore Editoriale
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LETTERA DEL PRESIDENTE Il nucleare
Dott. Ing. Carla Cappiello
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L’
Europa, territorio unico ed elettricamente interconnesso, è il più grande importatore mondiale di energia. Si stima che la spesa complessiva sia di 400 miliardi di euro l’anno per l’acquisto di più della metà, il 53%, dell’energia consumata. L’Europa dipende dal nucleare per oltre un quarto della propria energia elettrica e più della metà dell’elettricità che deriva da fonti a basso impatto ambientale proviene dalle 128 centrali atomiche installate in 14 dei 28 Stati europei. Si parla del “nuovo nucleare”, quello in cui si registrano i più alti tassi di ricerca e innovazione sia riguardo gli small reactors sia riguardo la fusione nucleare. In questi primi mesi del 2022 si è tornati a parlare di questo tipo di energia più intensamente a seguito della guerra in Ucraina che sta ponendo molti interrogativi sul futuro energetico europeo. Il nucleare potrebbe essere una via all’insegna dell’economicità e della sostenibilità. I numeri ci dicono che ci sono oltre cinquanta nuove centrali in costruzione, di cui la metà in Cina e in India. Negli USA sono operativi 93 reattori. Come Italia non possiamo essere gli unici fuori dalla ricerca. L’Italia, pioniera negli anni 60’ e ‘70 dei primi reattori di limitata potenza e dimensione, non sarebbe una new entry del settore.
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Oggi l’Europa ha selezionato sei progetti strategici nei reattori nucleari del futuro. Mi auguro che come italiani, e come ingegneri, possiamo essere i pionieri di una frontiera innovativa del futuro. La situazione odierna in Italia, caratterizzata da alte emissioni da carbone e da un caro bollette, che nel 2022 produrrà una stangata per le famiglie da oltre 11 miliardi di euro, circa 1.950 euro a famiglia, non permette più di non riconoscere anche al nucleare un ruolo di rilievo. Come ingegneri dobbiamo essere i pionieri di una frontiera innovativa del futuro.
Ing. Carla Cappiello Presidente Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma
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IO ROMA
RIVISTA - ORDINE DEGLI INGEGNERI DELLA PROVINCIA DI ROMA N. 2/2022 Trimestrale N. 32 Anno IX
Direttore Responsabile
Stefano Giovenali Direttore Editoriale
Francesco Marinuzzi Comitato di Redazione Sezione A
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PressUp Iscritto al Registro della Stampa del Tribunale di Roma Il 22/11/2013, n. 262/2013 Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma
Piazza della Repubblica, 59 - 00185 Roma www.ording.roma.it segreteria@ording.roma.it editoriale@ording.roma.it Finito di stampare: giugno 2022
La redazione rende noto che i contenuti, i pareri e le opinioni espresse negli articoli pubblicati rappresentano l’esclusivo pensiero degli autori, senza per questo aderire ad esse. La Direzione declina qualsiasi responsabilità derivante dalle affermazioni o dai contenuti forniti dagli autori, presenti nei suddetti articoli.
CONTENUTI
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La gestione del combustibile rimosso dal reattore nucleare: dall’estrazione allo smaltimento Ing. Giovanni Bava
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Alcune particolarità delle costruzioni con struttura in legno Ing. Giuseppe Vadalà
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Storia ed evoluzione della manutenzione degli impianti Ing. Angelo Pignatelli
FOCUS
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Coltivare sulla Luna Ing. Giorgia Pontetti
FOCUS 52
Il nostro villaggio sulla Luna Ing. Arch. Valentina Sumini
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Ing. Alberto Taglioni Ing. alessandro caffarelli
visto da:
Gestione impianti nucleari
Commissione:
a cura di: Ing. Giovanni Bava
La gestione del combustibile rimosso dal reattore nucleare: dall’estrazione allo smaltimento
Introduzione Si è ritenuto utile, nella particolare fase di scelte che sta vivendo il nostro Paese in materia di gestione dei rifiuti radioattivi, avviare con questo articolo una descrizione, quanto più sistematica possibile, di quegli elementi tecnici che costituiscono la base per le decisioni che dovranno essere prese ai diversi livelli. In particolare, in questa nota sono raccolte informazioni relative all’origine ed alle prospettive di gestione dei rifiuti derivanti dal combustibile nucleare utilizzato in Italia per la produzione di energia elettrica dagli anni ’60 agli anni ’80 del
Nel mondo, l’ordine di grandezza della quantità di combustibili nucleari (metalli pesanti) scaricati annualmente dagli impianti nucleari in esercizio, dopo il loro utilizzo nel reattore, è di circa 10000 tonnellate.
1900, nonché in anni successivi per attività di ricerca, inquadrando l’argomento nell’ambito delle prassi ed orientamenti internazionali. Tali elementi sono tratti da esperienze rese disponibili nell’ambito della Commissione Gestione Impianti Nucleari e da pubblicazioni agevolmente consultabili nel web. Si ringraziano i colleghi della citata Commissione per i suggerimenti forniti al fine di pervenire alla stesura finale del presente articolo, nonché il Responsabile dell’Area Nucleare per l’accurata revisione; un particolare ringraziamento va agli ingg. A. Orsini, I. Papa, G. Pino e F. Zambardi. Nel mondo, l’ordine di grandezza della quantità di combustibili nucleari (metalli pesanti) scaricati annualmente dagli impianti nucleari in esercizio, dopo il loro utilizzo nel reattore, è di circa 10000 tonnellate. In vari Paesi, combustibile nucleare esaurito è immagazzinato in strutture temporanee
Fig.1
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anche per tempi dell’ordine dei 50 anni; l’attuale scarsa disponibilità di siti di smaltimento fa ritenere che lo stoccaggio temporaneo, in molti casi, possa prolungarsi oltre i 100 anni [2]. Questi dati forniscono la dimensione del problema la cui risoluzione, per quanto attiene allo smaltimento, passa attraverso una accelerazione delle pur numerose attività di studio e di realizzazione di adeguati depositi. Prime fasi di gestione del combustibile estratto dal reattore Il problema più rilevante, fin dalle prime fasi di gestione del combustibile esaurito, è la sua radiotossicità1, che permane elevata per tempi dell’ordine del milione di anni. La radiotossicità è principalmente legata alla presenza di: • prodotti di fissione, che contribuiscono in maniera particolarmente rilevante per tempi dell’ordine di diverse centinaia di anni; • isotopi pesanti generati nel reattore, “attinidi minori”, che decadono in tempi dell’ordine delle centinaia di migliaia di anni. Nella figura 1 [3] viene evidenziato l’andamento della radiotossicità, in funzione del tempo, per varie tipologie di reattori nucleari; la curva in nero (PWR) è da riferirsi alle tipologie di reattori maggiormente diffuse, le altre curve a reattori progettati anche con l’obbiettivo di ridurre i problemi legati all’approvvigionamento ed alla gestione del combustibile, le linee tratteggiate forniscono una indicazione della pericolosità associata ai composti di Uranio e Torio rinvenibili in natura.
Nei grafici in figura 2 [4] sono distinte le radiotossicità dovute agli attinidi da quelle dovute ai prodotti di fissione. Oltre alla difesa dall’elevato rischio da radiazioni, un altro problema da affrontare, appena scaricato il combustibile dal nocciolo, risiede nella necessità di assicurare la rimozione del calore residuo, anche per assicurarne l’integrità ed evitare il rilascio dei radioisotopi contenuti. Quando un reattore viene spento e non hanno più luogo fissioni indotte da neutroni, la sorgente principale di calore nel combustibile deriva dai decadimenti (principalmente di tipo ß e γ) dei prodotti di fissione. Con il tempo il calore si riduce, ma rimane non trascurabile a lungo. Ad esempio, per un reattore che abbia funzionato a potenza nominale per tempi lunghi, appena dopo lo spegnimento la potenza residua è dell’ordine del 6-7% della nominale, dopo una settimana dell’ordine dello 0, 2%. In figura 3 [5] è illustrato l’andamento della potenza generata fino a 300 anni da un elemento di combustibile, costituito da ossidi di Uranio, dal peso di circa 500 kg. A causa dell’elevata generazione di calore, il combustibile rimosso dal nocciolo del reattore viene usualmente stoccato a umido (in piscine refrigerate poste in prossimità del reattore), per periodi dell’ordine dei 2 - 5 anni, perché il calore residuo si porti a valori accettabili per le attività di gestione successive. Successivamente può essere disposto: • a secco, in contenitori metallici o in cemento armato, alcuni dei quali sono adatti anche al trasporto, o, così com’è, in appositi alloggiamenti in cemento; • in acqua, nuovamente in piscine al servizio di più reattori, continuando ad assicurare l’asportazione del calore residuo, quando possibile, anche per convezione/conduzione naturale. Nel settembre 2019, negli USA risultavano essere stati riempiti 3069 cask, a partire dal 1986, sistemati in 72 istallazioni temporanee [6]. Nella figura 4 viene presentata la configurazione di uno specifico progetto di cask metallico “dual purpose”3 [7]. Anche quando diviene possibile sottoporre il combustibile irraggiato a riprocessamento per recuperare materiale fissile, i rifiuti ad alta attività generati (HLW) sono fonte di calore rilevante, come evidenziato nella tabella in figura 5 [8].
Fig. 2: Inventario radiotossicologico per elementi transuranici (a) e prodotti di fissione (b) nel combustibile UOX esausto proveniente da un LWR con burnup di 41.2 GWd/tHM.
Fig. 3
Fig. 4
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Fig. 5
Fig. 6
Nel complesso, i principali problemi di sicurezza da affrontare dopo la rimozione del combustibile dal nocciolo sono: • schermaggio delle radiazioni; • contenimento degli isotopi radioattivi; • rimozione del calore residuo; • controllo della criticità (conservazione della geometria, controllo degli assorbitori e dei moderatori di neutroni etc.); • gestione sicura delle materie nucleari; • protezione da tutti quegli eventi, di origine antropica o naturale, che possono dar luogo a rilascio dei radioisotopi. Inoltre, nel seguito della gestione del combustibile ed in funzione delle specifiche scelte effettuate, può divenire necessaria una accentuazione delle predisposizioni di protezione fisica e dei controlli ai fini della non proliferazione degli armamenti nucleari. Tutte le suddette tematiche sono tra loro connesse ed interagenti. Soluzioni specifiche devono essere, inoltre, individuate in relazione alla necessità di: • movimentare; • sorvegliare ed eventualmente manutenere; • trasportare il combustibile, nelle varie fasi di gestione.
di Uranio e di Plutonio, elementi che si possono estrarre con efficienza del 99,8-99,9% dal combustibile irraggiato) e riducendo parzialmente la radiotossicità dei rifiuti generati; • continuare a trattarlo e riutilizzarlo anche dopo successivi recuperi per sfruttare al massimo il materiale. Il riprocessamento ha luogo in specifici impianti ove si svolgono processi del tipo di quello illustrato nella figura 6 [10]. L’ultima opzione (trattamenti ripetuti) non è ancora stata sviluppata su scala industriale, presuppone la necessità di disporre di reattori a spettro neutronico veloce, che possono dar luogo ad una apprezzabile ulteriore produzione di isotopi fissili (essenzialmente attraverso l’assorbimento neutronico ad alte energie). Lo sviluppo delle tecnologie necessarie passa attraverso la realizzazione di processi remotizzati, data l’elevata radioattività degli attinidi. Tuttavia, le quantità di minerale necessarie per alimentare i reattori, in funzione delle diverse opzioni, diminuiscono in relazione al numero di trattamenti attuati, che sono in grado di limitare, inoltre, i rifiuti ad alta attività residui. Per i rifiuti generati è sempre opportuno operare, per quanto possibile, una riduzione dei volumi, attraverso processi quali la decontaminazione, la supercompattazione. Per ridurre i tempi nei quali grandi quantità di rifiuti continuano a presentare elevata radiotossicità, a livello internazionale si è proposto di introdurre, nell’ambito del riprocessamento, un processo di partizione, con o senza trasmutazione, atto a ridurre le quantità di rifiuti a più alta attività e, ove possibile, a minimizzare la presenza di isotopi più attivi.
