Crediti Fotografici Le foto degli studenti e degli insegnanti riprodotte in questo volume sono state scattate per la maggior parte da Giampaolo Ferigo e, in minor quantità, da altri insegnanti e studenti della Scuola Media Statale Giacomo Leopardi di Pontelongo (PD) nel corso degli anni scolastici dal 1972-73 fino al 1981-82. Tutte fanno parte dell’archivio personale di Giampaolo Ferigo. Altre immagini: Pag. 178. Il ritratto di Mario Rigoni Stern è riprodotto su concessione del fotografo Adriano Tomba, di Valdagno (VI). Pag. 184 (in alto). Fonte: Archivio Fondazione Don Lorenzo Milani. Pag. 184 (in basso). Foto di Giuseppe Giglia/Ansa. Fonte www.panorama.it Pag. 196. Fonte: www.biografieonline.it Pag. 202 (alto). La riproduzione della veduta (Andrea Gloria, Il territorio padovano illustrato per..., Padova, Prosperini, 1862-1870) è tratta dalla pubblicazione Pontelongo nel terzo centenario del voto 1676-1976, a cura del Comitato Civico, Pontelongo, 1976. Pag. 202 (centro). Fonte: sito web Comune di Pontelongo. Pag. 202 (basso). Fonte: Panoramio, utente p1pp0, 2009. Pag. 205. La riproduzione è tratta da Il voto tra passato e presente 1676-2006, Comune di Pontelongo - Parrocchia di S. Andrea di Pontelongo, Pontelongo 2006. Pagg. 208-209. Autore sconosciuto. Pag. 218. Foto tratta dalla pubblicazione Pontelongo nel terzo centenario del voto 16761976, a cura del Comitato Civico, Pontelongo, 1976. Pag. 286 (alto). La foto della Ricostruzione di un'aula scolastica presso il Museo dell'Educazione (foto L. Agostini/2013) è riprodotta su concessione dell’Università degli Studi di Padova. E’ fatto divieto di ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. Pag. 286 (basso). Foto di Giampaolo Ferigo. Il disegno di pag. 22 è di Julian Adda. L’illustrazione originale di copertina è di Giampaolo Ferigo.
www.overvieweditore.com © 2017 overview editore Padova, via G. Pascoli, 1/A Progetto grafico: Julian Adda ISBN 978-88-98703-08-1 2
Emidio Pichelan
Scusate il disturbo, stiamo imparando La sperimentazione di integrazione scolastica Scuola Media Statale Giacomo Leopardi Pontelongo, Padova 1972-1982
overview
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INDICE
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Dalla rivisitazione alla provocazione, di Sergio Basalisco
23 Un racconto in undici quadri 29 1. Una giornata particolare in una scuola particolare 55 2. Richiesta scritta e motivata di un collegio straordinario. Quando tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare 79 3. La pattuglia acrobatica e le basi della buona battaglia 103 4. La stagione dei mille fiori 125 5. Dove ti porta il cuore 153 6. Così piena di vita: la sperimentazione procedeva approfittando di spiragli, pertugi ed esperienze 185 7. Il decennio affollato, bifronte e i venerati maestri 203 8. Il paese dalle nuvole cangianti 233 9. Mi faceva sentire importante, e poi non è stato più così 267 10. Ricordi sbocciavan le viole con le nostre parole 287 11. La buona battaglia 303
Appendice
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Scusate il disturbo, stiamo imparando La sperimentazione di integrazione scolastica Scuola Media Statale Giacomo Leopardi Pontelongo, Padova 1972-1982
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Le riforme che proponiamo. Perché il sogno dell'eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme. I – Non bocciare. II – A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno. III – Agli svogliati basta dargli uno scopo. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, pag. 80.
La gioia di imparare è indispensabile agli studi come la respirazione ai corridori. Simone Weil, Lezioni di filosofia, Milano, Adelphi, 1999, p. 330.
La vida no es la que uno vivió, sino la que uno recuerda y cómo la recuerda para contarla. (La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla). Gabriel García Márquez, Vivir para contarla, Barcelona, Mondadori, 2002.
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A don Lorenzo Milani e ai suoi ragazzi che, esattamente cinquant’anni fa, nel maggio del 1967, con un libricino piccolo e scritto insieme, cercarono di cambiare la scuola italiana. A Rita Conforti Capriotti, che ha vissuto e riconosciuto la scuola come luogo di amore, di rispetto e di riscatto di tutti, piccoli e grandi, soprattutto degli ultimi – che per lei erano i primi. Agli “sperimentatori scolastici” che, quotidianamente e silenziosamente, contro venti e maree, operano per una scuola vivibile e gioiosa. Alle ragazze e ai ragazzi di allora, oggi madri e padri di famiglia: ce l’abbiamo messa tutta per farvi una scuola operosa e leggera. A tutte le ragazze e a tutti i ragazzi del mondo, l’augurio di giocare studiando e di studiare giocando.
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Rovigo Pontelongo, piccolo comune di 3.800 abitanti (circa 3.600 nel decennio di cui si parla nel libro) sul Bacchiglione, a 25 km a sud di Padova, è il luogo di questa storia. La zona in cui si trova è comunemente conosciuta come Piovese o Saccisica; ne fanno parte 9 comuni: Arzergrande, Brugine, Codevigo, Correzzola, Legnaro, Piove di Sacco (la comunità che dà il nome alla zona, poco meno di 20.000 abitanti), Pontelongo, Polverara, Sant’Angelo di Piove di Sacco. E’ collegata con Padova da due strade principali: la Strada Statale 516 Piovese, che unisce il capoluogo con Piove di Sacco (e prosegue poi per Codevigo e la zona adriatica, con una diramazione Regionale per Pontelongo e Cavarzere-Adria, in territorio rodigino), e, attraverso la Strada Provinciale 9 lungo il Bacchiglione, con la Strada Provinciale 3 dei Pratiarcati, che da Padova passa per Bovolenta e Arre per terminare poi ad Anguillara Veneta. 22
Un racconto in undici quadri
L’8 giugno 2013 una quindicina di ex professori si riunivano in una casa sui Colli, appartata, silenziosa, immersa nel verde, come sospesa nello spazio e nel tempo. Ai piedi, la pianura e all’orizzonte, una sinfonia di cumuli, gobbe, rialzi. Oltre all’età (di pensione), condividevano una seconda cosa, più importante dell’età: l’esperienza della sperimentazione di integrazione scolastica nella Scuola Media Statale Giacomo Leopardi di Pontelongo, a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli Ottanta. Valeva la pena di scriverne? Si erano riuniti per concordare una risposta alla domanda. E’ un’operazione amarcord, nostalgica, basta compiti per casa, è passata una vita da allora (anzi, due), da quando in qua la scuola scrive la sua storia, e poi a che pro? ... Sono passati poco più di quattro anni da allora, l’Italia tentava (a quanto pare, senza esito) di lasciarsi alle spalle la Prima e la Seconda Repubblica, i reduci e combattenti della scuola buona hanno scritto la storia di quel segmento di vita e di lavoro. Una felice coincidenza che il libro veda la luce nel 2017, nozze d’oro di Lettera a una professoressa, della SLI, Società di linguistica Italiana e di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez (tutti nel 1967). 23
Capitolo 1: un giovane funzionario di Padova si incarica di andare a vedere sul campo che cosa avviene nella SMS, Scuola Media Statale, di Pontelongo, diversa, chiacchierata e che disturbava. Scopre una “scuola alveare”: brusio, molte parole, movimento, tanto da fare. E tanta allegria e leggerezza, niente bronci e nessuna recriminazione. Capitolo 2: la nuova scuola media unica (L. 1859/62), di tutti e per tutti, entrava in vigore nell’a.s. 1963-64. Ma la vecchia scuola tradizionale – selettiva, autoritaria, burocratica – non cambiava. Continuava a respingere in massa. Succedeva anche nella Scuola Media Statale di Pontelongo. Capitolo 3: a las cinco de la tarde, all’ora della verità, una prima “avanguardia di pionieri” si incarica di porre all’ordine del giorno le nuove esigenze alle quali è chiamata la scuola nata dalla nuova Costituzione Repubblicana. Inizia il processo che porta alla sperimentazione. L’avanguardia dei pionieri si presenta. Capitolo 4: la nuova scuola deve, anzitutto, definire la missione e gli obiettivi didattici. Da qui discendono la scelte del tempo scuola (tempo pieno), del metodo (partecipazione, apertura al territorio, lavoro di gruppo, programmazione), dell’integrazione (tra attività curricolari e libere attività complementari), di una diversa valutazione (dalla pagella alla scheda di valutazione). Nella nuova scuola le tre comunità – degli alunni, dei docenti, dei genitori – si integrano, diventano complici in una continua interazione di informazione e di stimoli. Capitolo 5: non c’è scuola nuova senza nuovi insegnanti che credono nella missione (democratizzazione dell’istituzione), nelle mete educative, negli obiettivi (aiutare-accompagnare-favorire l’alunno nel processo di crescita e di maturazione verso la cittadinanza sociale piena), che credono nel lavoro che fanno. Nel decennio il corpo 24
docente della Giacomo Leopardi ha potuto contare sull’afflusso permanente di giovani prof che sceglievano quella scuola come luogo per esercitare pienamente e al meglio la loro professione. Andavano dove li chiamava il cuore. Tante storie, tante provenienze, un unico obiettivo e un ricordo comune. Il quadro dei pionieri viene implementato e perfezionato da un’allegra brigata di giovani prof in cerca d’autore. Capitolo 6: astuti come colombe e furbi come serpenti, i docenti riuscivano a trovare spazi e pertugi istituzionali per sviluppare la sperimentazione, prima che le istituzioni la “autorizzassero”. Capitolo 7: la sperimentazione fa parte dei “segni di tempi”. Gli anni Settanta – double-face, bifronte come Giano – non sono solo gli “anni di piombo”, ma anche di “riformismo ad ampio spettro”. La sperimentazione vive di due pre-condizioni: il clima politico disponibile al cambiamento e, contemporaneamente, il coraggio degli insegnanti. Capitolo 8: e ora è tempo di fotografare il Pontelongo di allora. E lo si fa con la fotografia originale e complessiva (politica, economica e sociale), scattata dai ragazzi che nel 1976, in occasione del 300° anniversario della Festa del Voto, si incaricano di stampare un numero speciale di School and Life, il giornalino scolastico. Una fotografia sorprendente. Capitolo 9: quello che pensavano i ragazzi di allora, affidato prevalentemente alle pagine di School and Life, il giornalino di scuola, è sparso nella pagine del libro. A distanza di tanto tempo, che dicono di quell’esperienza particolare? Sono diventati padri e madri di famiglia, lavoratori dipendenti, dirigenti di banca e d’azienda, professionisti di successo, docenti e ricercatori universitari. Le vie della vita sono infinite. Nel capitolo trovano spazio “alcune” di quelle storie. 25
