BABILON anno 1, n° 2 Rivista di geopolitica bilingue italiano-inglese. Un prodotto Oltrefrontiera News in collaborazione con Il Caffé Geopolitico - Numero disponibile online: www.oltrefrontieranews.it - www.paesiedizioni.it - 29/06/18
BA BIL ON
JUN 2018
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
n°2
€ 5,00
QUALE FUTURO PER LA SIRIA?
FOLKS!
I’M L L I T S HERE,
Il nuovo Medio Oriente
Italiani in Siria
Le armi chimiche
Armi ed eserciti
Middle East scenarios
Reportage: Damascus
Laws and chemistry
Armies & militias
SUMMARY
BA BIL ON
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RUBRICHE
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE NUMERO 2 - € 5,00
FACES / / / / / / / / / / / / / / / pag 6
SUMMARY
I VOLTI PIÙ SIGNIFICATIVI DEL 2018
SOMMARIO
EDITORIALE Kingdom of blood. . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 4 SCENARIO Syria Legacy: Lost in transition. . . . . . . . . . . . Iranian interests in Syria and how they worry Tel Aviv . . Russia loves Syria. . . . . . . . . . . . . . . . . . . Iran-Saudi Arabia: the “Oil” factor. . . . . . . . . . End of Kurdistan? . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag 8 pag 12 pag 14 pag 16 pag 20
GEOPOLITICS Italy in Syria. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 28 Blood on the roots. . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 32 France’s Syria out of business. . . . . . . . . . . . . pag 36 CULTURE Weapons of mass distraction . . . . . . . . . . . . . pag 40 Why Al Qaeda bets on Syria. . . . . . . . . . . . . pag 48
PLACES / / / / / / / / / / / / /
SPECIAL
RAGES / / / / / / / / / / / / / /
DIPLOMATIC COURIER Chemical Weapons: are you serious?. . . . . . . . . pag 24
pag 22
pag 42
DURA LEX Chemical Weapons: are you serious?. . . . . . . . . pag 38 It’s Chemistry, baby! . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 44 Cover Photo: REPORTER SANS FRONTIÈRES Campaign 2013
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EDITORIALE
KINGDOM OF BLOOD REGNO DI SANGUE by
Luciano Tirinnanzi
LA FOTO ORIGINALE DELLA CAMPAGNA 2013
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KINGDOM OF BLOOD / / / / / / / / / / / / /
Nel primo numero di Babilon avevamo messo in copertina il colonnello Gheddafi per rappresentare l’incertezza che è seguita alla sua destituzione dal governo della Libia e che tuttora permane. Nel secondo numero, abbiamo più provocatoriamente scelto la controversa figura di Bashar Al Assad che, invece, resta - per il momento - saldamente al potere. Abbiamo optato per un’immagine forte: quella del fotomontaggio di un gesto irriverente che il presidente siriano rivolge all’osservatore, così come rappresentato all’interno della campagna 2013 di Reporter Sans Frontières, l’organizzazione non governativa parigina che si batte per la libertà di stampa (e cui è riconosciuto lo status di consulente delle Nazioni Unite). Il significato sta tutto nel titolo: «Sono ancora qui, gente!». Perché, nonostante il volto trasfigurato di molti territori e città della Siria; nonostante dieci milioni di profughi dispersi oltrefrontiera; nonostante le oltre cinquecentomila vittime (ormai si è smesso di contarle) della guerra civile; e nonostante il Paese sia ormai in mano a potenze straniere che ne gestiscono ciascuno una fetta in maniera quasi esclusiva; nonostante tutto ciò, lui è ancora in piedi. Come una foglia di fico, infatti, il presidente siriano serve oggi a evitare l’imbarazzo del peccato originale - non dimentichiamo mai che ad Assad vanno ascritte quantomeno le responsabilità dei primi tumulti - e a distogliere la vista dalla verità. Cioè che questo Paese non esiste più, perché è stato cannibalizzato da quanti desiderano mutare la realtà geopolitica della regione. Dopo un secolo in cui gli accordi di Sykes-Picot avevano garantito un equilibrio e un argine alle dispute regionali (mai peraltro sopite), ecco dunque che la cartina geografica cambia e, dopo essersi tinta di rosso sangue, potrebbe in futuro assumere i colori di una o più bandiere. Non lo desidera la Russia, lo vogliono in parte l’Iran e la Turchia. Di certo non lo vogliono Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti d’America. Per tutti, in ogni caso, la soluzione di comodo di tenere in piedi il fantoccio Assad è migliore della prospettiva di un trattato di pace che scontenterebbe una parte rispetto a un’altra, e anche di una guerra di più ampio raggio, che richiederebbe sforzi bellici notevoli. Così, ecco che Bashar Al Assad, passato da una vita da giovane studente di oftalmologia nell’agiata Londra a quella di comandante in capo di un regno di sangue, si ritrova ostaggio insieme al suo Paese, sballottato da quanti gli chiedono di fare un passo indietro (gli USA) e quanto gl’impongono di tirare dritto (la Russia). Chissà cosa preferirebbe, se potesse scegliere. Ma una scelta non c’è, perché il rischio di creare una situazione ben peggiore della Libia odierna è dietro l’angolo. Tutti lo sanno. Perciò, lo lasciano stare. Almeno, sino a che la storia non lo giudicherà per quello che è. O che è stato.
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
We chose to put Gaddafi on the cover of the first issue of Babilon to represent the uncertainty in wake of his removal from the Libyan government. For the second issue, we have provocatively chosen the controversial figure of Bashar Al Assad, who, however, remains firmly in power – at least for the time being. We opted for a strong image: a montage of an irreverent gesture that the Syrian president makes to the observer, as represented in the 2013 campaign by Reporter Sans Frontières, the Paris-based NGO that fights for freedom of the press and is recognized as a UN consultant. The meaning lies in the title: “I’m still here, people!” Despite the ruin of land and cities, despite the ten million refugees that have spilled over the border, despite the more than 500,000 victims (we have long lost track of the official count) and despite the fact the country is now in the hands of foreign powers, each managing a slice nearly exclusively, despite all of this, he is still standing. Just like a fig leaf, the Syrian president merely conceals the embarrassment of the original sin – let us never forget that Assad may be (at the very least) held responsible for the first uprisings – and to divert attention from the truth. That is, that the country no longer exists, that it has been cannibalized by forces working to change the geopolitical reality of the region. A century after the Sykes-Picot agreements established a balance and a bulwark to (never-dormant) regional disputes, we are witnessing a changing map. After it has been stained blood red, it could be painted with the colors of one or more flags. This is not what Russia wants, but what Iran and Turkey want, to a certain extent. Certainly Israel, Saudi Arabia and the United States do not want it. For all involved, in any case, the convenient solution of keeping a puppet Assad standing is better than the prospect of a peace treaty that could dissatisfy one side over another or cause an even greater war, which would require even more extensive military action. So, here is Bashar Al Assad. From a young ophthalmology student in London to commander in chief of a blood-soaked land, today he finds himself hostage alongside his country, tossed around by those who ask him to take a step back (the US) and those who push him to keep going (Russia). Who knows what he would prefer, if he could choose. But there is no choice, because the risk of creating a situation far worse than today’s Libya is around the corner. Everybody knows. Therefore, they leave it alone. At least, until historyjudges it for what it is. Or what it was.
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FACES
GIUSEPPE CONTE Il 4 marzo si è tornati a votare in Italia: le elezioni più astruse di sempre hanno dato come risultato un “Frankenstein politico” che ha visto unirsi la Lega e il Movimento 5 Stelle. Ne è uscito come leader un professore di diritto, al quale però sono in troppi a tirare la giacca. Auguri al neo-premier per il difficile cammino. On March 4, Italy went back to the urns. The country’s most puzzling elections gave life to a political Frankenstein comprised of the Northern League and the 5 Star Movement. At the head is a law professor, with too many hands pulling on his jacket. Best wishes to the new PM in his difficult position.
KHALIFA HAFTAR Il generale che domina la Cirenaica è riemerso dalle proprie ceneri come l’Araba fenice. Il giallo parigino di una sua scomparsa prematura è stato spazzato via da una parata militare in pompa magna a Bengasi, a ribadirne il ruolo e la forza. Adesso, le elezioni di dicembre sono più vicine per la Libia. The general that rules Cyrenaica has emerged from his ashes like a phoenix. The Parisian rumors of his premature death were swept away by a military parade with great pomp in Benghazi, to reaffirm his role and strength. Libya’s December’s elections now feel much closer.
DONALD TRUMP Nonostante tutto e tutti, il presidente sui generis sta inanellando una serie di vittorie impreviste quanto la sua ascesa politica, anche e soprattutto in politica estera. La voce grossa su Iran, sui dazi e il successo dell’incontro di pace con Kim Jong Un ne sono la prova lampante. Despite everything and everyone, the sui generis president is experiencing a series of victories, as unexpected as his political ascent, especially in foreign affairs. His strong standing on Iran, on tariffs, and his successful peace meeting with Kim Jong Un are glaring evidence.
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I VOLTI PIÙ SIGNIFICATIVI DEL
FACES 2018 MOQTADA AL SADR
La formazione politica irachena Sairoon, guidata dal leader sciita che è stato tenuto ai margini della scena politica irachena degli ultimi quindici anni, dimostra la resilienza e la forza di un leader che ancora comanda su Baghdad. Il suo peso politico non è mai diminuito nel tempo. Sairoon, the political formation with a Shiite leader who has been pushed to the margins of the Iraqi political scene for the past 15 years, demonstrates the resilience and strength of a leader that still rules over Baghdad. His political weight has not diminished over time.
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SCENARIO
SYRIA’S LEGACY: LOST IN TRANSITION PANORAMICA DEI NUMEROSI CONTENDENTI IN SIRIA TRA OBIETTIVI IDEALI E STRATEGIE DI RIPIEGO by
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Lorenzo Nannetti
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SYRIA’S LEGACY: LOST IN TRANSITION
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a complessità del conflitto in Siria deriva dalla sovrapposizione d’interessi e azioni di attori locali, potenze regionali e internazionali. È questo, con ogni evidenza, che rende così complesso trovare una soluzione. Ciascun protagonista ha infatti obiettivi “di massima” ideali, difficilmente raggiungibili alla realtà dei fatti - e “di minima” - cioè di ripiego, visti gli ostacoli da affrontare - che si sovrappongono gli uni agli altri. Capirli, o meglio spiegarli, aiuta a comprendere i rapporti tra le varie fazioni e il perché di certe scelte.
