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L’OROLOGIO SEGNA TEMPO PERSO

Vincenzo De Cunzolo il poeta degli affetti e delle sonore nostalgie, di quel mondo trattenuto dall’infanzia “umile minuscolo tappeto di muschio”, come lui stesso ama definire la sua terra lucana, si frappone quale ponte fra un passato ancora presente e un presente che confida nel futuro, affrontando in questa terza raccolta temi nuovi, attuali, autentici, dolorosi. La “fragile terra” lucana, bacino di condensati ricordi, si accompagna a una più matura e dilatata narrazione del mondo in cui, attraverso giochi allegorici e dissonanze, il poeta rivela il segreto canto della notte, la vitalità dell’acqua, il suono “ambrato” del dolore.

PAROLE SUL TERRITORIO / 3

Vincenzo De Cunzolo

Questa terza raccolta di poesie di Vincenzo De Cunzolo, medico di professione, ma poeta a “tempo perso”, è dedicata a chi sa riconoscere la gioia: una gioia che traspare e riluce nei più svariati momenti del giorno e della notte, quei momenti che De Cunzolo, a contatto quotidiano con la sofferenza e con il dolore, riesce a riservare a se stesso e alle sue riflessioni poetiche.

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Vincenzo De Cunzolo

L’OROLOGIO SEGNA TEMPO PERSO raccolta di poesie a cura di Chiara Zanellato

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€ 12,00

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Vincenzo De Cunzolo, nato a Palazzo San Gervasio nel 1959, vive e lavora a Padova in qualità di Medico di Medicina Generale. Dopo aver pubblicato “Versi Lucani” (2007, Il Torchio; 2010, Overview Editore), affrontando la nostalgia della sua terra e il vissuto di eventi personali e sociali, con profondità di sentimenti velati da un pudore sfociati in un “non detto” ricco di interrogativi e “Suoni Rovesci” (2010, Overview Editore), esplorando tematiche quali le guerre, l’omosessualità, la pedofilia, l’arrivismo senza scrupoli, è giunto ora alla sua terza raccolta di poesie.


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www.overvieweditore.com Š 2012 per i testi Vincenzo De Cunzolo Š 2012 overview editore Padova, via Cesarotti, 8 Progetto grafico: Julian Adda

ISBN 978-88-904960-9-7

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L’OROLOGIO SEGNA TEMPO PERSO raccolta di poesie a cura di Chiara Zanellato

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Parole dipinte. Antiche armonie su presenti emozioni.

Il velo si è alleggerito, le emozioni fruiscono meno intime e segrete, più libere e complesse si annidano e spingono “fuori casa”. Vincenzo De Cunzolo il poeta degli affetti e delle sonore nostalgie, di quel mondo trattenuto dall’infanzia “umile minuscolo tappeto di muschio”, come lui stesso ama definire la sua terra lucana, si frappone quale ponte fra un passato ancora presente e un presente che confida nel futuro, affrontando in questa terza raccolta temi nuovi, attuali, autentici, dolorosi. Un viaggio che tocca punte di eleganza emotiva: “Muto/ mi ritrovo lieve,/ dolore e amore dissolti” e si compone di frammenti che provengono da echi lontani, da storiche memorie fondate su un contemporaneo disegno: “Nei giorni della vita/ il silenzio/ e tutto l’antico/ desidero/ per ripetere/ orizzonti infiniti/ in un granello/ di sabbia”. I versi, le tematiche, che si svelano nelle pur brevi ma ricche composizioni, si accordano a note musi5


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cali ad antiche armonie rivissute, immagini trascinate, rivisitate, definite, summa di sensazioni che le parole traducono in visioni, in puro colore, in concitate emozioni, mai scontate: “Foglia/ di tiglio,/ i miei stivali/ trattieni/ nella stanza dell’amore,/ umile/ degna di sorriso/ amica rimani/ del mio corpo”, e ancora “Occhi di nuovo amore,/ costruzione geometrica./ Baci trasformano/ l’unico cerchio./ Gabriele,/ punta d’ala,/ accarezza la terra”. La “fragile terra” lucana, bacino di condensati ricordi, si accompagna a una più matura e dilatata narrazione del mondo in cui, attraverso giochi allegorici e dissonanze, il poeta rivela il segreto canto della notte, la vitalità dell’acqua, il suono “ambrato” del dolore. L’aria, l’acqua, la terra, il fuoco sono gli elementi che scandiscono il tempo in questa raccolta, attorno a essi il poeta compone, senza sapere, tracce, malinconici incontri, ferite profonde (“Nutre,/ l’innocente soldato,/ la terra d’issòpo/ di familiari ricordi./ Polveri mortifere,/ elmi accatastati,/ libertà pericolo che suona”), che in questa animata narrazione di eventi trovano pace: “Filari di oleandri/ bianchi e rosa accolgono/ l’alba nuova./ Dal mare/ lungo la costa/ illumina la rotta./ Onde alte allontanano/ malinconie”. Le parole che danno voce alla poesia sono le stesse che ne definiscono i lineamenti e i colori, dando luogo alla costruzione di immagini in continua trasformazione in quanto frutto di elaborazioni personali. Pensieri che risuonano in poesie che si pre6