Capitolo 10: la sperimentazione di integrazione scolastica finisce nell’estate del 1982, quando le autorità l’azzeravano per introdurre il tempo prolungato. Senza chiedere permesso a nessuno, tanto meno preoccupandosi del “parere motivato” di chi quell’esperienza l’aveva vissuta. Capitolo 11: questo libro è una storia ordinaria di responsabilità e di coraggio. Si trattava di attuare una scuola ai sensi degli articoli 3 e 34 della Costituzione, un obiettivo che sconvolgeva la tradizione e lo stato presene delle cose. E’ stata una buona battaglia, e la buone battaglie vanno combattute perché sono buone in sé, riscaldano il cuore. Non ci sono eroi in questa storia, ma solo insegnanti che credono nella nuova scuola, ragazzi che vogliono partecipare, genitori che condividono e maturano con i loro figli e con gli insegnanti. Livia Benedetti Fernando Bertotti Rina Caniato Saverio Cardin Tiziana Carraro Giuliana De Cecchi Alessandra De Marchi Giampaolo Ferigo Giuliano Forestelli Laura Gemignani Grazia Loi Umberto Marinello Luciano Pandolfo Emidio Pichelan Rosi Realdon Maria Tallon Claudia Zamperlin
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L’edificio della scuola media adesso. Nella foto in alto, è ancora riconoscibile la partitura verticale che rimanda alla struttura della sua destinazione originaria, una delle due barchesse di Villa Foscarini Erizzo. Nella foto in basso, il fronte opposto. Si nota la porta di ingresso originaria alla scuola. Sullo sfondo a destra, Villa Foscarini Erizzo, attuale sede comunale. 28
1. Una giornata particolare in una scuola particolare
E che c’era da indovinare? Un cortile, ragazze e ragazzi vocianti, una campanella che trillava forte e chiara. L’ambiente e gli abitanti di quello spazio definivano il luogo senza slabbrature: una scuola. Guardando più da vicino quei volti sorridenti – è usuale che i volti di ragazzini in ingresso agli inizi della giornata scolastica siano luminosi? – si poteva precisare meglio: era una scuola media inferiore. Così si chiamava allora, in quel giorno di aprile del 1976. Prima della firma del Decreto Delegato 517/77 del 4 agosto che, mandata in soffitta la scuola Bottai, dava volto e fisionomia alla nuova scuola media unica, ufficialmente entrata in vigore il 1° ottobre del 1963, più di un decennio prima. Succedeva in Italia, e c’è da temere che si tratti di un elemento costitutivo del modo d’essere del Paese: una cosa è firmare una riforma, altra cosa implementarla. Il giovane funzionario, statura media, pelle chiara, guance rosate, camicia bianca stirata, cravatta annodata, occhi azzurri e svegli, stempiatura avanzante su una fronte ampia, aveva accostato l’automobile, una Fiat di media cilindrata, poco dopo le 8 di mattina. Il preside – allora così si chiamava il responsabile della scuola – non c’era. La scuola non era autonoma, il preside – di ruolo o supplente – governava la scuola a nome e per conto del provveditore e del ministro, allora rigorosamente bianco (nel senso di colore politico, cioè DC), che alloggiava in un palazzone massiccio di Viale Trastevere. A Roma, molto distante. La scuola media inferiore, intitolata al reca29
natese Giacomo Leopardi, utilizzava come aule e spazi una vecchia barchessa di una grande casa padronale fatta costruire sul Bacchiglione da una famiglia aristocratica veneziana, i Contarini; ristrutturata a inizio dell’Ottocento dal principe Erizzo, con l’Unità d’Italia diventava municipio del piccolo paese sul Bacchiglione. Le condizioni dell’edificio, non ancora restaurato, erano piuttosto sconfortanti, non potevano certo intestarsi il sorriso dei ragazzi in movimento verso le classi; così come non faceva una gran bella figura il ponte in calcestruzzo e ferro, che pure tanto vecchio non era (risaliva all’amministrazione Canton, 1952).
Il ponte di fronte a Villa Foscarini Erizzo, 1962.
La Giacomo Leopardi di Pontelongo era una scuola chiacchierata. Un caso. Se ne parlava in paese e in Provveditorato, da qualche anno. Era una scuola che sperimentava l’integrazione scolastica: era aperta di mattina, di pomeriggio e anche dopo cena, in occasione delle proiezioni di un film, di un dibattito, di un evento, di un’assemblea generale con tutti i genitori del paese, della chiusura urgente di un 30
numero del giornalino di scuola. Per quella sera, ad esempio, si prevedeva una conferenza del giovane giudice Vittorio Borraccetti. Si era appena conclusa una campagna elettorale – gli Organi Collegiali della scuola – piuttosto vivace. Vivace è un aggettivo leggermente eufemistico: gli schieramenti erano squilibrati nei numeri ma polemici, anche pesantemente polemici, nei toni. La lista contraria alla sperimentazione si chiamava “Per una scuola libera”, e libera equivaleva a istituzionale, quella della mattina. In realtà era istituzionale anche la sperimentale: nel senso di prevista dalla legge, autorizzata dal Provveditorato. E, dunque, lo scontro non era tra istituzionale e non istituzionale, libero e non libero... Erano i tempi della guerra fredda e si stava al di qua o al di là. Un mondo dicotomico, a modo suo tranquillizzante. Quella del giovane funzionario dottor Pasquale Scarpati era una strana visita. Non era una missione ufficiale, non era una ispezione. Non c’era niente da mettere sotto controllo e nemmeno sotto osservazione. “Vado a vedere”, aveva lasciato cadere con la sua voce sussurrata, i modi tranquilli, il giovane funzionario mentre faceva firmare un fascio di carte e il signor Provveditore, gli occhiali sulla punta del naso, apriva la posta in arrivo da Roma. Quante le circolari della giornata? Certo, più d’una; la voce del ministro di turno si faceva sentire quotidianamente, con le circolari si regolamentava ogni aspetto della vita scolastica. Il sistema andava bene a tanti, ai più, così non c’era di che preoccuparsi: qualcuno, lassù, si prendeva la briga di raccomandare, consigliare, ammonire, indicare, autorizzare. “Vado a dare uno sguardo a quello che succede a Pontelongo”. “E’ successo qualcosa di nuovo recentemente?”, domandava il Provveditore. Una domanda di routine. “No, niente di nuovo”, il giovane funzionario non doveva faticare più di tanto per mantenersi tranquillo, la calma l’aveva avuta in dote gratuitamente, anche per quello era apprezzato da tutti. Non era poco in un mondo dove non mancavano confusione e tensioni. “Se non ha niente in contrario”, questa la richiesta del funzionario, “vado a dare uno sguardo. Di persona”. “Bene”, il gioco della burocrazia tranquilla lo conoscevano tutti e due, il dirigente e il funzionario; “mi raccomando, però: guarda, gira, sfoglia i lavori, controlla i registri, parla con la segretaria della scuola, con i bidelli (così si chiamavano allora gli ATA, i non docenti). Parla con tutti e interroga tutti quelli che puoi, ma guardati bene dal pro31
mettere qualcosa. La scuola deve essere, sempre e comunque, un luogo di dialogo e di confronto, di educazione e buone maniere”. “Vado, vedo, ritorno e riferisco”. Come credere che una scuoletta di campagna potesse rappresentare un pericolo per l’ordine pubblico o fosse una fucina di ribellismo? Magari un po’ di anticonformismo sì, ma non certo un “focolaio rivoluzionario”! Sguardo sereno, dunque, fronte distesa, la prima cosa che gli capitava di dover fare era stringere la mano a due insegnanti. Li conosceva nella qualità di rappresentanti di un sindacatino – niente di dispregiativo nel diminutivo – confederale della Cisl. Un sindacatino nuovo di zecca. La maggior parte degli insegnanti della Giacomo Leopardi aderiva alla Cgil scuola, ma a nessuno sembrava importare più di tanto che a guidare la sezione confederale unitaria della scuola fosse uno della Cisl. Il dottor Scarpati sapeva molto bene che il sindacalismo confederale della scuola, nuovo nuovissimo, era fondamentale nel veicolare le esperienze sperimentali nella più grande platea della scuola patavina, città e provincia. Per la cronaca il sindacato si chiamava SISM, Sindacato Italiano Scuola Media (media inferiore e media superiore e formazione professionale), non c’è più, si è fuso con il vecchio Sinascel, il sindacato Cisl della scuola elementare, è diventato Cisl Scuola. Il funzionario e i due insegnanti si conoscevano abbastanza bene, le trattative in Provveditorato erano sempre in corso e abbracciavano tutto quello che aveva a che fare con la vita scolastica. Le file delle classi in ingresso erano composte, gli insegnanti tutti al loro posto. Nessuno degli insegnanti pareva far caso al signore sceso dalla macchina, dalla parte opposta dell’ingresso dei ragazzi. La campanella suonava la seconda volta, una a una le classi entravano e sciamavano nelle rispettive aule, al pian terreno e al primo piano dell’edificio. In cortile era rimasto un gruppo, una seconda: lo zaino in spalla, non tardavano a inforcare la bicicletta. “Siamo impegnati in una ricerca d’ambiente”, spiegava una delle insegnanti accompagnatrici al dottor Scarpati che ascoltava silenziosamente, senza scomporsi, “andiamo a Correzzola, qui vicino, una sana biciclettata. Andiamo a studiare i Melzi d’Eril”. Erano tre gli insegnanti accompagnatori: Lettere, Matematica e Osservazioni Scientifiche (MOS) ed Educazione Artistica. Si era iniziato l’anno precedente visitando e studiando Pontelongo, il mulino Camilotti (ex Centanin, oggi Rossetto), lo zuccherificio (attivo dal 10 luglio 1910), 32
il Bacchiglione, il progetto complessivo abbracciava lo studio dei nove Comuni della Saccisica (Arzergrande, Brugine-Campagnola, Codevigo, Correzzola, Legnaro, Polverara, Piove di Sacco, Pontelongo, Sant’Angelo di Piove di Sacco). A Correzzola c’era la maestra Borella che della cultura locale aveva fatto il perno del suo insegnamento, dello studio e della scrittura. E, tuttavia, la corte benedettina attendeva, con qualche impazienza, (almeno) un’opera di pulizia.
