Serie editoriale:
CLINICAL CASE MANAGEMENT
Posturologia: il modello neurofisiologico, il modello biomeccanico, il modello psicosomatico F. Scoppa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Aggiornamento periodico:
OTONEUROLOGIA 2000 Febbraio 2002 / n. 9
Coordinamento Scientifico:
Il trattamento della Malattia di Menière mediante gentamicina topica P. Gioffré, C. Pernice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Dr. Giorgio Guidetti Dipartimento di Patologia Neuropsicosensoriale dell’Università di Modena e Reggio Emilia Sezione di Clinica Otorinolaringoiatrica Modulo di Vestibologia e Rieducazione vestibolare Policlinico di Modena e-mail: guidetti.g@policlinico.mo.it
Interpretazione delle manifestazioni di disturbi auditivi e dell’equilibrio nella medicina antica e nella tradizione popolare (Parte seconda) C. Lapucci, A.M. Antoni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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OTONEUROLOGIA
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POSTUROLOGIA: IL MODELLO NEUROFISIOLOGICO, IL MODELLO BIOMECCANICO, IL MODELLO PSICOSOMATICO FABIO SCOPPA Docente di Metodologia della Riabilitazione, Facoltà di Medicina e Chirurgia, D.U. Fisioterapista Coordinatore Scientifico e Didattico, Corso di Perfezionamento in “Posturologia” Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università “La Sapienza” di Roma
In quanto branca “trasversale” della medicina, la posturologia coinvolge specialisti di estrazione diversa, con background culturali, linguaggi e modalità operative ed interpretative anche molto eterogenei. Per tale ragione ci è sembrato utile sintetizzare in questo breve lavoro tre modelli interpretativi per lo studio della postura (neurofisiologico, biomeccanico, psicosomatico), tentare una definizione di postura che possa essere comunemente condivisa, ed identificare infine i fattori che distinguono una postura funzionale da una disfunzionale.
Definizione Per “postura” possiamo intendere la posizione del corpo nello spazio e la relazione spaziale tra i segmenti scheletrici, il cui fine è il mantenimento dell’equilibrio (funzione antigravitaria), sia in condizioni statiche che dinamiche, cui concorrono fattori neurofisiologici, biomeccanici, psicoemotivi e relazionali, legati anche all’evoluzione della specie. In questa definizione abbiamo cercato di evidenziare alcuni aspetti fondamentali della postura: il concetto di spazialità, il concetto di antigravitarietà e di equilibrio, la condizione sia statica che dinamica, i fattori neurofisiologici, biomeccanici, psi-
coemotivi e relazionali, l’evoluzione della specie. La spazialità della postura è quanto di più immediatamente caratterizzante la postura: fenomenicamente la postura è la posizione che assume il corpo nelle tre direzioni dello spazio e la relazione spaziale tra i vari segmenti scheletrici. Il concetto di antigravitarietà è essenziale. La gravità è la forza esterna fondamentale per la regolazione della postura, e in un certo qual modo l’equilibrio posturale è la risposta dell’organismo alla forza di gravità. Quando il peso corporeo si riduce, come nell’acqua, le reazioni posturali tendono a scomparire. Gli effetti della forza di gravità nella stazione eretta sono ben evidenti in assenza di gravità: le esperienze degli astronauti nei voli spaziali evidenziano atteggiamenti posturali molto differenti rispetto a quelli abituali sulla terra, con modificazioni radicali del tono posturale. Le reazioni antigravitarie del nostro organismo si esprimono nella postura e nell’equilibrio, termini molto vicini ma non sinonimi. L’equilibrio può essere inteso come il rapporto ottimale tra il soggetto e l’ambiente circostante, in cui il soggetto, sia in condizioni statiche che dinamiche, adotta la postura più adeguata, istante per istante, rispetto alla richiesta ambientale e agli obiettivi motori prefissati. 3
È quindi indispensabile che il soggetto adotti una postura adeguata per avere un buon equilibrio, anche se un’alterazione della postura non comporta necessariamente un disturbo dell’equilibrio. C’è comunque da rilevare come tra problema posturale e disturbi dell’equilibrio ci siano molte relazioni. Ad esempio, il rapporto tra sistema vestibolare e scoliosi è ormai documentato da tempo, ed è noto come sia frequente rilevare alterazioni dell’equilibrio in soggetti scoliotici [Yamada et al 1974 (34,35); Yamamoto e Petruson 1979 (36); Yamamoto et al 1983 (37); Sahlstrand e Petruson 1978 e 1979 (24,25)]. Possiamo affermare che la postura è un atteggiamento più di tipo “statico” con limiti di oscillazione molto ristretti; l’equilibrio è un atteggiamento più “dinamico” che può essere mantenuto anche con oscillazioni di maggiore entità, che richiedono una serie di posture in cui la proiezione del baricentro corporeo cade comunque all’interno del poligono di sostegno (Fig. 1) [Guidetti 1997 e 1999 (8,9)]. Ritornando alla definizione di postura che abbiamo proposto, in essa troviamo tre grandi ordini di fattori che caratterizzano la postura: neurofisiologici, biomeccanici, psicoemotivi. La postura, pur essendo un fenomeno profondamente unitario, può essere studiata attraverso ciascuno di questi modelli interpretativi: il modello neurofisiologico, il modello biomeccanico, il modello psicosomatico.
Il modello neurofisiologico: lo studio del tono posturale Quello neurofisiologico è per così dire il modello proprio della posturologia, basato sullo studio del tono posturale e delle funzioni di equilibrio. Tipico della scuola francese (Gagey, Weber, Lacour), è l’approccio che ha avuto la più ampia diffusione, come si evince anche dalla letteratura specifica. In effetti la postura, nella sua 4
POSTURA
EQUILIBRIO
Fig. 1 - La postura è un atteggiamento “statico” con limiti di oscillazione molto ristretti. L’equilibrio è un atteggiamento “dinamico” che può essere mantenuto anche con oscillazioni di maggior entità, che richiedono una serie di atteggiamenti posturali in cui viene comunque garantita la proiezione al suolo del baricentro entro i limiti della base d’appoggio. Da Guidetti, 1997 (8).
essenza neurofisiologica, non è altro che una modulazione del tono. Sappiamo che il tono muscolare è la risultante di una complessa serie di processi psiconeurofisiologici all’interno di un sistema di tipo cibernetico, il sistema tonico posturale. Tale sistema ha delle entrate specifiche, costituite dalle informazioni provenienti dai recettori specifici della postura: il piede, l’occhio, l’apparato stomagnotico, la cute, l’apparato muscolo-scheletrico, sono tra quelle più studiate (Fig. 2). Gli studi neurofisiologici hanno approfondito in particolare l’esame delle interferenze recettoriali in quanto, come è ben noto, l’output del sistema posturale, il tono muscolare, è condizionato dagli input, cioè dalle informazioni in entrata. Inoltre un ampio spazio è stato dedicato al ruolo del sistema vestibolare che contrae intimi rapporti in particolare con le afferenze visive e plantari.
Fattori psico-emotivi
Input sensoriale Recettori del sistema posturale recettore podalico recettore oculare apparato stomatognatico recettore cutaneo apparato muscolo-scheletrico eccetera
– Programmazione centrale – Schema corporeo
output tonico posturale
• • • • • •
COMPUTER CENTRALE
reafferentazione
Riadattamento sensoriale
Effettori del sistema posturale: muscoli Fig. 2 - Schema dell’espressione degli aspetti psico-emotivi nella postura.
Mentre il ruolo delle entrate del sistema posturale è stato così ampiamente studiato, è pressoché assente un approfondimento sui processi di programmazione centrale della postura. Eppure l’output del sistema posturale, il tono muscolare, è sì il risultato degli input ma anche il prodotto di ciò che viene elaborato dal computer centrale (SNC) in base a specifici processi neuropsicologici e all’esperienza. Un disequilibrio posturale non necessariamente indica un problema causativo a livello delle entrate sensoriali, ma può essere collegato ad una cattiva integrazione centrale. Lo schema centrale è in grado di modificare il tono posturale: per tale ragione vale la pena cominciare una riflessione critica sul problema dello schema corporeo [Scoppa 2001 (33)] e dell’integrazione centrale delle afferenze posturali. Molte alterazioni posturali potrebbero essere messe in relazione con un problema di elaborazione centrale dello
schema corporeo, evenienza pressoché ignorata fino ad ora. Una delle ragioni di questo disinteresse può essere ravvisata nel modello associazionista adottato in larga misura anche in posturologia. Le teorie associazioniste spiegano l’acquisizione di nuove forme di comportamento come un fenomeno di associazione “stimolo-risposta” (S-R); classicamente si tace sui processi interni neuropsicologici, cioè sulla scatola nera (“black box”). Il sistema nervoso centrale viene di fatto considerato una scatola nera, dove soltanto le funzioni di ingresso e di uscita sono conosciute ma non i processi che determinano la relazione “inputoutput”. Il modello associativo comportamentista, a partire dai classici studi di Pavlov, ha avuto il merito di creare delle relazioni osservabili e valutabili tra una stimolazione, o informazione, e il tipo di risposta: la presenza o assenza di risposta è il primo criterio osservabile fondamentale (Fig. 3). 5
INPUT Afferenze – visive – podaliche – vestibolari – muscolo-scheletriche, ecc.