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stano a una lettura “allungata”, che riesce a toccare e a riconoscere concretamente le cose narrate: “Il gelo in silenzio/ rivestì ogni minuscolo ramo,/ dolce nemico,/ la difese dalla fredda notte/ cadendo come zucchero/ nel buio argenteo. ...”, “L’aurora rompe i sigilli/ della notte/ china in silenzio/ si apre al mistero/ della luce.”, “…Lontane dalle palme/ grezze vesti/ rovesciano radici. …”. CHIARA ZANELLATO

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A chi riconosce la gioia

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Emozioni congelate Mani stanche vestono la lunga notte di fiori rari. Dimentico, in silenzio. Non ero felice.

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Io Fiori rossi del martirio ritmati sul giorno e sulla notte. Nato di VenerdÏ Santo consolo due madri una lieta, l’altra mesta.

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In cammino Parto dal buio in cerca di terra. Viaggio ultimo simile al Fisso.* Fra rovi brinosi ombre luccicano, soffrono come fiori, sconvolgono chi non ama.

* Il termine evoca il simbolo della redenzione e della fede cristiana: il Crocefisso.

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Acqua alta Notte canta in sogno onde in corteo illuminano fiere di Venezia danzano. Viva l’acqua si insinua a baciare mosaici di chiesa piede di donna in lotta.

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Pioggia improvvisa Una luna tante stelle. Di sabato senza sera nĂŠ mattino Dio riposa sulla strada. Impronte gementi, germoglio di terra, lucenti dopo la pioggia.

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Pace Tela dimenticata sul mare. Il vento agita acqua.

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Canne ai confini Luna nel mare, luce nell’anima. Canne argentee ascoltano, voci nella magia dell’acqua risanano il buio.

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Viaggio di gabbiani Campane risuonano sulla sabbia grigia, voci di monaci, come pioggia di luce, incertezze cancellano. Sotto l’antica torre la mia lingua muta.

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Canto silente Suono di campana saluta gli amanti, ingenuo nel meriggio del mondo nuovo.

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Ora Nei giorni della vita il silenzio e tutto l’antico desidero per ripetere orizzonti infiniti in un granello di sabbia.

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Paesaggio Solchi d’azzurro sulla sfera tracciata dall’aratro. Il suono mite del rimpianto batte immobile nei campanacci al collo dei buoi. La seta verde del campo cattura la malinconia.

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Infidi Come edera appesi a fili di ferro, oziosi rinascono. S’affiggono all’immobile leccio in vigoroso silenzio soffocandone il giudizio.

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Contròra Campane nelle segrete ore del giorno camminano lente. Rubo luce alla malinconia.

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Frantumi Foglia di tiglio i miei stivali trattieni nella stanza dell’amore, umile degna di sorriso amica rimani del mio corpo.

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Due novembre Cielo dei morti intessuto di pallida luce sospende nel silenzio lividi della vita. Appanna vetri di zucchero a velo. Ombre celiano come farfalle.

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Notte Confidando nella musica voci deliranti sotto la pioggia percorrono strade profonde. Muta il velluto.

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Errante Occupo in silenzio vagoni senza ritorno. Nell’ultimo giorno per un’altra strada scopro la mia generazione. Mi insultano, senza timore mi presto.

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Prudenza Fulgide api, di malinconica vecchia regina, lasciamo strada maestra per l’ignota. Caute seguiamo.

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Giudecca (Calle delle Convertite) Abitano rose all’interno di sbarre prigioniere del loro profumo, avide di luce nel giorno in lutto turbate dalla luna.

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Senza vento Eliche immobili piantate come alberi nella mia fragile terra da finti maestri. Uccelli rotolano sulle pale dalle risate nell’estate.

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VeritĂ Capace di rischiare.