Un gruppo di ragazzi all’ingresso della scuola.
In quell’anno scolastico 1975-76 la Giacomo Leopardi di Pontelongo era una piccola scuola, ma non proprio insignificante: 11 classi (un’eccezione, di norma le classi erano nove, tre sezioni per tre livelli), 207 alunni (102 maschi, 105 femmine).Una comunità di più di 200 unità e un edificio pubblico che ospitava attività dalle 8 del mattino fino alle 23, se del caso (e succedeva spesso, secondo programmazione), non sono proprio una piccola cosa. Quella scuola pubblica gestita – quasi direttamente, per quanto informalmente, da giovani insegnanti per la maggior parte di origine urbana – allarmava e preoccupava gli antichi, tradizionali centri di potere. Perché i cambiamenti, le iniziative fortemente innovative, “eretiche”, hanno un che di disordinato, di imprevisto e di imprevedibile, sfuggono alle regole, alle strade battute della tradizione. Quindi, suscitano reazioni: di freno, quando non di rigetto. Il sindacalista più amico del funzionario del Provveditorato illustrava rapidamente la struttura della scuola: gli uffici di presidenza e della segreteria, le aule, i laboratori, la stanza del ciclostile, i bagni, l’aula magna, la biblioteca. Non si nuotava nell’abbondanza, era tutto ab33
bastanza spartano, ci pensavano i cartelloni appesi alle pareti a rallegrare e colorare lo spazio. Il dottor Scarpati entrava nelle aule, guardava attentamente, sorrideva, non gli sfuggiva nulla, era curioso. Vedeva, ascoltava, capiva: un gruppo di ragazzi che andava a vedere una località per “capire” una corte benedettina. Ma a scuola non si veniva per studiare, lavagna e gesso, carta geografica e crocifisso, un adulto che parlava e usava tante parole, e poi temi in classe e tanti compiti per casa? E poi i voti! Il giovane funzionario pensava e si passava le dita tra i (pochi) capelli, mentre i tic tac dei pensieri, delle affermazioni e delle critiche si scontravano, per fortuna silenziosamente, nel suo cervello. All’esterno non trapelava nulla: doveva vedere e riportare, non promettere, possibilmente nemmeno commentare. Non ci voleva molto per capire che si trovava in un’altra scuola. Il problema in realtà non era capirla, ma accettarla e, prima e più semplicemente ancora, riconoscerla come scuola. Mentre gli alunni della I A ripassavano le nove parti del discorso – “Soprattutto per alcuni di noi”, sembrava giustificarsi una giovanissima insegnante – “l’analisi grammaticale e l’analisi logica conservano tutta la loro validità, aiutano a impadronirsi della struttura linguistica”
Gli alunni di una classe della sezione C. 34
–, nella I B si erano formati cinque gruppi di 5 unità, stavano studiando i primi articoli della Costituzione Italiana (1948) e di quella francese (1958, riforma De Gaulle). Due professori, Francese e Lettere, spiegavano: “Si chiama compresenza”, era il prof di Francese che si affrettava a spiegare, coincideva nella persona del sindacalista che in Provveditorato ci andava spesso, a negoziare, a contrattare l’autorizzazione alla sperimentazione di integrazione scolastica, “è questa la compresenza di cui tanto abbiamo parlato, non è un aggravio di costo, è un investimento. In questo modo, come vede, possiamo lavorare meglio, in questi lavori di gruppo sono coinvolti tutti, ognuno si sente personalmente responsabilizzato, il nostro intervento educativo si personalizza”. Già, pensava tra sé e sé il funzionario, ma vallo a spiegare agli insegnanti tradizionali, a quelli della penna rossa e della cattedra come “altare della sapienza”, quelli di “Dio-PatriaFamiglia”, ordine e disciplina. Vallo a spiegare soprattutto a quelli del Ministero: dell’Istruzione e, ancor prima, a quelli del Tesoro, il Ministero pagatore. Nella I C i ragazzi (quasi) gridavano ad alta voce i numeri francesi: 70, 71, 72, che strano modo di dire 72, come fare a ricordare 60-12, già ricordarsi 12 costituisce un problema, figurarsi 60-12. “Prof ”, al vedere i tre entrare in aula un ragazzino si alzava dal banco, sorrideva, in mano un foglio con un questionario, “oggi abbiamo gruppo opzionale con lei. Ricorda, prof ?, oggi dobbiamo finire il questionario”. Che c’entravano il questionario e il gruppo opzionale con i numeri che stavano imparando? Non c’entravano: che il ragazzino volesse sganciarsi dai numeri per un’improbabile exit strategy dalla marcatura dell’insegnante che stava facendo il suo lavoro? “Non ti preoccupare, tutto a posto, certo che oggi finiamo il questionario, ma intanto, per non sapere né leggere né scrivere, dimmi come si dice 12 in francese”. Professore e alunno dimostravano sangue freddo e presenza di spirito in quantità sufficiente. Il piccolino non sembrava preso alla sprovvista, grattandosi la testa e facendo una smorfietta – compiaciuta – incominciava a canterellare: “dix, onze, douze”. Una ripassatina mnemonica e il numero era arrivato. Il foglio con il questionario era complicità, non una via di fuga. La pronuncia lasciava a desiderare, a casa come in cortile – vale a dire, praticamente sempre – parlavano dialetto, era già molto che sapessero dell’esistenza di altre lingue, che ci fossero spazio e tempo e modo per far vedere Parigi, i castelli della Loira, la Tour Eiffel, im35
parassero la Marsigliese, che è pur sempre un bell’inno nazionale, così marziale, così gonfio di orgoglio. E un po’ di orgoglio nazionale va bene anche per noi, è vero che non ci piace perché il fascismo ne era troppo saturo, era venuto a noia l’orgoglio nazionale, ma un po’... Il giovane funzionario non smetteva di vedere e, ancor più, di commentare; vuoi vedere che si deve venire da queste parti per mettere in moto il cervello? L’aula della II A, ma questo il piccolo corteo di visitatori lo sapeva già, era vuota, erano quelli della visita alla corte benedettina a Correzzola, a quella speciale organizzazione economico-sociale, ma anche al periodo napoleonico; i Melzi d’Eril avevano terre a Correzzola, Napoleone aveva costituito la Repubblica Cisalpina e i Melzi avevano giocato un ruolo importante nell’amministrazione di quella che veniva chiamata la “Repubblica sorella” (della più importante Repubblica francese). Le altre due seconde, invece, erano riunite nell’aula magna – l’etichetta era decisamente un po’ pomposa; più grande delle classi, di magna non aveva proprio niente – per la proiezione de Il settimo sigillo.
I ragazzi in gita d’istruzione a Venezia. Al centro, Nazzareno detto il Cile.
Era terminato il primo tempo, l’insegnante spiegava la scheda del film distribuita all’inizio della proiezione: anno di produzione e nazionalità, regista, ambientazione e sintesi della trama (plot era allora una parola praticamente sconosciuta), personaggi, spunti per il dibattito, osservazioni sul linguaggio cinematografico... Non era stato semplice organizzare il cineforum a scuola, una delle attività più seguite e apprezzate dagli alunni e che davano più soddisfazione ai do36
centi: almeno era questo che registravano le verifiche e le relazioni sui vari film scritte per il giornalino scolastico School and Life. “E’ un’esperienza che da noi viene da lontano”, si affrettava a spiegare il professore sindacalista al funzionario in visita, “anche se con qualche problema. Ad esempio, il proiettore ce lo siamo fatto prestare dalla scuola media di ... Loro avevano il proiettore, ma non lo usavano, noi volevamo il cineforum e non avevamo il proiettore: l’incontro/scambio di favori è venuto facile perché i due presidi si conoscevano e si apprezzavano. Il prestito è a titolo gratuito, perché le pellicole costano già di per sé, e poi bisogna prenotarle, andarle a prendere, riportarle indietro. E già che abbiamo i film, li utilizziamo per trasformali in offerta culturale per la comunità”. Sulla parete, in bella vista, la locandina elencava date e titoli dei film e/o delle conferenze programmate. Il ciclo era in calendario tra marzo e aprile, comprendeva il film L’Amerikano di Costa-Gavras, Uomini contro di Francesco Rosi, Corvo rosso non avrai il mio scalpo di Sydney Pollack (con un giovanissimo, indimenticabile Robert Redford). E le conferenze: Il problema del terrorismo: radici sociali, storiche, politiche, introduzione di Vittorio Borraccetti, Programmi per le elezioni politiche europee. Problemi e prospettive dell’adesione italiana allo Sme, Medicina preventiva e problemi igienico-sanitari della zona, a cura del dottor Carpenedo, giovane medico condotto del paese. L’intervallo finiva, riprendeva la proiezione del film e il cavaliere di nero vestito, di ritorno dalla Terra Santa, riprendeva a giocare a scacchi con la morte. Non era la prima volta che quel film veniva proiettato, Ingmar Bergman era un regista famoso e riconosciuto, un uomo tormentato dai dubbi, dai sensi di colpa, amava tanto le parole, i suoi film erano gonfi di dialoghi, ma che dialoghi!, il film faceva ormai parte del programma delle seconde, la prima volta che fu proposto in un Consiglio di classe più di qualcuno era saltato letteralmente sulla sedia (non tanti secoli prima!). E’ un film cupo, inquietante, intrigante, del Medio Evo dà un’immagine drammatica, ma soprattutto ai ragazzi non interesserà, non lo comprenderanno, si annoieranno. Lo comprendevano invece, e non solo per merito della scheda di presentazione, ma perché le immagini erano potenti, il bianco e nero non dava adito a smancerie e non permetteva fughe laterali in fantasie, Medio Evo voleva dire crociate ed epidemie e processioni riparatrici, molto incenso, banditi per strada, bettole e uomini e donne poco raccomandabili... 37
L’altare del sapere (Museo Civico Polironiano, San Benedetto Po, MN).