BLACK BOX
OUTPUT
SNC
Equilibrio tonico posturale
Fig. 3 - Il modello associazionista interpreta la postura come risposta elaborata dal sistema nervoso centrale in associazione agli stimoli in entrata (afferenze).
Ma a questo criterio ne dovrebbero seguire altri, come quelli relativi al condizionamento e all’adattamento alla stimolazione, che sono caratteristiche neuropsicofisiologiche ben note dell’organismo vivente. Inoltre il fatto che risulta difficile provare e documentare i processi all’interno della scatola nera non significa che non avvengano o che non siano importanti, anzi: un approfondimento di tipo cognitivista potrebbe chiarire molti quesiti ancora senza risposta riguardanti il funzionamento del sistema tonico posturale. La semplicità dell’associazionismo “stimolo-
risposta” (Fig. 3) appare al tempo stesso una qualità e un limite, perché semplifica un processo estremamente fine e articolato, ma al prezzo di non rappresentare tutti i complessi meccanismi a feed-back e a feed-forward, nonché l’adattamento del sistema alla stimolazione somministrata (Fig. 4). Ciò che viene osservato con estrema facilità è una condizione anomala, asimmetrica, disfunzionale del tono posturale. Quando questa condizione è abnorme e cronicamente protratta nel tempo, crea delle sollecitazioni anormali sull’apparato locomotore, con conseguente patologia
Reafferentazione
INPUT Afferenze – visive – podaliche – vestibolari – muscolo-scheletriche, ecc.
BLACK BOX
OUTPUT
SNC
Equilibrio tonico posturale
Modulazione centrale
Fig. 4 - Modello di interpretazione della postura che tiene conto delle componenti neuro-psicofisiologiche dell’organismo vivente, che condizionano la risposta allo stimolo e ne determinano l’adattamento. 6
dolorosa, infiammatoria, degenerativa o dismorfica. Pertanto sono stati messi a punto una serie di esami clinici per studiare le asimmetrie e le disfunzioni del tono posturale, come ad esempio il “test di Fukuda-Unterberger” e il “test dei rotatori”. L’esame dell’attività tonica posturale può essere svolto clinicamente con buona attendibilità, se eseguito da un posturologo esperto e specializzato; al contrario è praticamente impossibile evidenziare clinicamente la strategia posturale fine e il controllo delle oscillazioni fisiologiche, rilevazione che può essere effettuata strumentalmente con la stabilometria. La piattaforma stabilometrica normalizzata consente di misurare la posizione media del centro di gravità del corpo e dei suoi micro-movimenti attorno a tale posizione, nonché, attraverso lo studio di alcuni parametri, valutare aspetti quali il costo energetico e la precisione del sistema.
Il modello biomeccanico: le catene cinetiche Con il modello biomeccanico vengono analizzati i rapporti tra atteggiamenti corporei e forza di gravità, e viene studiata l’organizzazione delle catene cinetiche e della statica in rapporto a complessi meccanismi antigravitari e ai riflessi spinali, vestibolari… Di norma nelle alterazioni posturali gli squilibri più facilmente visibili si hanno proprio a livello statico e biomeccanico: nella statica, con la perdita dei rapporti armonici ed equilibrati tra i vari segmenti scheletrici nei tre piani dello spazio; a livello biomeccanico, con la rottura delle sinergie muscolari equilibratrici e l’alterazione della meccanica articolare, in quanto variano sia i punti di applicazione delle forze muscolari, sia i loro momenti, sia la distribuzione dei carichi sui segmenti scheletrici. Indipendentemente dagli elementi di disturbo primari e dal tipo di perturbazione
iniziale, l’alterazione posturale si inserisce in ogni caso in un complesso sistema organizzato di catene articolari funzionalmente collegate con le catene muscolari grazie alle strutture capsulo- legamentose e alle fasce aponevrotiche. Mentre le catene muscolari danno vita al movimento, ne condizionano l’intensità e in parte l’ampiezza, e garantiscono il mantenimento della statica umana, le catene articolari sono piuttosto responsabili dell’escursione angolare e insieme della direzione del movimento. In virtù di questa interrelazione funzionale tra catene muscolari e catene articolari, un disassamento iniziale causato da una perturbazione localizzata provoca uno sbilanciamento articolare con conseguente contrazione muscolare di stabilizzazione, o viceversa: infatti non è possibile una corretta organizzazione articolare senza equilibrio delle tensioni muscolari; questo equilibrio, che garantisce la coesistenza di una buona stabilità e di una buona mobilità articolare, è quindi altamente auspicabile, in quanto ogni disequilibrio delle tensioni muscolari provoca immediatamente la riorganizzazione di un nuovo equilibrio adattativo, al caro prezzo di disassamenti segmentari. Questi disassamenti comportano una sostanziale asimmetria dei volumi corporei e delle funzioni cinetiche, con conseguente rielaborazione dello schema corporeo. Infatti le sensazioni cinestetiche provocano modificazioni adattative come risposta all’alterazione posturale, creando attorno ad essa uno schema posturale economico e schemi motori compensativi, che soddisfino primariamente l’aspetto pragmatico-utilitaristico del movimento, ovvero l’efficacia del gesto, nonostante la limitazione dovuta all’alterazione morfologica o funzionale. In definitiva, un’alterazione posturale conduce in ogni caso ad un riadattamento sensoriale grazie a specifici meccanismi neurofisiologici (Fig. 5). 7
CONTROLLO OCULO MOTORIO
DISTURBO SENSORIALE ALTERATO ORIENTAMENTO CORPO-SENSORIALE PERCEZIONE
CONTROLLO MOTORIO ASSIALE
ADATTAMENTO MOTORIO SISTEMA MOTRIO-ASSIALE
COMPENSAZIONE
RIADATTAMENTO SENSORIALE
ALTERAZIONE POSTURALE
Fig. 5 - Un alterato orientamento spaziale del corpo conduce ad un riadattamento sensoriale che si associa ad una reinterpretazione, e quindi ad una ricalibrazione, dei dati somato-sensoriali che trasmettono l’informazione della colonna eretta. Il mantenimento di un’analisi percettiva modificata delle informazioni propriocettive che descrivono la colonna eretta, determina un adattamento del sistema motorio assiale. Un’alterazione posturale è la risultante della nuova strategia di controllo motorio adottata. Il riadattamento sensoriale può anche produrre un notevole effetto sul funzionamento del tronco cerebrale, alterando i sistemi di controllo motoriooculare e motorio-assiale. Da Scoppa, 1999 (29); mod. da Herman et al, 1985.
Gastrocnemio Legamento longitudinale anteriore Soleo Legamento a y
Legamento popliteo posteriore
Centro di gravità
Fig. 6 - Relazione tra tensione del tricipite surale e postura: da notare i rapporti con l’equilibrio del bacino e la lordosi lombare. Da Scoppa, 1998 (28); mod. da Cailliet, 1968. 8
Tra gli autori che hanno descritto le catene muscolari ricordiamo Deny-Struyf, Bourdiol, Busquet, Dudal (cfr. bibl. 1-5). La descrizione delle catene muscolari, così come lo studio dell’organizzazione connettivale del nostro organismo, ci hanno aiutato a visualizzare delle relazioni sia biomeccaniche che funzionali tra distretti corporei anche ben distanti tra loro: numerosi sono gli esempi descritti in letteratura come quello della Fig. 6.