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Vincent Muto mi ritrovo lieve, dolore e amore dissolti. Pellegrino attraverso memoria di angelo guerriero, sguardo negato di madre, bussola interiore orientata verso l’estate.

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Mare in lutto Musica nel cuore, chiome sull’acqua. Lontane dalle palme grezze vesti rovesciano radici. Nel deserto il serpente divide. Intreccio di mani tinte di dolore, corpi staccati trascinano nelle tasche moschee, dono elargito al viandante.

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Vetrata di Duccio Cerchi blu nel mio sguardo, perduto sorreggo chi redime.

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Giovane fiore La bellezza conosce fine. Rotolata attende carezze precarie per aprirsi al dialogo.

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Ricerca di madre Il gelo in silenzio rivestĂŹ ogni minuscolo ramo, dolce nemico, la difese dalla fredda notte cadendo come zucchero nel buio argenteo. Rimorsi di non averla amata veli senza ragione, fantasmi nel bosco di quercia.

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Suoni d’organo Nel vecchio giardino si aprono porte, luce vissuta senza fatica, musiche dimenticate.

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Madonna Glicofilusa * Nel sasso caveoso cristalli di preghiera ignoti e sospesi lungo mura gotiche. Lucania, umile minuscolo tappeto di muschio, inaccessibile al male, terra che conosce inizio e fine.

* Madonna Glicofilusa (del dolce amore, della tenerezza o dell'umiltĂ ) raffigurata tra gli affreschi che decorano la Chiesa rupestre della Madonna de Idris, nel cuore dei Sassi di Matera, sul monte Errone.

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San Michele (a mia sorella) Volto angelico nel bosco di quercia trattiene in ostaggio il mio pensiero afono. In fuga, col suono di campane, scende il colore della sera, veste ombre di velluto nuovo. Michele misura e calpesta senza tempo.

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Giugno Nel tascapane frumento ribelle. La terra suona rimpianti senza campane.

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Via dolorosa Sulla via andirivieni di madri. Rifioriscono ricordi di viaggio in segreto.

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Capo Colonna Pensieri fra canne verdeggianti. Sull’acqua si perdono, antiche ombre. Errante somiglio alla luna.

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Alba Filari di oleandri bianchi e rosa accolgono l’alba nuova. Dal mare lungo la costa illumina la rotta. Onde alte allontanano malinconie.

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Mente L’aurora rompe i sigilli della notte china in silenzio si apre al mistero della luce.

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Salomè Foglie luminose raccolte nella coppa. In sogno ascolto pensieri di anime rivolti alla sposa. Zolfo sull’abito, interrompe il viaggio nell’ombra frenetica.

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Jazz Musica graffiata dalle ombre. L'orologio segna tempo perso.

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Postfazione

Per il movimento finale della sua nona sinfonia Beethoven musicò l’Inno alla gioia, composto nel 1785 dal poeta tedesco Friedrich Schiller: un invito alla fratellanza universale, il cui presupposto consiste non solo nell’amore verso il prossimo, ma anche e soprattutto nella capacità di vivere in pace e in armonia con se stessi. Perché questo richiamo a Schiller e Beethoven? Perché questa terza raccolta di poesie di Vincenzo De Cunzolo, medico di professione, ma poeta a “tempo perso”, è dedicata a chi sa riconoscere la gioia: una gioia che traspare e riluce nei più svariati momenti del giorno e della notte, quei momenti che De Cunzolo, a contatto quotidiano con la sofferenza e con il dolore, riesce a riservare a se stesso e alle sue riflessioni poetiche. Anche la definizione di poeta a “tempo perso” richiede ovviamente una spiegazione. Infatti il tempo perso a cui mi riferisco non è quello dell’ozio, ma quello del protagonista di una celebre 67