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2. Richiesta scritta e motivata di un collegio straordinario. Quando tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare
“E se gli italiani soffrissero di Alzheimer?”, si domandava provocatoriamente – ma non troppo – Predrag Matvejevic (1932-2017), scrittore e accademico croato naturalizzato italiano, cantore della cultura mediterranea. Più ancora degli italiani, si affrettava ad aggiungere, era l’Europa a evidenziare i sintomi della terribile malattia: caduto il Muro di Berlino, la giovane realtà politica dell’Europa unita, priva di memoria della sua millenaria storia, si mostrava incapace di giocare un proprio ruolo nello scacchiere mutato della politica mondiale. Sembrava aver dimenticato in fretta quanto capitato qualche decennio prima come se, a forza di rimozioni, sdoganamenti e revisionismi, il magazzino della memoria collettiva si fosse svuotato. Per questo le storie, anche quelle piccole, vanno scritte. Per non perdere fatti, insegnamenti ed evoluzioni. “Io non voglio cancellare il mio passato”, diceva Oscar Wilde, “perché nel bene e nel male mi ha reso quello che sono”. Oltre che per ricordare, scrivere il passato serve anche per capire come gli avvenimenti non seguano un percorso lineare. Ad un certo punto si registra come uno scarto, una deviazione dalla routine. La sperimentazione era un work in progress, un processo che si implementava un poco alla volta. Quando – piuttosto tardi – arrivava, l’autorizzazione non faceva che “benedire” un processo e un movimento avviato, riconoscere una realtà con una sua fisionomia ben delineata. Ma un processo è una successione di eventi, tra loro con55
nessi. Quale il punto di scarto che marca la differenza – radicale – tra il prima (scuola tradizionale) e il dopo (scuola innovativa)? La scuola media unica Giacomo Leopardi disponeva di un organico di poco più di 20 unità quando poco meno di un terzo di loro (otto per la cronaca) sottoscriveva la “richiesta motivata” di un Collegio di docenti straordinario con cinque punti all’ordine del giorno: 1 – esame e discussione di un questionario (non meglio specificato); 2 – giornale in classe; 3 – educazione sessuale; 4 – proiezione di un film; 5 – problemi dell’orientamento. La richiesta non era datata (stranamente il comunicato n. 7 del quaderno dei verbali dell’a.s. 1972-73 non reca una data precisa; ragionevolmente da collocare nel mese di gennaio del 1973); sorprendeva in quanto presa sotto una presidenza forte e per i punti indicati all’ordine del giorno. A iniziare, ovviamente, dall’educazione sessuale, un argomento di rottura quant’altri mai. Prendiamo questa richiesta come punto di avvio della sperimentazione di integrazione perché, per metodo e per contenuto, preannunciava un cambio radicale di paradigma nell’architettura istituzionale, nel metodo e nella sostanza dell’essere scuola del piccolo istituto situato a Pontelongo, 25 chilometri dalla città di Padova: campagne e campi, nonostante la presenza incombente e tutt’altro che ininfluente dello zuccherificio allora importante, molto importante. Nel comunicato n. 7 riecheggiavano gli squilli di tromba di un avvenimento perché la “richiesta scritta e motivata”, come previsto dalla procedura, partiva da un gruppo di insegnanti, e non si fondava su un vuoto o sulla debolezza del potere dirigente e responsabile, ma si presentava come affermazione di una visione scolastica diversa da quella vigente, sostenuta dalla maggior parte del Collegio. Tutto sarà più chiaro in seguito, quando si entrerà nel vivo del confronto, ma c’erano allora una scuola istituzionale, che qualcuno chiamava anche libera, e una scuola integrata, a tempo pieno, innovativa. Era preside (lo chiameremo “l’autoritario”) un cinquantenne originario di Capo d’Orlando (Messina), classe 1919, laureato in Scienze Matematiche a Palermo, insediatosi a capo della Giacomo Leopardi nell’a.s. 1969-70; aveva insegnato a Pontelongo nell’allora scuola di avviamento professionale dall’a.s. 1948-49 al 1950-51, per finire come professore di ruolo ordinario della Scuola Media Statale Petrarca di Padova. 56
La scuola media unica aveva già un decennio di vita, si era ingrossata di alunni e docenti, la scuola dell’obbligo durava otto anni ma i risultati lasciavano molto a desiderare. C’era qualcosa che non andava, il 1968-69 non aveva lasciato quasi nulla come prima, la scuola non poteva continuare come se nulla fosse capitato. Al preside, uomo d’altri tempi, non piacevano i sindacati, non gradiva le novità, coltivava con passione l’ordine, la disciplina e la tradizione. Tradotto in linguaggio scolastico, tutto ciò si chiamava “il programma”. Vedeva e sottolineava i limiti della scuola, in generale, e della piccola scuola che gli era stata affidata, in particolare. La sua attenzione era richiamata soprattutto dalle novità, alle quali contrapponeva costantemente la procedura, la tradizione, l’ordine. E, dunque, convocava quel collegio straordinario, con ordine del giorno scritto e motivato, perché aveva seguito le procedure ma per quanto lo riguardava... La vera riforma della media unica sarebbe arrivata davvero nel 1977 con la legge 517 la quale, in realtà, portava come titolo – apparentemente limitativo - “modifiche di alcune norme della legge 31 dicembre 1962 n. 1859 sulla istituzione e ordinamento della scuola media statale”. La legge di riforma n. 1859, a sua volta, maturava dopo 14 anni di discussioni infuocate e appassionanti. La scuola, si sa, è da sempre il terreno di scontro ideale e ideologico, è qui che si giocano la cultura e l’avvenire di un Paese e, ancor più e meglio, l’egemonia di una parte, di un partito, della politica. Il risultato del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e le elezioni del 18 aprile del 1948 avevano segnato una discontinuità indiscutibile con il passato, bisognava comunque superare l’eredità di Bottai. Ministro della Pubblica Istruzione era Luigi Gui (1914-2010), padovano, partigiano, costituente, laureato alla Cattolica, ministro longevo: ben sei anni e quattro mesi di seguito, in tre governi diversi. In verità, la legge poteva disporre di un largo consenso parlamentare e di una robusta pubblicistica che, oltre che obbligatoria, gratuita e orientativa, la definiva il frutto più pregiato (con la nazionalizzazione dell’energia elettrica) della stagione riformista del centro sinistra (le famose “riforme strutturali”). L’Italia usciva dalla ricostruzione, il Piano Marshall (e non solo) stava trasformando la struttura economica del Paese; la scuola unica riunificava quello che il regime fascista aveva separato secondo linee funzionali e di classi sociali: scuola media per le superiori e Università, scuola di avviamento professionale per il mercato del lavoro. 57
Un momento di lavoro di gruppo: la redazione di School and Life.
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4. La stagione dei mille fiori
“Sperimentare”, dice il Devoto-Oli, è “sottoporre qualcosa a prove e verifiche al fine di valutarne la qualità, la funzionalità, la corrispondenza a determinate caratteristiche”. Dopo il secondo conflitto mondiale era d’obbligo sperimentare un nuovo sistema politico e, dunque, anche un diverso sistema scolastico. Non bastasse, vent’anni dopo la fine del grande conflitto deflagrava il 1968-69: la politica, la società, l’economia, i comportamenti umani erano chiamati – volenti o nolenti – a trasformazioni ben più radicali di un restyling. I partiti di governo e i palazzi del potere pensavano bene di affrontare la partita del cambiamento presentando un disegno di legge con cui si chiedeva una delega per intervenire sul sistema formativo, fortemente deficitario in termini di innovazione e partecipazione. La domanda di cambiamento usciva prepotente, irriverente e a volte sguaiata dalle Università, dalle assemblee operaie, dai quartieri cittadini, dai campi. L’iniziativa legislativa, presa da Misasi e sgonfiatasi senza conseguenze per l’interruzione della legislatura, veniva ripresa da Oscar Luigi Scalfaro, Ministro della Pubblica Istruzione, e dai successori, fino a che Franco Maria Malfatti, Ministro – come ricordato – dal 1974 al 1978, riusciva a portare all’approvazione i Decreti Delegati, pubblicati nella Gazzetta Ufficiale nel maggio del 1974. Mentre Roma discuteva e decideva, che cosa avveniva nel corpo vivo della scuola? Succedeva letteralmente di tutto, spuntavano quei mille fiori di creatività, di innovazioni, di protagonismo degli inse103
gnanti che, letti e valutati correttamente, indicavano chiaramente l’esigenza e l’urgenza di una nuova organizzazione del lavoro. Idee, proposte, esperimenti che, almeno in parte, andavano a finire nel disegno organico dei Decreti Delegati i quali, ovviamente e comprensibilmente, non potevano e non dovevano far proprio quello che si faceva a Pontelongo, o nel Veneto. Nemmeno quello che veniva sviscerato nei solenni convegni (se ne facevano molti, si usavano anche allora molte parole, troppe e troppo cariche di retorica ma che, tuttavia, conservavano ancora senso e significato perché loro, le parole, e chi le pronunciava sembravano - ancora – avere un’anima). A Pontelongo e, in generale, in periferia arrivava qualcosa di quello che si dibatteva nei (lontani) palazzi romani; anche in periferia si potevano e si dovevano saper leggere “i segni dei tempi”. L’uscita di scena del preside “autoritario”, volenti o nolenti, chiariva la situazione: la Giacomo Leopardi non voleva essere la vecchia scuola di avviamento riverniciata a mano; via tutto, dall’orario rachitico (ma perché in Italia la scuola deve rimanere aperta solo la mattina, per una manciata di ore?) all’onnipotenza del preside, alla supponenza dei docenti di ruolo (pochissimi), allo strapotere delle circolari. Il preside “autoritario” era per la tradizione; la maggioranza era dalla sua parte. Ma era una maggioranza silenziosa; di fatto il dibattito su che cosa volesse dire “diritto allo studio”, “scuola di massa”, “mete educative”, “valutazione” si accendeva – letteralmente si infuocava – nei Consigli di classe come nei Collegi dei docenti. E qui parlavano i paladini del nuovo: “così non si può andare avanti”, dicevano, “bisogna inventarsi qualcosa di innovativo”. Evidente l’urgenza di discontinuità e di adozione di misure indicative d’un cammino nuovo. Bisognava buttarsi, c’erano in giro tentativi, fremiti, esperimenti. Bisognava decidere il cammino da intraprendere. Cosa che il nucleo originale dei giovani insegnanti, più l’allegra brigata che si aggiungeva poi nel decennio 1972-1982, faceva senza tentennamenti e senza angosce. La scuola di massa in una giovanissima democrazia: un terreno vergine da esplorare. Un fruscio laborioso più di idee che di esperienze. Per capire come, a partire dal 1972-73, la scuola di Pontelongo cambiasse decisamente pelle basta mettersi a sfogliare i verbali delle classi e dei Collegi. Niente a che fare con la scuola della professoressa preside dell’avviamento professionale e dei suoi successori, i presidi volenterosi ma leggeri, quando, circolari e leggi alla mano (più circolari che leggi), il/la responsabile di istituto dettava la filosofia e il gioco, definiva la si104