Il modello psicosomatico: dalla struttura caratteriale alla postura Come già abbiamo avuto modo di denunciare [Scoppa 1999 e 2000 (29,31)], lo studio degli aspetti psicoemotivi della postura non ha ancora avuto lo spazio che merita, nonostante autorevoli Autori ne abbiano sottolineato il ruolo fondamentale.Valga per tutti l’esempio offertoci da Gagey, 2000 (6), che con autorevolezza afferma: “…la postura è strettamente legata alla vita emotiva fino ad essere l’espressione stessa per il mondo esterno, non solo attraverso la mimica facciale e gestuale, ma anche attraverso la disposizione corporea nel suo insieme”, per cui “…ridurre l’uomo a semplice gioco meccanico è condannarsi a non comprendere nulla di colui che ha difficoltà a mantenersi eretto…; di fronte al malato posturale è necessario dunque… apprezzare la dimensione della ferita narcisista e valutarne le ripercussioni a livello emotivo”. Non c’è dubbio che la sola lettura in chiave neurofisiologica e biomeccanica non può dare in alcun caso una visione completa del complesso fenomeno posturale. Accanto a questi modelli interpretativi è necessario affiancane un altro che, partendo dalle conoscenze neurofisiologiche e psicofisiologiche, utilizzi gli strumenti propri della clinica psicosomatica. Quanto sarebbe riduttivo se il posturologo considerasse la postura eretta come il
mero assemblaggio di informazioni provenienti dagli esterocettori e dai propriocettori, integrate per produrre le reazioni necessarie ad un equilibrio stabile dell’ambiente: “la postura eretta significa molto di più” [Gagey e Gentaz 1996 (7)]. La postura ortostatica è il risultato della filogenesi e dell’evoluzione della specie umana, che ha consentito la libertà degli arti superiori per le attività manipolative di esplorazione e di controllo dell’ambiente. Nell’ottica del posturologo, impegnato nell’esame e nella cura dei disordini posturali, ancor più importante sono gli aspetti ontogenetici, in cui il soggetto, a cominciare dalla vita intrauterina e per tutta l’età evolutiva, costruisce il proprio Io attraverso una propria struttura caratteriale e corporea. Lo sviluppo della personalità procede di pari passo con lo sviluppo della struttura corporea, cosicché la postura abitualmente assunta rispecchia fedelmente i tratti caratteriali preminenti della persona. “Ogni verità passa attraverso tre stadi: prima è ridicolarizzata, poi violentemente ostacolata e infine è accettata come assolutamente evidente” (Schopenhauer). Quando a partire dagli anni ’20 Reich, medico psicoanalista allievo di Freud, postulò e verificò pionieristicamente l’identità funzionale tra processi psichici e processi somatici mettendo in relazione la struttura corporea con la struttura caratteriale della persona, la reazione della Società Internazionale di Psicoanalisi e della comunità scientifica fu di grande ostracismo. A tutt’oggi nessuno ha mai saputo ben formulare in che cosa Reich avesse torto o quali fossero le sue colpe, ma sta di fatto che il suo nome rimase impronunciabile in campo medico, psichiatrico e psicoanalitico per oltre mezzo secolo. Reich pagò la sua lungimiranza e il suo coraggio con l’accusa di pazzia: fu costretto a dimettersi dalla società di psicoanalisi, dopo essere stato chiamato a 9
farne parte per condurre il Seminario di tecnica psicoanalitica dallo stesso Freud; i suoi libri andarono al rogo; finì in carcere per oltraggio alla corte negli Stati Uniti, dove morì. Oggi nessuno osa mettere in discussione i principi di identità funzionale tra psiche e soma per i quali Reich subì tanto accanimento, anche perché la relazione tra postura e personalità è ormai supportata da numerose ricerche scientifiche portate avanti da studiosi provenienti da scuole diverse [Koren e Rosenvinkel 1992 (11); Rossberg-Gempton e Poole 1992 (21); Schouwstra e Hoogstraten 1995 (26); Dekel et al 1996 (3); Ruggeri et al 1998 (23)]. Anche in caso di scoliosi idiopatica è possibile stabilire questo tipo di relazione, in quanto nel periodo evolutivo alcuni meccanismi psicofisiopatologici possono essere in grado di perturbare l’equilibrio rachideo e innescare il processo dismorfico [Scoppa 1998 (28)]. Un simile approccio allo studio della scoliosi, psicofisiologico oltrechè biomeccanico, è sostenuto anche da contributi sperimentali [Ruggieri et al 1998 (22)]. Con il filone post–reichiano e in particolare con l’Analisi Bioenergetica di Lowen è stato possibile definire una serie di atteggiamenti posturali legati a determinati tratti caratteriali ed emotivi del soggetto [cfr. Lowen (12-16)]. Seguendo questo approccio bioenergetico, abbiamo già avuto modo di presentare altrove alcune delle relazioni più evidenti tra struttura caratteriale e postura [Scoppa 1999 (29,30); 2000 (32)]. Tale approccio consente di individuare cinque strutture caratteriali fondamentali, ognuna delle quali correlata ad un certo periodo evolutivo ed alla frustrazione di uno specifico bisogno nel bambino: in Analisi Bioenergetica queste cinque strutture sono denominate schizoide, orale, masochista, psicopatica, rigida. Il tratto caratteriale narcisista può interessare trasversalmente ognuna di queste strutture. Ciascuna di queste cinque strutture 10
caratteriali presenta una specifica struttura corporea e muscolare, un tipico livello energetico nel corpo, una serie di vissuti emotivi preminenti e atteggiamenti relazionali caratteristici. Un attento esame posturale integrato ad un’analisi psicologica può facilmente mettere in evidenza tali relazioni, anche se è necessario tenere sempre a mente l’unicità e la complessità del singolo individuo, in cui possono coesistere e combinarsi tra loro più tratti caratteriali: ad esempio il tratto orale può essere presente insieme a quello rigido. Per cercare di capire questa complessità giova tenere a mente il ruolo delle tensioni muscolari, che a livello psicofisiologico sono il principale strumento difensivo dell’Io espresso a livello corporeo. Queste tensioni muscolari possono avere un vero e proprio significato morfogenetico e di modellamento dell’atteggiamento posturale nel suo insieme. Descritto anche in ambito ortopedico come “stato miotensivo psicogeno”, lo stato di tensione muscolare cronica rappresenta il processo forse più evidente con cui l’Io esprime i propri vissuti emotivi nel corpo. È ciò che Reich chiamò “armatura muscolare”, intesa come l’equivalente somatico dell’armatura caratteriale, ovvero di quell’insieme di atteggiamenti psichici e comportamentali caratteristici dell’individuo. Per tentare di rappresentare la fondamentale integrità ed unità psicosomatica di ogni singolo individuo, l’aspetto psiconeuroendocrino non può non essere menzionato accanto a quello muscolo-tensivo e posturale (Fig. 7): i fattori psiconeuroendocrini rappresentano l’anello di congiunzione psico-biologica, il sistema di mediazione e di modulazione tra fattori psichici ed emotivi da un lato e fattori organici e biologici dall’altro [Pancheri 1979 e 1984 (17,18)]. In definitiva, in virtù di questo complesso gioco di tensioni muscolari croniche e di modificazioni psiconeuroendocrine, gli
Aspetto posturale e gestuale
Aspetto muscolotensivo
Aspetto psico-neuroendocrino
Fig. 7 - L’aspetto posturale e gestuale, l’aspetto muscolo-tensivo e quello psico-neuro-endocrino esprimono nel loro insieme l’integrità e l’unità psicosomatica di ogni singolo individuo.
aspetti psico-emotivi si esprimono nella postura del soggetto condizionando nel suo insieme il sistema posturale: i fattori psico-emotivi sono un po’ il comune denominatore che sottende l’atteggiamento posturale del soggetto nel suo insieme, e come tale abbiamo cercato di rappresentarlo nel nostro schema (vedi Fig. 2).
Conclusione Il sistema tonico posturale, grazie a complessi meccanismi a feed-back e a feedforward, è un sistema cibernetico autoregolato e autoadattato; esso può squilibrarsi con estrema facilità per cause svariate, innescando una serie di compensi e di adattamenti anche a distanza, ma entro certi limiti può correggersi da solo. Una postura funzionale non comporta dolori ed è essenzialmente caratterizzata da: • Normotono: assenza di tensioni muscolari anomale, asimmetriche, disfunzionali. • Equilibrio delle catene cinetiche: armonia e simmetria nel rapporto tensionelunghezza muscolo-fasciale e nell’equilibrio articolare.
A livello della statica, sono conservati i rapporti armonici ed equilibrati tra i vari segmenti scheletrici nei tre piani dello spazio. Una postura disfunzionale è tendenzialmente algica ed è fondamentalmente caratterizzata da: • Distonia: cronico stato di tensione muscolare anomalo e/o asimmetrico. • Disequilibrio delle catene cinetiche: ipo/iperprogrammazione di catene muscolari sinergiche e antagoniste; disarmonia e/o dissimetria nel rapporto tensione-lunghezza muscolo-fasciale e nell’equilibrio articolare. A livello della statica, la relazione spaziale tra i vari segmenti scheletrici è alterata, con perdita dell’armonia e dell’equilibrio nei tre piani dello spazio. In conclusione, un fenomeno estremamente complesso come quello posturale necessita a nostro avviso di almeno tre modelli interpretativi: neurofisiologico, biomeccanico, psicosomatico. “Studiare la postura significa osservarla, la posturologia è una scienza di osservazione” (Cesarani) [in Gagey e Weber 2000 (6)]: avere a disposizione tre diverse chiavi di lettura, e quindi tre angolature diverse per osservare la postura, può offrire maggiori garan11
zie di rispettare la fondamentale globalità e integrità dell’individuo.