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he complexity of the conflict in Syria is due to the overlapping of interests and actions of local, regional and international powers. This is also what makes it so hard to find a solution. Each protagonist has bestcase objectives, or ideals that are hard to reach given the reality of facts, and worst-case objectives, or fallbacks, given the obstacles- which overlap each other. Understanding them, or better, explaining them, helps to comprehend relationships between the various factions and the reasons behind certain choices.
SYRIAN PRESIDENT BASHAR AL ASSAD Il suo ideale è riconquistare l’intero Paese, ma più realisticamente il suo miglior risultato oggi sarà sopravvivere e mantenere il controllo su quanta più parte della Siria possibile. Il suo problema è che dipende dalle forze armate russe e iraniane, cosa che lo rende sacrificabile, se mai servisse ai suoi sponsor. Mosca forse lo avrebbe già sostituito con un altro esponente alawita (si dice che Assad li abbia prevenuti giustiziando eventuali rivali), ma per l’Iran la famiglia Assad è ancora il riferimento fondamentale.
His ideal would be to reconquer the entire country, but more realistically, the best he can hope for today would be to survive and maintain control over as much of the country as possible. His problem is that he relies on Russian and Iranian armed forces, which makes him expendable if ever needed by his sponsors. Moscow might have already substituted him with another Alawite, but it is said that Assad beat them to it and executed all possible rivals. Iran still considers the Assad family as a fundamental point of reference.
RUSSIAN FEDERATION La Russia attualmente è forse l’unico attore capace di conseguire un risultato concreto ed è vicina al massimo successo ottenibile: proteggere le proprie basi militari (quella navale di Tartus e quella aerea di Hmeimim vicino a Latakia), evitando che il governo di Damasco crolli. Sta inoltre riducendo la propria presenza diretta usando una compagnia di contractor - la Wagner - che permette al Cremlino di ridurre il proprio intervento militare diretto. Non guasta l’aver potuto riaffermare il proprio ruolo in Medio Oriente: oggi tutti i governanti della regione guardano a Mosca e non solo a Washington, e non è un risultato da poco.
Russia is possibly the only actor that is capable of obtaining concrete results and is close to reaching its maximum achievable success: protecting its military bases (a naval base in Tartus and its Hmeimim base near Latakia) and preventing the Damascus government from falling. Russia is also reducing its direct presence by using a contracting company, Wagner, that allows the Kremlin to limit direct military intervention. It certainly did not hurt to reaffirm Russia’s role in the Middle East. Now all of the region’s rulers look to Moscow and no longer merely to Washington DC, which is not to be underestimated.
ISLAMIC REPUBLIC OF IRAN Anche l’Iran sta raggiungendo il proprio risultato massimo: evitare la caduta di Assad e costruire così un corridoio sciita che dall’Iran permetta di muovere mezzi e armi fino al Libano. Il che è fondamentale per una prospettiva di egemonia così come contemplata dagli Ayatollah. Al contrario della Russia, per Teheran sono proprio il presidente Assad e la sua famiglia il contatto principale da tutelare: si teme che un qualsiasi sostituto non possa essergli altrettanto amico. Se da un lato gli eventi hanno permesso agli alleati/strumenti dell’Iran (Hezbollah
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Iran too is reaching its best-case scenario: preventing the fall of Assad and building a Shiite corridor that allows Iran to move weapons and vehicles through to Lebanon, crucial to the Ayatollahs’ vision of power. Contrary to Russia, for Tehran, President Assad and his family are the primary contact to protect, fearing that any other substitute would not be as friendly. While the events have allowed Iran’s allies and instruments (Hezbollah in particular) to strategically position themselves against Israel, still remaining is a war that devoured substan-
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SCENARIO
in primis) di posizionarsi strategicamente anche in postura anti-israeliana, rimane però il problema di una guerra che ha mangiato notevoli risorse umane ed economiche alla Repubblica Islamica, cosa che in patria ha creato parecchio scontento e tumulti, vedi le recenti proteste di inizio anno in numerose città del Paese.
tial human and economic resources to the Islamic republic, which has created great discontent and riots, as demonstrated by recent protests in several cities at the beginning of the year.
TURKEY Se l’obiettivo massimo del presidente Recep Tayyip Erdogan era provocare la caduta di Assad e ottenere un governo amico di Ankara a Damasco, anche per riproporsi come punto di riferimento regionale, questo si è infranto contro l’intervento russo che rende il rais siriano inattaccabile. Rimane allora almeno un obiettivo minimo: evitare che i curdi di Siria possano creare un loro Stato indipendente o anche solo un’autonomia sufficientemente stabile da far venire “brutte idee” ai curdi residenti in Turchia. Inizialmente, questo schema prevedeva il chiudere un occhio davanti all’ISIS, considerato un utile strumento per tenere a bada le fazioni curde; oggi, invece, lo strumento sono diventati vari gruppi di miliziani siriani che non possono più fare a meno di Ankara.
If President Recep Tayyip Erdogan’s main goal was to see Assad fall to make way for an Ankara-friendly government in Damascus to reintroduce Turkey as a reference point for the region, the dream has been shattered by Russia’s intervention which makes the rais unassailable. There still lies a fallback: to prevent Syrian Kurds from creating an independent State that is stable enough to give Kurds residing in Turkey the “wrong idea”. Initially, this meant closing an eye to ISIS as they were useful in keeping Kurdish factions under control. Today, the main instrument has become groups of Syrian militants that can no longer do without Ankara.
REBEL MILITIAS Questo insieme di gruppi più o meno vario - ormai dominato dalle frange estremiste, con numerose formazioni ispirate o composte da gruppi di terroristi/jihadisti - aveva come obiettivo ideale abbattere Bashar Al Assad e creare una nuova Siria aderente alle proprie convinzioni, tutte islamiste ma spesso differenti da gruppo a gruppo. Impossibilitati a fare ciò e ormai sempre più deboli, il loro obiettivo minimo è la sopravvivenza. In Siria, però, sarà difficile trovare veri e propri accordi o amnistie con il regime, a meno di non essere tutelati da altri sponsor esterni, come appunto la Turchia. Perdendo quindi qualsiasi aspirazione all’indipendenza.
This conglomerate of a variety of groups — now dominated by extremist fringes, with numerous formations inspired by or composed of terrorist or jihadist groups — had as an ideal goal to overthrow Bashar Al Assad and create a new Syria that adheres to their variety of Islamist beliefs. Unable to do this and now increasingly weak, their fallback goal is simple survival. In Syria, however, it will be difficult to find real agreements or amnesties with the regime, unless they are protected by other external sponsors, such as Turkey, losing any aspiration to independence.
USA AND ALLIES La posizione di Washington e dei suoi alleati è per ora forse la più confusa. I risultati ideali come la caduta di Assad e l’ottenimento di un governo democratico laico amico, si sono rivelati un’illusione fin dai primi anni di guerra. Cosa rimane adesso da raccogliere? Da un lato si vorrebbe vedere la fine della guerra, ma senza che Russia, Iran e Assad possano dichiarare di aver trionfato. Si vorrebbe anche un’opposizione sunnita moderata, che però è al momento quasi scomparsa, mentre come ovvio non si vuole dare spazio ai terroristi. I curdi piacciono, ma non si può rischiare lo scontro diretto con
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The position of Washington and its allies is, at the moment, the most confused. Ideal results, such as the fall of Assad and the establishment of a secular, friendly and democratic government, have been revealed to be an illusion from the very beginning of the war. What hope remains? On the one hand, they would like to see the war come to an end, without Russia, Iran and Assad being able to declare victory. They would also welcome a moderate Sunni opposition, which, at the moment, has nearly disappeared. Obviously, they do not want to leave room for terrorists. They like the Kurds, but BABILON N°2
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la Turchia e, almeno per quanto riguarda il governo americano, si pensa a sganciarsi progressivamente dalla zona; cosa che, tuttavia, sacrificherebbe il popolo curdo e aiuterebbe tutti i suoi avversari. Al momento, dunque, per l’Occidente è difficile decidere anche solo cosa costituisca un “risultato di minima”, e questo non consente ad alcuno di formulare una strategia coerente e comune.
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they cannot risk direct confrontation from Turkey. At least for the American government, it would be favorable to slowly disengage from the zone, this however would sacrifice the Kurds and help their adversaries. Thus, at the moment, for the West it is difficult to even define what a fallback could be, making it impossible for anyone to formulate a coherent common strategy.
STATE OF ISRAEL Prima della guerra, Bashar Al Assad era considerato tutto sommato un “avversario comodo”. Non c’era prospettiva di conflitto sul Golan e la politica damascena era prevedibile. Questi anni di guerra hanno però cambiato tutto e oggi per Israele l’unico obiettivo rimane la stabilità del confine e la protezione del proprio territorio. Dunque, l’unico risultato possibile - di massima e di minima - è ridurre l’influenza iraniana in Siria, cosa che ci porta alle tensioni (e ai raid aerei) degli ultimi mesi. Per Israele, la sfida è appena cominciata.
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
Before the war, Bashar Al Assad was considered a “convenient enemy”. There was no prospect of conflict over the Golan and policy from Damascus was predictable. But these years of war have changed everything, and now, Israel’s only goal remains to protect its border and territory. The only possible result, both best-case and worst-case, is to reduce Iranian influence in Syria, which has led to tension (and air raids) in recent months. For Israel, the challenge has just begun.