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poesia di Prévert che, affacciato alla porta dell’officina, osserva il sole tutto rosso e tondeggiante nel suo cielo di piombo e gli rivolge una domanda: “Dimmi dunque compagno Sole/ davvero non ti sembra/ che sia un po’ da coglione/ regalare una giornata come questa/a un padrone?”. Inoltre il riferimento al tempo perso ritorna nella poesia conclusiva del volume di De Cunzolo, Jazz, dalla quale è ripreso il titolo della raccolta: “Musica graffiata/ dalle ombre./ L’orologio segna/ tempo perso”. Il tempo perso non è dunque quello trascorso inutilmente, ma al contrario quello riservato alla “vita”, quello in cui si ha modo di pensare e far affiorare le emozioni, i sentimenti, i ricordi, che costituiscono il nocciolo duro, il nucleo di quel grumo di materia di cui siamo composti. Per chi non fa il letterato di professione è difficile districarsi nel complesso labirinto di concetti e di immagini evocati nelle poesie di De Cunzolo, che apparentemente non sembrano seguire un ordine logico o una sequenza dalla quale sia possibile estrapolare una storia o il dipanarsi di una vicenda. Di conseguenza, per dare un senso alla mia lettura, o meglio, per cercare di capire il messaggio affidato dall’autore ai suoi versi, mi sono trovata costretta a disaggregare la raccolta e a ricomporla per gruppi tematici. Si tratta ovviamente di un raggruppamento del tutto arbitrario e personale, che tuttavia mi ha permesso di penetrare nel mondo poetico di De 68


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Cunzolo: un’ombra affiorata da un passato lontano e oggi un amico ritrovato, un medico del corpo e dell’anima, che con la sua vitalità ed esuberanza ha saputo regalarmi alcuni momenti di quella “gioia” a cui accennavo poc’anzi. Ebbene, la Lucania, terra d’origine di De Cunzolo, protagonista assoluta della sua prima raccolta di versi e in parte anche della seconda, è ancora presente sotto forma di affetti familiari e di luoghi della memoria: alludo a poesie come Ricerca di madre, Suoni d’organo, Madonna Glicofilusa, San Michele, Estate, Aratro, Senza vento, A Sarah. Certo, è difficile, senza l’aiuto dell’autore, capire che lo zucchero di cui parla nella poesia dedicata alla madre ha attinenza con il suo altruismo e con la sua bellezza, o che i cipressi sui quali le cicale cantano “versi seminati nell’argilla” sono quelli dell’orfanotrofio del suo paese. Tuttavia queste illuminazioni esegetiche, elargitemi con eloquio fluente davanti a un bicchiere di vino in un’osteria sperduta tra i colli, mi hanno offerto ulteriore conferma del fatto che le immagini, i suoni, i colori evocati nei suoi versi prendono quasi sempre spunto da situazioni reali: situazioni che, sublimate attraverso la poesia, diventano metafora o espressione di temi e problemi di portata universale. Almeno una decina di poesie (Soldato, Lotta impari, Pace, Annegati, Caduti, Due Novembre, Mare in lutto, Via dolorosa) sono dedicate alle vittime delle guerre e in 69


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particolare delle emigrazioni clandestine, una sorta di deriva dell’umanità a doppio senso, dei morti annegati e di coloro che li hanno lasciati morire: “Barche squarciate/ galleggiano sull’acqua./ Schiavi/ dimenticando il buio/ nel mare aperto/ disfano ceste mosaiche./ Dietro il tramonto/ città armata/ respinge il gregge di Abele./ Onde tornano col sangue/ sulle frange, ripetendo vita./ Vagabondo dolore/ nell’oscurità afona”. Anche la riflessione sull’Io, sebbene venata a volte di una punta di egotismo, si apre a una dimensione cosmica (“…Nato/ di Venerdì Santo/ consolo due madri/ una lieta, l’altra mesta”), così come un nuovo amore sembra rinnovare il mistero dell’Annunciazione (“Occhi di nuovo amore,/ costruzione geometrica./ Baci trasformano/ l’unico cerchio./ Gabriele,/ punta d’ala,/ accarezza la terra”), mentre il breve tragitto della vita, in cui il poeta incontra ombre sofferenti, ma luminose (“luccicanti”), che sconvolgono solo chi non ha capacità di amare, si trasforma in un “viaggio ultimo/ simile al Fisso”. A un livello più personale e terreno ci riconduce invece una serie di componimenti che evocano stati d’animo e situazioni contingenti. In questa categoria rientrano poesie come Emozioni congelate, Amàca, Frantumi e Contròra, in cui si parla di mancanza di felicità, del desiderio di perdersi in orizzonti infiniti e di un momento del meriggio estivo dedicato al riposo – la contròra, appunto – che diventa espressione di uno stato dello spirito e di 70