Scelte strategiche Le principali scelte strategiche sul destino del combustibile estratto dal reattore [9] sono: • smaltirlo così com’è (opzione one through); • riprocessarlo una sola volta per recuperare materiale ancora utilizzabile, producendo combustibili ad ossidi misti (MOX - contenenti ossidi
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Per partizione (Advanced Fuel Cycle) si intende la rimozione selettiva di uranio, plutonio, attinidi minori (Nettunio, Curio e Americio ed altri attinidi a più bassa vita media) e di alcuni prodotti di fissione dal combustibile esausto prima della vetrificazione e dello stoccaggio delle scorie ad alta attività, che sarebbero dunque ridotte in volume e radiotossicità. In pratica, la partizione consiste nell’estendere le tecniche di riprocessamento attualmente utilizzate. Mediante la trasmutazione viene operata la trasformazione: • degli attinidi minori presenti nel combustibile esaurito in prodotti di fissione o isotopi a vita più breve; • dei prodotti di fissione a lunga vita in nuclidi a vita molto più breve per mezzo di catture di neutroni, decadimenti β e transizioni isomeriche, attraverso l’utilizzo di sorgenti di neutroni veloci prodotti da reattori dedicati o acceleratori di particelle associati a bersagli di spallazione4. Attraverso la partizione e la successiva trasmutazione degli attinidi minori, i tempi in cui la radiotossicità dei rifiuti rimane elevata possono essere ridotti a 250/300 anni ed i volumi di rifiuti da smaltire possono essere diminuiti drasticamente, inoltre viene ridotto il contenuto di nuclidi fissili, limitando i
Fig. 7
problemi connessi alla non proliferazione. Il grafico presentato nella figura 7 [12] illustra gli effetti della trasmutazione sulla radiotossicità, confrontandola con quella dell’Uranio da miniera. Smaltimento dei residui Lo smaltimento di rifiuti con elevate concentrazioni di attività e con tempi lunghi di decadimento richiede la collocazione di detti rifiuti in depositi che assicurino una elevata stabilità al fine di assicurare l’isolamento dagli uomini e dalla biosfera per tempi molto lunghi, considerando anche la eventuale presenza di calore residuo. I suddetti requisiti di carattere generale rendono impraticabile lo smaltimento di tali rifiuti in depositi posti in superficie o a limitate profondità, per la cui sicurezza si fa particolare affidamento sulle strutture ingegneristiche. Come già evidenziato, in molti Paesi sono in corso attività di ricerca intese a ridurre per quanto possibile la quantità di tali rifiuti attraverso un riutilizzo quanto più esteso possibile dei materiali e processi di separazione e di trasmutazione degli isotopi più pericolosi. Per la realizzazione di strutture di smaltimento, per questi rifiuti devono essere considerati attentamente diversi aspetti tra cui [21]: • accurata caratterizzazione del sito e della sua possibile evoluzione nel tempo, sia in relazione ai fenomeni naturali che alle attività umane; • progettazione che assicuri il contenimento dei rifiuti anche in relazione alla compatibilità fisica e chimica della formazione geologica ospitante; • smaltimento esclusivamente di rifiuti conformi con le caratteristiche assunte negli studi di sicurezza; • tecniche di costruzione ed esercizio che assicurino la realizzazione ed il mantenimento delle caratteristiche di sicurezza previste dal progetto; • accurata pianificazione delle operazioni di chiusura e transizione alla fase successiva di esercizio. Inoltre, le decisioni relative alla gestione di queste tipologie di rifiuti devono tener conto di alcuni aspetti specifici quali: • condizioni necessarie per ottenere il consenso delle popolazioni residenti in prossimità del sito di smaltimento; • trasferimento intergenerazionale delle informazioni;
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Fig. 8
•
sostenibilità delle scelte (volumi, quantità e tipologie di materiale reso indisponibile etc.) riferita anche alle future generazioni. Ciascuno di questi argomenti è sviluppato negli standard internazionali che, con il tempo e con l’esperienza, si sono andati arricchendo e precisando. La soluzione degli aspetti più problematici può aver luogo facendo affidamento a strutture geologiche che abbiano dimostrato una persistenza delle proprie caratteristiche per tempi molto lunghi. Per assicurare l’adeguato isolamento, inoltre, i rifiuti devono essere posti a notevoli profondità, dove non possano in alcun modo innescarsi pericolosi meccanismi di migrazione dei radioisotopi verso la biosfera. Le soluzioni studiate risultano essere principalmente: • gallerie poste a profondità dell’ordine delle diverse centinaia di metri; • pozzi (borehole) che raggiungono profondità dell’ordine dei chilometri. Nelle figura 8 sono presentate le possibili soluzioni di smaltimento per rifiuti caratterizzati da diversi livelli di attività [25]. Gli argomenti sui quali si sono resi necessari
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specifici approfondimenti riguardano [17], tra l’altro: • tutte le caratteristiche delle formazioni geologiche potenzialmente idonee per lo smaltimento, influenti sul comportamento del deposito nel lungo termine5 (geologiche, meccaniche, chimiche, idrogeologiche, sismotettoniche, ecc.); • i potenziali processi di migrazione dei radionuclidi nella geosfera e nella biosfera; • le incertezze associate agli scenari futuri, ai modelli e ai dati utilizzati; • le tipologie di contenitori da utilizzare per disporre nel deposito il combustibile esaurito ed eventuali altri rifiuti ad alta attività; • i materiali da utilizzare per il riempimento e la chiusura delle cavità. Alcune valutazioni possono essere avvalorate, oltre che da apposite sperimentazioni, anche attraverso l’osservazione di analoghi naturali, quali ad esempio le formazioni nelle quali sono presenti rilevanti concentrazioni di Uranio e Torio. È interessante, a tale proposito, rilevare che è stato scoperto, negli anni ’70, che circa due miliardi
di anni fa reazioni di fissione ebbero luogo, nel Gabon, per centinaia di migliaia di anni in reattori naturali posti in formazioni rocciose che, nel tempo, hanno mantenuto segregata gran parte dei radioisotopi prodotti [23]. La figura 9 [13] illustra efficacemente come i mutamenti in superficie siano caratterizzati da tempi molto più limitati rispetto alle strutture geologiche più stabili. La gestione dei rifiuti radioattivi, giustamente, è oggetto di dibattiti e vengono svolte valutazioni specifiche sulla base di un quadro complessivo noto nei dettagli, mentre altre attività che presentano analogie non appaiono altrettanto dibattute. È particolarmente interessante considerare, ad esempio, le seguenti informazioni [16], riferite agli USA: • vengono scavati circa 40000 pozzi profondi all’anno per la ricerca di petrolio o gas, a profondità che si attestano mediamente intorno ai 2 km (1,1 milioni di pozzi sono utilizzati per l’estrazione di detti combustibili fossili); • 800 pozzi profondi sono già utilizzati come discariche, 44 di essi per rifiuti particolarmente pericolosi. Approfondimenti su questi aspetti appaiono quanto mai opportuni, anche al fine di mutuare informazioni, studi ed esperienze su tali realizzazioni.
Stato attuale nel mondo e in Europa Le modalità di gestione del combustibile utilizzato per le applicazioni civili nei vari Paesi vengono periodicamente descritte, documentate e discusse nell’ambito della Joint Convention on the Safety of Spent Fuel Management and on the Safety of Radioactive Waste Management della IAEA, in forza dal 2001, che detta, tra l’altro, i principali requisiti perché tali attività si svolgano in modo sicuro. Nel 2020 aderivano alla Convenzione 83 Paesi ed era attesa la ratifica da parte di ulteriori due Paesi. I rapporti sono prodotti dai Paesi aderenti ogni tre anni e sono sottoposti ad una revisione sistematica. Gli obbiettivi della Convenzione, evidenziati nell’art. 1, sono i seguenti: • raggiungere e mantenere, a livello mondiale, un elevato livello di sicurezza nella gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi; • assicurare l’esistenza di difese efficaci contro pericoli potenziali nel corso di tali attività; • prevenire gli incidenti con conseguenze radiologiche e mitigarne le conseguenze nel caso essi dovessero accadere, nel corso di qualunque fase della gestione del combustibile esaurito o dei rifiuti radioattivi. In Europa, le principali disposizioni normative per la gestione del combustibile esaurito sono
Fig. 9
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contenute nella direttiva 2011/70 Euratom, trasposta in Italia nel D.Lgs 45/2014. Le modalità attraverso le quali detti obbiettivi e requisiti sono soddisfatti sono variabili, in funzione delle diverse organizzazioni e strategie nazionali, e la relativa descrizione risulterebbe assai complessa ed al di là degli scopi del presente articolo. In questa sede si ritiene particolarmente utile fornire elementi sullo stato di realizzazione dei depositi di smaltimento. Inoltre, nel seguito si è ritenuto interessante riportare un esempio di come si sia svolto il processo di definizione e realizzazione di
Fig. 10
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un deposito. In particolare, si è scelta la Finlandia, per la quale detto processo è in fase particolarmente avanzata, anche se quel Paese ha fatto la scelta di smaltire il combustibile senza ritrattarlo, diversamente dall’Italia. Il quadro dei programmi nazionali dei vari Paesi è riportato nella tabella in figura 10, tratta dal riferimento 17. In Finlandia, nel 1995, due organizzazioni che eserciscono impianti nucleari (TVO e Fortum) costituirono una nuova società (Posiva) per attuare il programma di smaltimento del combustibile esaurito di propria competenza, nonché per svolgere
le attività di ricerca progettazione e sviluppo connesse. Come già evidenziato, i finlandesi hanno operato la scelta di smaltire il combustibile esaurito nelle condizioni in cui viene estratto dal reattore (opzione one through). Esso viene inserito in cassoni cilindrici di rame, con strutture interne in ghisa ed è destinato ad essere smaltito a diverse centinaia di metri di profondità in gallerie ricavate in un contesto roccioso. Tra il cassone e la roccia viene posta bentonite. Una volta riempito il deposito, l’insieme di gallerie verrà sigillato. Il processo di scelta del sito è stato articolato sui seguenti passaggi: • l’individuazione di siti potenzialmente idonei attraverso indagini svolte in due fasi, i cui esiti sono stati riportati nel 1985 e nel 1992; • la revisione da parte dell’autorità di regolamentazione (STUK), che ha riferito le proprie conclusioni al Ministero dell’industria e del commercio; • l’approvazione del detto Ministero nel 2000, anche sulla base del consenso espresso dalla municipalità interessata; • la ratifica da parte del Parlamento. Fin dal 1987, quando iniziarono le attività di indagine presso i siti, le municipalità candidate hanno istituito dei gruppi di cooperazione per lo scambio di informazioni. In tali contesti, negli anni, si sono svolte numerose discussioni, sulla base delle perplessità sollevate.