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SCENARIO
GLI INTERESSI IRANIANI IN SIRIA by
Giulio Monga
Fig. Ayatollah Ali Khamenei
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in dalle prime rivolte nel 2011, sfociate poi nella sanguinosa guerra civile che da sette anni sta lacerando la Siria, l’Iran rappresenta il primo alleato, militare e politico, del regime di Bashar al Assad. Quello tra la famiglia Assad e il regime degli Ayatollah è un rapporto che si è consolidato in quasi quattro decadi di collaborazione e sostegno reciproco. Una speciale relazione figlia dell’appartenenza della famiglia Assad al gruppo religioso degli Alawiti, variante dello sciismo assai minoritaria in Siria ma che, tramite la famiglia del rais al potere, sostanzialmente controlla il Paese dell’inizio degli anni ’70. Negli ultimi tempi, l’appoggio di Teheran al regime di Assad si è concretizzato con una massiccia presenza di migliaia di soldati dell’esercito regolare persiano e delle Guardie della Rivoluzione della Forza Quds sul territorio siriano - guidate dal Generale Qassem Soleimani - a cui vanno sommati altrettanti “volontari” di milizie sciite di varie composizioni e di Hezbollah, la falange militare e politica libanese afferente alla galassia sciita i cui vertici, a fine 2017, hanno dichiarato una presenza di più di 10mila soldati nel sud della Siria, pronti a muovere guerra contro Israele. Si tratta di un appoggio costoso, sia in termini di forze militari che di risorse, motivato da importanti ragioni di tipo strategico. In questi anni, infatti, Teheran, assieme alla Russia, si è spesa (letteralmen-
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IRANIAN INTERESTS IN SYRIA AND HOW THEY WORRY TEL AVIV
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ince the 2011 revolts which led to the bloody civil war that has ravished Syria for seven years, Iran has been the first ally, both militarily and politically, of Bashar al Assad’s regime. The relationship between the Assad family and the Ayatollah regime has been formed over four decades of collaboration and mutual support, cemented by the Assad family’s belonging to the Alawite sect. A very minor variant of Shiite in Syria, through the family of the ruling rais, the Alawites have essentially controlled the country since the early 1970s. Recently, Tehran’s support for the Assad regime has resulted in the massive presence of thousands of Persian soldiers and the Quds Force Revolutionary Guards on Syrian territory. Led by General Qassem Soleimani, the forces count on an equal presence of “volunteers”, Shiite militias of various compositions and Hezbollah, the Shiite political party and militant group whose leaders declared to have more than 10,000 soldiers in southern Syria, ready to move war against Israel at the end of 2017. The support they offer is costly, both in terms of military forces and of resources, and is motivated by important strategic purposes. In recently years, Tehran, alongside Russia, has spent itself (literally, if we consider the resources they have used) in saving the Assad regime in order to expand its own influence in the Middle East, exploiting divisions
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te, se consideriamo le risorse impiegate) per salvare il regime di Assad allo scopo di espandere la propria influenza sul Medio Oriente, approfittando delle divisioni interne alla galassia sunnita. Dalla caduta di Saddam Hussein, infatti, l’Iran esercita già una sostanziale influenza in Iraq, grazie alla salita al potere della parte sciita nel Paese (a tutto svantaggio dei sunniti, padroni incontrastati con Saddam). A questo va unito il progressivo rafforzamento in Libano di Hezbollah - considerato dall’Occidente quale organizzazione terroristica - che è risultato il vero vincitore delle elezioni parlamentari dello scorso 6 maggio (le prime dopo nove anni). Con lo sradicamento dell’ISIS, quanto meno a livello di entità territoriale, e la sostanziale vittoria di Assad contro i “ribelli moderati” sostenuti dall’Occidente, i sogni di Teheran di utilizzare la Siria per allargare la propria egemonia sulla regione e creare la cosiddetta “mezzaluna sciita”, ossia un’area di influenza che va dalla Persia al Mediterraneo, a parere di molti analisti sembravano - e tuttora sembrano - essere vicini alla concretizzazione. Primo fra tutti a temere l’espansionismo iraniano è lo Stato di Israele, che vede l’avanzata sciita nella regione come una vera e propria minaccia esistenziale per la propria sopravvivenza. Nelle ultime settimane, le insofferenze di Tel Aviv si sono concretizzate sul confine tra Siria e Israele nella notte tra il 9 e il 10 maggio, quando l’Iran ha sferrato il primo attacco diretto della sua storia contro lo Stato ebraico, in risposta all’annuncio di Donald Trump di ritirare gli USA dall’accordo sul nucleare. Un attacco che, peraltro, non ha avuto una grande efficacia, a differenza della repentina risposta israeliana, che ha rappresentato la più grande azione di guerra dello Stato ebraico verso la Siria dal 1974 ed è stata in grado di distruggere importanti basi militari e depositi missilistici strategici dell’Iran e di Assad. Le reazioni internazionali alla notte di bombardamenti non sono state affatto incoraggianti per Teheran. Se gli USA con Trump sono tornati ad avere posizioni del tutto avverse al regime degli Ayatollah, occorre, infatti, sottolineare come anche la Russia di Putin non abbia fornito il proprio supporto all’alleato. Al contrario, il Cremlino sembra deciso ad accreditarsi come mediatore e quindi poco propenso a prendere posizioni radicali che possano compromettere i (buoni) rapporti con Tel Aviv. La Siria rappresenta, infatti, il crocevia degli interessi delle potenze protagoniste della regione. Interessi che, nel caso di Russia e Iran, potrebbero non essere più totalmente sovrapponibili, con la prima che potrebbe non vedere di buon occhio un totale predominio persiano in Siria. Questo è esattamente ciò su cui punta il premier israeliano Netanyahu, in visita al Cremlino proprio durante i giorni dell’annuncio di Trump sul nucleare e dei raid incrociati Israele-Iran, che in cuor suo spera che Mosca, vero garante internazionale di Assad, decida di non avallare il progetto della “mezzaluna sciita”.
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
within the Sunni galaxy. In fact, since the fall of Saddam Hussein, Iran has demonstrated substantial influence in Iraq, thanks to the Shiite rise to power in the country (to the disadvantage of the Sunnis and unchallenged rulers while Saddam was in place.) To this we must add the gradual strengthening of Hezbollah (considered a terrorist organization by the West) in Lebanon, resulting in a parliamentary election victory on May 6, the first in nine years. With the eradication of ISIS, at least in physical terms, and the substantial victory of Assad against moderate rebels supported by the west, Tehran dreams to use Syria to broaden its hegemony in the region to create a so-called Shiite crescent, an area of influence that stretches from Persia to the Mediterranean, which, according to several analysts, seemed – and still seems – close to realization. The first to fear Iranian expansion is Israel, which sees the Shiite advance in the region as a concrete threat to its existence. In recent weeks, Tel Aviv’s hostility manifested on the border between Syria and Israel on the night of May 9, when Iran launched its first direct attack on the Jewish state in history, in response to Donald Trump’s announcement that he would withdraw the United States from the nuclear agreement. While the attack in itself was not particularly effective, the unexpected Israeli response was the largest act of war carried out by the Jewish state against Syria since 1974, destroying major military bases and strategic missile depots of both Iran and Assad. International reactions to the night’s bombings were not at all encouraging for Tehran. If Trump and the USA have gone back to an anti-Ayatollah stance, it must be underlined that Putin’s Russia did not offer any support to its ally. In fact, the Kremlin seems to have taken up the role of mediator, and is therefore unwilling to take radical positions that could compromise (good) relations with Tel Aviv. Syria, in fact, represents a crossroads of interests of all major players in the region. These interests, in the case of Russia and Iran, may no longer be completely compatible as the former could be opposed to seeing complete Persian dominance over Syria. This is exactly the focus of Benjamin Netanyahu, who was visiting the Kremlin in the days of Trump’s nuclear announcement and the Israel-Iran attacks, who, in his heart, hopes that Moscow, Assad’s sole international guarantor, will decide not to endorse the Shiite crescent.
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SCENARIO
RUSSIA LOVES SYRIA LA LOGICA DELLA PRESENZA RUSSA NELLA REGIONE
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a presenza russa in Siria dal 30 settembre 2015 in poi è la prima azione rilevante delle forze di Mosca, dopo le avventure afghane e cecene. Con i militari russi - ma di origine caucasica e islamica - che sono la maggioranza. Naturalmente, il numero esatto delle forze russe in Siria è sconosciuto. Ma Vladimir Putin ha affermato, nel dicembre 2017, che hanno finora partecipato alle operazioni siriane oltre 8mila elementi russi, mentre 4.571 sarebbero stati i voti espressi alle ultime elezioni russe dal personale di Mosca presente in Siria. In quella cifra sono compresi anche tre battaglioni di polizia militare russa, che opera per tutelare i Centri di Riconciliazione (organi che rimarranno a lungo in Siria). I mercenari agli ordini di Mosca dovrebbero essere almeno 3mila mentre le perdite, tra tutti i corpi russi impiegati, dovrebbero essere state finora di 84 unità. La base navale di Tartus ha anche avuto il rinnovo dell’affitto (per altri 49 anni) nel 2017 e molta parte dei russi opera stabilmente qui, come Latakia e nella base aerea di Hmeimim, mentre altri lavorano come consiglieri delle forze alleate a Damasco. Ma perché sono lì? Gli obiettivi della guerra russa in Siria sono almeno quattro: evitare che una buona parte dei jihadisti dello Stato Islamico possa entrare dentro i propri confini; diluire lo scontro con l’Occidente dopo le annessioni della Crimea e la guerra in Ucraina; evitare un intervento diretto americano in Medio Oriente; infine scongiurare il proliferare di Al Qaeda e dell’ISIS in caso della caduta di Bashar Al Assad. Secondo gli strateghi del Cremlino, la pressione siriana avrebbe rallentato la pressione occidentale per le sanzioni sulla questione ucraina. Quindi, un’azione calibrata e limitata in Siria sarebbe stata, per l’inner circle di Putin, l’opzione migliore. Ma Mosca non ha mai controllato l’intera coalizione filo-Assad, mentre i russi hanno sempre mirato a cambiare l’equazione strategica di tutti i player regionali, dall’Arabia Saudita alla Turchia, limitan-
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by
Marco Giaconi
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ussia’s presence in Syria, starting on September 15, 2015, is the first major action of Moscow’s troops after their adventures in Afghanistan in Chechnya. With Russian soldiers – of Caucasian and Islamic origins – who make up the majority. Naturally, the exact number of Russian troops in Syria is unknown. While Vladimir Putin stated, in December 2017, that so far, 8,000 Russians had participated in Syrian operations, only 4,571 voters were cast by Russians in Syria, including those working on three Russian military police battalions to protect reconciliation centers (which will remain in the country for a long time.) There are approximately 3,000 mercenaries working under Moscow’s orders while deaths, including all Russian troops, stand at 84. The Tartus naval base even had its rent contract renewed (for another 49 years) in 2017 and a large part of Russians work from there permanently, like Latakia and the Hmeimim air base, while others work as advisors to the allied forces in Damascus. But why are they there? Russia has at least four objectives in the Syrian war: to prevent a large part of Islamic State jihadists from crossing its own borders, to water down bad blood with the West after the annexation of Crimea and the war in Ukraine, to prevent a direct American intervention in the Middle East, and to prevent expansion of Al Qaeda and ISIS if Bashar Al Assad falls. According to Kremlin strategists, Syrian pressure would have lessened Western pressure for sanctions due to the Ukranian question. Thus, calibrated and limited action in Syria would be, for Putin’s inner circle, the best option. But Moscow has never controlled the entire pro-Assad coalition, while Russians have always aimed to change the strategic equation of all the regional players, from Saudi Arabia to Turkey, limiting their influence on their proxies, up to ceasing US temptation to cause Assad to fall to reach final cooperation with Washington.