tuazione degli alunni, esortava alla puntualità, alla tenuta dei registri, alla verifica dei compiti per casa. Ai ragazzi in formazione non rimaneva che adeguarsi, introiettare principi, valori, attitudini, comportamenti, le buone maniere. Introiettare e adattarsi a un modello unico, nella finzione che tutti i ragazzi fossero uguali e nella convinzione che compito della scuola fosse modellare, filtrare, selezionare, preparare alle superiori (i meno) e al mondo del lavoro (i più). Per capire di che cosa stiamo parlando, si prendano tre verbali: uno della I° C dell’a.s. 1973-74 (datato 19 dicembre 1973, a firma di Rina; del Consiglio di classe facevano parte Umberto e Alessandra) e gli altri due dell’a.s. 1974-75 (i verbali sono, rispettivamente, del 27 novembre e del 28 novembre, della III B, a firma di Emidio, e della I C, lungo sei pagine, a firma di un giovane professore di Materie Letterarie arrivato a Pontelongo l’anno prima). Verbali piuttosto articolati (quello di Emidio si estende per 23 pagine, rigorosamente a mano), scritti e firmati dai rispettivi coordinatori di classe che riferivano quanto emerso nel Consiglio di classe. Il preside presenziava le sedute, ascoltava, ma non dava né precetti né indicazioni che si riservava – se del caso – per il Collegio dei docenti. I tre verbali partivano da un’analisi approfondita della classe e del background di ogni alunno per poi passare alla definizione delle “mete educative” e alla “valutazione”. Il significato era chiaro, rivoluzionario: l’intera posta in gioco del (nuovo) sistema scolastico veniva giocata sui ragazzi e sulla didattica. Il tutto - un pizzico di presunzione? – elaborato in casa: il centro di programmazione e di educazione era la sezione sindacale, anche se di fatto le tesi sostenute dai tre coordinatori di verbale presentavano visibili variazioni sul tema: un work in progress, un pensiero in elaborazione. La scuola, scriveva Rina, a nome e per conto del Consiglio di classe, doveva prefiggersi e indicare concretamente le mete educative che non potevano ridursi a una elencazione di nozioni da apprendere. Ed erano: socializzazione, responsabilizzazione, aiuto reciproco, maturazione intesa come superamento degli schemi tramandati, il grado di sviluppo psicologico, l’acquisizione di autocoscienza. Solo una volta individuate le mete educative, era opportuno/doveroso affrontare il tema della valutazione soggettiva e oggettiva: si mirava a offrire a ciascun alunno una valutazione oggettiva, vale a dire una misurazione del rendimento effettivo da riformulare, tuttavia, in una valutazione soggettiva (del docente). Mentre il voto inchiodava e 105
marchiava, la valutazione componeva un quadro in movimento, composto da più variabili. Purtroppo non ci si poteva sottrarre al voto; e, allora, si pensava – ecco una soluzione sperimentale non preclusa a priori – di formulare, a fianco della pagella, un modulo (autoprodotto) che tenesse presente simultaneamente l’apprendimento (il reale), la capacità di apprendimento (il potenziale), la capacità di attenzione, il rendimento disciplinare, la personalità. La lezione cattedratica, top down, passivizzante, in lotta permanente con l’interesse personale e la curva dell’attenzione dell’alunno, non aveva più senso. Sostituita dall’interdisciplinarietà: per la quale, dice il verbale, ci vorrebbe una soluzione radicale, ad esempio la compresenza, possibile
Esempio della pagina conclusiva di una scheda di valutazione, contenente la valutazione finale riassuntiva. 106
solo in alcuni casi; nelle condizioni date si poteva ricorrere solo al collegamento interdisciplinare. Nell’immediato, si proponeva di superare – da subito – la selezione generalizzata: infatti, nel verbale dell’11 giugno 1974, quello degli scrutini di fine anno, non appariva più la voce “rimandati” ma l’espressione “consigliati ai corsi di recupero”, che la scuola si incaricava di organizzare prima della seduta d’esame di settembre. Compito della nuova scuola doveva essere la promozione, lo sviluppo dei talenti di tutti e di ognuno. Era già pronto il modulo valutativo, da inviare alle famiglie prima della pagella del primo quadrimestre. Il 15 febbraio 1974 i voti del primo quadrimestre della I C venivano assegnati collegialmente, utilizzando un modulo ciclostilato, articolato nelle seguenti voci: A - situazione socio-economico familiare; B - interessamento della famiglia per l’educazione e il profitto scolastico; C - sviluppo psico-fisico (tra l’altro: balbuzie, manierismi, stranezze nel comportamento, tristezze ingiustificate); D 1 - sviluppo intellettivo: - comprensione: capacità di cogliere intuitivamente dei significati; - valutazione: capacità di operare distinzione di valore e stabilire dei confronti; - apprendimento: capacità di acquisire informazioni, di elaborare e di riferirsi all’esperienza; 2 - espressione: capacità di comunicare con linguaggio comprensibile i propri pensieri; - espressività: capacità di esternare i propri stati d’animo col tono verbale, la mimica, il gesto, lo sguardo; 3 - motivazione: ampiezza di interessi, capacità di iniziativa, impegno con cui si applica allo studio e al lavoro; - applicazione: volontà ed energia dimostrata nella continuazione di un lavoro; 4 - controllo emotivo e affettivo: capacità di dirigere le proprie energie senza lasciarsi dominare dall’impulso; 107
- autonomia: capacità di prendere iniziative nello studio, nel lavoro, nelle relazioni interpersonali; 5 - socializzazione: rapporto con il gruppo, capacità di adattarsi alle esigenze degli altri, stabilire relazioni produttive, inserimento nell’attività collettiva; - comportamento con i superiori: disponibilità ad accettare gli insegnamenti e le direttive, e collaborare con gli altri; 6 - materie nelle quali si manifestano interessi, attitudini, capacità particolare; 7 - consiglio di orientamento (per gli alunni del terzo anno). A distanza di un anno esatto, il 28 novembre 1974, il verbale della I° C, coordinata da un giovane professore di Lettere appena arrivato e animata da un gruppo robusto e motivato di innovatori (Umberto, Alessandra, Giampaolo, Saverio, allora professore di Educazione Fisica Maschile), ritornava estensivamente sull’argomento (6 pagine manoscritte). Quali le mete della media unica?, si domandava il coordinatore. Come logica voleva, si partiva dalle “mete educative” per planare sulla valutazione. La scuola, scriveva il coordinatore di classe, si doveva preoccupare di quattro aspetti nella sua funzione educativa: - il primo era la cura del profilo intellettuale dell’alunno. La scuola si proponeva di indurre, sviluppare, potenziare la capacità logica e di analisi critica, lo spirito di osservazione, l’acquisizione di un metodo di lavoro, la capacità di induzione e deduzione, un iniziale gusto del bello; - il secondo era l’aspetto affettivo, e precisamente: la scuola doveva preoccuparsi di cercare l’equilibrio interiore dei ragazzi e sviluppare il rapporto con i familiari, i compagni, i professori e con gli estranei. Inoltre, sempre sotto questo specifico profilo, era compito della scuola stimolare l’autocontrollo e l’autostima, e l’instaurazione di un rapporto di reciproca stima e fiducia tra insegnante e alunno. Erano parole e concetti che contavano, detti e scritti da un giovane docente di Materie Letterarie, riservato, non aveva nulla della “testa calda e/o dell’avventuriero”. In un passaggio successivo, si ritornava sul problema della disciplina: “la scuola”, si precisava meglio, “non vuole tanto la disciplina quanto l’autodisciplina”; 108
- il terzo era l’aspetto sociale. Voleva dire che la scuola si preoccupava dell’inserimento del singolo nel gruppo classe, coltivava lo spirito di collaborazione e di socialità, incentivava l’altruismo; - infine, la scuola promuoveva l’aspetto morale-civico, traducibile in particolare nella capacità di discernere il bene dal male e di lavorare in gruppo. Nelle sei pagine risuonava, a un certo punto, un’affermazione secca come uno sparo nel silenzio della notte: i programmi ministeriali – allora, in verità, non proprio definiti e dettagliati – andavano svolti, “ma quello che va svolto prima è l’alunno”. Era lui il centro dell’insegnamento, lo scopo primo del lavoro del docente. Per questo il metodo migliore era quello induttivo, “il procedimento logico che consente di risalire dal particolare al generale” (Devoto-Oli). E per concludere la riunione programmatica di inizio anno – e di inizio triennio, come non mancava di rimarcare il verbale – “si vuole una scuola del dialogo, da qui la centralità del lavoro di gruppo”. Cosciente o meno, dichiarata o meno, esplicita o implicita, la scelta della sperimentazione era – e non poteva che essere – politico-ideologica, il cui manifesto più articolato era racchiuso nel lungo verbale della III B del 27 novembre 1974, un giorno prima di quello appena citato della I° C. “Individuazione degli obiettivi da conseguire al termine dell’anno scolastico”, recitava il punto dell’ordine del giorno. Un po’ strano, per la verità: i ragazzi stavano concludendo ormai il ciclo dell’obbligo, gli obiettivi – per essere validi e credibili – avrebbero dovuto essere stati articolati e messi per iscritto due anni prima. D’altro canto, i Decreti Delegati erano usciti solo da qualche mese (nel maggio del 1974). E, dunque, che ci stava a fare questo lungo discorrere di obiettivi? Il preside era presente, ma si accontentava di ricordare/ripassare alcune norme per la disciplina interna (una noia mortale; sempre le stesse giaculatorie!): arrivo a scuola degli insegnanti almeno cinque minuti prima dell’inizio delle lezioni, disciplina degli alunni durante la lezione, vigilanza scrupolosa durante la ricreazione. E allora perché un tale addentrarsi nei meandri filosofici di una politica scolastica, compito quant’altro mai arduo, problematico, di responsabilità di altri? Evidentemente era il tema dei temi per quel tipo di scuola. Tutto ciò partiva dal basso, da un Consiglio di classe. 109
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5. Dove ti porta il cuore
Nell’ottobre del 1975, Giuliana, 26 anni, laurea in Filosofia all’Università di Padova e due anni come professoressa – precaria – di Storia e Filosofia presso un liceo cittadino, saliva su una fiammante Cinquecento rossa. Destinazione: Pontelongo, un paesino sul Bacchiglione. Periferia e campagna, scuola dell’obbligo; a che cosa mai, si domandava, mi servirà quello che ho studiato, le speculazioni teoretiche, le grandi domande sul bene, il male, la vita, la morte, le passioni, l’istinto, la ragione, la giustizia, la comprensione del mondo e della realtà? Planava a Pontelongo in piena “sindrome della catapulta”: il trovarsi scagliati improvvisamente, bruscamente in una realtà piena di incognite, sentirsi impreparati e un po’ indifesi, chiedersi se era proprio quello ciò per cui ci si era impegnati per anni, quello che realmente si desiderava come meta”. Qualcosa aveva intuito al momento dell’accettazione della nuova sede di insegnamento nell’aula grigia del Provveditorato di Padova: “guardi che la Giacomo Leopardi”, l’addetto della commissione assegnazione incarichi si affrettava a spiegare, “è una scuola sperimentale”. Lo era o lo stava per diventare. Comunque, era o intendeva diventare diversa. Questo non poteva dispiacere in sé alla giovanissima laureata in Filosofia, con il suo bagaglio sessantottino sulle spalle (la parte sana, però), che credeva che compito della Filosofia non fosse solo quello di interpretare il mondo, ma anche quello di cambiarlo. 125
Il volume pubblicato nel 1983, testimonianza editoriale delle numerose ricerche condotte dai ragazzi nei varri anni della scuola media, sui temi della cultura locale.