Standard di sicurezza, studi e collaborazioni internazionali sulla realizzazione di depositi geologici Sulla base di considerazioni tecniche e studi scientifici, si è ormai affermata la convinzione che lo smaltimento a lungo termine in un deposito geologico profondo sia una soluzione credibile, in grado di soddisfare criteri di sicurezza consolidati. Sono disponibili standard di organizzazioni internazionali (es.: IAEA) o sviluppati da Paesi che da tempo si stanno occupando del problema (USA, Finlandia, Svezia, Francia etc.), che tracciano in dettaglio l’insieme dei criteri e requisiti cui ci si deve attenere per la realizzazione di un deposito di smaltimento. Nel seguito si farà riferimento agli standard IAEA, che dispongono di un largo consenso, per fornire un quadro sintetico dei principali requisiti di sicurezza. In particolare, ad esempio, nella specifica guida di sicurezza IAEA dedicata ai depositi geologici [21], vengono evidenziati e discussi i requisiti applicativi di criteri espressi nello standard dedicato, più in generale, allo smaltimento dei rifiuti radioattivi6, di seguito sintetizzati: • assicurare che venga data particolare importanza alla sicurezza, nel corso di tutte le attività dallo sviluppo all’esercizio del deposito; • le varie barriere ingegneristiche, compresi la matrice ed il contenitore del rifiuto, devono assicurare per tempi lunghi il contenimento dei radionuclidi associati ai rifiuti;
Fig. 11
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•
la localizzazione, il progetto e l’esercizio devono assicurare un isolamento adeguato dei rifiuti dall’uomo e dalla biosfera per diverse migliaia di anni (fintantoché i livelli di radiazione dei materiali si portano al livello dei materiali presenti in natura) considerando le evoluzioni naturali e i possibili eventi fonte di disturbo; • deve potersi dimostrare che l’ambiente e le barriere ingegneristiche possano svolgere le funzioni richieste assicurando che le singole funzioni non siano dipendenti da un solo elemento; • la sicurezza deve essere assicurata facendo riferimento, nel massimo grado possibile, a mezzi passivi e la necessità di azioni dopo la chiusura della istallazione deve essere minimizzata. Specifici requisiti sono, inoltre, indirizzati alle modalità di esecuzione degli studi di sicurezza ed alle dimostrazioni di rispondenza da produrre, nonché alle infrastrutture organizzative e legali. Nella figura 11 sono illustrate le barriere presenti nel progetto di un deposito geologico, necessarie per soddisfare il requisito della difesa in profondità [18]. La storia della collaborazione internazionale sugli
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aspetti tecnici del deposito geologico profondo è costellata di rilevanti traguardi e si può far risalire ancor prima degli anni Ottanta del 1900. Esempi di studi svolti o servizi resi disponibili sulla base di accordi internazionali sono: • sviluppo e validazione, a fronte di specifica sperimentazione su contesti di roccia cristallina, di argilla o di sale, di modelli relativi alla contestuale simulazione termo-idro-meccanica- chimica (DECOVALEX); • assistenza dei diversi Paesi nello sviluppo degli studi di sicurezza, su basi tecnico scientifiche adeguate (Integration Group for the Safety Case – NEA IGSC), anche attraverso l’organizzazione periodica e sistematica di simposi; • organizzazione di reti e banche dati, quale la rete delle strutture di ricerca sotterranee (IAEA URF Network); • sviluppo di progetti internazionali di cooperazione in ambito europeo, quali la piattaforma tecnologica per la realizzazione dello smaltimento geologico dei rifiuti radioattivi (IGDTP), o di studi ingegneristici e dimostrativi per progetti di depositi (ESRED).
Collaborazioni internazionali si sono sviluppate nel corso di attività in laboratori posti anche in siti oggetto di studio, come riportato nel “sourcebook” NEA [17]. Particolarmente interessante è l’attività del gruppo di lavoro ERDO (European Repository Development Organisation), che è stato istituito nel 2009 e che ha come obbiettivo quello di studiare la fattibilità della realizzazione di uno o più depositi geologici regionali europei. Al momento vi partecipano otto paesi europei, tra cui l’Italia, che comunque mantengono proficui contatti con altri paesi europei che hanno fatto la scelta di realizzare depositi geologici per il proprio esclusivo uso. Nell’ambito del summenzionato gruppo di lavoro risultano essere in discussione aspetti particolarmente interessanti e attuali quali [20]: • Caratterizzazione dei rifiuti provenienti da attività del passato; • Tipologie di rifiuti che potrebbero essere smaltiti in pozzi profondi (Borehole); • Esperienze, costi e meccanismi di finanziamento per la realizzazione di depositi regionali.
Gestione del combustibile in Italia In Italia, l’accumulo di combustibile esaurito nei reattori in esercizio costituì un problema rilevante fin dai primi anni di produzione di energia nucleare. In un primo momento si decise di ampliare le capacità di stoccaggio delle piscine di decadimento presenti presso gli impianti. Successivamente, nel 1981, venne realizzato anche un impianto di stoccaggio ad umido, adattando la piscina di un reattore di ricerca presso il sito di Saluggia (Deposito Avogadro). Nel 2002, con l’obbiettivo di migliorare la sistemazione del combustibile esaurito esistente presso gli impianti, anche a seguito dei nuovi eventi da considerare dopo l’attentato terroristico alle torri gemelle, l’allora Ministero delle Attività Produttive richiese, all’autorità di sicurezza, allora ANPA, una valutazione sulla soluzione integrata di cask in appositi box di calcestruzzo armato; il parere dell’ANPA fu che “tale sistemazione, tenuto conto della sua transitorietà, può essere realizzata nel rispetto delle norme di legge che disciplinano la materia e degli specifici criteri di sicurezza e di radioprotezione già definiti”; il previsto utilizzo di box rinforzati avrebbe conferito un livello di difesa aggiuntivo ai cask, anche in caso di eventi esterni quale l’impatto di un aereo. Tuttavia, questa soluzione non fu perseguita (Indirizzi strategici del Governo - Decreto Ministeriale del 2004), soprattutto a causa dell’opposizione delle comunità locali che non volevano che i siti degli impianti si trasformassero in depositi a lungo termine. Esclusa la possibilità di stoccare per tempi lunghi presso gli impianti il combustibile esaurito, l’Italia fece la scelta di far ritrattare il combustibile irraggiato all’estero (UK, Fr), cominciando ad utilizzare, di conseguenza, anche combustibili ad ossidi misti (U, Pu) negli impianti in funzione, disponendo del Plutonio derivato dal riprocessamento. Anche successivamente alla fermata degli impianti, si è deciso di inviare a trattamento il combustibile esaurito, sulla base di accordi che, comunque, prevedono il ritorno in Italia dei rifiuti generati. In particolare, 1.600 tonnellate di combustibile irraggiato italiano sono state riprocessate presso l’impianto di Sellafield in UK; circa 920 tonnellate sono relative a contratti anteriori al 1977, che non prevedevano il rientro in Italia dei rifiuti prodotti, mentre circa 680 tonnellate sono relative ai due
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contratti sottoscritti dall’ENEL dopo quella data: un contratto del 1979, per combustibile Magnox della centrale di Latina (573 tonnellate), e un contratto del 1980, per combustibile delle centrali di Trino e del Garigliano (rispettivamente 52 e 54 tonnellate circa). Il riprocessamento ha prodotto circa 5.500 metri cubi di rifiuti radioattivi e più precisamente meno di 20 metri cubi di rifiuti ad alta attività, circa 850 metri cubi di rifiuti a media attività e circa 4.630 metri cubi di rifiuti a bassa attività. Sono questi i volumi che dovrebbero rientrare in Italia dal Regno Unito poiché i contratti stipulati dal 1979 in poi prevedevano il rientro delle scorie. La rimanente parte di combustibile irraggiato (235 tonnellate) sarà (in parte è già stata), invece, ritrattata nell’ambito dell’accordo intergovernativo di Lucca del 24 novembre 2006 tra l’Italia e la Francia, che prevede 3 principali scadenze: il 31 dicembre 2015 come termine ultimo per la spedizione del combustibile italiano in Francia; il 31 dicembre 2018 per la definizione del programma definitivo di rientro dei residui in Italia; il 31 dicembre 2025 come termine ultimo per il completo rientro in Italia dei rifiuti provenienti dal riprocessamento [11]. Purtroppo, le suddette scadenze non
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sono state rispettate a causa delle incertezze legate alla realizzazione del deposito temporaneo per rifiuti ad alta attività da realizzare in Italia in base a quanto definito nel Programma Nazionale per la gestione del combustibile esaurito ed i rifiuti radioattivi. Questo è un problema rilevante, che deve essere tenuto ben presente nelle decisioni operative a livello nazionale. Nell’ambito dei contratti relativi al riprocessamento, da una audizione Parlamentare del 2016 risulta, tra l’altro, che vi era l’intenzione di procedere alla sostituzione e minimizzazione dei rifiuti a bassa e media attività prodotti con rifiuti vetrificati ad alta attività; per la cessione delle materie nucleari ricavate dal riprocessamento vi era l’intenzione di procedere ad una trattativa specifica, con vari operatori internazionali, finalizzata a minimizzare i costi per la cessione onerosa, onde destinare tali materie, nel rispetto dalla normativa internazionale vigente, esclusivamente ad impieghi di tipo civile [24]. Prospettive per i rifiuti a media e alta attività italiani I rifiuti a media e alta attività, che non sarà possibile smaltire nel deposito nazionale, saranno stoccati temporaneamente nel medesimo sito di detto
deposito per tempi dell’ordine dei 50 anni a partire dall’avvio del relativo esercizio. Lo stoccaggio temporaneo avrà luogo presso il Complesso Stoccaggio Alta attività (CSA) del Deposito Nazionale. Esso conterrà circa 17000 metri cubi di rifiuti solidi, di cui circa 400 saranno costituiti da combustibile non riprocessabile e dai residui vetrosi del riprocessamento all’estero del combustibile irraggiato [21]. In particolare, il combustibile sarà alloggiato in cask qualificati sia per il trasporto che per lo stoccaggio. Di recente è stata pubblicata la Guida Tecnica n. 30 dell’Ispettorato Nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (ISIN), che è dedicata ai depositi di stoccaggio temporaneo di rifiuti radioattivi e di combustibile irraggiato. La realizzazione del CSA dovrà tener conto dei criteri di sicurezza e di radioprotezione ivi indicati. Le tabelle in figura 12 e 13, tratte dal più recente inventario redatto dall’ISIN [22], riportano rispettivamente i volumi di rifiuti ad alta attività provenienti dal riprocessamento (figura 12) ed i
quantitativi di combustibile non ritrattabile proveniente dai reattori di ricerca (figura 13). Per lo smaltimento definitivo, il Programma Nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi (D.Lgs 45/2014) prevede quanto segue: “la soluzione che, attualmente a livello internazionale, raccoglie il maggior consenso degli specialisti è quella dello smaltimento in formazioni geologiche. Nel caso italiano, considerato che la quantità di rifiuti radioattivi ad alta attività (incluso il combustibile esaurito) da smaltire è modesta, la soluzione della realizzazione di un deposito geologico nel territorio nazionale è apparsa sovradimensionata, oltre che economicamente non percorribile. Pertanto, durante il periodo transitorio di permanenza dei rifiuti radioattivi ad alta attività nel Deposito nazionale, sarà individuata la più idonea soluzione di smaltimento degli stessi in un deposito geologico, tenendo conto anche delle opportunità offerte nel quadro dei possibili accordi internazionali che potranno concretizzarsi nel corso del suddetto periodo”.