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done l’influsso sui loro proxies, fino a far cessare la tentazione degli USA di far cadere Assad per raggiungere una cooperazione finale con Washington. All’inizio, la presenza russa si è caratterizzata con una serie di operazioni aeree, volte a depotenziare la “Armata della Conquista” jihadista messa in piedi dagli uomini di Riad e a ri-legittimare il presidente siriano, che stava perdendo sia sul fronte jihadista tradizionale che su quello aperto contro lo Stato Islamico. La Siria è così stata il primo test della “dottrina Gerasimov”, quella che ritiene la guerra del futuro flessibile, nascosta, che supera la differenza tra civile, militare e politico-economico. In una parola, “ibrida”. Secondo la linea del Comando Supremo di Mosca, un quinto dovrebbe essere lo sforzo convenzionale e cinetico, ma il resto rimane non-ortodosso. Quindi, le operazioni russe non sono del tipo boots on the ground come da dottrina americana. Sono però moltissime le forze speciali che operano in Siria in gran segreto: il GRU (il servizio segreto delle forze armate); l’SVR (il Servizio estero di Mosca); i soldati dell’FSB e la 431° Brigata per il Riconoscimento Navale. In mezzo a loro, c’è poi il vasto gruppo dei mercenari islamici che provengono dal Caucaso; il battaglione Turan, anch’esso islamico, che opera intorno a Hama; e ancora, la Forza Zaslon dell’SVR, che ufficialmente non esiste. In tutto, almeno 1.300 elementi. Inoltre, c’è la Polizia Militare, che monitora la zona di de-escalation e ancora gli sminatori, con altri 1.500 uomini e ben17 gruppi operativi. Vi sono poi i contractors del Gruppo Wagner e altri, che probabilmente erano in Siria da ben prima dell’inizio ufficiale delle operazioni. Altri duemila uomini in tutto. Le operazioni primarie si sono svolte intorno ad Aleppo, per riequilibrare gli iraniani nell’area e poi si sono estese alla protezione dei curdi siriani dalle azioni turche. Oggi le principali aree di operazioni sono: Yarmuk, Rastan e Homs-Deir Ezzor. Perché la volontà di Mosca è sempre quella di rimanere piccoli in Siria, ma molto ibridi. Deir Ezzor è tra tutti il punto di svolta: da una parte, qui sono già arrivate le forze siro-russe, dall’altra molte sono ancora le sacche dell’ISIS che operano nel deserto, dall’altra parte dell’Eufrate. Con gli americani che stanno a guardare. Lì sarà lo scontro decisivo.
RUSSIA LOVES SYRIA
Initially, Russian presence was characterized by a series of air operations with the aim of weakening the jihadist Army of Conquest, put together by the men of Riad, and to re-legitimize the Syrian president, who was losing on both the traditional jihad front and the open front with the Islamic State. Syria was thus the first test of the Gerasimov Doctrine, which sees the new generation of warfare as flexible and secret, that exceeds the difference between civil, military and political-economic action. In one word, “hybrid.” According to the Supreme Command of Moscow, one fifth should be conventional and physical effort, but the rest remains unorthodox. Thus, Russian operations do not follow a "boots on the ground" American-style doctrine. However, there are many special forces operating in Syria in secret: the Main Intelligence Directorate, the Russian Foreign Intelligence Service, the Federal Security Service, and the 431st Naval Reconnaissance Point. Alongside them is also a large number of Islamic mercenaries from the Caucasus; the Turan battalion, also Islamic, which operates around Hama; and the Russian Foreign Service’s Zaslon Force, which does not officially exist. All together there are at least 1,300 elements. In addition, there are the military police, which monitor the de-escalation zone and mine removal squads with another 1,500 men and 17 operational groups. Then there are contractors from the Wagner Group and other companies, who were probably in Syria well before the official start of operations. Another two thousand men in all. The mains operations took place around Aleppo, to rebalance the Iranians in the area, and then to protect Syrian Kurds from Turkish actions. Today the primary areas of operations are: Yarmuk, Rastan and Homs-Deir Ezzor. Moscow’s wish is to remain small, but very hybrid, in Syria. Of all the zones, Deir Ezzor is the turning point: on the one hand, Syrian-Russian forces have already arrived, on the other, there are still several pockets of ISIS operating in the desert on the other side of the Euphrates. With the Americans watching. The decisive battle will be here.
RUSSIAN MILITANTS IN SYRIA IN NUMBERS At least 8,000 men (source: Vladimir Putin)
1,300 secret service agents
4,571 voted in elections
1,500 military police officers
84 registered deaths
2,000 contractors
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SCENARIO
Russian President Vladimir Putin, right, talks with Saudi King Salman during their meeting in the Kremlin, Moscow, Russia, Thursday, Oct. 5, 2017.
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IRAN - SAUDI ARABIA: THE “OIL” FACTOR
IRAN-SAUDI ARABIA: THE “OIL” FACTOR LA SFIDA GEOPOLITICA TRA LE DUE POTENZE DEL MEDIO ORIENTE VERTE ANCORA, COME SEMPRE, SUL PETROLIO. E SULL’IRAQ. by
Gabriele Moccia
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a disfida energetica tra Iran e Arabia Saudita ha radici profonde, tanto quanto la rivalità geopolitica per il controllo strategico del Golfo Persico o, ancor di più, quella culturale e religiosa che vede Teheran e Riad capeggiare i due blocchi contrapposti del mondo islamico, da un lato la mezzaluna sciita a trazione iraniana e dall’altro il blocco sunnita cui il Regno saudita vuole porsi come principale elemento di spinta. Nelle ultime settimane – complice anche il probabile capolinea dell’accordo sul nucleare iraniano dopo le scoperte dell’intelligence israeliana – tra i due Paesi sono aumentati gli attriti anche in campo energetico. Il primo braccio di ferro è quello che si è consumato in seno all’OPEC, il principale cartello dei paesi produttori di greggio, di cui Arabia Saudita e Iran sono i protagonisti, entrambi però con visioni differenti. In occasione dell’ultimo vertice del cartello tenutosi a Gedda lo scorso aprile, i sauditi sono riusciti ancora una volta a far passare la loro linea, legata al mantenimento dei tagli alla produzione petrolifera per cercare di uscire una volta per tutte dal pantano dei bassi prezzi del petrolio e far rifiatare l’industria dell’oro nero. Una strategia che ha il consenso della Russia, altro importante player energetico che, pur non facendo parte dell’OPEC, sta concertando le proprie politiche energetiche con Riad. Per il Regno si è trattato di un successo diplomatico,
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
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he energetic challenge between Iran and Saudi Arabia has roots as deep as the geopolitical rivalry for strategic control of the Persian Gulf or, even more so, the cultural and religious challenge that sees Tehran and Riyadh heading up the two opposing blocs of the Islamic world, on the other side the Iranian Shiite crescent and on the other, the Sunni bloc of which the Saudi Kingdom wants to act as the main driving force. In recent weeks - also due to the likely termination of the Iranian nuclear agreement after the discovery of Israeli intelligence - friction has increased in the energy field between the two countries. The first tug of war was played out in OPEC, the main cartel of crude oil-producing countries, of which Saudi Arabia and Iran are the main contenders, both with different visions. At the last summit of the cartel held in Gedda last April, the Saudis were once again able to convince others of their point, linked to the maintenance of oil production cuts to try to get out of the quagmire of low prices of oil once and for all and give a second life to the black gold industry. This strategy has the consent of Russia, another important energy player that, although not part of OPEC, coordinates its energy policies with Riad. For the Kingdom it was a diplomatic success, following the international tour of the Saudi reformist Prince Mohammed bin Salman, who flew first
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SCENARIO
che fa seguito al tour internazionale del principe riformista saudita Mohammed bin Salman, che è volato prima in Europa (Londra e Parigi) e poi a Washington nel tentativo di trovare una strada alla principale operazione che l’Arabia Saudita sta portando avanti in campo energetico: la vendita di una quota della più grande compagnia petrolifera del mondo, ovvero la Saudi Aramco, vero gioiello del Regno dall’alto delle sue riserve accertate pari a 270 miliardi di barili e dei 33,8 miliardi di dollari di utili netti macinati nei primi sei mesi del 2017. La quotazione di circa il 5 per cento del gigante pubblico saudita fa parte di un piano di riforme avviato da Salman per ridurre la dipendenza dal greggio, garantendo risorse aggiuntive pari 2mila miliardi di dollari, frutto della valutazione del colosso energetico. Per non mancare questi obiettivi, i sauditi hanno però bisogno di un deciso cambio di passo del prezzo del greggio – come ha fatto sapere il ministro del petrolio saudita Khalid Al Falih, sarebbe ottimale riportare il barile tra gli 80 e i 100 dollari – per estrarre il massimo valore finanziario possibile dalla privatizzazione della Aramco. Per Teheran, al contrario, un mercato allineato sui 100 dollari al barile sarebbe una prospettiva disastrosa. I prezzi bassi del greggio e la progressiva apertura agli investimenti internazionali dopo l’accordo sul nucleare siglato a Vienna, hanno spinto a gonfie vele la produzione petrolifera degli Ayatollah: nel 2017, le esportazioni di petrolio iraniano hanno raggiunto i 2,6 milioni di barili al giorno verso l'Europa e l’Asia. Gli acquirenti asiatici hanno acquistato il 60 per cento delle esportazioni di greggio dell’Iran, mentre gli europei hanno acquistato il 40 per cento delle spedizioni. Cina, India, Corea del Sud e Giappone sono attualmente i maggiori clienti petroliferi dell’Iran in Asia. Le principali compagnie petrolifere internazionali, tra cui l’anglo-olandese Shell, la francese Total e l’italiana ENI sono rientrate in Iran per cercare di fare nuovi affari. Si tratta però di una crescita appesa al filo degli attriti della geopolitica. Sono ancora molte le aziende che esitano a investire, a causa delle minacce dell’amministrazione del presidente Donald Trump di stracciare l'accordo del 2016 e imporre di nuovo sanzioni in cambio di restrizioni al programma di energia atomica del regime. Le previsioni di Teheran parlavano di 10 miliardi di dollari derivanti da investimenti stranieri in petrolio e gas, ma solo 1,3 miliardi sono stati impegnati prevalentemente dalla Cina, che ha sempre mantenuto la sua linea di equilibrio nei confronti di Teheran. Dopo un iniziale rialzo, la capacità di produzione di greggio iraniana si è fermata a 3,85 milioni di