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IL TRATTAMENTO DELLA MALATTIA DI MENIÈRE MEDIANTE GENTAMICINA TOPICA PATRIZIA GIOFFRÉ, CARMINE PERNICE Clinica ORL – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
La Malattia di Menière è una patologia dell’orecchio interno caratterizzata da vertigini ricorrenti, ipoacusia fluttuante, sensazione di “fullness” auricolare ed acufeni. Il trattamento prevede in genere una terapia medica mirata sui presunti meccanismi eziopatogenetici (come ad esempio la betaistina, i cortisonici, le benzodiazepine e i farmaci diuretici), una terapia sintomatica nella fasi acute ed eventuali norme preventive nei periodi intercritici (dieta iposodica, astensione dal tabagismo e dall’assunzione di bevande alcoliche, eliminazione delle cause di stress). La terapia medica si è rivelata efficace in una percentuale variabile (70-95% a seconda degli A.A.), ma comunque ragguardevole, di pazienti. Per i soggetti resistenti al trattamento medico, che presentano crisi vertiginose frequenti e sintomi invalidanti, è stata proposta una terapia chirurgica più o meno invasiva (sacculotomia e decompressione del sacco endolinfatico, labirintectomia, vestibulectomia, neutectomia vestibolare). L’azione ototossica degli aminoglicosidici ha offerto una valida alternativa a questi trattamenti chirurgici. Già nel 1948 Fowler sperimentava l’uso della streptomicina sistemica in pazienti menierici e ancora oggi le forme bilaterali vengono trattate con somministrazioni frazionate del farmaco, che vengono interrotte all’insorgenza dei segni clinici e strumentali di deterioramento della funzione cocleo-vestiblare (1,9). Nel 1957, attraverso un catetere transtimpanico, Schuknecht perfondeva nell’orecchio medio una soluzione a base di streptomicina ottenendo un completo con14
trollo delle vertigini, spesso però associato ad una perdita uditiva monolaterale completa (15). Successivamente, la necessità di un trattamento ideale, efficace nel controllo delle vertigini e in grado di preservare o mantenere i livelli d’udito preesistenti, ha creato interesse sempre maggiore attorno all’utilizzo topico di gentamicina, relativamente più vestibulotossica che ototossica (2). L’instillazione intratimpanica di gentamicina nelle forme invalidanti e monolaterali di Malattia di Menière viene descritta nel 1978 da Beck e Schmidt, che riportavano un efficace controllo dei sintomi mediante la completa ablazione della funzione vestibolare (3,10). Nei due decenni successivi, Lange (16) , Magnusson (13), Tran Ba Huy (17), Pender (11), Odkvist (14), Murofushi (5)e altri autorevoli A.A., hanno proposto protocolli di trattamento diversi per dosaggio, tempi e vie di somministazione.
Meccanismo d’azione Sono state descritte numerose vie di trasporto della gentamicina dall’orecchio medio a quello interno (5): attraverso la membrana della finestra rotonda, attraverso il ligamento anulare della finestra ovale, attraverso la via ematica o linfatica e perfino attraverso piccole lacune nelle strutture ossee. Il trasporto per la via della membrana rotonda allo spazio perilinfatico sembra essere l’ipotesi più probabile. La membrana della finestra rotonda è una sottile membrana a tre strati, attraverso
la quale numerose sostanze vengono trasportate nello spazio perilinfatico; da qui la gentamicina giungerebbe agli spazi endolinfatici per entrare nelle hair cells attraverso la loro superficie apicale immersa nell’endolinfa. Non è comunque esclusa la possibilità di un contatto con le hair cells anche attraverso il fluido presente nel tunnel del Corti. La concentrazione della gentamicina nelle cellule ciliate esterne continua ad aumentare nei giorni successivi alla fine del trattamento e la sua clearance dalle cellule dell’orecchio interno è molto lenta. Pender (11) ha descritto un’azione della gentamicina sulle dark cells prima che sul neuroepitelio. Questo comporterebbe un controllo dell’idrope endolinfatica mediante una ridotta produzione di endolinfa e giustificherebbe quei casi in cui si apprezza un miglioramento dei sintomi cocleari. Schacht (12) ha invece ipotizzato un’azione ototossica bifasica. Inizialmente si verificherebbe un effetto transitorio e reversibile mediante il blocco dei canali del calcio e, in un secondo tempo, una distruzione irreversibile delle hair cells. A livello molecolare, è stato dimostrato infine un danno mitocondriale da eccessiva produzione di superossido. La morte cellulare da mutazione genetica mitocondriale ovviamente non è immediata. Questa osservazione, accanto a quella di una lenta clearance, spiegherebbe la comparsa dei sintomi da deafferentazione vestibolare nei giorni successivi alla sospensione della terapia.
Criteri di inclusione I pazienti candidati a questo trattamento devono possedere dei requisiti essenziali (7): • Malattia di Ménière monolaterale; • la sindrome, non responsiva ai trattamenti medici convenzionali, deve essere presente almeno da sei mesi; • gli episodi vertiginosi devono essere frequenti e invalidanti, tanto da interferire
• •
• •
con la qualità della vita e con l’attività lavorativa; buona performance dell’orecchio sano ai tests cocleo-vestibolari; la membrana timpanica deve essere integra in assenza di patologie flogistiche attive a carico dell’orecchio medio; assenza di allergia agli aminoglicosidici; normale funzione renale.
L’età avanzata non costituisce una controindicazione assoluta per quanto, nei pazienti anziani, le indicazioni siano ovviamente limitate. Sono considerate controindicazioni il calo del visus, l’atassia e tutte quelle condizioni che potrebbero essere associate ad un elevato rischio di compenso inadeguato. La principale controindicazione è che l’orecchio affetto sia l’unico orecchio udente.
Monitoraggio Prima di iniziare il trattamento, i pazienti devono essere sottoposti ad una serie di indagini preliminari. L’esame clinico-stumentale completo prevede un’anamnesi accurata, un’indagine audiometrica comprensiva di audiometra tonale con calcolo della PTA, studio del riflesso stapediale, audiometria vocale, un esame vestibolare con prove caloriche e studio ENG, uno studio per imaging preferibilmente mediante Risonanza Magnetica (4). La terapia viene eseguita in regime di Day Hospital, poiché l’assenza di quelle complicanze che sovente accompagnano i trattamenti chirurgici consente di evitare l’ospedalizzazione. Si esegue un controllo audiometrico dopo il primo trattamento, se il paziente lamenta un calo uditivo al termine dell’applicazione (3). In quasi tutti i protocolli, un esame audiometrico viene eseguito al termine della prima settimana di terapia e ripetuto prima di ulteriori somministrazioni di gentamicina, qualora l’assenza di segni di deaffe15
rentazione labirintica le rendesse necessarie (2). La risposta alla terapia viene monitorata utilizzando i criteri stabiliti per la valutazione della terapia per la Malattia di Ménière dall’American Academy of Otolariygology-Head and Neck Surgery (1985) (7). I pazienti vengono quindi rivalutati a 1, 3, 6, 9, 12, 18 e 24 mesi post-trattamento. Ad ogni visita il paziente riferisce la propria risposta al trattamento descrivendo il numero e l’intensità degli episodi vertiginosi, l’instabilità, gli acufeni e la sensazione di “fullness” auricolare, con l’aiuto di scale numeriche di quantificazione. Viene inoltre ripetuto un esame otoneurologico comprensivo di audiometria tonale, di audiometria vocale e di prove caloriche. I risultati vengono calcolati sul confronto con i dati raccolti durante le indagini pre-trattamento.
Proposte di protocolli (Tabella 1) Probabilmente, uno degli aspetti più frustranti di questa terapia è l’enorme variabilità individuale nella risposta alla dose di farmaco somministrata (2). I pazienti più sensibili sviluppano effetti labirintici dopo la prima o le prime due applicazioni, mentre altri soggetti necessitano di numerose dosi prima di manifestare una risposta iniziale. Magnusson e Padoan (13) descrivono un controllo delle vertigini dopo due sole dosi di gentamicina. Nedzelski (6,7) somministra dodici dosi in una settimana per ottenere una soppressione della funzione vestibolare. L’origine di tale variabilità non è nota. Si è ipotizzato un differente grado di diffusione della gentamicina attraverso la membrana della finestra rotonda ed il ligamento stapediovestibolare, per variazioni nello spessore o per alterazioni della mucosa. Oppure potrebbe trattarsi di una differente sensibilità dei tessuti dell’orecchio interno agli effetti del farmaco o ancora di una dif16
ferente distribuzione di questo all’interno dei liquidi labirintici. Risulta quindi impossibile proporre un singolo protocollo ottimale per tutti i pazienti. La terapia deve essere individuale per ogni paziente, tenendo presente che i rischi di una perdita uditiva sono proporzionali alla durata della terapia e che sospendere le somministrazioni solo all’insorgere dei sintomi da deafferentazione vestibolare potrebbe compromettere la funzione uditiva. I pazienti devono essere informati preventivamente che il trattamento potrebbe peggiorare la funzione cocleare nell’orecchio trattato, che potrebbe svilupparsi un quadro di insufficienza vestibolare da deafferentazione acuta nelle prime settimane post-trattamento (frequentemente atassia o disequilibrio si sono manifestati tra il 2° e il 14° giorno) (4), che le crisi vertiginose potrebbero infine continuare e che quindi potrebbe rendersi necessario un trattamento chirurgico più invasivo. Le vie d’accesso prevedono il posizionamento di un T-tube attraverso una miringotomia oppure di un catetere di piccolo diametro, la via retrograda attraverso la tuba di Eustachio o l’utilizzo di un ago sottile (tipo spinale pediatrica) direttamente attraverso la membrana timpanica (Fig. 1).