Fig. 12 - Stima dei rifiuti radioattivi derivanti dal riprocessamento all’estero del combustibile nucleare esaurito (stime SO.G.I.N).
Fig. 13 - Combustibile irraggiato non ritrattabile da reattori di ricerca.
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La necessità di smaltire i rifiuti ad alta attività e parte dei rifiuti a media attività in formazioni geologiche è sancita anche dal Decreto Ministeriale del 7 agosto 2015, relativo alla classificazione dei rifiuti radioattivi. Come già evidenziato, l’Italia partecipa a gruppi di lavoro che hanno, tra l’altro, la finalità di esplorare la possibilità di realizzare un deposito di smaltimento regionale in località particolarmente idonee. Considerazione conclusiva È evidente la necessità di assicurare un particolare
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impulso alle attività volte a dare una prospettiva certa alla sistemazione dei rifiuti italiani che non sarà possibile smaltire nel deposito nazionale: l’esperienza insegna che i percorsi sono difficili ed il tempo passa. Un’altra tipologia di rifiuti problematica, esistente in Italia, è la grafite irraggiata, proveniente dall’impianto di Latina. Una prossima nota potrà essere dedicata ai problemi connessi con la gestione di quest’ultima tipologia di rifiuto radioattivo, per lo smaltimento della quale sono in corso approfondimenti in vari Paesi.
Note 1. 2. 3. 4. 5. 6.
La radiotossicità o “tossicità potenziale da radiazioni” è un indicatore di larga massima, spesso utilizzato nella gestione dei rifiuti radioattivi, basato sul rischio potenziale associato con l’esposizione interna [22]. Light Water Reactor Utilizzabile sia per lo stoccaggio che per il trasporto. Processo di frammentazione di un nucleo atomico con produzione di neutroni, in seguito a collisione con particelle di alta energia (es.: protoni). Le possibili formazioni geologiche sono di vario tipo. In Europa, ad esempio, nell’ambito del progetto LUCOEX risultano in corso studi per diverse tipologie di depositi posti in [17]: argilla opalina, argilla Calovo – Oxfordiana, roccia cristallina dura. Detto standard, nell’ambito della struttura gerarchica della regolamentazione IAEA, discende da principi e criteri fondamentali che sono applicati a tutte le attività nucleari.
Riferimenti 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25.
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ALCUNE PARTICOLARITA’ DELLE COSTRUZIONI CON STRUTTURA in LEGNO
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a cura di: Ing. Giuseppe Vadalà Commissione:
Ingegneria per le Costruzioni di Legno visto da:
Ing. Giuseppe Carluccio Ing. Diego Ruggeri
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Architettura: Renzo Piano Strutture: Ove Arup & Partners Località: Australia – Isola di Nuova Caledonia - Nouméa Materiale utilizzato: Legno Iroko Laminato e Incollato
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ABSTRACT Dopo un chiarimento semantico, passeremo ad esaminare alcune caratteristiche delle costruzioni in bioedilizia in legno, in particolare dal punto di vista dell’efficienza energetica e del comportamento al sisma, e naturalmente l’essere ecologica e salubre per chi vi abita. Cercheremo di sfatare la convinzione di molti che le costruzioni di legno sono più care, hanno problemi col fuoco e durano di meno nel tempo, dando peraltro problemi di manutenzione. Infine, chiediamo aiuto ai numeri per fare una fotografia del mercato e cerchiamo di capire sia la consistenza dell’edificato e come si evolve negli ultimi anni, sia da chi è costituita l’imprenditoria che opera in questo campo e che numeri fa. GENERALITA’ Ci sarà pure un motivo valido per cui un importante passaggio del Discorso sullo Stato dell’Unione del 16 settembre 2020 del Presidente Ursula von der Leyen riguardi le costruzioni con materiali di legno: “The second example are the buildings we live and work in Our buildings generate 40% of our emissions. They need to become less wasteful, less expensive and more sustainable. And we know that the construction sector can even be turned from a carbon source into a carbon sink, if organic building materials like wood and smart technologies like AI are applied. “
Nel presente articolo cercheremo di individuarne più d’uno. Nell’immaginario collettivo, quando parliamo di case in legno, facilmente cadiamo nell’errore di immaginare una casa del vecchio West o peggio lo chalet prefabbricato, poggiato sull’aia tra fiori e animali della fattoria. Nulla di più lontano dalla realtà; oggi in legno, o sarebbe più giusto dire “in bioedilizia con struttura portante di legno ingegnerizzato” si realizzano dalla villetta, mono-plurifamiliare, ai moderni edifici multipiano, ma sempre con altissimi livelli di prestazioni energetiche e di confort abitativo tanto che, perfino gli Istituti di Credito – se la realizzazione è eseguita da imprese certificate – concedono mutui a condizioni più favorevoli rispetto all’edilizia tradizionale. Perché? Essenzialmente per due motivi, il primo perché tali costruzioni hanno un maggior valore da subito e lo manterranno più alto nel tempo; l’altro che in un’abitazione in legno i consumi di energia sono molto più ridotti e dunque la capacità di pagare la rata del mutuo è facilitata. Chiarito questo concetto, non secondario, vediamo le caratteristiche insite in questo tipo di costruzioni di legno. CARATTERISTICHE DELLE COSTRUZIONI CON STRUTTURE DI LEGNO Le moderne tecniche costruttive, in Europa e anche in Italia, consentono di realizzare opere anche
Fig. 1: Esempio di casa monofamiliare in legno (concessione HUB legno Srl)
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Fig. 2: Esempio di edificio multipiano in legno (concessione HUB Legno Srl)
architettonicamente complesse, di qualsiasi design, e, se l’architettura non lo richiede, risulterà alla fine impossibile distinguere con quale materiale è realizzata la struttura, se in legno o con altre tecniche più diffuse, quali il latero cemento o l’acciaio. Di contro, una casa in legno è ecologica, nelle materie prime che la compongono e anche nelle tecniche di produzione e costruzione, perfettamente in linea con le richieste di una Certificazione LEED (il sistema statunitense di classificazione dell’efficienza energetica e dell’impronta ecologica degli edifici LEED, sviluppato dallo U.S. Green Building Council, fornisce un insieme di standard di misura per valutare le costruzioni ambientalmente sostenibili) in tutta la sua filiera e rispondente ai cosiddetti criteri ESG. Criteri, questi, che si utilizzano in ambito economico per analizzare un investimento non solo dal punto di vista puramente economico, ma anche negli aspetti di natura ambientale, sociale e di governance (ovviamente se scegliamo un’azienda adeguata); sempre maggiori investitori e stakeholder sono attenti al rispetto di questi principi, che vedono anche un interesse da parte della società, mai visto prima d’ora. Strettamente connesso è un altro aspetto che oggi, più che negli anni passati, fa riflettere: una
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abitazione in legno, grazie al suo microclima interno sempre stabile per temperatura e umidità e alla totale assenza di muffe e batteri – in genere presenti nelle zone umide e fredde a causa dei ponti termici – è di fatto più salubre e igienica per chi vi abita. Ma è soprattutto sul tema dell’efficienza energetica, che l’edilizia in legno ci dà i migliori risultati. Sappiamo che ogni paese membro ha recepito le Direttive Europee e definito criteri e requisiti per la realizzazione degli edifici ad energia quasi zero. Da gennaio 2021 è un parametro obbligatorio in Italia per tutti i nuovi edifici: dobbiamo progettare e realizzare edifici NZEB (Nearly Zero Energy Building), edifici ad elevata efficienza energetica. Gli edifici, infatti, sono ancora responsabili di un elevato dispendio energetico e di una grossa quantità di emissioni ed è per questo che il risparmio energetico, nel settore delle costruzioni, è considerato uno degli obiettivi primari per uno sviluppo sostenibile del comparto. Questo significa riqualificare gli edifici esistenti e costruirne di nuovi ad elevata efficienza. I principali consumi degli edifici, domestici, e non solo, sono imputabili al riscaldamento, al raffrescamento, alla produzione di acqua calda sanitaria, all’elettricità per illuminazione e ai dispositivi elettronici e alla ventilazione meccanica.
Un involucro realizzato per un edificio con struttura di legno consente risparmi sui costi di riscaldamento, di raffrescamento fino all’80% rispetto ad un involucro in tradizionale e con buone, mirate scelte impiantistiche si potrà aggiungere grossi risparmi per i consumi di acqua calda sanitaria e ventilazione meccanica. Probabilmente la cosa maggiormente nota, soprattutto tra professionisti, è poi che una struttura in legno abbia migliori caratteristiche di resistenza al sisma, potendosi peraltro progettare edifici con caratteristiche anche migliori rispetto a quanto richiesto dalle normative del luogo, affidando spesso alle ferramenta questo eventuale surplus delle azioni orizzontali. Peraltro, con terremoti di elevata intensità succede che i danni, spesso inevitabili, alle strutture accessorie – tamponamenti, intonaci, elementi vari di finitura – comportano per la riparazione costi elevati e spesso la necessità di uscire di casa; riparare edifici con strutture di legno dopo un sisma importante significa intervenire solo sulla ferramenta e ciò è sicuramente più rapido e meno oneroso. I COSTI DELLE COSTRUZIONI CON STRUTTURE DI LEGNO Tra i tecnici di settore, architetti, ingegneri,
imprenditori, è diffusa l’idea che costruire con il legno sia generalmente più costoso rispetto agli altri materiali più comunemente usati. Questo paradigma è da sfatare. In questa sede non riusciamo e non possiamo analizzare le varie tipologie e i loro corrispondenti costi di fornitura e messa in opera che, come ben noto, dipendono da vari fattori, geografici, di cantiere, di tipologia progettuale, di prestazioni e qualità di finiture richieste, ma possiamo affermare senza possibilità di essere smentiti, che, per un edificio, mono o pluripiano, di pari caratteristiche prestazionali, la fornitura in opera di una costruzione con struttura di legno non costa di più di una realizzata con gli altri materiali. Tuttavia, a parità di costo “base”, abbiamo una serie di risparmi spesso non adeguatamente considerati, che vanno presi in considerazione. Intanto trattasi di strutture complessivamente più leggere e dunque sulla realizzazione delle fondazioni (queste sì realizzate sempre in calcestruzzo armato fino al livello zero) avremo dei risparmi più o meno grandi a seconda della loro tipologia e della geotecnica. Dei vantaggi in termini economici dei costi di gestione abbiamo già parlato e non ci ripetiamo. Ma il risparmio sicuramente di maggior rilievo è rappresentato dai tempi di realizzazione. Per realizzare una costruzione in legno occorre mediamente un terzo dei tempi occorrenti per una realizzazione tradizionale. Ciò significa che, se tra armo, fornitura e posa in opera, maturazione del cls e disarmo, avremo impiegato mediamente 30 giorni a piano, un fabbricato di 6 piani sarà completato circa in 6 mesi. Parallelamente l’edificio di 6 piani con struttura di legno verrà invece realizzato in 60 giorni, un mese e mezzo. È facile fare i conti risultanti. Intanto i costi fissi di cantiere saranno conseguenzialmente ridotti di 2/3. Poi gli esborsi finanziari – mutuo, eventuali occupazioni pubbliche, anticipazione oneri comunali, noli vari – incideranno proporzionalmente meno, essendo funzione del tempo. Infine, se stiamo realizzando per vendere, siamo in grado di essere sul mercato molto prima o, se abbiamo prevenduto, riusciamo a incassare i 2/3 prima.