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to Europe (London and Paris) and then to Washington in an attempt to find a path for the main operation that Saudi Arabia is carrying on in the energy field: the sale of a share of the largest oil company in the world, Saudi Aramco, a true jewel for the Kingdom with its proven reserves of 270 billion barrels and $33.8 billion of net profits in the first six months of 2017. The quotation of approximately 5 percent of the public Saudi giant is part of a reform plan launched by Salman to reduce dependence on crude oil, guaranteeing additional resources of $2 trillion, the result of the evaluation of the energy giant. In order not to miss these objectives, the Saudis, however, need a decisive change in the price of crude oil - as Saudi oil minister Khalid Al Falih said, it would be optimal to bring the barrel between $80 and $100 - to extract the maximum financial value possible from the privatization of Aramco. On the contrary, for Tehran, a market aligned on $100 per barrel would be disastrous. The low prices of crude oil and the progressive opening to international investments after the nuclear agreement signed in Vienna, have pushed the Ayatollahs’ oil production into full swing: in 2017, Iranian oil exports reached 2.6 million barrels a day to Europe and Asia. Asian buyers bought 60 percent of Iran's crude oil exports, while Europeans bought 40 percent of shipments. China, India, South Korea and Japan are currently Iran's largest oil customers in Asia. The main international oil companies, including AngloDutch Shell, French Total and Italian ENI have returned to Iran to try to get new business. However, this growth hangs from a frictional thread of geopolitics. There are still many companies that are hesitant to invest because of threats from President Donald Trump's administration to break the 2016 agreement and impose sanctions again in exchange for restrictions on the regime's atomic energy program. Tehran's forecasts included $10 billion from foreign investments in oil and gas, but only $1.3 billion were committed from China, which has always maintained a balance against Tehran. After an initial upturn, Iranian crude oil production capacity stood at 3.85 million barrels per day, according to data from the International Energy Agency (IEA), well below, that is, estimates provided by Iranian Oil Minister, Bijan Zanganeh. Aware of the internal difficulties that Iran will have to face in the coming months, president of the Islamic republic Hassan Rohani launched, from Bandar Abbas - a strategic port for Iranian traffic - an appeal to the Gulf neighbors, emphasizing that “all countries in the region can think of a great union for the
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IRAN - SAUDI ARABIA: THE “OIL” FACTOR
US-led coalition forces carry out a large-scale attack on Syria’s Omar oil field (2015)
barili al giorno, secondo i dati dell’Agenzia internazionale per l’energia (AIE); ben al di sotto, cioè, delle stime previste dal ministro del petrolio iraniano, Bijan Zanganeh. Consapevole delle difficoltà anche interne che l’Iran dovrà affrontare nei prossimi mesi, il presidente della Repubblica Islamica Hassan Rohani lo scorso febbraio da Bandar Abbas – porto strategico per i traffici iraniani – ha lanciato un appello ai vicini del Golfo, sottolineando che «tutti i Paesi della regione possono pensare ad una grande unione per i settori dell'economia, dell'energia e del turismo». Un messaggio caduto nel vuoto. Al contrario, l’Arabia Saudita si appresta a trarre il massimo vantaggio dopo che il 12 maggio il presidente Usa Donald Trump ha suonato le campane a morto dell’accordo sul nucleare iraniano. Il primo passo molto probabilmente sarà lanciare una nuova offensiva per le risorse d’idrocarburi del vicino Iraq. Ancora di recente, Riad e Baghdad hanno siglato 18 memorandum d’intesa nel settore energetico, in occasione della Conferenza del petrolio e del gas di Bassora. Iraq e Arabia Saudita rafforzano così la loro cooperazione, guardando alla futura ricostruzione del Paese e, secondo quanto dichiarato dal ministro dell'Energia Saudita, Khalid al Falih, il colosso petrolchimico saudita Sabic (Saudi Basic Industries Corp) dovrebbe aprire presto un ufficio in Iraq. Un bel problema per Teheran, che sull’Iraq aveva scommesso molto.
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Tutti i Paesi della regione possono pensare ad una grande unione. All countries in the region can think of a great union. Iranian president Hassan Rouhani
sectors of the economy, energy and tourism .”A message fallen on deaf ears. On the contrary, Saudi Arabia is preparing to take full advantage after US President Donald Trump all but withdrew from the Iranian nuclear agreement on May 12. The first step will likely be to launch a new offensive for hydrocarbon resources from neighboring Iraq. Recently, Riyadh and Baghdad have signed 18 memoranda of understanding in the energy sector at the Basra oil and gas conference. Iraq and Saudi Arabia are thus strengthening their cooperation, looking to the future reconstruction of the country and, according to Saudi Energy Minister Khalid al Falih, Saudi petrochemical giant Sabic (Saudi Basic Industries Corp) should soon open an office in Iraq. A big problem for Tehran, which had bet a lot on Iraq.
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SCENARIO
END OF KURDISTAN? IL KURDISTAN SIRIANO SCHIACCIATO TRA LE RICHIESTE TURCHE E LE MANCATE PROMESSE USA
by
Gian Micalessin
Photo: Kurdish town of Kobani, close to the border line between Turkey and Syria
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bbandonati dai russi. Traditi dagli americani. Sottomessi dai turchi. È la sorte dei curdi di Siria, illusisi fino a un anno fa di poter dar vita, se non a uno stato, almeno a una regione autonoma nel nord dei territori siriani. Un’illusione cancellata dalla caduta di Afrin in mani turche, lo scorso marzo. Un’illusione trasformatasi in un incubo lo scorso 4 giugno a Washington, quando il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu e il segretario di stato Mike Pompeo hanno definito l’intesa che prevede l’entrata concordata nei prossimi sei mesi dell’esercito di Ankara a Mambij, la roccaforte curda a ovest dell’Eufrate. Una roccaforte strappata all’ISIS nell’agosto 2016 proprio grazie ai curdi. Ma il passato non conta. O meglio conta poco quello assai recente in cui le forze curde in Siria, monopolizzate dallo YPG (Unità di protezione del popolo curdo), sembravano le uniche affidabili per un’America impegnata a sconfiggere il Califfato. Con la caduta di Mosul e Raqqa e l’arrivo di Trump alla Casa Bianca le priorità sono cambiate. La permanenza a tempo indeterminato di duemila unità delle forze speciali e di qualche migliaio di contractor americani nel nord della Siria, non è più un’esigenza. Anche perché a Washington nessuno pensa più ad abbattere Bashar Al Assad. E dunque è tramontata l’esigenza di sostenere una forza lega-
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bandoned by the Russians. Betrayed by the Americans. Subjugated by the Turks. It is the fate of the Kurds of Syria, up to a year ago illuded about the chance to give life, if not to a state, to an autonomous region in the north of the Syrian territories. An illusion erased by Afrin's fall into Turkish hands last March. An illusion turned into a nightmare on June 4, 2017 in Washington, when Turkish Foreign Minister Mevlut Cavusoglu and Secretary of State Mike Pompeo signed an agreement to provide Ankara’s army entry to Mambij, the Kurdish stronghold west of the Euphrates for six months. A stronghold torn away from ISIS in August 2016 thanks to the Kurds. But the past does not count. Or rather, the very recent past, in which Kurdish forces in Syria, monopolized by the YPG (Kurdish People's Protection Units), seemed to be the only reliable forces for an America committed to defeating the Caliphate. With the fall of Mosul and Raqqa and the arrival of Trump in the White House, priorities have changed. Permanent presence of 2,000 units of special forces and a few thousand American contractors in northern Syria is no longer needed, due in part to the fact that nobody in Washington still considers bringing down Bashar Al Assad. Thus, the sun has set on any need to support a double-stranded force with the PKK (Kurdistan Workers' Party), the
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ta a doppio filo al PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), l’organizzazione di Abdullah Ocalan mai cancellata dalle liste Usa dei gruppi terroristi. Dunque, l’accordo tra Cavusoglu e Pompeo s’inserisce, benché nessuno a Washington lo ammetta, in quella pax siriana definita da Putin d’intesa con Ankara e Iran, che stabilisce la divisione della Siria in aree d’influenza. E poiché l’unico modo per avere il “sì” di Ankara era sacrificare i curdi, anche l’America di Trump si prepara ad abbandonare gli alleati. Alleati che intanto son riusciti a farsi mollare anche dai russi e dal regime di Bashar Assad.
organization led by Abdullah Ocalan that has never been erased from American lists of terrorist groups. Thus, the agreement between Cavusoglu and Pompey fits, although no one in Washington admits it, with the Syrian pax defined by Putin in agreement with Ankara and Iran, which calls for a division of Syria into areas of influence. And since the only way to get Ankara to agree was to sacrifice the Kurds, even Trump's America is prepared to abandon its allies. Allies who in the meantime have managed to be abandoned by the Russians and Bashar al Assad’s regime.
«La disfatta dei curdi ad Afrin? Sono stati gli stessi curdi a regalarla a Erdogan su un piatto d’argento» ricorda in un colloquio off the record un funzionario siriano responsabile del coordinamento con i russi, incontrato a Damasco lo scorso marzo, dopo l’entrata ad Afrin dei turchi. «Fino a dicembre, i curdi dello YPG erano alleati di tutti. Combattevano l’ISIS assieme agli americani ma, senza dire nulla a Washington, collaboravano anche con noi e i russi attorno a Deir Ezzor. Ripetevano, insomma, il giochino per cui sono famosi da secoli, far i propri comodi con tutti illudendosi esser i più furbi. Ma anche stavolta si son fregati da soli».
“The defeat of the Kurds in Afrin? It was the Kurds themselves who handed the victory to Erdogan on a silver platter,” claims a Syrian functionary in charge of coordination with Russia in off-the-record comments made in Damascus last March, after the Turks entered Afrin. "Up until December, the YPG were everyone’s allies. They fought ISIS with the Americans but, without saying anything to Washington, they also collaborated with us and the Russians near Deir Ezzor. They repeated, in short, their centuries-old signature game, getting too comfortable with all the illusion that they are the smartest. But once again they have screwed themselves."
“I CURDI S’ILLUDEVANO CHE TRUMP AVREBBE RISPETTATO LE PROMESSE FATTE DA OBAMA. MA SI SBAGLIAVANO”
LA NUOVA (DELUDENTE) POLITICA AMERICANA A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
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SCENARIO
Per capire l’imbeccata, bisogna ricordare che la liberazione lo scorso dicembre di Deir Ezzor, il capoluogo della Siria orientale circondato da tre anni dall’ISIS, apre un nuovo fronte segnato dallo scontro diretto tra Russia e Stati Uniti. «In quei giorni sia i russi sia noi siriani chiedevamo allo YPG di chiarire da che parte stava. Noi siriani garantivamo loro l’autonomia e i russi a s’impegnavano a difenderla, ma i curdi - ricorda l’interlocutore - non rispondevano, facendoci così intendere di stare con gli americani. S’illudevano che Trump avrebbe rispettato le promesse fatte da Obama. Ma si sbagliavano».