Risultati Dalla revisione della letteratura, emerge che la gentamicina transtimpanica ad alte dosi determina l’ablazione della funzione labirintica (labirintectomia chimica) con un rischio elevato di danno cocleare. Basse dosi di gentamicina provocano invece una riduzione della reflettività labirintica preservando la funzione cocleare. Oggi gli A.A. sono pressoché concordi sull’opportunità di somministrare il farmaco in dosi ridotte e distanziate nel tempo in considerazione di possibili effetti ototossici anche dopo la sospensione del
Tab. 1 - Proposte di protocollo per il trattamento della Malattia di Menière mediante gentamicina topica: revisione della letteratura ODKVIST (14): – preparazione di una soluzione composta da 40 mg/ml di gentamicina e bicarbonato – iniezione nell’orecchio medio di circa 1 ml di tale soluzione – somministrazioni quotidiane (da 3 a 11) fino alla comparsa dei sintomi da deafferentazione MAGNUSSON E PADOAN (13): – preparazione di una soluzione di 30mg/ml di gentamicina solfato in soluzione salina – somministrazione di tale soluzione due volte al giorno (dose totale tra i 30 mg e i 50 mg) – il paziente supino ruota sul fianco mantenendo l’orecchio trattato verso l’alto per circa 30 minuti NEDZLESKI (6): – preparazione di una soluzione composta da 40 mg/ml di gentamicina e sodio bicarbonato a pH 6.4 fino a raggiungere una concentrazione finale di 26.7 mg/ml – miringotomia e posizionamento di catetere transtimpanico – 3 somministrazioni al giorno di 1 ml della soluzione – il paziente supino ruota il capo di 45° con l’orecchio trattato verso l’alto per circa 30 minuti – il trattamento termina quando compare nistagmo, quando compare instabilità, quando compare deterioramento uditivo oppure dopo la somministrazione di 12 dosi MUROFUSHI (5): – preparazione di una soluzione composta da 1.5 ml di gentamicina (60 mg), 0.2 ml di acqua sterile, 0.3 ml di sodio bicarbonato (8.4 %). La concentrazione della gentamicina nella soluzione è di 30 mg/ml. – anestesia della membrana timpanica con fenolo e iniezione mediante ago da spinale 22G attraverso la membrana timpanica di circa 1 ml di soluzione – il paziente resta supino con l’orecchio trattato verso l’alto per circa 1 ora – il paziente riceve da due a cinque iniezioni (una al giorno per cinque giorni consecutivi) – il trattamento viene sospeso alla comparsa di nistagmo, instabilità, deterioramento uditivo RAUCH (2): – preparazione di una soluzione composta da 40 mg/ml di gentamicina solfato – anestesia della membrana timpanica con fenolo in due siti, anteroinferiore e posteroinferiore – viene praticato con ago da spinale 27G un “foro di ventilazione” nel quadrante anteroinferiore, al fine di lasciar fuoriuscire l’aria durante l’instillazione del farmaco – iniezione della soluzione preparata attraverso il quadrante posteriore, fino a quando questa non fuoriesce dalla cassa timpanica attraverso la tuba di Eustachio, utilizzando lo stesso ago da spinale 27G – il paziente rimane supino con il capo ruotato di 30° verso l’orecchio sano per circa 1 ora – il trattamento prevede un massimo di quattro iniezioni nella prima settimana HIRSCH (3): – preparazione di una soluzione composta da 40 mg/ml di gentamicina e 0.5 ml di sodio bicarbonato a pH 6.4 fino a raggiungere una concentrazione di gentamicina di 30 mg/ml – anestesia della membrana timpanica con fenolo – somministrazione con ago da spinale di 0.3-0.5 ml della soluzione – il paziente è supino con il capo ruotato di 30° verso l’orecchio sano e dopo l’iniezione rimane con il capo ruotato di 45° per circa 20 minuti senza deglutire – il trattamento termina quando compare il controllo della sintomatologia vertiginosa, quando compare instabilità, quando compare deterioramento uditivo HARNER (4): – preparazione di una soluzione composta da 2 ml (80 mg/ml) di gentamicina solfato e 1 ml di bicarbonato di sodio – anestesia della membrana timpanica con fenolo – somministrazione con ago da spinale 25G di 0.75-1 ml della soluzione che viene iniettata nel quadrante posteroinferiore della membrana timpanica – il paziente rimane supino con l’orecchio trattato rivolto verso l’alto per circa 45 minuti – il trattamento prevede una sola somministrazione, un follow-up di circa un mese e ripetizione del trattamento in caso di persistenza dei sintomi
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(73%-100%), così come variabili sono le percentuali relative alla perdita uditiva (0%51%) (Tab. 2) (8). Nell’eventualità di un fallimento terapeutico, i pazienti saranno candidati a terapia chirurgica ablativa del tipo labirintectomia o neurectomia vestibolare.
Conclusioni
Fig. 1 - Somministrazione della soluzione di gentamicina, direttamente attraverso la membrana timpanica, con ago da spinale pediatrica.
trattamento (13) e di un buon controllo sui sintomi anche in assenza di una completa areflessia labirintica (3-4). I pazienti trattati possono infatti divenire asintomatici, pur presentando una risposta residua alle prove caloriche. Questo probabilmente perché la registrazione della stimolazione calorica riflette l’attività del canale semicircolare orizzontale, mentre gli effetti tossici della gentamicina sugli altri canali semicircolari, sul sacculo e sull’utricolo non vengono misurati. L’ablazione della funzione vestibolare non viene quindi ritenuta, allo stato attuale, elemento indispensabile per il successo terapeutico (8). Tale successo viene riportato in percentuali assai variabili a seconda degli A.A.
La somministrazione transtimpanica di gentamicina nelle forme monolaterali di Malattia di Ménière resistenti alle terapie farmacologiche è stata proposta da numerosi ed autorevoli A.A. con differenti modalità di rilascio, a dosi e concentrazioni diverse e con diverse finalità (6). Si è dimostrata una tecnica di facile esecuzione, minimamente invasiva, ben tollerata, in grado di offrire una elevata percentuale di successi con rischi minimi e il vantaggio di rivolgersi a pazienti ambulatoriali senza necessità di ricovero (2). In tutti quei casi ove siano presenti le corrette indicazioni, può essere quindi considerata, a nostro avviso, il trattamento d’elezione. Bibliografia 1.Mira E. I trattamenti ablativi della malattia di Menière. XV Giornate di Otoneurologia, Lecce, Marzo 1998. 2.Rauch SD, Oas JG. Intratympanic gentamicin for treatment of intractable Menière’s Disease: A Preliminary report. Laringoscope 1997; 107:49-55.
Tab. 2 - Percentuali di successo terapeutico e peggioramento uditivo con gentamicina topica: revisione della letteratura AUTORE Rauch Hirch e Kramer Murofushi Nedzelski Blakley 18
REMISSIONE DELLE VERTIGINI 95% 91% 78% 89.7% 90/100%
PEGGIORAMENTO UDITIVO 24% 31/38% 30% 25% 30%
3.Hirsch BE, Kamerer DB. Intratympanic gentamicin therapy for Menière’s Disease. Am J Otol 1997; 18:44-51. 4.Harner SG, Kasperbauer JL, Facer GW, Beatty CW. Transtympanic gentamicin for Menière’s Syndrome. Laringoscope 1998; 108:1446-49. 5.Murofushi T, Halmagyi GM, Yavor RA. Intratympanic gentamicin in Menière’s Disease: Results of therapy. Am J Otol 1997; 18:52-57. 6.Nedzelski JM, Chiong CM, Fradet G, Schessel DA, Bryce GE, Pfleiderer AG. Intratympanic gentamicin instillation as treatment of unilateral Menière’s Disease: Update of an ongoing study. Am J Otol 1993; 14:278-82. 7.Nedzelski JM, Bryce GE, Pfleiderer AG. Treatment of Menière’s Disease with topical gentamicin: A preliminary report. Presented at the 1990 Annual Meeting of the Canadian Society of Otolaryngology-Head and Neck Surgery, Montreal, Québec. 8.Blakley BW. Update on intratympanic gentamicin for Menière’s Disease. Laringoscope 2000; 110:236-40. 9.Fowler EP. Streptomycin treatment for vertigo. Trans Am Acad Ophthalmol Otolaryngol 1948; 52:293-301. 10.Beck C, Schmit CL. 10 years experience with intratympanally applied streptomycin (genta-
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INTERPRETAZIONE DELLE MANIFESTAZIONI DI DISTURBI AUDITIVI E DELL’EQUILIBRIO NELLA MEDICINA ANTICA E NELLA TRADIZIONE POPOLARE CARLO LAPUCCI, ANNA MARIA ANTONI
Introduzione La dotta ed affascinante trattazione sull’interpretazione degli acufeni nei secoli comparsa sul precedente numero della Rivista ha riscosso un notevole successo. Carlo Lapucci e Anna Maria Antoni, profondi conoscitori delle tradizioni popolari, ci consentono ora un nuovo viaggio nel tempo, alla scoperta dell’ interpretazione fornita nei secoli passati sulle vertigini e sui fenomeni ad esse correlate. Ancora una volta si tratta di un viaggio che non potrà che fornire motivi di riflessione e spunti di studio per ogni otoneurologo..