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In conclusione, se pure poniamo per semplicità pari i costi di realizzazione (ma vanno approfonditi i diversi casi) abbiamo sicuramente dei vantaggi non trascurabili, innanzitutto i tempi di realizzazione molto più bassi, che si traducono tutti in un minor costo finale, e questo vale per tutte le opere da realizzarsi con il legno strutturale ingegnerizzato. ALCUNE ULTERIORI CONSIDERAZIONI
Fig. 3
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Di contro, nella pubblica opinione, ma in parte anche tra gli addetti ai lavori, esistono dei concetti radicati, che spesso nascono dalla cattiva informazione e/o scarso approfondimento. Ci riferiamo alla resistenza al fuoco e alla durata nel tempo, nonché necessità di elevata manutenzione. È noto che il legno sia un materiale combustibile, l’ignizione avviene a temperatura relativamente bassa, circa 220÷280 gradi; la facilità d’ignizione dipende principalmente dall’umidità del legno e dallo spessore. Questo però non significa che le strutture di legno non possiedano resistenza al fuoco e che siano più vulnerabili rispetto alle strutture di acciaio o di calcestruzzo armato specie se precompresso. Va detto che raramente le strutture di legno contribuiscono in modo sostanziale ad alimentare un incendio, ma anzi ne subiscono più spesso le conseguenze, manifestando al riguardo un comportamento almeno non peggiore se non addirittura migliore rispetto a strutture realizzate con altri materiali. A riprova analizziamo gli aspetti salienti del comportamento di un elemento strutturale di legno soggetto ad incendio: • il legno brucia lentamente e la carbonizzazione procede dall’esterno verso l’interno della sezione; • il legno non ancora carbonizzato rimane, entro certi limiti, efficiente dal punto di vista meccanico anche se la sua temperatura è aumentata; la parte più interna della sezione, in virtù del buon comportamento isolante del legno, rimane a bassa temperatura per molto tempo; • la rottura meccanica dell’elemento avviene quando la parte della sezione non ancora carbonizzata è talmente ridotta da non riuscire più ad assolvere alla sua funzione portante. Pertanto, la perdita di efficienza di una struttura di legno avviene per riduzione della sezione e non per decadimento delle caratteristiche meccaniche. Il processo di carbonizzazione può portare alla
rottura dell’elemento strutturale in un tempo compreso fra alcuni minuti primi e alcune ore, ciò in dipendenza della specie legnosa ma soprattutto delle dimensioni originarie della sezione. Se poi si confronta il comportamento del legno con quello di altri materiali da costruzione più tradizionalmente utilizzati nel nostro paese, verso i quali normalmente non c’è alcun pregiudizio rispetto alla loro resistenza nei confronti dell’incendio, non essendo materiali combustibili, si capisce ancora meglio perché il legno non parta svantaggiato, ma anzi al contrario dell’opinione comunemente diffusa possa essere considerato addirittura preferibile: • gli elementi strutturali di acciaio non bruciano, ma il materiale subisce un rapido decadimento delle caratteristiche meccaniche (resistenza e rigidezza) in funzione della temperatura; essendo l’acciaio un buon conduttore di calore, la temperatura sale rapidamente in tutta la sezione; • nelle costruzioni di calcestruzzo armato la resistenza al fuoco è determinata dallo spessore del rivestimento delle armature metalliche (copriferro), che rallenta l’aumento di temperatura nell’acciaio; • nelle strutture di legno i punti deboli sono le unioni, che presentano elementi metallici a vista, come scarpe, piastre, ecc.; queste, se
non protette, sono le prime a cedere durante l’incendio. La durabilità, infine, è strettamente legata con la natura del materiale che è biodegradabile, questo però non significa che le strutture di legno siano meno durevoli di quelle costruite utilizzando altri materiali; esistono esempi di costruzioni in legno che hanno superato i mille anni, basta alzare gli occhi nelle nostre chiese antiche per vedere coperture di legno che, se sono state preservate dall’umidità, sono in perfetto stato di conservazione da centinaia di anni. Occorre, dalla fase di progettazione dell’opera, progettare bene durabilità e manutenzione. A partire dal DM 14/01/2008 “Norme Tecniche per le Costruzioni” e per la prima volta in Italia vengono dedicati tre capitoli relativi alla progettazione di strutture di legno: • il cap. 4.4 “Costruzioni di legno” all’interno del Capitolo 4 “Costruzioni civili e industriali”; • il cap. 7.7 “Costruzioni di legno” all’interno del Capitolo 7 “Progettazione per azioni sismiche”; • il cap. 11.7 “Materiali e prodotti a base di legno” all’interno del Capitolo 11 “Materiali e prodotti per uso strutturale”. È molto chiaro nei riguardi della progettazione della durabilità.
Fig. 4
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Fig. 5: Tratto dal “5° Rapporto Case ed Edifici in legno” realizzato da Assolegno-Associazione di FederlegnoArredo
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Si riportano alcuni passi: Specifica, ad esempio che la durabilità “è intesa come il numero di anni nel quale la struttura, purché soggetta alla manutenzione ordinaria, deve potere essere usata per lo scopo al quale è destinata, opere provvisorie ≥10 anni, opere ordinarie ≥50 anni, grandi opere ≥100 anni. Cioè bisogna assicurare che con la sola manutenzione ordinaria l’opera duri per la vita nominale di progetto. Durante la vita nominale l’opera non dovrebbe avere bisogno di manutenzione straordinaria. La protezione contro il degrado deve essere ottenuta attraverso una opportuna scelta dei dettagli, dei materiali e delle dimensioni strutturali, con l’eventuale applicazione di sostanze o ricoprimenti protettivi, nonché l’adozione di altre misure di protezione attiva o passiva. È chiaro che ciò ci riporta alla fase di progettazione; è indispensabile una buona progettazione: occorre progettare la durabilità e il Progettista è anche il primo responsabile della durabilità dell’opera. I particolari costruttivi, infatti, se ben progettati conferiscono durabilità all’opera e, nel contempo, come tutte le costruzioni, quindi anche in cls armato e acciaio, provvedere alla manutenzione, scegliere la specie legnosa più idonea, lasciare la possibilità agli elementi lignei di rimanere in campo elastico, evitare di trasformare le connessioni fra i diversi elementi da cerniere ad incastri, utilizzare sistemi di giunzione non troppo rigidi, sono tutte accortezze, indispensabili che ci riportano alle buone regole del Progettare e del Costruire, ma con gli altri materiali da costruzione, non accade la stessa cosa?
progressiva crescita del comparto industriale rappresentato all’interno della filiera da Assolegno, associazione che promuove la tipologia costruttiva in legno evidenziandone le peculiarità e collabora con tutti gli organi di competenza, nazionali ed europei, fra centri di ricerca, Istituzioni e mondo universitario. Pubblicato nel dicembre 2020, con riferimento ai dati 2019, prende in considerazione 1.35 miliardi di euro di produzione globale in legno (compreso grandi strutture, coperture, tetti, pareti, portici, solai, arredo da giardino e case mobili) con un incremento del 2,3% rispetto all’anno precedente; 3.154 edifici realizzati per una produzione di 740 milioni di euro e un incremento dello 0,3%; 3.300 unità realizzate e un incremento del 2,2% rispetto al 2018; la quota dei permessi di costruire tocca quota 7% sul totale. Il mercato complessivo è quello degli investimenti in edilizia residenziale Italia. Nella figura 6 si vede come attualmente i maggiori volumi si hanno nelle manutenzioni straordinarie, dopo l’inversione della “forbice” nel 2009. Si è iniziato a intravvedere nel 2016 una ripresa dei permessi a costruire dopo 6 anni di cali costanti e, purtroppo, prima della nuova inversione del 2020 dovuta alla pandemia da Covid-19, di cui ancora non disponiamo dei dati consuntivi (Figura 6). Le aziende esaminate sono state 219, prevalentemente di medie dimensioni specializzate, cui si affiancano operatori di piccole dimensioni o imprese che realizzano anche edifici in legno. Le prime 10 fanno circa il 40% del fatturato globale, le rimanenti 209 coprono il restante 60% (Figura 7).
IL PUNTO SUL MERCATO DELLE COSTRUZIONI IN LEGNO Prima di chiudere ci pare utile analizzare una fotografia del mercato di riferimento e lo facciamo attraverso i dati pubblicati nel “5° Rapporto Case ed Edifici in legno” realizzato da Assolegno – Associazione di FederlegnoArredo, che rappresenta le industrie di prima lavorazione e costruttori in legno – e fotografa l’andamento del settore delle costruzioni in legno nel 2019. Il “Rapporto Case ed Edifici in legno”, realizzato dal Centro Studi di FederlegnoArredo, rappresenta un osservatorio permanente sul mercato dell’edilizia green. Si basa sull’elaborazione dei dati forniti dai principali player del settore ed evidenzia una
Fig. 6: Tratto dal “5° Rapporto Case ed Edifici in legno” realizzato da Assolegno- Associazione di FederlegnoArredo
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CONCLUSIONI
Fig. 7-8: Tratto dal “5° Rapporto Case ed Edifici in legno” realizzato da Assolegno- Associazione di FederlegnoArredo
La distribuzione degli edifici e delle abitazioni per classe dimensionale vede la prevalenza delle imprese di grandi dimensioni che da sole costituiscono il 40% degli edifici. Le Imprese che realizzano tra 1 e 5 milioni di euro hanno una quota del 36% di edifici e sono le più dinamiche (Figura 8). Il valore medio per abitazione delle imprese dell’indagine è di circa 240 mila euro e in media le abitazioni sono 1,1 per edificio e quindi si tratta per lo più di edifici mono/bi familiari. L’analisi della localizzazione delle Imprese esaminate vede una concentrazione geografica degli operatori tra Lombardia, Trentino-Alto Adige e Veneto, che insieme rappresentano il 55% del totale. Sotto il profilo del numero di edifici realizzati, la distribuzione conferma la vocazione per la bioedilizia del Trentino-Alto Adige dove si realizzano il 21% delle case in legno prodotte dalle imprese esaminate. Seconde, a pari merito, Lombardia e Veneto con il 16%, poi Marche, Emilia-Romagna e Piemonte (Figura 9). I nuovi edifici in legno realizzati nel 2019 sono pari a 3.154 e corrispondono a 3.276 abitazioni. Considerando il numero di abitazioni in legno sul totale delle nuove abitazioni costruite, 1 su 14 è realizzata in bioedilizia con struttura lignea, corrispondente ad una quota del 7,1% del totale.
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Il legno strutturale, il più antico materiale da costruzione utilizzato dall’uomo per la propria casa, solo recentemente, con lo sviluppo della progettazione, di nuove tecniche costruttive, nonché l’approfondimento dell’analisi strutturale e della resistenza alla combustione, ha consentito di riappropriarsi delle innumerevoli possibilità architettoniche, della straordinaria natura estetica e della totale compatibilità con i criteri dello sviluppo sostenibile che una struttura in legno può offrire. Possiede vantaggi indiscussi in termini di prestazioni – energetiche, antisismiche, di salubrità degli ambienti – ed anche il costo complessivo è vantaggioso poiché consente un importante risparmio temporale nella edificazione e minori pesi in fondazione, il tutto a parità o con migliori caratteristiche qualitative prestazionali. Non risente poi di un peggior comportamento al fuoco e ha durabilità almeno confrontabile agli altri materiali da costruzione quali calcestruzzi e acciaio, se ben manutenuto. Quanto sopra sembra però essere smentito dai numeri poiché in Italia solo 1 abitazione su 14 viene realizzata in bioedilizia in legno, cioè poco più del 7%.