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6. Così piena di vita: la sperimentazione procedeva approfittando di spiragli, pertugi ed esperienze
“A colloquio con i professori la madre che mi precede è una signora alta e pallida che parla fitto fitto e a voce abbastanza forte, va avanti da venti minuti buoni e si sta lamentando che il figlio non riesce a concentrarsi nello studio e non è che lo faccia apposta a non concentrarsi, anzi, lui glielo dice proprio, mamma non riesco a concentrarmi e questo vuol dire che ha individuato perfettamente il problema, che non riesce a concentrarsi, e la madre lo ha capito che davvero non è per cattiva volontà, perché se fosse per cattiva volontà non gli importerebbe niente di non riuscire a concentrarsi, anzi non lo direbbe nemmeno, e invece si lamenta continuamente di questa cosa, che non riesce a concentrarsi, per lui non riuscire a concentrarsi è veramente un cruccio, in effetti lo sa benissimo anche lui che se avesse impiegato a concentrarsi sui libri tutto il tempo che impiega a cercare inutilmente di concentrarsi, o a spiegare alla madre che proprio non gli riesce di concentrarsi, il problema sarebbe già risolto...”1 ... magari si tratta di dislessia, il ragazzo ha fatto tutti i test, la dottoressa era brava, bravissima, ma può capitare di sbagliare, o magari si tratta di un’altra patologia, anche a noi capitava di non concentrarci 1. M. Serra, Gli sdraiati, Milano, Feltrinelli, 2013, pag. 34 e seguenti. 153
eppure non eravamo seguiti, eppure ci siamo trascinati fino al diploma... Il brano di Michele Serra è tragico-esilarante, siamo in un’epoca diversa. L’attenzione a scuola, come in chiesa durante il rito religioso e la parola del celebrante, è un problema vecchio come il mondo. Il silenzio non equivale ad attenzione. E se l’attenzione fosse una risorsa rara per definizione?2 C’era una volta la scuola-Edipo, fondata “...sulla potenza della tradizione, sull’autorità del Padre, sulla fedeltà al passato. Edipo vive nel rispetto colpevole della Legge e nella sua trasgressione (...). Nella Scuola-Edipo il sapere che viene trasmesso esprime una fedeltà cieca nei confronti dell’autorità del passato: l’idealizzazione assume la forma della conservazione che ripete lo Stesso. C’è stato un tempo che andare a scuola e pregare erano la stessa cosa.”3 Il paragone tra scuola e preghiera va preso alla lettera; diventava poesia e finiva nelle antologie adottate. La scuola è proprio come una chiesetta che i suoi aspetta: aspetta i suoi fedeli ogni mattina questa allegra chiesina (...) Ed entrando i fedeli a mano a mano con un libretto in mano, per andarsi a sedere tutti, o sorpresa!, sui banchi come in chiesa. Lo studio, bimbi, in certa qual maniera è anche’esso una preghiera.4 2. P. Legrenzi - C. Umiltà, Una cosa alla volta. Le regole dell’attenzione, Bologna,Il Mulino, 2016. 3. M. Recalcati, L’ora di lezione. Per una erotica dell’insegnamento, Torino, Einaudi, 2014, pag. 20. 4. La poesia è di Luigi Ambrosoli, cit. in (a cura di) M. Bonazzi - U. Eco, I pampini bugiardi. Indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari, Rimini, Guaraldi Editore, 1972, pag. 52. 154
La poesia del liberal-giolittiano Luigi Ambrosoli è una delle tante perle riportate nel testo I pampini bugiardi. C’era stato il 1968, Lettera a una professoressa era deflagrata come una atomica pacifica; e, tuttavia il mondo reale, il lavoro e i lavoratori, la povertà continuavano a essere presentati come un presepietto di luci e di colori, di animalini tanto carini, di riposante tranquillità. “I libri di lettura parlano dei poveri, del lavoro, degli eroi e della Patria, della importanza e serietà della scuola, della varietà di razze e popoli che abitano la terra, della famiglia, della religione, della vita civica, della storia umana, della lingua italiana, della scienza, della tecnica, del denaro e della carità. Non si riferiscono ai problemi reali ai quali il ragazzo, una volta uomo, si troverà confrontato e sui quali dovrà prendere posizione.”5 I libri di testo andavano aboliti – sic et simpliciter –, dicevano i curatori dell’antologia di denuncia, perché “... questi problemi sono presentati in modo falso, risibile, grottesco [...] Che attraverso di essi il ragazzo viene educato a una realtà inesistente [...] Che quando i problemi e la risposta che ne viene fornita, concernono la vita reale, essi sono posti e risolti in modo da educare un piccolo schiavo, preparato ad accettare il sopruso, la sofferenza, l’ingiustizia, e a dichiararsene soddisfatto. I libri di testo dicono insomma delle bugie, educano il ragazzo a una falsa realtà, gli riempiono la testa di luoghi comuni, di platitudes, di atteggiamenti codini e acritici.”6 La critica era senza sconti, valoriale e ideologica: “... si può riconoscere in tali testi lo strumento più adeguato di una società autoritaria e repressiva, tesa a formare sudditi, uomini del colletto bianco, folla solitaria, integrati di ogni categoria, esseri a una dimensione, mutanti regressivi pre-gutenberghiani [...] Questi libri sono manuali per piccoli consu5. Da “Introduzione” de I pampini bugiardi, cit., pag. 8. 6. Ibid. 155
matori acritici, per membri della maggioranza silenziosa, per qualunquisti in miniatura, deamicisiani in ritardo che fanno elemosina a un povero singolo e affamano masse di lavoratori col sorriso sulle labbra e l’obolo in mano.”7 Non è che non si potesse scrivere diversamente e conoscere la realtà lavorativa. Come ricordato, Libera nos a malo, capolavoro di ricordi di un mondo antico diventato trasognato anche nelle sue molte piccinerie e sgradevolezze, è del 1963, e il mondo del lavoro era il mondo della “bisogna”. Non era questione soltanto di libri di testo e di rappresentazione della realtà. Si faceva presto a dire “scuola di massa”, ma riconoscerla, prima, e accettarla, poi, era tutt’altra musica. Il “come dovesse essere” prendeva forma istituzionale con il disegno di legge n. 2728 del 1970, che portava alla Legge Delega 477 del 1973 la quale, a sua volta, partoriva i Decreti Delegati 416, 417, 418, 419. I quali decreti, per dirla sinteticamente, andavano bene (meglio, “benino”). A modo loro, coraggiosi: infatti, non erano graditi a destra come non lo erano a sinistra. A scuola non entravano la lotta di classe, la rivoluzione culturale, nessun assalto del Palazzo d’Inverno. Ma la scuola cessava anche di essere il prolungamento della famiglia e delle figure parentali. La scuola si apriva, assumeva l’alunno come centro focale del suo essere; gli attori del mondo scolastico venivano riconosciuti, si dotavano di rappresentanze. Ma tutto con curiale prudenza; non mancavano gli ammiccamenti alla democrazia, alla partecipazione (la concessione delle assemblee in orario di lavoro, ad esempio), così come il potere politico non rinunciava alle furbizie: ai docenti, ad esempio, veniva riconosciuta “la libertà d’insegnamento” ma “nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni stessi”. Ossia nei limiti del buon costume e dell’ordine pubblico, nel cui nome uno zelante maresciallo dei carabinieri di Pontelongo “denuncerà” un prof per aver fatto studiare una poesia... non gradita alla coscienza morale e civile della maggioranza silenziosa! La funzione del docente (art. 2 del D.D. 417/74) veniva “intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla rielaborazione di essa e all’impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica delle loro potenzialità”. In questo clima di 7. Ibid. 156