Giorgio Guidetti
Parte Seconda Vertigini La medicina antica ha dato molta importanza al fenomeno delle vertigini, in quanto esse sono legate a diversi disturbi anche molto gravi, o provocate da eccessi nel mangiare, nel bere o nel movimento, come il ballo sfrenato o il girare vorticoso. La parola italiana “vertigine” è una voce dotta, nata cioè non a livello popolare, ma messa in giro ad opera di medici o di ricercatori. La nascita è databile tra il primi anni del secolo XIV e gli ultimi del secolo precedente ed è spesso usata al plurale, come se l’attacco di questo disturbo venisse a ondate ripetute. Deriva dal verbo latino vertere, girare, volgere e si concretizza nella locuzione vertigo capitis, né più né meno che “giramento di testa”. Tuttavia la vertigine passa ad indicare qual20
cosa di più che un giramento di testa passeggero, denota un turbamento vero e proprio della percezione spaziale, con la sensazione di uno spostamento continuo dell’ambiente circostante, con possibile perdita dell’equilibrio, smarrimento, caduta e perdita dei sensi. Tra le cause naturali più semplici, la Scuola salernitana descrive quattro malattie prodotte dalla ventosità: Morbi ex ventositate Quattuor ex vento veniunt in ventre retento: spasmus, hydrops, colica, vertigo: quatuor ista. [Malattie prodotte dalla ventosità Dalla ventosità trattenuta nel ventre derivano questi quattro disturbi: lo spasmo, l’idropisia, la colica e le vertigini]. Da qui si ha l’indicazione che una delle cause principali della vertigine era indivi-
duata dalla medicina antica nelle alterazioni della digestione. Qualcosa di più ci possono dire i vari rimedi che la Scuola indica per questo genere di disturbo. La prima cosa che si può notare è che non ci fosse un’idea precisa né di quello che fosse la malattia né di come potesse essere curata. Essi curavano in realtà più i sintomi che la malattia vera e propria. I rimedi previsti sono i più diversi e sono segnalati per molti altri tipi di disturbo, a quanto appare senza un preciso collegamento fra di loro. Si consiglia
ad esempio la pillola di castore, l’euperisto teodorito, il menfito yerologodion, il teodorico anacardino e naturalmente la tiriaca, che era un medicamento universale (Fig. 1). Del resto anche tutti gli altri sono medicamenti generici volti a guarire molti mali. La medicina dei secoli seguenti non progredisce molto nell’analisi di questo fenomeno: viene introdotto il vapore, il fumo grosso, che vorrebbe spiegare il collegamento tra gli organi della digestione e il disturbo delle vertigini nella testa.
Fig. 1 - Uomo che pesta medicamenti: dal manoscritto greco del IX secolo “Nichandra Theriaca et Alexi Pharmaca”. Oltre 70 erbe medicamentose componevano la tiriaca, panacea universale per ogni tipo di male, incluse le alterazioni della digestione, ancora ritenute dalla Scuola salernitana come una delle principali cause di “vertigini”. 21
Fig. 2 - Il salasso era ritenuto un rimedio utile per curare i capogiri e la pesantezza di testa.
Anticamente si pensava che i fumi o vapori si liberassero dagli organi affetti da malattie e si disperdessero nell’organismo arrivando fino alla testa, procurando un senso di vuoto, di sbandamento, di vertigine, ronzii alle orecchie. Spesso queste affezioni della testa venivano curate con il salasso (Fig. 2), che prevedeva una serie di attenzioni nella scelta del momento sia stagionale sia della condizione dell’organismo malato. Non si fa comunque molta strada e le idee continuano ad essere vaghe. Scrive il Dal Bosco (1): “La vertigine è una balordagine o giramento di testa, alle volte con oscurità, o cecità nelli occhi, per il più con conturbatione del stomaco, che se l’huomo non s’appoggiasse, o sedesse parendoli, che 22
tutti gli oggetti girino in circolo, caderebbe in terra. Suol nascer da vapori, o fumi grossi elevati dalla bocca del stomaco, dal fegato, dalla milza, o altre parti, che andando alla testa offendono li spiriti, li necessitano al moto in giro, onde poi si fa tal cecità e vertigine. Nasce anco da inedia, o debolezza di stomaco, e si vede in molti, che per mancanza di cibo sopravviene tal morbo. È cagionato al contrario da troppo cibo, come si osserva nelli ubriachi. Di più procede da testa debole, come si vede in alcuni, che per minima occasione sono soggetti a questi mali”. Nella medicina popolare i capogiri, gli svenimenti e le vertigini, insieme ad altri disturbi di vario genere venivano attribuiti
all’acidità di stomaco. Il Pitrè (2) afferma: “L’acidità dello stomaco è una delle malattie più comuni e non v’è persona che non se ne dichiari vittima. Ad essa s’attribuiscono molte sofferenze che non si sanno altrimenti spiegare; e quando mancano i caratteri fisici della vera acidità, si ammette un acitu occultu. E così si ha pace. Quest’acido occulto è un male birbone che ne fa di tutti i colori: capogiri, vertigini, svenimenti, convulsioni d’ogni genere, dolori di stomaco, dolori intestinali, e cento altre cose”. Il dotto siciliano elenca poi diversi rimedi (Fig. 3): dal semplice bicarbonato di sodio, al purgante, al finocchio dolce, alle castagne crude o le fave crude. Ricorda che a
Fig. 3 - Nella medicina popolare, uno stesso rimedio era considerato utile per varie malattie. Ad esempio, la cicuta detta anche “Dulcamara cicuta” (Conium maculatum), era impiegata, per le sue proprietà calmanti, contro nevralgie, tetano, epilessia, tosse canina, corea (o “ballo di S. Vito”), asma, tossi convulsive.
Palermo usava bere acqua bollita infusavi una o più foglie d’alloro. In pratica non si trascurava nulla se a Sant’Agata di Militello era consigliato perfino un bicchiere d’acqua che fosse più fresca possibile. Una misteriosa “acqua di vite oleosa”, indicata anche da Sant’Ildegarda (Fig. 4) (3), viene consigliata per le otiti e i disturbi delle orecchie in generale. Quest’acqua pare che si ricavasse dai tralci recisi della vite a primavera, quando viene fatta la potatura. Raccolta in vasi veniva mescolata all’olio d’oliva, o altri tipi di sostanze oleose. Con questo preparato si strofinavano le orecchie ai malati.
Fig. 4 - L’Uomo-Cosmo di Santa Ildegarda da Bingen (1100-1179): microcosmo a immagine e somiglianza del macrocosmo. Se conquista la consapevolezza di essere sostanza dell’armonia universale, l’uomo sviluppa capacità di autoguarigione, attingendo le energie da se stesso e da qualsiasi altra forma creata, inclusi minerali e vegetali: le pietre e le erbe, che la “Santa dell’anno Mille” considerava meravigliosi strumenti di guarigione del corpo e dello spirito. 23
Il Torre (4) riferisce che nella Ciociaria per curare i capogiri si ricorreva al salasso: “Se l’uomo o la donna salassati guarivano dai capogiri, si consigliava loro, nella primavera di tutti gli anni successivi, di ricorrere al salasso, anche se residuava solo la cosiddetta pesantezza di testa. Se il salasso non risolveva nulla, il malato, o la malata, dovevano rassegnarsi a sopportare il male”. Si ricorda che a questo punto non restava che raccomandarsi a un’altra autorità, che è quella di San Saturnino, santo che guarisce le vertigini e il fischio nelle orecchie e protegge da questi mali (5). È un santo popolare, ricordato ufficialmente dalla Chiesa, la cui festa cadeva il 23 dicembre. Venerato come martire, subì il taglio della testa a Creta sotto la persecuzione di Decio, insieme ad altri compagni Euporio, Gelasio, Euniciano Zetico, Cleomene, Agatope, Basflide ed Evaristo. La cosa che stupisce è che col nome di Saturnino sono venerati nella cristianità 28 santi, più un Saturniano e una Saturnina (6). Stupisce ancor più che nell’attuale calendario ufficiale del santi, compilato da una recente riforma della Chiesa, nessuno di questi compaia (7) come proposto al culto ufficiale. Il gran numero di santi con nome uguale si spiega in modo semplice: laddove si trovava radicato nelle tradizione pagana il culto dei dio Saturno, i cristiani proposero in alternativa la venerazione di un santo dal nome simile: Saturnino. Di conseguenza la nuova figura sacra assumeva anche le prerogative che spettavano alla divinità pagana, nel nostro caso la protezione da quei mali dai quali proteggeva Saturno, e il patrocinio su quelle cose che erano di pertinenza della divinità. Anche la Chiesa ha diffidato di tanta abbondanza e ha relegato questi santi di dubbia origine ai culti locali. Sfogliando un manuale documentato di astrologia si riscontra come nel sistema 24
dei collegamenti tra le parti del corpo e i pianeti, l’orecchio destro è collegato al pianeta Giove e l’orecchio sinistro al pianeta Saturno (8,9). Ecco dunque come approda San Saturnino a proteggere dalle emicranie, dalle vertigini e dai fischi nelle orecchie, ereditando tale prerogativa direttamente dal dio Saturno. Dei vari santi che portano tale nome, difficile è scegliere quale sia il protettore di questi mali, anche perché forse quasi tutti furono invocati a questo fine. Alcuni sostengono che non si tratti del più celebre, quello che fu vescovo di Tolosa, ma di quello che è patrono di Cagliari, morto per decapitazione, che si festeggia il 29 novembre. Ma le varie figure si confondo spesso una con l’altra e non è il caso di indagare oltre.