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una propensione dell’anima. Tuttavia a questo stesso gruppo appartengono anche due poesie che sembrano concludere una prima fase dell’esperienza poetica di De Cunzolo e al tempo stesso aprirne una nuova: mi riferisco a Jazz da cui – come accennato in precedenza – deriva il titolo della presente raccolta, e a Canto silente, un sommesso inno alla gioia che, scandito dall’ingenuo rintocco di una campana, disvela a una coppia di amanti il “meriggio/ del mondo nuovo”. Non posso concludere la mia breve riflessione sul mondo poetico di De Cunzolo senza ricordare che questa sua terza raccolta comprende anche un certo numero di poesie dedicate a città e luoghi da lui visitati. Anche in questo caso l’approccio è di tipo emotivo e si traduce in visioni notturne (Acqua alta), nel bagliore di piccole luci blu davanti a un antico castello (Dobrovo), in una stella marina nel bicchiere sul comò (Neblo), in pensieri che si perdono tra canneti verdeggianti, mentre il poeta si sente un errante, come il pastore di Leopardi e la luna (Capo Colonna). Tra tutte, la più bella e rivelatrice della sua sensibilità e del senso di pietas che egli prova non solo per se stesso, ma anche nei confronti del genere umano e della sua fragilità, è costituita – a mio avviso – da quella ispirata al carcere femminile della Giudecca, le cui inferriate sono fiorite di rose, prigioniere del loro profumo, così come prigioniere sono le donne rin71


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chiuse nell’antico ricovero destinato alle prostitute che intendevano abbandonare il peccaminoso mestiere: “Abitano rose/ all’interno di sbarre/ prigioniere del loro profumo,/ avide di luce/ nel giorno in lutto/ turbate dalla luna”. CATERINA FURLAN

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Parole dipinte. Antiche armonie su presenti emozioni di CHIARA ZANELLATO L’orologio segna tempo perso Emozioni congelate Soldato Io Annunciazione In cammino Abitante di luce Acqua alta Pioggia improvvisa Lotta impari Amàca Pace Canne ai confini Alba Viaggio di gabbiani Canto silente Vita in batane Annegati San Paolo A Sarah Ora Paesaggio Infidi Contròra Frantumi Caduti Due novembre 76

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Notte Errante Prudenza Giudecca (Calle delle Convertite) Senza vento Verità Vincent Mare in lutto Vetrata di Duccio Estate Giovane fiore Ricerca di madre Suoni d’organo Madonna Glicofilusa San Michele (a mia sorella) Aratro Giugno Via dolorosa Delirio (alle giovani vittime di incidenti) Capo Colonna Alba Mente Dobrovo Neblo Salomè Jazz

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Postfazione di CATERINA FURLAN

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finito di stampare nel mese di giugno 2012 da La Grafica Faggian - Campodarsego, PD per conto di overview editore

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13-06-2012

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L’OROLOGIO SEGNA TEMPO PERSO

Vincenzo De Cunzolo il poeta degli affetti e delle sonore nostalgie, di quel mondo trattenuto dall’infanzia “umile minuscolo tappeto di muschio”, come lui stesso ama definire la sua terra lucana, si frappone quale ponte fra un passato ancora presente e un presente che confida nel futuro, affrontando in questa terza raccolta temi nuovi, attuali, autentici, dolorosi. La “fragile terra” lucana, bacino di condensati ricordi, si accompagna a una più matura e dilatata narrazione del mondo in cui, attraverso giochi allegorici e dissonanze, il poeta rivela il segreto canto della notte, la vitalità dell’acqua, il suono “ambrato” del dolore.

PAROLE SUL TERRITORIO / 3

Vincenzo De Cunzolo

Questa terza raccolta di poesie di Vincenzo De Cunzolo, medico di professione, ma poeta a “tempo perso”, è dedicata a chi sa riconoscere la gioia: una gioia che traspare e riluce nei più svariati momenti del giorno e della notte, quei momenti che De Cunzolo, a contatto quotidiano con la sofferenza e con il dolore, riesce a riservare a se stesso e alle sue riflessioni poetiche.

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Vincenzo De Cunzolo

L’OROLOGIO SEGNA TEMPO PERSO raccolta di poesie a cura di Chiara Zanellato

overview

€ 12,00

overview

Vincenzo De Cunzolo, nato a Palazzo San Gervasio nel 1959, vive e lavora a Padova in qualità di Medico di Medicina Generale. Dopo aver pubblicato “Versi Lucani” (2007, Il Torchio; 2010, Overview Editore), affrontando la nostalgia della sua terra e il vissuto di eventi personali e sociali, con profondità di sentimenti velati da un pudore sfociati in un “non detto” ricco di interrogativi e “Suoni Rovesci” (2010, Overview Editore), esplorando tematiche quali le guerre, l’omosessualità, la pedofilia, l’arrivismo senza scrupoli, è giunto ora alla sua terza raccolta di poesie.


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