apertura e di compromesso, la “sperimentazione” veniva assunta come dimensione ordinaria, diffusa, alla portata di tutte le realtà: “La sperimentazione nelle scuole di ogni ordine e grado è espressione dell’autonomia didattica dei docenti e può esplicarsi: a) come ricerca e realizzazione di innovazione sul piano metodologico-didattico; b) come ricerca e realizzazione di innovazione degli ordinamenti e delle strutture esistenti”.8 Sperimentatori di tutto il mondo, unitevi? Le cose erano molto più complicate; sperimentare rimaneva (e rimane) pur sempre un termine scivoloso, soprattutto se pronunciato in un campo istituzionale, fortemente condizionato da una certa subcultura e da una determinata tradizione. Il primo documento sulla “sperimentazione del tempo pieno” della Giacomo Leopardi (rintracciato negli archivi scolastici) è la “richiesta di riconferma” della sperimentazione, accompagnata da una accurata relazione di quanto prodotto nell’a.s. 1976-77. In realtà, alla luce del Decreto Delegato appena citato, arrivava soltanto il timbro dell’ufficialità di qualcosa che era iniziato ben prima. La sperimentazione in quanto tale aveva una sua storia; già nel lontano 1956, il Centro nazionale Didattico per la Scuola Secondaria istituiva “le classi di osservazioni”, con il proposito di riformare il triennio della media e avviamento9. Prima della legge quadro e dei Decreti Delegati vigeva un sistema a maglie larghe dove non mancavano spunti, appigli, forzature possibili e permesse. Una circolare ministeriale, ad esempio, dell’estate del 1971 “criticava” (!) esplicitamente le “classi differenziali” e, nel vietarne di nuove, annunciava due novità importanti: la costituzione di una Commissione parlamentare sulla problematica dell’handicap (l’iniziativa sfocerà nel documento Falcucci del 1975 e nella legge – un gioiello di civiltà – n. 517 del 1977); e, cosa ancor più importante per la esportabilità del modello proposto, la “sperimentazione di integrazione scolastica”. 8. Art. 1, Decreto Delegato n. 419/74 9. L. L. Ruberl, L’attuale sperimentazione di scuola media integrata, in “Innovazione educativa”, articolo riprodotto nel Quaderno ¾ di Scuola e Movimento Operario, 1973. 157
In alto: Don Milani. Seduto di fronte a lui, un giovanissimo Michele Gesualdi. In basso: Tullio De Mauro, ex ministro della Pubblica Istruzione. 184
7. Il decennio affollato, bifronte e i venerati maestri
“La grande storia passa per il posto dimenticato”, scrive Paolo Rumiz, viaggiatore curioso, in bicicletta, a piedi, con la vecchia Cinquecento, e penna di invidiabile raffinatezza terminologica e metaforica, davanti alla tomba di uno sconosciuto. Nel cimitero di Fanano, piccolo comune montano dell’alto modenese, il viaggiatore Rumiz si imbatteva nella tomba di Felice Pedroni, noto come Felix Pedro. Un figlio di quella terra, intraprendente avventuriero: in cerca di lavoro, finiva prima in Francia e poi in Canada dove la golden rush, la corsa all’oro, lo spingeva lungo le sponde dello Yukon dove, in una zona denominata Pedro Creek in suo onore, scopriva uno dei più ricchi filoni auriferi e contribuiva a dare vita a Fairbanks, 30.000 abitanti, la seconda città più grande dell’Alaska. Di storie, rimaste sigillate nell’anonimato perché non trovano chi le scriva, sono pieni i quattro angoli del mondo. Sarebbe troppo dire che la grande storia è passata per Pontelongo; la grande storia passava in quegli anni in molti luoghi, qualcuno s’è presa la briga di portarla anche sulle rive del Bacchiglione. “E’ Platone a insegnarci che s’impara per fascinazione, perché nell’era dell’adolescenza la mente si apre quando la sfera emotiva è coinvolta. Come ciascuno di noi ricorda di aver studiato con impegno le materie dei professori che ci avevano affascinato e davanti ai quali non si voleva fare brutta figura. [...] 185
Freud, già nel 1909, scriveva: ‘La scuola deve fare qualcosa di più che spingere i giovani al suicidio, e suscitare l’interesse per la vita che si svolge fuori nel mondo”.1 Non erano né alieni né eroi le prof e i prof della Giacomo Leopardi. Era l’epoca eccezionale, come lo erano i segni dei tempi. Quelli che volevano cambiare il mondo erano tanti, non erano mosche bianche. You say you want a revolution well, you know, we all want to change the world. You tell me that it’s evolution, well, you know, we all want to change the world2. Correva l’anno 1968, i Beatles c’erano già; facile anche per loro capire che stava cambiando il mondo. Altrettanto bene e facilmente capivano che il bello veniva dopo: capire la direzione del cambiamento. Infatti, della canzone Revolution la band inglese pubblicava due versioni in tre mesi di tempo; l’inghippo era scegliere la parola che facesse rima con revolution: destruction, evolution, solution, contribution, constitution, institution. Che roba, contessa, all’industria di Aldo han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti; volevano avere i salari aumentati; gridavano, pensi, di essere sfruttati. Compagni, dai campi e dalle officine prendete la falce, portate il martello, scendete giù in piazza, picchiate con quello; scendete giù in piazza, affossate il sistema. Voi, gente per bene, che pace cercate, la pace per fare quello che voi volete, 1. U. Galimberti, Attenti professori da oggi si vota sul vostro carisma. Ci vuole entusiasmo nell’insegnare. Perché l’attenzione degli studenti passa dal coinvolgimento emotivo, supplemento di “la Repubblica” dell’11 febbraio 2017. 2. “Dici di volere una rivoluzione,/ già,/ tutti noi vogliamo cambiare il mondo./ Mi dici che quella è evoluzione,/ già,/ tutti noi vogliamo cambiare il mondo.” Lennon-McCartney, Revolution, da “The Beatles (The White Album)”, 1968. 186
ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra. Vogliamo vedervi finire sotto terra, ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato. Nessuno più al mondo dev’essere sfruttato3. Le note musicali non ce la facevano a depotenziare le parole dure come pietre (“falce e martello”, “affossate il sistema”, “vogliamo la guerra”, “sfruttamento”), esplicite come l’evangelico sì si no no. Rivoluzione politica era il biennio 1968-69, affollato dalle icone al vento di Marx, Lenin, Stalin, Che, Fidel, Mao, dell’eroico popolo vietnamita, di Kennedy e Dubceck. Ma anche molto acido lisergico, molta musica, euforia ed ottimismo: insufficienti a rimuovere l’incubo ingombrante del maledetto fungo fiorito, per un attimo accecante, a Hiroshima e a Nagasaki. Tutto aveva avuto inizio da uno studente italo-americano, Mario Savio, che si era messo in testa di fare propaganda politica e di organizzare comizi in un campus universitario. Proprio a Berkeley, il più grande della California il cui rettore, Clark Kerr, aveva proibito volantini, raccolta di fondi, cortei, megafoni perché “le idee devono restare fuori dal campus, l’Università è una fabbrica e serve a riempire le teste vuote, per far lavorare il sistema”. Il 1° ottobre 1964 nasceva il Free Speech Movement: gli studenti universitari, giovani adulti, reclamavano il diritto alla parola anche nei sacri recinti del sapere. Fiorivano i tanti movimenti anti e pro: anti guerra, anti tradizione, anti autoritarismo, anti conformismo, e pro sesso libero, pro comune, pro jeans. Il 1968-69 è stato molte cose, molti rivoli, con un minimo comune denominatore chiaro: fare tutto in modo diverso. Niente doveva rimanere come prima. Al netto di ogni legittima interpretazione e valutazione, il 196869 si configurava come una cesura, saltava il meccanismo pedagogico tradizionale: “La verità viene trasferita dagli adulti ai giovani, dai genitori ai figli, dagli insegnanti agli studenti, dai padroni agli operai”.4 3. P. Pietrangeli, Contessa, 1966. 4. S. Lupo, Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica, Roma, Donzelli Editore 2013, pag. 86. 187
Il gruppo fotografico con Giampaolo Ferigo, primo a sinistra. 232
9. Mi faceva sentire importante, e poi non è stato più così
Il sovrintendente del Parco Nazionale Gran Paradiso, il signor Framarin, preoccupato per un progetto turistico-alberghiero che minacciava il paesaggio, chiudeva gli occhi e meditava. In attesa di un’idea. Perché non chiedere lumi a Goffredo Parise (si era nel 1974), che allora scriveva per Il Corriere della Sera? Era una firma prestigiosa, il suo parere poteva smuovere le montagne e anche le volontà politiche. Lo scrittore vicentino rispondeva con un lungo intervento sulla memoria, i ricordi, i cambiamenti. “Io non ricordo più quei paesaggi e quelle montagne, è la forza delle cose”; quello che vedeva non lo convinceva del tutto. Meglio non ricordare: “perché la realtà del nostro Paese, essendo profondamente mutata, sento la necessità di vivere, oggi, e non domani, ancora non la voglio ricordare perché la conservazione del ricordo (come la conservazione delle cose) è un dato al tempo statico e regressivo che, in modo assolutamente certo, viene travolto dalla realtà contingente di oggi, quella in cui lo vogliamo o no, siamo ancora impegnati a vivere”1. Sono passati più di quarant’anni dall’inizio della sperimentazione. Gli allievi di allora sono diventati adulti, ben oltre il mezzo del cammin di loro vita. Che ricordi hanno?