Alterazioni temporanee Sibili e ronzii alle orecchie, senso di vertigine e vuoto alla testa che si manifesta come perdita di memoria, incapacità di coordinare le idee e a volte difficoltà d’espressione, si ricollegano ad alterazioni temporanee dello stato fisico e psichico d’una persona che ha ecceduto nel bere o ha subito uno spavento, quando non siano sintomi premonitori di più gravi alterazioni. Con l’alcol entriamo in un campo particolare della ricerca intenzionale – a fine ludico o di gratificazione – di stordimento, smarrimento, addirittura di perdita d’equilibrio, di coscienza e addirittura di percezione della realtà (Fig. 5). Fin da piccoli si sperimentano gli scoppi improvvisi, il giro vorticoso sulla persona con la finale caduta sull’erba di un prato. In seguito altri giochi, vari tipi di giostre, droghe, tendono a provocare vertigini e altre sensazioni collegate ai fenomeni che c’interessano. L’uomo cerca la paura, come il pericolo, il perturbante come diversivo alla monotonia del normale. Oggi la
Fig. 5 - I bevitori: l’alcol è uno dei mezzi con cui l’uomo cerca intenzionalmente uno stato di alterazione temporanea della coscienza. La medicina antica individuava nell’uso smodato di alcol la causa delle più svariate malattie.
Ubriachezza
chezza raggiunge uno stato avanzato, l’ubriaco, incapace di muoversi, è costretto a distendersi e cade in un torpore pesante in cui delira e farfuglia, finché sopraggiunge un sonno profondo da cui si risveglia intorpidito, privo di memoria vicina, con giramenti di testa, malessere e una forte sete. La medicina antica vedeva nell’uso smodato dell’alcol la causa delle più svariate malattie. In certi casi il rapporto stabilito è ancora condivisibile, in certi altri invece lascia perplessi. Baldassar Pisanelli (10) scriveva a questo proposito:
Molta attenzione viene posta dalla medicina tradizionale agli effetti nocivi del bere e ai possibili rimedi. I cosiddetti fumi dell’alcol provocano nell’organismo giramenti di testa, ronzii, senso di vuoto, difficoltà nel parlare e nell’agire e, quando l’ubria-
“Effetti del vino bevuto fuori di modo – Quando la quantità del vino, che si beve, non può esser retta, né moderata dal calor naturale, non solo egli non scalda, ma genera effetti, e infirmità frigide: perciocché suffocando il calor naturale,
musica assordante delle discoteche e altre forme di divertimento, anche di tipo virtuale, possono provocare alterazioni auditive e perdita della coscienza. Queste pratiche, che si pongono su tale linea di ricerca dello strano, dell’inconsueto, non compaiono nel mondo tradizionale, oppure vi compaiono in forme diverse, che vedremo più avanti, nella danza sacra e negli unguenti allucinogeni preparati con le erbe.
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nuoce assai al cervello, e a tutti i nervi: e quindi nasce l’Apoplesia, la Paralisia, il Letargo, il mal caduco, lo spasmo, e il tremore. Quanto poi appartiene all’animo il vino fa gli huomini loquaci, ingiuriosi, fuorzennati, stupidi, homicidiarij, lussuriosi, egli corrompe la mente, risolve l’animo, e distrugge le potenze animali e naturali: e se l’ebbriachezza si frequenta, apporta molte lesioni al corpo humano. […] e quando l’uomo è ubbriaco, è come una nave che sta in mezzo a il mare senza governo”.
fermandosi al punto nel quale possono tornare dall’osteria a casa con le proprie gambe. A Roma questo tipo d’ubriaco era detto argutamente stimatore. Quando gli ubriaconi tornavano alticci nel vago e impreciso itinerario verso la dimora, nel rendere alla terra il di più che avevano bevuto, si appoggiavano ai muri delle case, quasi a verificarne la stabilità, con suoni di singulti che venivano interpretati come: “Più, più, più...”. Si diceva che stimassero il valore del casamento che era sempre più del valore della casa precedente, e così via. Molte strofette definiscono la briaca.
Il mondo popolare conosce bene tutto il decorso del fenomeno, avendolo avuto costantemente sotto gli occhi. Perciò ne ha individuato le fasi, distinto le forme, elencato le particolarità. La forma più grave è quella che si dice la briaca da olio santo: ubriachezza che può portare alla tomba, tanto che bisogna chiamare il prete per l’Estrema Unzione. Prima di arrivare a questo estremo però, le fasi sono diverse e molti si ubriacano
La briaca La briaca è di cinque tipi: chiacchierina, trampellina, fanfarona, da muro a muro e fermati là. Indica le varie fasi dall’allegria all’ubriachezza completa: da prima gran voglia di parlare, poi difficoltà a camminare,
Fig. 6 - Le suggestive credenze popolari sulle virtù terapeutiche del colore viola si basano su corrispondenze di proprietà tra il colore della pietra, l’estremo dello spettro solare e il fiore che dà nome al colore. 26
quindi discorsi sconclusionati e fanfaronate, il passo successivo è la camminata incerta appoggiandosi a ogni muro e infine la caduta definitiva senza potersi muovere. La sbronza è di cinque sorte: brilla trilla cotta spolpa e fermati lì. Così viene definita ad Arezzo: allegra, stravolta, torpida, senza coscienza né volontà e infine immobile. La sbornia è di tre tipi: cirla virla e patariacca. Le stesse fasi all’incirca sono individuate a Milano. Più chiaro è il detto che elenca precisamente gli effetti della briaca, indicando al secondo posto la confusione mentale e al terzo la perdita dell’equilibrio. La briaca fa cinque effetti: prima scioglie la lingua poi confonde la testa lega i piedi taglia le gambe e alla fine chiude gli occhi.
Rimedi dell’ubriachezza I rimedi per l’ubriachezza sono i più vari e fantasiosi. Gli antichi ritenevano che il colore viola (Fig. 6), simile a quello del vino, avesse il potere di attenuare gli effetti dell’ebrietà. L’ametista (Fig. 7) in particolare veniva tenuta come talismano contro tali disturbi. Si dava l’ametista ai bevitori, nella convinzione che la pietra li preservasse dai giramenti di testa, dalla perdita dell’equilibrio e permettesse loro, sia pure pieni di vino, di raggiungere traballanti, ma
Fig. 7 - L’ametista è una varietà di quarzo con tracce di ossido di ferro, che ne determina il colore viola, che può variare dalle sfumature rossastre al lilla chiaro ad un viola molto scuro. È il cristallo guida all’introspezione: il raggio viola ad alta frequenza vibratoria, che corrisponde alla nota musicale SI, coinvolge risonanze energetiche che stimolano l’attività di ghiandole endocrine come il pancreas, attenuano le cefalee e hanno un effetto tranquillizzante nelle tensioni di carattere emotivo.
sulle proprie gambe, la casa a un’ora della notte. L’ametista è una pietra assai strana, di un colore cupo che ricorda quello del vino che vira dal vinaccia al viola. Non è amata: L’ametista è cosa trista, ma se è chiara è cosa rara. Il nome della pietra significa in greco “contraria all’ubriachezza” e già gli antichi la credettero capace di assorbire i fumi del vino e ridare equilibrio e stabilità all’organismo debilitato dall’ubriachezza. Comunemente non si regala, perché da alcuni si ritiene che non porti bene. Comunque si vuole che protegga anche dalle passioni violente e dalla lussuria, e perciò se la scambiavano gli innamorati che volevano 27
amarsi costantemente per sempre. San Valentino, loro patrono, essendo vescovo, portava un anello d’oro con un’ametista incastonata, cosa che è in uso comune per tutti i vescovi. Si vuole che un anello con questa pietra fosse donato nel giorno del loro fidanzamento da San Giuseppe alla Madonna. Secondo un mito, narrato da Aristotele (11), Ametis sarebbe stata una bellissima ninfa del corteggio di Dioniso, dio del vino e dell’ebbrezza. Durante una festa, la sua bellezza sconvolse la mente del dio che la inseguì per i boschi. Ametis, che stava per essere raggiunta, invocò Diana e la dea fece sì che tra le mani di Dioniso, che credeva d’abbracciare la ninfa, si trovasse una pietra di grande splendore che gli rese la lucidità e la ragione. Allora Dioniso, pentito, dette ad Ametis, divenuta una pietra, il colore purpureo e profondo del vino e la proprietà di cancellarne gli effetti, ridando al bevitore lucidità ed equilibrio. Ci siamo dilungati su questo argomento, nella convinzione che dietro queste suggestive credenze si nasconda qualcosa di più della teoria dei simili, o di una costruzione puramente fantastica. Forse qualcuno vi potrà rintracciare un senso, dato che anche il colore della pietra, l’estremo dello spettro solare, il viola, e il fiore che dà nome al colore, hanno le stesse proprietà, cosa che va un po’ al di là della pura coincidenza (12). La viola (Fig. 8), considerata umile fiore, che vive nascosta tra le altre erbe, si rivela per il grato e penetrante profumo e si distingue per il forte sapore. Contiene molti principi attivi ed è stata largamente impiegata nella farmacopea antica e popolare, usandone sia i semi, che le foglie, le radici e i fiori. Dal Bosco (13) scrive: “Le viole dei prati leniscono, rinfrescano e solvono il corpo con molta piacevolezza, evacuando la bile ed estinguendo il suo 28
Fig. 8 - La farmacopea antica e popolare sfruttava i molti principi attivi della viola, usandone semi, foglie, radici e fiori.
fervore; giovano per lenire il petto, per riconcilar il sonno, per mitigar li dolori di capo in causa calda e per rimetter l’eccessivo calore del fegato e delle reni. S’adoprano nei mali caldi e sono molto amiche del cuore. Da esse si fa l’infusione solutiva, il siroppo violato solutivo e il zuccaro violato o conserva di viole”. La Scuola salernitana (14) indica in una quartina uno dei rimedi più usati costituito da tale fiore, con una sommaria ma precisa indicazione (Fig. 9). Viola Crapula discutitur, capitis dolor atque gravedo; purpuream dicunt violam curare caducos, praecipue pueros si mixto sumitur amne. Aegris dat somnum vomitum quoque tollit ad usum. [L’ubriachezza viene scacciata dalla viola e così il dolore e la pesantezza di testa. Dicono che la viola purpurea curi i malati di mal caduco e soprattutto i fanciulli se presa insieme all’acqua.