Fig. 9: Tratto dal “5° Rapporto Case ed Edifici in legno” realizzato da Assolegno- Associazione di FederlegnoArredo
a cura di: Ing. Angelo Pignatelli Commissione:
Fotovoltaico revisione testi:
Ing. Giulio De Simone
STORIA ED EVOLUZIONE DELLA MANUTENZIONE DEGLI IMPIANTI1 “Le attività di manutenzione non pretendono di trasformare il mondo, i loro obiettivi non sono esprimibili in modo semplice, non hanno il fascino mozzafiato di attività che producono oggetti con prestazioni elevatissime, vanno continuamente e periodicamente ripetute, se hanno successo il loro effetto non si vede”.2 Forse il loro effetto non è sempre immediatamente visibile, ma certamente è sostanziale per il mantenimento del valore e per assicurare il corretto e continuo funzionamento di ogni cosa nel mondo. Purtroppo, l’effetto della loro assenza o non corretta gestione sarà nel tempo incresciosamente ben visibile. L’attività di manutenzione è tra le più antiche, che possiamo far risalire alla cura dei primi rudimentali attrezzi e armi dell’uomo primitivo, ma forse proprio per questo, per la sua natura artigiana ed esperienziale, solo in tempi recenti ha assunto una connotazione e strutturato delle metodologie proprie di una scienza. Dopo la prima formulazione della definizione di
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manutenzione da parte dell’OCSE nel 1963, nel 1970 la British Standard Institution ha coniato il termine terotecnologia per questa “nuova” area del sapere, dalle parole greche “teros” (che significa conservare, aver cura, proteggere), “téchne” (che significa arte o perizia operativa, saper fare) e “logos” (che significa studio, spiegazione, ragionamento, discorso), che è possibile quindi sinteticamente identificare come scienza o tecnologia della manutenzione o, più ampiamente, della conservazione. Di seguito la definizione del BSI: “La terotecnologia è una combinazione di direzione, finanza, ingegneria e altre discipline, applicate ai beni fisici per perseguire un economico costo del ciclo di vita a esse relativo. Tale obiettivo è ottenuto con il progetto e l’applicazione della disponibilità e della manutenibilità agli impianti, alle macchine, alle attrezzature, ai fabbricati e alle strutture in genere, considerando la loro progettazione, installazione, manutenzione, miglioramento, rimpiazzo con tutti i conseguenti ritorni di informazioni sulla progettazione, le prestazioni e i costi”.
In Italia è del 1991 (UNI 9910) la prima definizione di manutenzione, quindi in tempi relativamente recenti. Eppure la manutenzione, come pratica ricca di contenuti tecnici ed esperienziali, anche codificata in processi operativi strutturati, è presente in ambiti specifici ben prima dell’industrializzazione moderna, in primo luogo nella Marina, che ha tradizioni storiche antichissime e importanti. Addirittura, già nell’Odissea di Omero, nel Libro VI.371-376 (traduzione di Niccolò Delvinotti) si trova: “Là s’intende apprestar gomene e vele / E gli altri arnesi delle navi brune; / Là remi a ripulir, ché già i Feaci / Non prendon cura d’archi e di faretre; / Ma d’alberi, di remi e d’alte navi / Su cui varcano lieti il mar spumante”. Lo stato di efficienza di una nave dipendeva quindi da un lavoro compiuto a terra, in cantiere prima di salpare, frutto di marinai artigiani che di fatto erano intenti in attività di manutenzione, capitalizzando l’esperienza trasferita il più delle volte verbalmente. In molti popoli antichi (Egitto, Siria, Fenicia, Assiria e Babilonia, Creta e Micene, Grecia, Cartagine, Roma, Bretagna, ecc.) era presente una ricca abilità cantieristica marinara, associata a una relativa perizia manutentiva. Tale tradizione è continuata, in ambito mercantile come in quello militare, nel Medioevo e fino ai nostri giorni, dove l’uso di strumentazione e motori moderni ne hanno consolidato le metodologie, con la strutturazione di processi e procedure in forma più ingegneristica. Anche se non in maniera così codificata e visibile come nell’arte marinara, attività miranti a preservare la piena funzionalità nel tempo di qualsiasi oggetto o struttura (strumenti, utensili, ma anche abitazioni, fortificazioni, armi, ecc.) fanno parte integrante delle azioni quotidianamente operate in tutte le epoche, in tutti i luoghi. Anzi, si può affermare che solo nell’ultimo cinquantennio della storia umana si è andata un po’ perdendo la secolare attenzione alla preservazione degli oggetti, per effetto della produzione di massa e dell’economia di mercato, a favore della sostituzione dei prodotti (anche se in questi ultimi anni si sta assistendo a un recupero di una “cultura della manutenzione”). Ma se da un lato l’esternalità della rivoluzione industriale è stata una progressiva disattenzione alla cura della conservazione, a livello del singolo utilizzatore del bene, nello stesso tempo ha di fatto creato un nuovo bisogno di mantenimento in stato
di efficienza degli impianti di produzione, ponendo le basi per il concetto moderno e organizzato di manutenzione. Con l’avvento della prima rivoluzione industriale, sulla base delle teorie dello studioso scozzese Adam Smith (1723-1790), e con l’introduzione di innovazioni quali il telaio con spoletta volante e la macchina a vapore di Watt (1769), si sono poste le basi per l’evoluzione da una società principalmente agricola, artigianale e commerciale, a una società industriale, con lo sviluppo della produzione tessile e dei trasporti (con il treno e le navi a vapore, alimentate dal carbone). In questo contesto storico e sociale nasce la figura del macchinista, che a bordo della locomotiva o del battello a vapore, ne curava la manutenzione (verificando il livello dell’olio per la lubrificazione delle parti mobili, ed eseguendo gli interventi di riparazione per piccoli guasti). Lo sviluppo della seconda rivoluzione industriale ebbe luogo con l’introduzione di innovazioni quali la produzione e l’utilizzo dell’energia elettrica, grazie anche all’apporto di Nikola Tesla (1856-1943) precursore della corrente alternata (con il suo articolo A new system of alternating current motors and transformers pubblicato in AIEE del 1888), lo sviluppo della chimica nella evoluzione di molti processi produttivi e la scoperta dei nuovi materiali plastici (tra i quali la bachelite nel 1907 da Leo Baekeland, il PVC nel 1912 da Fritz Klatte, il polipropilene nel 1954 da Giulio Natta), l’introduzione del motore a combustione interna (con il primo motore a quattro tempi di Nikolaus Otto nel 1876), e i primi progressi nelle telecomunicazioni (il telegrafo elettrico di Samuel Morse del 1837, e il radiotelegrafo di Guglielmo Marconi nel 1895). Con il conseguente sviluppo esponenziale di impianti di produzione (manifatturieri, di industria pesante, di produzione idro/termo-elettrica, ecc.) in tutti i Paesi poi definiti industrializzati, e la strutturazione verticale delle relative organizzazioni interne, vengono a crearsi forme di specializzazione spinta di profili di manutentori come: aggiustatori da banco, carpentieri, meccanici specialistici, elettricisti, falegnami, vetrai, carrozzieri, carpentieri, lattonieri, tubisti, saldatori, muratori, ecc. Tale spinta alla specializzazione è resa ancora più estrema con il diffondersi delle teorie di Frederick Taylor (1856-1915) sull’organizzazione scientifica
del lavoro (nel suo The principles of scientific management del 1911), che verte sulla razionalizzazione del ciclo produttivo (taylorismo, o produzione di massa), mediante l’individuazione della one best way e la specializzazione spinta delle attività, riducendole a unità che siano facilmente ripetibili e di durata minima, nota e misurabile. È significativo che, nella sua strutturazione ideale organizzativa, uno degli otto capi funzionali fosse un addetto alla manutenzione. I primi ad applicare proficuamente i principi di Taylor furono Henry Ford, della omonima Ford Motor Company, e Alfred Sloan, della General Motors, che introducono la “catena di montaggio” nel processo produttivo di pochi modelli standardizzati di automobili. Tale ingegnerizzazione del processo produttivo ha contemporaneamente posto le basi per la correlata ingegneria della manutenzione, in quanto la conseguente uniformità nella realizzazione e nell’assemblaggio dei pezzi ha favorito la creazione di informazioni note e valide per guidare il processo di analisi dei problemi a monte dei guasti.
La creazione conseguente di forti specializzazioni (diverse decine per la stessa linea di produzione) ha contemporaneamente favorito una segmentazione organizzativa, una scarsa visione sistemica e difficoltà di coordinamento trasversale, quindi la presenza di inefficienze strutturali. Una evoluzione (o meglio rivoluzione) del modello organizzativo e processivo è rappresentata dalla “produzione snella” (dall’inglese lean production, termine coniato dagli autori Womack e Jones in La macchina che ha cambiato il mondo), attuata dagli ingegneri Eiji Toyoda e Taiichi Ohno dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso nella Toyota Motor Company. I metodi raggiunti dalla Toyota (definiti poi TPS - Toyota Production System) hanno permesso di raggiungere risultati qualitativamente più elevati, più rapidi e a minor costo. Gli elementi processivi e organizzativi che si differenziano dalla produzione di massa sono: • minimizzazione degli sprechi concentrandosi solo sulle attività che portano valore; • limitazione fino all’annullamento delle giacenze; • minimizzazione dei tempi di setup delle macchine; • processi produttivi guidati dalla domanda;
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•
minimizzazione degli spostamenti di materiali, pre-lavorati, e personale; • organizzazione per progetto piuttosto che per funzioni verticali, con leadership forte al capoprogetto; • creazione di rete di imprese con i fornitori; • forte motivazione del personale sviluppando senso di appartenenza e riconoscimento dei risultati; • flessibilità nel cambio di mansione operativa; • coinvolgimento del personale di produzione nella manutenzione e nel miglioramento continuo di prodotto e di processo (kaizen). Questo modello ha favorito lo sviluppo di figure professionali polivalenti, l’integrazione tra le funzioni di produzione e di manutenzione, la responsabilizzazione dell’operatore come parte attiva nel monitoraggio dello stato di efficienza dei mezzi produttivi, il suo coinvolgimento costante per l’individuazione di piccole migliorie, lo sviluppo di una ingegneria della manutenzione, che finalmente interviene e ha ragione d’essere non solo in concomitanza di un guasto, né solo nella fase di esercizio del bene, ma anche nelle sue fasi di produzione e progettazione (TPM - Total Productive Maintenance). Questo modello ovviamente è nato ed è ben
applicabile in contesti centralizzati (quali un impianto di produzione manifatturiera, o una centrale elettrica a fonti convenzionali), e non è immediatamente e completamente applicabile nel caso di impianti distribuiti sul territorio, di diversa dimensione (anche di tre ordini di grandezza), caratteristiche proprie, ad esempio, degli impianti fotovoltaici ed eolici. Lo sviluppo della terza rivoluzione industriale ha avuto luogo di recente con l’avvento dell’automazione industriale nei processi produttivi, e soprattutto con la distribuzione capillare e interconnessa della potenza di calcolo in ogni luogo, grazie all’introduzione di microprocessori sempre più miniaturizzati e potenti (identificando il processore Intel 8088 del 1979 come uno dei momenti miliari), dei personal computer (esempi l’Apple II di Steve Jobs e Steve Wozniak del 1977, e il primo PC IBM del 1981), dei sistemi operativi a interfaccia grafica (presente nel primo Macintosh della Apple nel 1984), della rete internet (ideazione e sviluppo, da parte di Vint Cerf e Robert Kahn, del protocollo TCP/IP dal 1973, e i primi browser come il WorldWideWeb della NeXT nel 1991, il Mosaic di Marc Andreessen della NCSA nel 1993, il Navigator della Netscape Communications nel 1994), dei
motori di ricerca (Altavista della Digital Equipment Corporation nel 1995, e Google di Larry Page e Sergey Brin nel 1998) e degli smartphone evoluti (con i sistemi operativi iOS della Apple dal 2007, e Android di Google dal 2008). La presenza di un’elevata capacità di calcolo pressochè ovunque, potenzialmente dotata di intelligenza artificiale e un sistema esperto (tramite le applicazioni), e soprattutto interconnessa a ogni altra nel mondo in tempo reale (tramite internet), con tempo di trasferimento delle informazioni quasi istantaneo (grazie anche al potenziamento delle reti dati), ha di fatto modificato ogni processo B2C (business to consumer) e B2B (business to business), velocizzando le transazioni, riducendo drasticamente la necessità di enti intermediari nel processo end-toend, automatizzando ogni procedura con modello noto e rappresentabile logicamente, limitando la necessità di intervento umano per le attività di più alto livello che non possono essere automatizzate; contemporaneamente, come già avvenuto nelle precedenti rivoluzioni industriali, ha modificato il modo di vivere sociale, e creato nuovi bisogni e opportunità di business, con la necessità di nuovi profili professionali, in grado di gestire la nuova tecnologia, ma anche di manutenerla.