“
To understand this prompting, we must remember that last December’s liberation of Deir Ezzor, the capital of eastern Syria that was surrounded by ISIS for three years, opens a new front marked by direct confrontation between Russia and the United States. "In those days both the Russians and we Syrians asked the YPG to clarify which side they were on. We Syrians guaranteed their autonomy and the Russians were committed to defending it, but the Kurds did not answer, making us understand that we were with the Americans. They deluding themselves into believing that Trump would respect promises made by Obama. And they were wrong. "
Fino a dicembre, i curdi dello YPG erano alleati di tutti. Combattevano l’ISIS assieme agli americani ma, senza dire nulla a Washington, collaboravano anche con noi e i russi attorno a Deir Ezzor. Up until December, the YPG were everyone’s allies. ey fought ISIS with the Americans but, with- out saying anything to Washington, they also collaborated with us and the Russians near Deir Ezzor.
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In this pages, Ypg volunteers
A rafforzare quelle promesse ha contribuito ai primi di gennaio l’allora Segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, ipotizzando la creazione nel nord della Siria di una «guardia di confine» formata da trentamila curdi, armati dagli Stati Uniti. Il progetto, visto come fumo negli occhi da Ankara e mal digerito anche dalla stessa Casa Bianca e dal Pentagono, è una delle ragioni che ha spinto Erdogan a dare il via all’intervento nella regione di Afrin. Le mosse di Tillerson e l’ambiguità dei curdi hanno allarmato anche Mosca e Damasco. Ricorda la fonte siriana: «Abbiamo pensato a una scorciatoia per la creazione di uno stato indipendente sotto le bandiere dello YPG nel nord della Siria sotto tutela americana». Le paure congiunte di Mosca, Damasco e Ankara hanno sancito così la fine del sogno curdo. A fine gennaio, mentre le truppe turche entravano in Siria, Putin ha ritirato le unità russe dispiegate ad Afrin e l’esercito siriano è arretrato dietro le alture a sud della città, lasciandola a Erdogan. E così, mentre l’accordo Cavisoglu-Pompeo sembra regalare ai turchi anche Mambij, l’unica residua speranza dei curdi di Siria sembra l’offerta di una sostanziale autonomia promessa da Bashar Al Assad. Sempre che l’area d’influenza non diventi annessione definitiva e permanente ai territori turchi.
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
Reinforcing those promises in early January was former US Secretary of State Rex Tillerson who hypothesized the creation of a border guard in northern Syria made up of thirty thousand Kurds, armed by the United States. The project, seen as nothing but smoke in Ankara was also poorly received and is one of the reasons that Erdogan began intervening in Afrin. Tillerson’s moves the Kurds ambiguity also alarmed Moscow and Damascus. The Syrian source recalls: "We thought it was a shortcut to creating an independent state under the YPG flags in northern Syria, protected by the US." The shared fears of Moscow, Damascus and Ankara thus brought an end to the Kurdish dream. In late January, as the Turkish troops entered Syria, Putin withdrew Russian units deployed to Afrin and the Syrian army moved behind the hills south of the city, leaving way for Erdogan. While the Cavisoglu-Pompeo agreement seems to have also given Mambij to the Turks, the only remaining hope for Syrian Kurds seems to be an offer of substantial autonomy from Bashar al Assad, provided that the area of influence does not become and definitive and permanent annexation to Turkey.
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DIPLOMATIC COURIER
ISRAEL VS IRAN AND OTHER INTERESTS AT PLAY IN SYRIA by
Rocco Bellantone, managing editor Babilon
è ai piedi delle alture del Golan che si deciderà la sfida più importante in corso in Siria, vale a dire quella tra Israele e Iran. Ne è convinto il Generale Mario Mori, ex capo del SISDE e fondatore del ROS dei Carabinieri. the most important challenge in the entire conflict is between Israel and Iran, at the foot of the Golan Heights. Convinced of this is General Mario Mori, former head of Italian domestic intelligence, founder of the Italian Military Police Special Operations Group.
Generale, in che fase sta entrando il conflitto siriano?
General, what phase are we entering in the Syrian conflict?
In questo momento la situazione in Siria è di stallo. Le varie componenti che agiscono sul territorio, da varie posizioni e secondo diversi obiettivi, sono praticamente ferme. In questo momento i due protagonisti veri sono da una parte l’Iran e dall’altra Israele. Se ci può essere un ulteriore sviluppo drammatico di questo conflitto, è a questo scontro che si deve guardare. Israele non può tollerare che lungo i suoi confini, soprattutto nella zona del Golan, si siano installate truppe regolari iraniane e milizie libanesi di Hezbollah. Gli
We are currently at a stalemate. The various groups active in the territory, from different positions and with different objectives, are practically at a standstill. Currently, the only real players are Iran and Israel. If there is going to be a dramatic development in this conflict, it will be this one, which remains to be seen. Israel cannot tolerate the presence of regular Iranian troops and Lebanese Hezbollah militias stationed along their border, especially in the Golan. The Israelis are determined to squelch all threats as
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israeliani sono decisi a bloccare ogni possibile minaccia sul nascere, motivo per cui proseguiranno con le attività di monitoraggio e con attacchi improvvisi contro postazioni e depositi di armi in mano al nemico. Momenti di tensione ci sono già stati. Sullo sfondo restano poi, ovviamente, altri interessi ancora in gioco. In chiave anti-iraniana, il patto stretto un anno fa a Riad tra Trump e Mohamed Bin Salman si sta rivelando funzionale per gli obiettivi israeliani? Il patto di Riad è stata un’iniziativa voluta più che altro da Mohamed Bin Salman, il
soon as they arise, explaining why they will continue their monitoring activities and with sudden attacks on enemy locations and weapon deposits. There have already been moments of tension. Then, obviously, additional interests that are still at stake remain in the backdrop. Anti-Iranian in spirit, is the pact made between Trump and Mohamed Bin Salman in Riad one year ago proving useful for Israeli objectives? The pact made in Riad was an initiative desired most by Mohamed Bin Salman, who needed strong in-
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quale aveva bisogno di un sostegno internazionale forte come gli Stati Uniti di Trump nella guerra d’attrito che ormai da lungo tempo l’Arabia Saudita sta conducendo contro l’Iran. Nonostante ciò, penso che in questo momento sia in vantaggio la componente sciita, con Iran e Hezbollah che quantomeno dal punto di vista tattico, se non propriamente strategico, possono godere dell’appoggio di turchi e russi. L’asse sciita si sta rivelando più forte sul terreno e, quindi, in grado di imporre con più facilità una propria “soluzione” al conflitto. Continua a non arrivare alcun segnale dall’Europa. Perché? Rimaniamo spettatori interessati di questo conflitto, ma non in grado di esprimere una nostra posizione. Vale per questa così come per altre crisi che interessano l’Europa o determinati Paesi europei. Il motivo è semplice: siamo tutto sommato un gigante economico ma con piedi d’argilla perché non siamo anche un gigante militare. In riferimento al conflitto siro-iracheno, si è parlato molto negli ultimi anni del tramonto degli accordi di Sykes-Picot. Presto potremmo realmente assistere a una spartizione della Siria? La situazione attuale in Siria, e tutti i rifles-
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ternational support, such as Trump’s United States, in its longstanding friction with Iran. Despite this, I believe that the Shiite component is currently at an advantage, with Iran and Hezbollah, who, at least from a tactical, if not strategic, point of view, can enjoy support from Turkey and Russia. The Shiite axis has proven to be stronger on the ground and, thus, is more able to impose its own “solution” to the conflict. Europe has remained silent. Why? We are spectators who are interested in the conflict, but not able to express our position. This also goes for other crises that interest either Europe as a whole or single European countries, either as a whole or as single countries. The reason is simple: all together we are a gigantic economy with feet of clay as we do not have a gigantic military. Regarding the Syria-Iraq conflict, there has been lots of talk in recent years of the end of the SykesPicot Agreement. Could we actually soon witness a partitioning of Syria? The current situation in Syria, and all deriving reactions on the international scene, are fruit of that agreement. Certainly, it is an agreement that we have long overcome. Now, the problem is to find a compromise,
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si che ne sono derivati sugli scenari internazionali, sono i frutti di quegli accordi. Certamente sono accordi ormai abbondantemente superati. Il problema adesso è trovare una soluzione di compromesso che però inevitabilmente non potrà essere vista di buon occhio da tutte le parti in causa. Sarà difficile nel breve-medio periodo trovare soluzioni che portino a una pacificazione delle zone in cui si sta continuando a combattere, nonché a una reale sistemazione del Paese anche dal punto di vista amministrativo. Cosa rimarrà dello Stato Islamico in Siria e Iraq? Forse ISIS riuscirà a risorgere con modalità e tecniche di approccio nuove. Non più in Siria ma in altre zone del mondo come il Sahel e il Sahara, ma anche nel Sinai che è un’area fondamentale per lo Stato Islamico essendo baricentrica rispetto ai suoi grandi nemici, ossia Egitto, Arabia Saudita, Iran e Israele. ISIS può nutrire speranze di rinascita anche in Asia Centrale nel cosiddetto Khorasan. In prospettiva per il Califfato questa regione potrebbe rappresentare una base per la conquista e la gestione di nuovi territori, anche per via di un possibile congiungimento con i gruppi jihadisti operativi nel Caucaso.
that inevitably cannot be seen in the same way by all involved parties. It will be difficult, in the short to medium term, to find a solution that creates peace in current combat zones, not to mention bringing true order to the country from an administrative point of view. What will happen to the Islamic State in Syria and Iraq? Maybe ISIS will be able to make a comeback with a new approach and tactics. No longer in Syria, but in other parts of the world such as the Sahel and the Sahara, as well as on the Sinai Peninsula, which is fundamental to the Islamic State due to its location with respect to its greatest enemies, Egypt, Saudi Arabia, Iran and Israel. ISIS can also hope to resurge in Central Asia in Khorasan. For the Caliphate, this region could represent a new base for conquest and management of new territories, also due to the possibility of joining up with jihadist groups operating in the Caucus.