Fig. 9 - La viola purpurea era una dei rimedi più utilizzati dalla Scuola salernitana, per scacciare l’ubriachezza, il dolore e la pesantezza di testa, per conciliare il sonno e per curare i malati di “mal cadúco”.
Ai malati dà il sonno e stimola il vomito curativo]. Nella medicina antica si trovano molte indicazioni su come prevenire e curare l’eccesso del bere. Sono preparati di vario genere che utilizzano le piante, gli animali e i minerali. Francesco Gallina, nelle annotazioni all’opera di Baldassar Pisanelli (15) ne indica diversi. – Lasciando morire in un vaso di vino un’anguilla, e bevendo il liquido, si ottiene l’astensione totale dal bere per il resto della vita. – Su indicazione di Galeno, mangiando del polmone di pecora a digiuno, si evitano gli effetti del vino “anchor che ne bevesse uno staro”. – Le foglie di ruta e le mandorle amare mettono al riparo dall’ubriachezza, se ingerite prima di bere. – I cavoli, mangiati con il brodo, hanno lo stesso risultato.
Anche nella medicina popolare si trovano molti rimedi all’ubriachezza, per lo più di carattere pratico, più o meno simili nelle varie regioni (16). – Vari tentativi volti ad eccitare il vomito (penna per solleticare la gola, la costolina di sedano con la stessa funzione, bevande nauseabonde). – Agro di limone puro, ovvero mescolato con olio o vino. – Infusi depurativi come l’acqua di malva. – La canapuccia, ovvero il seme di canapa, che viene pestato e posto nell’acqua e filtrato. – Siero di latte che veniva somministrato la mattina, per combattere gli effetti secondari, come stordimento, pesantezza di stomaco, testa pesante e alito cattivo. – Bagnature fredde “sulle parti segrete”. Esistono anche rimedi eccezionali per far perdere il vizio d’ubriacarsi, provocando nausea verso il vino. Uno è costituito da sangue d’anguilla – [notare l’analogia tra la medicina popolare e la medicina antica] – mescolato col vino, oppure nero di seppia o sale mescolato sempre col vino, dopo che la seppia sia stata ubriacata col vino. Il sale in particolare, sciolto nel vino e bevuto, provoca una tale nausea, che dura anche più giorni, e induce a stare lontani dal bicchiere quanto meno per parecchi giorni. Spavento Una delle cause delle vertigini è la paura del vuoto e dell’altezza, anzi le vertigini più forti sono determinate proprio da questo tipo di stimolo. Il discorso si ampia in quanto ogni tipo di paura, anche leggera, comporta un momentaneo smarrimento e una perdita del controllo di alcune funzioni fisiche: emissione involontaria di orina e feci, annebbiamento della vista, palpitazione e aumento del battito cardiaco, sec29
chezza della gola, svenimento o momentanea paralisi. Se i fenomeni sono leggeri, dopo un breve periodo di spossatezza si torna alla normalità, permanendo a volte il tremore alle gambe. Nei casi più gravi, o in organismi debilitati, si può giungere a morire di paura. Dovunque, in caso di forte spavento, si usa far bere alla persona traumatizzata un bicchier d’acqua, qualcuno inesorabilmente lo ha fatto anche dopo una minaccia d’annegamento. In alcuni luoghi, più avvedutamente, si usa far bere un bicchiere di vino nel quale sono stati immersi dei carboni accesi: uno o tre. Siamo però in questo caso già nel campo del rito, in quanto il rimedio viene accompagnato da segnature e preghiere. Si usa anche ungere con succo d’aglio l’orlo di un bicchiere e applicarlo sull’ombelico. Il Pitrè (17) riferisce che in Sicilia, come rimedio per uno spavento dovuto a caduta dall’alto, vi era anche l’uso di far orinare lo spaventato sopra una scopa nuova. Gli effetti di un forte spavento sono molteplici e si segnalano accessi di febbre elevata con delirio, senso di debilitazione, giramenti di testa, confusione mentale, tremiti e rumori auricolari. Siccome tali manifestazioni si possono prolungare nel tempo, vi sono vari sistemi per eliminarne i disturbi. Nell’area tosco-emiliana, con propaggini anche altrove, si trova un rituale magico terapeutico al quale si ricorre per preservare chi ha avuto un forte spavento da più infauste conseguenze. Il rituale, eseguito da una guaritrice, detta anche maga o strega, prevede la recita di numerose formule e orazioni, che si tramandano di generazione in generazione in linea femminile. Tutto questo si fonda sull’uso d’una pianta chiamata erba da paura o erba della paura, che viene tagliata e immersa ancora fresca in un recipiente pieno d’acqua (Fig. 30
Fig. 10 - Stachys palustris: contro i malanni procurati dallo spavento, la medicina popolare ricorreva alle virtù curative dell’erba della paura, dell’erba strega o di altre piante della famiglia delle Labiate, ricche di oli essenziali e di acido tannico, con accompagnamento di rituali magici.
10). La guaritrice immerge le mani nel liquido e, recitando varie formule, le passa leggermente, correndo dalla testa fino ai piedi, sul corpo del malato denudato, che pone i piedi in un bacile. In questo si raccoglie l’acqua dell’abluzione, la quale diviene nel giro di poco tempo di colore scuro (18): si dice allora che la paura è uscita dal corpo e si ha cura di gettare l’acqua annerita in un corso d’acqua corrente. Viene usata comunemente per questo rito una pianta della famiglia delle labiate, la Stachys recta, chiamata anche stregonella (18), non facilmente riconoscibile da altre specie dello stesso genere, indicate comunemente con i nomi di erba
strega, streghina o stregona, dette anche queste erbe della paura, come la Stachys palustris, la Stachys annua, e la Stachys arvensis (le Stachys contengono molti oli essenziali e acido tannico, quest’ultimo forse responsabile del fenomeno). È da notare che allo stesso genere appartiene anche la betonica, un tempo detta erba dalle mille virtù. Aggiungeremo, come curiosità, che San Vito è il protettore di coloro che hanno avuto paura, oltre che degli idrofobi. Riferimenti bibliografici 1. Dal Bosco F di Valdebiadene, detto il Castagnaro. La prattica dell’infermiero, Verona 1664, pag. 118. 2. Pitrè G. Medicina popolare siciliana, Barbera Editore, Firenze 1949, pag. 319. 3. Hertzka G e Strehlow. Manuale della medicina di Santa Ildegarda, Editrice Athesia, Bolzano 1992, pag. 47. 4. Torre D. Medicina popolare e civiltà contadina – Ricettario. Formule magiche. Soprannaturale. Credenze popolari. Gangemi Editore, Tivoli 1994, pag. 59. 5. Torre D. Medicina popolare, cit., pag. 387.
6. Martyrologium romanum Gregorii XIII, Ex Typographia Balleoniana, Venetiis 1802. 7. Olivar A. Il nuovo calendario liturgico, Elle Di Ci, Torino 1973. 8. Le arti magiche, prefazione di P. Toschi, Casa Editrice Bietti, Milano 1969. 9. Seligmann R. Lo specchio della magia, Gherardo Casini Editore, Roma 1951. 10. Baldassar Pisanelli. Trattato de’ cibi, et del bere, ridotto in un’assai bell’ordine, e aggiontovi di molte dotte, e belle Annotationi sopr’ogni capo dal Sig. Franc. Gallina Medico di S. Maestà Chrisianiss. e del luogo di Carmagnola in Piemonte, Appresso Marc’Antonio Bellone, Carmagnola 1589, pag. 221. 11. Villiers E. Amuleti e talismani ed altre cose misteriose, Hoepli Editore, Milano 1957, pag. 39. 12. Cairo G. Dizionario ragionato dei simboli, Forni Editore, Bologna 1967. 13. Dal Bosco F di Valdebiadene, detto il Castagnaro. La prattica…, cit. pag. 307. 14. Sinno A [traduzione e note a cura di…] Regimen sanitatis – Flos medicinae Scholae Salerni. Mursia Editore, Milano 1987, pag. 205. 15. Baldassar Pisanelli. Trattato de’ cibi, et del bere, cit., pag. 201. 16. Pitrè G. Medicina popolare, cit., pag. 325. 17. Pitrè G. Medicina popolare, cit., pag. 407. 18. Otto Penzig. Flora popolare italiana, Edagricole, Bologna 1974 [anastatica dell’ediz. 1924] pag. 474.
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