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Con la progressiva integrazione di sistemi meccanici, elettrici ed elettronici nei prodotti di consumo, come anche negli impianti di produzione, si sono resi necessari una competenza più polivalente nella figura del manutentore, come anche un uso efficiente dei mezzi di comunicazione, l’implementazione di processi performanti e il dispiegamento di un’organizzazione adeguata. Prima dell’attuale rivoluzione energetica oggi in corso, la rivoluzione informatica ha dovuto affrontare nuove configurazioni logistiche e organizzative, quindi definire un modello di servizio in grado di gestire un parco di computer che, oltre che essere centralizzato nei data center (server), è anche distribuito capillarmente in tutti gli uffici (personal computer), consolidando uno standard di good practice per la gestione dei servizi: ITIL (IT Infrastructure Library), la cui prima versione è stata pubblicata nel 1995 dal HMSO (Her Majesty’s Stationery Office) per conto della CCTA (Central Communications and Telecommunications Agency, ora sostituita dal Cabinet Office), mentre l’ultima versione, ITIL V4, è stata aggiornata nel 2019. Gli elementi rilevanti di
questo modello (che rappresenta la prima teorizzazione importante di una gestione e manutenzione di oggetti distribuiti) sono: • la definizione di un primo livello più alto di organizzazione, ove è concordato il livello di servizio atteso, e sono definiti il modello organizzativo e quello di servizio; • un singolo punto di raccolta centralizzato (SPOC - single point of contact, anche Service desk) delle richieste e dei guasti (anche rilevati da un sistema di monitoraggio), con un primo tentativo di risoluzione da remoto, l’apertura di ticket nel sistema informatico nel sistema di gestione dei flussi operativi (WMS - workflow management system), per l’avvio di un intervento locale da parte del personale preposto (FSM - field service management); • un sistema informatico che raccoglie tutti i dati di asset, continuamente aggiornato; • un processo di puntuale reportistica: interno per la valutazione delle performance, esterno per fornire al cliente un cruscotto dell’andamento del servizio.
Figura 1 - Manutenzione Ordinaria per impianto FV - flussi operativi.
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Oggi è in corso la quarta rivoluzione industriale, con lo sviluppo a livello mondiale di impianti di generazione elettrica distribuita, alimentati da fonti rinnovabili. Diversamente dalle precedenti, questa volta il driver originario non è stato l’introduzione di una innovazione tecnologica, bensì la consapevolezza dell’esistenza di un rischio con impatto drammatico ed esteso. Possiamo identificare come pietre miliari di questo processo il primo rapporto del IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change) sui cambiamenti climatici del 1995 (in cui per la prima volta vengono identificati i cambiamenti climatici in atto, le cause antropiche, e le strategie di contenimento), e il Protocollo di Kyoto del 1997 (trattato sottoscritto da oltre 160 Paesi per un impegno alla riduzione di emissione dei “gas serra”, considerata la prima causa del surriscaldamento globale). Da allora, anche grazie a incentivi o agevolazioni statali, in maniera non omogenea né costante, e a un sopraggiunto vantaggio competitivo su alcuni mercati, si è assistito allo sviluppo esponenziale di impianti di produzione elettrica da fonti rinnovabili, in primo luogo
fotovoltaici ed eolici. Lo sviluppo è tuttora in corso e, come già avvenuto nelle precedenti rivoluzioni industriali, sta determinando un ripensamento del modello economico e sociale (la “democratizzazione” della produzione energetica, come già avvenuto per l’informazione con internet, l’attenzione all’ambiente e alla qualità della vita piuttosto che esclusivamente al profitto, la ricerca dell’efficienza e della minimizzazione dei consumi di ogni genere: termici, elettrici, di packaging e trasporto dei prodotti, ecc.). La strutturale connotazione distribuita pone quindi l’esigenza di evolvere verso un modello organizzativo della manutenzione non più pensato per grandi impianti centralizzati, come nella sua concezione originale nella prima e seconda rivoluzione industriale, ma integrato e adattato alle esigenze dello specifico contesto, a livello organizzativo simile al modello ITIL sviluppato per i sistemi informatici nella terza rivoluzione industriale. L’evoluzione delle strategie manutentive ha quindi sempre seguito le evoluzioni tecnologiche radicali. Il più importante risultato degli ultimi decenni, in
Figura 2 - Operation & Maintenance FV.
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tutti i settori, è l’aver incluso nelle fasi iniziali non solo la progettazione dell’impianto, ma anche dei suoi processi manutentivi, con la consapevolezza
della primaria importanza per preservane il corretto funzionamento in esercizio.
NOTE 1. 2.
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Articolo liberamente rielaborato dall’autore, dal libro “Gestione e manutenzione degli impianti fotovoltaici” edito da Maggioli nel 2015. Pier Giorgio Perotto, ingegnere e informatico italiano, 1930 - 2002, inventore della prima macchina calcolatrice programmabile, la Olivetti Programma 101 del 1964.
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Figura 3
Figura 4
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FOCUS
Coltivare sulla Luna a cura di: Ing. Giorgia Pontetti CEO Ferrari Farm e G&A Engineering La Repubblica del 28/05/2021
Nella sua azienda (Ferrari Farm) l’Ing. Giorgia Pontetti progetta le macchine di dopodomani, dalla stampante 3D per cibi salutari alle serre idroponiche sterili. E anche orti verticali per separare i tavoli dei ristoranti.
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Figura 1 - Coltivazione in idroponica sterile
Intervista: “Il mio sogno, da bambina, era poter coltivare sulla Luna. Il sogno è rimasto quello, ma oggi so che diventerà realtà”. Giorgia Pontetti è una delle eccellenze italiane che hanno scelto di restare nel nostro Paese. Ingegnere elettronico e astronautico, con una passione per il futuro, che non si traduce in robot e intelligenza artificiale (non solo) ma nell’immaginazione avveniristica e appassionata di come la tecnologia possa aiutare l’agricoltura, l’alimentazione e il domani di noi tutti. “Coltivare sulla Luna può sembrare un ossimoro, un’esagerazione, un sogno inutile. Ma se possiamo coltivare sulla Luna, su una roccia, allora possiamo tornare a coltivare anche nelle zone con una terra povera. Risolvere problemi fin troppo vicini, come la desertificazione”. La tecnologia agroalimentare di Giorgia è quanto di più lontano si possa pensare rispetto
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a OGM, eccessi chimici e depauperazione del suolo. “Per me utilizzare bene la tecnologia in questo campo significa essere capaci di vedere che in questo modo si potrebbe evitare che milioni di bambini in Africa muoiano di fame. Con un container Vertical Farm di sei metri, possiamo sfamare 600 persone. Fornendo ogni giorno anche solo un’insalata ad alto potere nutritivo, potremmo quantomeno combattere la malnutrizione, se non la fame in sé stessa”. I container di cui parla Giorgia sono stati ideati all’interno della G&A Engineering, l’azienda con cui si occupa di ricerca e sviluppo con contratti con lo Stato italiano e soprattutto con l’Agenzia Spaziale Italiana, e funzionano grazie a una tipologia di coltivazione idroponica sterile, di sua invenzione. “L’assoluta sterilità è la chiave di tutto. Le piante crescono all’interno delle nostre serre, o dei container, in cui attraverso un computer noi impo-
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stiamo la qualità dell’acqua, del clima e del suolo migliori per quella determinata pianta. Così se il pomodorino del piennolo dovesse un giorno rischiare l’estinzione, noi potremmo continuare a coltivarlo. La tecnologia utilizzata non come alienazione del gusto e della identità, ma come ultima ratio per andare a colmare il gap tra la salute del pianeta, e quindi la nostra alimentazione, e lo stato attuale delle cose”. Della sua gioventù Giorgia si porta dietro la grandissima energia e lo spirito tradizionalmente indomito di chi sogna di volare tra le stelle, la capacità di guardare oltre. Di cercare un modo di farcela, lì dove solitamente si vedono ostacoli o difficoltà insormontabili. Come la difficoltà a deglutire tipica di alcune patologie, le difficoltà nutrizionali dei più giovani, la scarsissima qualità nutritiva dei prodotti pronti che solitamente si consumano in ufficio o a scuola. “Una delle sfide a cui sto lavorando attualmente è l’ideazione di una stampante 3D che possa funzionare con inchiostro alimentare. Attualmente queste tipologie di procedimento produttivo sono utilizzate solo per motivi scenografici mentre il nostro progetto di ricerca, con partner scientifico e anche commerciale, punta invece a realizzare prodotti con alto valore nutritivo per un utilizzo non solo industriale, ma anche casalingo o privato, da posizionare nelle scuole e negli uffici al posto dei classici distributori automatici, che solitamente contengono merendine e snack di bassa qualità”. La ricerca è già in uno
Figura 2 - La Ferrari Farm di Giorgia Pontetti, dove viene attuata l’idroponica in condizioni sterili
stato avanzato, il prototipo della stampante è già stato costruito e il focus attuale sembra arrivare da un film di fantascienza: “Utilizzando scarti alimentari pregiati, come per esempio i semi della frutta, stiamo cercando di creare l’inchiostro alimentare definitivo, partendo da ingredienti come la gelatina biologica interamente vegetale che già viene utilizzata per molti altri tipi di inchiostri”. Un impegno importante per un risultato ben preciso: “Realizzare dei cibi che riescano a mantenersi in una forma solida autonomamente, in modo da poter poi essere utilizzati come un qualsiasi snack. Una delle forme su cui lavoriamo di più è quella delle barrette, magari da dare a scuola ai ragazzi al posto delle merendine industriali preconfezionate, ma non ci fermiamo qui. Sarà un aiuto importante per l’alimentazione dei disfasici, ovvero quelle persone con patologie che gli impediscono di deglutire normal-
mente: con le stampanti 3D di nuova generazione potremmo stampare gelatine o puree che mantengano consistenza, colore e sapore invitanti e soddisfacenti. E lungi dall’essere pura divagazione scientifica, i partner esistono già tra cui un’importante azienda conserviera che lavora in biologico, che ha opzionato lo studio per poterlo immettere nella sua azienda una volta che la sperimentazione sarà finita, e magari commercializzarlo insieme per espandere la macchina oltre i confini delle industrie”. Il gioco, per Giorgia, è creare il cibo del futuro, mantenendo però le proprietà e il sapore dei prodotti che mangiavano i nostri nonni. “E’ possibile, lo stiamo già facendo e continueremo a farlo, perché la mente non si ferma mai”. Mentre il mondo era chiuso in lockdown la G&A ha ideato dei pannelli divisori tra tavoli, commissionati da Massimiliano Montefusco, titolare del ristorante Casina Valadier