1. F. Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, Torino, Einaudi, 2013, pagg. 179-180. 233
Scena uno, interno giorno: Ricostruzione di un'aula scolastica presso il Museo dell'Educazione, Padova (foto L. Agostini/2013. Su concessione dell’Università degli Studi di Padova). Scena due, esterno giorno: la canonica e la chiesetta di Barbiana. 286
11. La buona battaglia
Scena uno, interno giorno, 10 marzo 2016. Il Museo dell’Educazione, a Padova è allestito all’ultimo piano, al termine di una rampa di scale rallegrate da sagome in cartone di scolaretti in divisa, sorrisi ammiccanti, treccine alla Pippi Calzelunghe. Sono passati tre anni da quel giorno in cui, riuniti in una bella casa sui Colli Euganei, tra il provocatorio e il burlone, a qualcuno era venuta l’idea di scrivere un libro su quella nostra esperienza di sperimentazione del tempo pieno scolastico di qualche decennio prima. Pensiamo sia il modo migliore e il luogo più propizio per farsi un’idea plausibile e realistica di un certo clima storico, di un’epoca, d’un tempo che fu. Al termine di un percorso di oggetti, ricostruzioni di ambienti, lavagne, carte geografiche, vetrine, nomi di personaggi, il percorso si ferma di fronte a una porta chiusa: “La chiamiamo il confine del tempo”, dice chi ci intrattiene, “al di là del quale c’è un mondo con regole proprie”. La porta dà sull’aula e sulla cattedra, “l’altare del sapere”. Lo scolaro entrava, appendeva la cartella, lasciava il cappotto, si sedeva, guardava davanti a sé: una parete bianca, un Crocifisso, una carta geografica, un mappamondo e lei, la regina in trono del mondo scolastico, la cattedra. Il tabernacolo del sapere e del potere. Dalla cattedra si distendevano, in rigoroso ordine di file, i banchi dove, due a due, prendevano posto gli allievi; a un lato dell’aula, una stufa, dall’altra, una lavagna con due orecchie d’asino, i sassolini delle punizioni, “i semi della ignominia”, la bacchetta per scopi punitivi. Semi 287
e bacchetta vietati dal Regio Regolamento del 1870, anno della proclamazione del Regno d’Italia, ma largamente ammessi dalla vischiosità del sistema. L’ambiente, ovattato e protetto, trasuda ordine e disciplina; la parola, sacralizzata, affidata a una casta, piove dall’alto. Come il mulino odora di farina e la chiesa d’incenso e cera fina, sa di gesso la scuola. E il buon odore che lascia ogni parola scritta sulla lavagna, come un fioretto in mezzo alla campagna. Tutto qui dentro è bello e sa di buono. La campanella manda un dolce suono e alla parete sta una croce appesa. Pare di essere in chiesa: si entra senza cappello si parla a voce bassa si risponde all’appello. Oh scuola come il tempo passa! S’apre il libro, si legge e la signora spiega, per chi non sa, or questo or quello come in un gioco: un gioco così che quando si fa l’ora d’uscir, vorremmo che durasse ancora. Come il mulino odora di farina, e la chiesa d’incenso e cera fina, la casa prende odor dal pane nostro e la scuola dal gesso e dall’inchiostro”1. Scena seconda, esterno giorno, sabato 9 settembre 2017. Lasciato a sinistra il Lago Viola, incappiamo in uno spazio che può contenere non più di quattro-cinque automobili. Se n’è andata un’estate esasperatamente asciutta; proprio oggi il cielo si annuvola, non promette niente di buono. In senso contrario, scende un fuoristrada: “Meglio proseguire a piedi”, consiglia il giovane papà di una maschietto e di 1. Renzo Pezzani (1898-1951), A scuola. 288
una femminuccia, sorridente e convincente; “si può andare a destra, il percorso è più lungo ma più agevole, o a sinistra, per il Sentiero della Costituzione, più impegnativo”. I primi passi coincidono con la prima acqua, niente di tragico ma sufficientemente birichino per rendere la salita una conquista sudata. Monte Giovi, recita il primo cartello, 457 metri sul livello del mare, culla della Resistenza toscana. Ragione che concorre a spiegare i quarantacinque cartelloni illustrativi degli articoli della Costituzione repubblicana che accompagnano il visitatore in cammino verso Barbiana. Resistenza, Costituzione, democrazia: è lo spartito laico e civile ben visibile e leggibile in questo pezzo d’Italia, troppo dimenticato – o, peggio, – interpretato all’italiana. A tarallucci e vino; succede abbastanza spesso di domandarci che cosa mai ci sarà di serio nel nostro Paese. Due mesi e mezzo fa da queste parti è venuto Papa Francesco, in visita strettamente privata. La Fondazione don Milani ci tiene a dirlo e ripeterlo: tutto deve rimanere così com’era. Barbiana era ed è la chiesetta e la canonica, trasformata in aula scolastica e in laboratorio, una piscina scavata nel cemento – sembra il taglio profondo di un bisturi nella carne viva –, un cipresso, una pergola. E un pianoro arioso che si perde nei boschi. “Vedete quel quadro?”, esordisce la volontaria incaricata di spiegare Barbiana ai visitatori del giorno; dato il tempo, agli ospiti era stata aperta la chiesetta. “Un quadro anomalo, si chiama ‘il santo monachello’ e ha una storia altrettanto anomala”. Come ovunque, la nicchia della parete era occupata da una statua del Sacro Cuore. Non piaceva ai ragazzi. I quali – erano sei i primi alunni del priore –, in un soggiorno in Germania accompagnati da don Lorenzo, vedevano e si innamoravano dei mosaici. “Facciamo un quadro noi”, proponevano i ragazzi al priore di ritorno dal soggiorno estero; andavano dai vetrai di Firenze, si portavano a casa un sacco di vetri colorati di scarto e davano forma a un quadro del monachello, sandali ai piedi, tonaca e testa – problematica da delineare – immersa tra le pagine di un libro. “Chiamiamolo il Santo Scolaro”, proponeva don Lorenzo Milani, “ma non ditelo in Vaticano, non vorrei che ci stessero male, solo loro possono proclamare i santi”. “Non era mai capitato”, conclude la volontaria, “che un maestro proclamasse santo uno scolaro”. Il significato pieno del “caso Barbiana” lo si coglie passando dalla cappellina all’aula. Che non è propriamente un’aula, ma uno stanzone 289
con tavoloni (nei pochi anni di attività, la scuola di Barbiana passa da 6 a 42 allievi). Niente cattedra, tutto costruito dai ragazzi con materiale di scarto trovato nelle povere case dei mezzadri montanari: come l’astrolabio, le unità di storia che corrono alte lungo le pareti, i cartelloni per esercitarsi nei verbi. Sotto lo stanzone-aula, il laboratorio con gli strumenti per lavorare il legno e arredare l’ambiente. Barbiana era ed è un unicum; don Milani era ed è un unicum. Una cosa era certa: la cattedra, ‘l’altare del sapere’, non era all’altezza dei tempi nuovi dell’Italia repubblicana – diciamola tutta, senza scandalizzare: andava distrutta, cosa che si poteva permettere, con successo e con risonanza nazionale, il priore di quel “non luogo”. Forte e chiara la sua denuncia di una scuola istituzionale più interessata a perpetuare sé stessa – autoritaria, selettiva, elitaria - che a mettersi al servizio di una Repubblica democratica fondata sul lavoro La terna dei tempi moderni – Resistenza, Costituzione, democrazia – richiedeva una scuola grande come il mondo. C’è una scuola grande come il mondo. Ci insegnano maestri e professori, avvocati, muratori, televisori, giornali, cartelli stradali. Ci sono lezioni facili e lezioni difficili, brutte e belle e così così... Si impara a parlare, a giocare, a dormire, a svegliarsi, a voler bene e perfino ad arrabbiarsi. Ci sono esami tutti i momenti, ma non ci sono ripetenti: nessuno può fermarsi a dieci anni, a quindici, a venti, e riposare un pochino. Di imparare non si finisce mai, e quel che non si sa è sempre più importante di quel che si sa già. Questa scuola è il mondo intero 290
quanto è grosso: apri gli occhi e anche tu sarai promosso”.2 La nostra piccola avventura di vita e di professione, durata un decennio, si colloca nella strada tormentata tra il primo e il secondo fotogramma di un bel film in bianco e nero; come una scommessa concreta della scuola militante nel crogiuolo del nuovo che faticava ad emergere e a imporsi. Si imponeva un cambiamento radicale dello stato presente delle cose; la parola suona un po’ retorica, ma non ce n’è un’altra: rivoluzione. Combattuta nel corpo vivo della realtà quotidiana, la campanella suonava e l’adrenalina scorreva ad alimentare una passione, con qualche dubbio ma senza attacchi di panico. Senza eroi. E senza la dovuta attenzione delle istituzioni. Una storia semplice, la nostra; non è una favola, non è un saggio accademico. Non è un romanzo; cassati scrupolosamente gli ingredienti forti – popolari e sicuri – del racconto: il sangue, l’intreccio, i personaggi forti, l’amore, i colpi di scena, la suspence, l’imprevisto, il climax, il deus ex machina, il sesso. Ci sono i buoni e i cattivi, ma senza il duello all’OK Corral. Una storia minore, una delle tante (infinite) destinate a non finire nei libri di Storia: sono tuttora rimaste inevase le “domande operaie” del venerato maestro Bertolt Brecht: Chi costruì Tebe dalle Sette Porte? Dentro i libri di storia ci sono i nomi dei re. I re hanno trascinato quei blocchi di pietra? Babilonia tante volte distrutta, chi altrettanto la riedificò? In quali case di Lima lucente abitavano i costruttori? Dove andarono i muratori, la sera che terminarono la Grande Muraglia? La grande Roma è piena di archi di trionfo. Chi li costruì? [...] Ogni pagina una vittoria. Chi cucinò la cena della vittoria? [...]3 2. G. Rodari (1920-1980), Una scuola grande come il mondo, da “Il libro degli errori”, Torino, Einaudi, 1974. 3. B. Brecht, Domande di un lettore operaio, in “Poesie e canzoni”, a cura di R. Leiser e F. Fortini, Torino, Einaudi, 1970. 291
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Appendice
In queste pagine di appendice riprendiamo alcune copertine dei numeri del giornalino School and Life, oltre che una serie di fotografie ripescate dall’archivio degli insegnanti. Nel libro, come avete visto, ma soprattutto nelle pagine successive, sono riprodotte una serie di fotografie scattate negli anni di quel decennio della scuola sperimentale. All’epoca, nessuno pensava ad una archiviazione precisa delle immagini, per il semplice motivo che nessuno pensava che quarant’anni dopo ci si sarebbe presi la briga di scrivere un libro che ripercorresse quel periodo. E quindi abbiamo perso i riferimenti precisi: in che anno sono state scattate quelle foto? A che classe si riferiscono? Quanti ex-alunni vi si riconoscono? Nel nono capitolo abbiamo inoltre riportato delle storie di alcuni di voi ragazzi, di quelli che per svariati motivi è stato più facile contattare. Ma sono sicuramente tutte storie interessanti. Se ve la sentite, scrivete la vostra, anche con poche parole; potrebbe essere lo spunto per raccoglierle ed eventualmente pubblicare un secondo libro, magari con la storia di quel decennio raccontata dalla parte dei banchi. Scrivete a <info@overvieweditore.com>; raccoglieremo i materiali e vi terremo al corrente degli eventuali sviluppi del progetto.
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Tutti in bici!
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