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PLACES
PLACES Più che l’incontro storico di Singapore tra il leader della Corea del Nord Kim Jong Un e il presidente americano Donald J Trump, ad aprire la strada alla riconciliazione nazionale tra le due coree - divise da una guerra fratricida sin dagli anni Cinquanta e ancora tecnicamente in fase di “armistizio” - è stato il meeting di Panmunjom del 27 aprile 2018. In quell’occasiome, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong Un e il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in hanno attraversato mano nella mano la linea di demarcazione militare che separa la penisola coreana da troppo tempo. «Abbiamo aspettato a lungo questo momento per molto tempo e quando è giunto abbiamo realizzato che siamo una nazione, che siamo vicini» ha detto un serafico Kim. Even more interesting than the historic Singapore summit between North Korean leader Kim Jong Un and American President Donald J Trump, was the Panmunjom meeting on April 27 to open the way to national reconciliation between the two Koreas - divided by a fratricidal war since the 1950s and still technically in an “armistice” phase. On the occasion, North Korean dictator Kim Jong Un and South Korean President Moon Jae-in walked hand in hand along the military demarcation line that has divided the Korean peninsula for too long. “We have waited a long time for this moment and when it came we realized that we are a nation, that we are neighbors,” said a joyful Kim.
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ITALY IN SYRIA
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REPORTAGE
ITALY IN SYRIA IL RUOLO DELL’AMBASCIATA ITALIANA E I RAPPORTI TRA ROMA E DAMASCO Reportage di Luca Steinmann, inviato a Damasco
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ventola ancora la bandiera tricolore sul palazzo dell’ambasciata italiana di Damasco. In lontananza si odono le esplosioni dei mortai ribelli che dalla Ghouta colpiscono i quartieri est della capitale siriana, per le strade circostanti s’incrociano mezzi blindati dei marines che fanno tappa presso la vicina ambasciata americana, ancora attiva nonostante l’aperta ostilità tra Washington e il governo siriano. Come quella americana, anche l’ambasciata italiana è rimasta aperta nonostante Italia e Siria non intrattengano più relazioni diplomatiche ufficialmente dal 15 marzo 2012. Una data che l’attuale personale ricorda ancora con tristezza. «Da Roma ci venne comunicato che il nostro personale diplomatico aveva 48 ore di tempo per abbandonare il Paese a seguito di una decisione politica della Ue contro il governo siriano» spiega Ramzi Khani, cittadino italo-siriano che lavora tutt’oggi per l’ambasciata insieme a diversi dipendenti locali che fanno riferimento a Beirut, dove i diplomatici italiani in loco si occupano delle questioni siriane. «Di colpo dovemmo interrompere un rapporto di ottima collaborazione tra Italia e Siria. Nonostante ciò, noi siamo rimasti per mantenere la presenza italiana nel Paese». Quella del 15 marzo 2012, raccontano, fu una vera e propria doccia fredda. Perché fino ad allora le relazioni italo-siriane erano state ottime. Figlie di secoli di rapporti economici e commerciali
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he Italian flag still flies over its embassy in Damascus. In the distance you can hear the explosion of rebel mortar from Ghouta striking the eastern neighborhoods of the Syrian capital, while armored vehicles of the American marines stop outside the nearby American embassy, still open despite open hostility between Washington and Damascus. Like its American counterpart, the Italian embassy is still open, despite the fact that Italy and Syria have not entertained diplomatic relations since March 15, 2012, a date that current employees remember with sadness. “We received communication from Rome that our diplomatic personnel had 48 hours to leave the country, following an EU political decision against the Syrian government,” explains Ramzi Khani, an Italian and Syrian dual citizen who still works in the embassy today, alongside additional other locally employed staff who refer to Beirut, where Italian diplomats deal with Syrian issues. “All of a sudden we had to interrupt the excellent relationship between Italy and Syria. Despite this, we have remained to maintain Italian presence in the country.” March 15, 2012, they say, was a real cold shower. Until that moment, Italian-Syrian relations were excellent. The result of centuries of economic and commercial relationships (the first Western diplomatic mission to Syria was from the Republic of
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(la prima rappresentanza diplomatica occidentale in Siria fu quella della Repubblica di Venezia) e di decenni di politiche di dialogo con il mondo arabo promosse dallo Stato italiano in merito al conflitto arabo-israeliano, nel decennio prima dello scoppio della guerra le relazioni tra Roma e Damasco erano diventate eccellenti. Nel 2002 i due governi avevano firmato una serie di accordi bilaterali che garantivano alle aziende italiane un ruolo di primo piano nell’estrazione di petrolio e materie prime e nella realizzazione di infrastrutture, cosa che aveva reso Roma il principale partner economico della Siria dopo Cina e Arabia
Venice) and decades of dialog-based policy with the Arab world regarding the Arab-Israeli conflict promoted by Italy, in the decade leading up to the war, relations between Rome and Damascus were excellent. In 2002, the two governments signed a series of bilateral agreements that guaranteed Italian companies a leading role in the extraction of oil and raw materials, and in infrastructure construction, making Rome a main economic partner of Syria, after China and Saudi Arabia. To top it off, in 2010, the President of the Republic Giorgio Napolitano declared Bashar al Assad a Knight of the Italian Re-
Home page of the Italian Embassy in Syria, June 2018.
Saudita. A coronamento di ciò, nel 2010 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano assegnò a Bashar al Assad l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana, definendo le politiche del presidente siriano come «esempio di laicità e apertura» e quella tra i due Paesi di «profonda amicizia». Solo alcuni anni dopo tutto ciò venne revocato e rinnegato. Cosa rimane dunque oggi dell’Italia in Siria? L’ambasciata continua incessantemente il suo lavoro consolare e di scambio di note diplomatiche con il governo siriano, il quale si dice pronto a tutelare la sicurezza dei rappresentanti italiani nei territori che controlla. I principali servizi erogati sono destinati ai 300 cittadini italiani residenti in Siria e iscritti all’Aire (Anagrafe Italiani residenti all’estero, che prima della crisi erano 800) riconoscendo tito-
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public, defining the policies of the Syrian president as “an example of secularism and openness” and that the two countries shared a “deep friendship.” Only a few years later, all this was revoked and reneged. Therefore, what remains of Italy in Syria today? The embassy carries on its dedication to consular work and to exchanging diplomatic notes with the Syrian government, which states it is ready to safeguard Italian representatives in the territories it controls. The majority of the services performed regard the 300 Italian citizens who are resident in Syria and registered with the Italian government as residents abroad (before the crisis there were 800 such citizens in Syria), recognizing qualifications, applying for visas and providing subsidies for citi-
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li di studio, facendo domande per i visti e fornendo sussidi alle persone menomate fisicamente dalla guerra. Si tratta per lo più di cittadini italo-siriani o di italiani sposati con donne siriane che solitamente non parlano l’italiano e non hanno più legami forti con l’Italia. Oltre a loro si registrano anche dipendenti delle Nazioni Unite e della Croce Rossa, ma anche di chi, a seguito della crisi economica e di problemi personali o politici in Europa, ha voluto stabilirsi in Siria nonostante la guerra. Permane poi una presenza italiana legata alle radici cristiane della Siria. «È impossibile convincere certe suore a lasciare i propri monasteri» dice ridendo Ramzi, che spiega
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zens wounded during the war. For the most part, their clients are Italian-Syrian dual nationals or Italians married to Syrian women who usually do not speak Italian or have strong connections to Italy. There are also employees of the United Nations and the Red Cross, as well as those who, following the economic crisis or problems of personal or political nature in Europe, decided to relocate to Syria despite the war. To not mention the Italian presence linked to Syria’s Christian roots. “It is impossible to convince certain nuns to leave their monasteries,” says Ramzi, laughing, who explains why some Italian nuns have remained in their monasteries in the provinces of Homs and Aleppo despite
Nel 2010 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano assegnò a Bashar al Assad l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana. In 2010, the President of the Republic Giorgio Napolitano declared Bashar al Assad a Knight of the Italian Republic.
come alcune suore italiane siano rimaste nei monasteri della provincia di Homs e di Aleppo nonostante siano direttamente minacciate dai ribelli. Fortemente danneggiati dalle scelte politiche e dalle sanzioni sono, però, soprattutto gli interessi economici italiani in Siria. Prima della guerra si calcolava che interi settori strategici dell’economia siriana producessero grazie proprio a macchinari italiani. Oggi, invece, la maggior parte delle fabbriche è stata distrutta o è fuori servizio: oltre mille stabilimenti che si trovavano prima nella Siria settentrionale oggi sono stati trasferiti in Turchia, fatto che ha ridotto gli scambi commerciali tra i due Paesi ai minimi storici. Pare invece in aumento la cooperazione tra i due Paesi sul piano dell’intelligence. Lo scorso gennaio il capo dei servizi segreti siriani Ali Mamlouk ha incontrato a Roma il direttore dell’Aise (Sistema d’informazione per la sicurezza della Repubblica, il servizio estero), Alberto Manenti e - sembra - anche il Ministro degli Interni, Marco Minniti. Nei mesi successivi a tali colloqui, sono poi seguiti in Italia una serie di arresti ai danni di cellule legate a vario titolo a gruppi terroristici attivi in Siria. Ecco quel che resta della collaborazione tra due Stati.
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direct rebel threat. However, Italian economic interests in Syria have been heavily damaged by political choices and sanctions. Before the war, it was estimated that entire strategic sectors of the Syrian economy were in production thanks to Italian machinery. Today, however, most of the factories have been destroyed or closed: more than a thousand establishments that were previously located in northern Syria have now been transferred to Turkey, which has reduced trade between the two countries to historic lows. It would appear, however, that cooperation between the two countries is increasing in terms of intelligence. Last January in Rome, the head of Syrian secret services Ali Mamlouk, met with the director of the Italian External Intelligence and Security Agency, Alberto Manenti, and – it seems – former Minister of the Interior, Marco Minniti. In the months following these talks, a series of arrests were made in Italy against cells linked in various ways to terrorist groups active in Syria. This is what remains of the collaboration between the two countries.
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REPORTAGE
BLOOD ON THE
ROOTS Dottor Yazji, il governo siriano è sotto pressione internazionale per il presunto utilizzo di armi chimiche contro ribelli e civili. Come risponde a queste accuse?
Minister Yazji, the Syrian government is under international pressure for the purported use of chemical weapons against rebels and civilians. How do you respond to these accusations?