di Roma, veramente speciali: al posto del freddo plexiglass, delle vertical farm indoor, orti verticali autosufficienti (non sterili né controllati digitalmente, come invece accade nella versione tradizionale), che possano fornire insalata o verdure al ristorante, facendolo diventare così autosufficiente. “Se vogliamo ortaggi a km 0 nelle grandi città, in futuro non potremo fare altro che affidarci alla tecnologia, e all’orto verticale in dimensioni ridotte”. Giorgia Pontetti affianca il Robot Farm, una macchina della grandezza di una semplice lavatrice pensata per l’utilizzo casalingo, che permette di coltivare piccole insalate, verdure a foglia o spezie all’interno della cucina o del balcone di casa propria. Ma si potrà vendere anche ai privati, potrebbe essere un bellissimo oggetto di design da salotto. Un modo, come gli altri, di portare verdura fresca e sana all’interno anche delle grandi città che per mole di fabbisogno e caratteristiche
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dell’aria è sempre più difficile che possano produrre alimenti sani a km 0. Attualmente il Robot Farm è venduto al pari di una lavatrice di alta gamma, ma il proposito per il prossimo futuro è quello di trovare un partner industriale che con la produzione su larga scala possa abbassare il costo fino a 300-400 euro e renderlo accessibile a una fascia ben più ampia di popolazione. Potrebbe sembrare esagerato,
eppure questo è sollo l’inizio, per Giorgia Pontetti. In collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana ed Enea, partner scientifici di G&A e Ferrari Farm, Giorgia sta progettando un simulatore di una serra spaziale. “Siamo partiti dalla progettazione di lampade adatte a particolari condizioni atmosferiche; è già in commercio l’evoluzione di lampade di nostra produzione e di un pannello che fornisce
Figura 3 - Robot Farm ideato dalla Ferrari Farm
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2 lunghezze d’onda della luce in modo da arrivare a 4 che permetterebbe la coltivazione nello spazio, magari sulle astronavi o in futuro anche sulla Luna”. Eppure, la scienza non è mai tangibile se rimane tra le stelle o su una navicella spaziale e quindi Giorgia già pensa a come rendere queste sue ideazioni fruibili sulla Terra per tutti come ricadute della Ricerca fatta per lo Spazio. Benvenuti nel futuro.
Figura 4 - Pomodorino del piennolo per le pareti verticali
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FOCUS
ll nostro Villaggio sulla Luna a cura di: Ing. Arch. Valentina Sumini ricercatrice Mit e visiting professor al Politecnico di Milano
L’idea di colonizzare il satellite si sta concretizzando con il Moon Village nato in collaborazione tra ESA, lo studio SOM e il MIT di Boston. Si tratta del progetto più concreto di realizzazione di una città extraplanetaria.
Nel suo libro “1491” Charles Mann (nel 2005 la prima edizione) ricostruisce un quadro affascinante delle Americhe, il “nuovo mondo”, prima di Colombo, prima quindi che le potenze continentali europee le trasformassero in un asset economico e politico, provocando la quasi estinzione dei loro abitanti e costringendoci oggi a cercare di comprendere quelle civiltà partendo da impronte di città nelle foreste pluviali e studiando ceramiche sbeccate. Oggi il “nuovo mondo” è costituito dallo spazio, e sulla targa lasciata sulla Luna nel 1969 da Armstrong e Aldrin vi è la scritta “We come in peace for all mankind”, estratta dalla dichiarazione costitutiva della stessa NASA: “…activities in space should be devoted to peaceful purposes for the benefit of all mankind”. Allo stesso modo, nel 1972 “for all the humankind” una targa con figure umane ispirate anche ai disegni di Leonardo venne lanciata nello spazio con la missione Pioneer. Adesso che ci si accinge a tornare sulla Luna, questa visione così coinvolgente e rassicurante, implementata per vent’anni sulla International Space Station, viene sempre più spesso affiancata, di nuovo, da quella di “asset”, di monetizzazione delle risorse che vi troveremo e delle tecnologie che svilupperemo per
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questi obiettivi. Ed è forse per questo che mai come ora è necessario, quasi urgente, sviluppare una visione architettonica su un possibile insediamento lunare “permanente” che recuperi quello spirito e dia linee guida e prospettive di condivisione e di sviluppo pianificato, quindi un vero e proprio “masterplan” in cui aree residenziali, infrastrutturali e produttive evolvano secondo una
filosofia unitaria, un po’ come se ci si rifacesse al concetto delle “città ideali” teorizzato tante volte in passato, dal Palladio a Le Corbusier. Il coraggio di progettare per un nuovo mondo… Il progetto del Moon Village, risultato della collaborazione fra l’European Space Agency (ESA), lo studio Skidmore, Owings and Merrill (SOM) ed il Massachusetts Institute of Technology (MIT AeroAstro e MIT Media Lab),
presentato per la prima volta nel luglio del 2019 a Boston (alla 49th International Conference of Environmental Systems) e premiato nello stesso anno con Honorable Mention dall’American Institute of Architects, rappresenta il maggior sforzo organico fino ad ora effettuato per la definizione il più possibile operativa della struttura e delle modalità di realizzazione di una città sulla Luna entro il 2030.
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Il progetto parte dall’accuratissima analisi topografica della superficie lunare ottenuta dalle missioni NASA all’inizio del nuovo millennio, ha come criteri di progetto sicurezza e resilienza, primo fra tutti quello di assicurare diversi collegamenti fra gli habitat sviluppati su linee parallele, un’idea affine a quella della “città lineare” di Le Corbusier, ed affiancati, sempre secondo uno sviluppo lineare, da infrastrutture e direttrici di trasporto. Come sito di riferimento è stato scelto il bordo dello Shackleton Crater, vicino al polo Sud lunare, dove è garantito un flusso di radiazione solare permanente ed è possibile avere una costante visione della Terra. Le reti per la condivisione di tutto ciò che è necessario alla vita, dall’aria, all’acqua, al cibo e, soprattutto
l’energia, dovranno essere organizzate in modo da rendere ottimale sia la distribuzione, sia la garanzia di crescita ordinata, sia la capacità di sopravvivenza. I moduli abitativi, denominati “One Moon” ed in grado di ospitare ciascuno quattro persone su vari livelli, dovranno essere trasportati dalla Terra come strutture prefabbricate e dispiegabili in sito, quindi di “Classe II” secondo la “vecchia” definizione NASA (dove “vecchio” significa anni 80-90 del secolo scorso…), tenendo conto dei vettori che pensiamo disponibili nel prossimo futuro, come quelli di Space X e Blue Origin, quindi assemblati ed integrati in situ grazie ad un rivestimento di regolite lunare con funzione di schermo realizzato da strumenti robotizzati.
Il Moon Village si basa su una configurazione modulare, integrata con numerosi sistemi quali docking, controllo ambientale e “life support system” (ECLSS), equipaggiamento medico, schermo dalle radiazioni cosmiche, micrometeoriti e “lunar dust”. Ogni habitat offre un volume abitabile di 390 metri cubi ed una superficie di 104 metri quadrati distribuita su 4 livelli. Il progetto è innovativo perché per ottimizzare la distribuzione delle attività nei ridotti spazi abitativi, vincolati dalle dimensioni dei vettori spaziali, è stata per design letteralmente svuotata la parte centrale dell’habitat che per tradizione, dal TransHab della NASA ai progetti di moduli gonfiabili B330 di Bigelow Aerospace, è da sempre il luogo
Figura 1 - Valentina Sumini e il Moon Village esibito alla 70th International Astronautical Congress a Washington, ottobre 2019.
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Figura 2 - Villaggio sulla luna
di concentrazione dei sistemi di supporto. In One Moon il concetto di “rigid core” si trasforma in un telaio rigido perimetrale di materiale composito, dalla forma curvilinea ottimizzata per contenere il carico derivante dalla pressurizzazione interna, che permette alle membrane pneumatiche di generare una geometria spaziale trilobata, liberando, quindi, la parte centrale dell’habitat che diventa il principale elemento di distribuzione verticale per gli astronauti. Questa soluzione progettuale agevola la fruizione dei vari spazi abitativi, aumentando la sicurezza dell’habitat e favorendo anche la creazione di stanze personali “private rooms”
spaziose volte ad integrare tutti gli accorgimenti di “human factors design” resi evidenti grazie alla partecipazione al progetto del Prof. Jeffrey Hoffman (MIT AeroAstro) che essendo stato astronauta NASA (era nell’equipaggio che ha riparato in orbita il telescopio Hubble ed ha progettato insieme alla NASA un sistema per estrarre ossigeno su Marte, MOXIE, attualmente integrato nel rover Perseverance) ha dato un contributo essenziale in merito alle sfide legate allo “human spaceflight”. Il Moon Village è allineato con la visione di far ritornare l’umanità sulla Luna “to stay” prevista dal programma ARTEMIS della NASA, nel quale l’Italia ha già un ruolo fondamentale nella
progettazione del lunar Gateway grazie all’Agenzia Spaziale Italiana ed all’esperienza pluriennale maturata da Thales Alenia Space. “[…] we will expand the Gateway’s capabilities, gain high confidence in commercial lunar landers departing from the Gateway, and establish the Artemis Base Camp at the South Pole of the Moon.”, NASA Artemis Program. Mi auguro che vedremo realizzarsi sul suolo lunare quello che troverete esposto alla Biennale di Architettura di Venezia, nell’esibizione “Life Beyond Earth” curata da Hashim Sarkis, Preside della School of Architecture and Planning al MIT. Occorrerà un po’ di immaginazione perché i modelli esposti dell’habitat sono
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in scala ridotta e stampati in 3D anche al MIT (ricordo ancora quando insieme a Jacqueline Chen ed Alicia Nimrick, mie studentesse al MIT MediaLab, ne
abbiamo realizzati alcuni nel luglio del ’19 per esibirli immediatamente dopo alla 70th International Astronautical Congress a Washington), ma un domani
Figura 3 - Moduli abitativi sulla luna.
Figura 4 - Interno moduli abitativo.
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potranno essere anche in scala 1:1 e dar vita infine ad una vera città multietnica e multiculturale sulla Luna, una casa “for all mankind”.
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