Un attacco chimico da parte dell'esercito siriano era proprio quello che volevano i terroristi della Ghouta, che impedivano ai civili di fuggire e li utilizzavano come scudi umani per poi poterli mostrare ai media internazionali e fare propaganda contro Assad. In questa guerra ci siamo abituati a questa loro strategia. A Palmira, per esempio, la popolazione era fuggita all’arrivo dell’ISIS, così i terroristi si sono arroccati tra i reperti archeologici per usarli come barriera. Il nostro esercito ha però ricevuto l’ordine di non bombardarli ma di attaccare via terra, cosa che ha causato più vittime tra i nostri soldati ma ha salvato il patrimonio archeologico. In quell’occasione avremmo potuto utilizzare le armi chimiche, che avrebbero ucciso i terroristi senza coinvolgere i civili né danneggiare i reperti. Non lo abbiamo fatto perché ci atteniamo agli accordi presi con i russi nel 2013. Se non abbiamo utilizzato queste armi allora, perché mai dovremmo farlo ora nella Ghouta dove stiamo vincendo e dove il popolo attende la liberazione? Sono invece i terroristi che da laggiù sparano mortai contro i civili di Damasco ottenendo però solo aumenti di consenso per il governo e per il presidente.
A chemical attack carried out by the Syrian army was precisely what terrorists in Ghouta wanted, as they impeded civilians to flee to use them as human weapons to show off to the international media and create anti-Assad propaganda. In this war we have grown accustomed to this strategy. In Palmira, for example, the population had fled with the arrival of ISIS, and so the terrorists positioned themselves among archaeological sites to use them as a barrier. Our army then received order to attack them by land, and not with bombs, which caused the loss of more of our soldiers, but saved the ruins. On that occasion, we could have used chemical weapons, which would have killed the terrorists without involving civilians or damaging the site. We did not do it because we were abiding by our 2013 agreement with the Russians. If we didn’t use the weapons then, why should we use them now in Ghouta where we are winning and where citizens are awaiting their liberation? It is the terrorists that are shooting mortar against civilians in Damascus, which only increases consensus for the government and the president.
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INTERVISTA AL MINISTRO DEL TURISMO DI SIRIA, BESHR YAZJI, SU ARMI CHIMICHE, CIVILTÀ E ARCHEOLOGIA. Reportage di Luca Steinmann, inviato a Damasco
Se il governo è sostenuto da parte della popolazione, lo stesso non si può dire per molti dei siriani fuggiti all'estero. Come rispondete alle loro accuse di aver massacrato civili senza distinzione tra ribelli e terroristi? Questi che lei chiama ribelli sono animati tutti dalla stessa ideologia. Prendiamo in considerazione diversi territori che sono stati sotto la loro occupazione. A Palmira l’ISIS ha distrutto la cittadella con ruspe ed esplosivi. A Maaloula, Al Nursa ha divelto statue della Madonna, danneggiato chiese e fatto saltare parte dei monasteri. Nel cantone di Afrin, i jihadisti alleati dei turchi hanno distrutto il tempio di Ain Dara. Tutti i siti archeologici che sono sulla lista del patrimonio dell’umanità dell’UNESCO sono stati usati da loro come trincee. Secondo quell’ideologia, il patrimonio artistico della Siria va cancellato per far credere alle prossime generazioni di non avere storia o radici comuni sulle quali si fonda la nostra civiltà. Vogliono farci credere di non avere ricevuto nulla in eredità dai nostri antenati. Secondo loro, la distruzione della Siria passa attraverso la distruzione del tessuto sociale e degli elementi che lo tengono insieme. La distinzione non è tra ribelli e terroristi, ma tra chi come noi vuole la sopravvivenza di una Siria libera e sovrana e chi invece ne vuole la distruzione.
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If the government is supported by a part of the population, the same cannot be said for many Syrians that have fled overseas. How do you respond to their accusations of massacring civilians without a distinction between rebels and terrorists? Those which you refer to as rebels are all led by the same ideology. Let us take into consideration various territories they occupy. In Palmira, ISIS destroyed the citadel with bulldozers and explosives. In Maaloula, Al Nursa toppled statues of the Virgin Mary, damaging churches and blowing up monasteries. In the canton of Afrin, jihadists allied with the Turks destroyed the temple of Ain Dara. All of these UNESCO World Heritage archaeological sites were used as trenches. Following this ideology, Syria’s artistic patrimony will be eliminated, causing future generations to believe they have no history or common roots to ground our civilization. They want to make us believe that we have inherited nothing from our ancestors. According to them, to destroy Syria is to destroy the country’s social fabric and the elements that hold it together. The distinction to be made is not between rebels and terrorists, but between those, like us, who want to see the survival of a free and sovereign Syria, and those who want to see it destroyed.
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Intere fette del territorio siriano sono controllate da potenze straniere. Come potete dire di essere sovrani? Come potreste far fronte alle esigenze del popolo alla partenza dei vostri alleati?
Entire zones of Syrian territory are controlled by foreign powers. How can you claim to be sovereign? How can you meet the needs of citizens upon departure of your allies?
Ogni centimetro della Siria è siriano. Quando la guerra finirà, avremo pronto un programma per occuparci dei cittadini che stanno venendo aiutati dai nostri alleati. Il nostro sistema di welfare è operativo, permettiamo già alle Nazioni Unite e alla Croce Rossa di portare aiuti. Vorremmo estendere questa possibilità anche ad altre organizzazioni, ma le sanzioni contro di noi lo impediscono. Se l’Occidente ci vuole indipendenti allora deve abolire le sanzioni che ci colpiscono e permetterci di aiutare al meglio il nostro popolo. Oggi l’Occidente si sta comportando come vogliono i terroristi. Non intende aiutarci a risolvere i problemi, ma attacca chi come il nostro governo è garante della convivenza delle diverse confessioni e dei gruppi etnici che compongono la Siria.
Every centimeter of Syria is Syrian. Once the war is over, we will have a program ready to take care of citizens who are currently receiving assistance from our allies. Our welfare system is operational and we already allow the United Nations and the Red Cross to offer help. We would like to also extend this opportunity to other organizations, but sanctions against us are preventing it from happening. If the West wants us to be independent, it must first remove sanctions against us and allow us to help our people the best we can. Today the West is acting just as the terrorists want. The West does not intend to help us resolve our problems, but seeks to attack those, who, like us, are responsible for the coexistence of the different religious and ethnic groups that make up Syria.
In che modo volete tentare di ricucire il vostro frammentato tessuto sociale?
How do you intend to mend your torn social fabric?
Sconfiggendo tutti i gruppi terroristici, allontanando i loro mandanti che sono sul nostro territorio e valorizzando il nostro patrimonio artistico, culturale e archeologico. Attraverso la storia e l’archeologia si forgia il futuro di un popolo. Lo sanno i terroristi, che hanno tentato di distruggere i nostri riferimenti storici per distruggere la nostra civiltà. Lo sanno gli israeliani, che in Palestina cercano nell’archeologia una giustificazione alla loro occupazione. Lo sappiamo noi, che ridaremo al nostro popolo ciò che gli appartiene e permetteremo la pacifica convivenza di tutte le religioni nella nostra terra. Stiamo cercando di recuperare i reperti archeologici che i terroristi hanno trafugato e venduto a bande di criminali in Libano, Turchia e Giordania. Ricostruiremo ciò che altri hanno distrutto e vandalizzato. Mostreremo al mondo che le loro distruzioni non hanno nulla a che vedere con l’Islam, anche se mentre le compivano urlavano che “Allah è grande”.
By defeating all terrorist groups, by removing all their agents from our territory and by promoting our artistic, cultural and/ Italian archaeological patriSoldati italiani in Niger soldiers in Niger monies. It is through history that we forge the future of a people. Terrorists know it, that is why they attempted to destroy our historic monuments, to destroy our civilization. The Israelis know it, who search through all of Palestine’s archaeology to justify their occupation. We know it, and we will give back to our people that which belongs to them and allow for peaceful coexistence on our land. We are working to recover artifacts that terrorists have smuggled and sold to criminal organizations in Lebanon, Turkey and Jordan. We will rebuild what they have vandalized and destroyed. We will show the world that their destruction has nothing to do with Islam, even if they shouted “Allah akbar!” while they did it.
SE L’OCCIDENTE CI VUOLE INDIPENDENTI ALLORA DEVE ABOLIRE LE SANZIONI CHE CI COLPISCONO E PERMETTERCI DI AIUTARE AL MEGLIO IL NOSTRO POPOLO
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FRANCE’S SYRIA
OUT OF BUSINESS
LE AZIENDE FRANCESI IN FUGA DALLA SIRIA: LA PARABOLA DI TOTAL, CARREFOUR, LAFARGE, SCHNEIDER ELECTRIC E AIR LIQUIDE by
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Stefano Piazza
ino al 2011 le grandi aziende francesi erano di casa in Siria, dove facevano ottimi affari. Poi, con la guerra civile tutto è cambiato. I più importanti giornali francesi hanno messo in risalto gli affari e le contraddizioni francesi in numerose inchieste giornalistiche, anche e soprattutto sotto la pressione degli attentati terroristici sul suolo patrio. Ma quali erano le più importanti imprese di Francia in Siria? Una su tutte è il gigante petrolifero francese Total, presente nel Paese dal 1988 con licenza di estrarre petrolio dal sito di Deir Ezzor e il gas dal giacimento di Tabiyeh. Total in Siria estraeva 14mila barili di greggio al giorno, che incidevano nella sua produzione globale per l’1%. Insieme al gruppo petrolifero, in Siria hanno operato per anni gruppi come Lafarge-Holcim, produttore di materiali da costruzione e leader mondiale nel suo settore, che in Siria ha però incontrato molti guai. Sulle sue attività, infatti, indaga oggi la magistratura: secondo giudici francesi e belgi, tra il 2011 e il 2014 Lafarge (all’epoca non ancora fusa con Holcim) avrebbe pagato circa 13 milioni di euro a varie milizie jihadiste, compresi affiliati dello Stato Islamico, per non interrompere la produzione nel cementificio di Jalabiya. Lo stabilimento è poi stato chiuso nel 2014, ma le tangenti sarebbero state versate comunque ai jihadisti dal gruppo franco-svizzero anche dopo l’interruzione della produzione. In Siria c’era poi Schneider Electric che operava con buoni risultati, come dimostra la re-
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ntil 2011, large French companies worked comfortably in Syria, where they did excellent business. But the civil war changed everything. The most important French newspapers highlighted French affairs and contradictions in numerous journalistic investigations, especially in light of the terrorist attacks on their territory. But what were the most important French businesses in Syria? The largest of all is Total, the French gas company, operating in Syria since 1988 with a license to extract oil in Deir Ezzor and gas from the Tabiyeh field. In Syria, Total extracted 14, 000 barrels of crude oil every day, accounting for 1% of global production. Operating alongside the gas behemoth in Syria for years were groups such as Lafarge-Holcim, a world leader in the production of construction materials, who nevertheless in Syria encountered a number of problems. In fact, judges in both France and Belgium are currently investigating their business practices. From 2011 until 2014, Lafarge (which had not yet merged with Holcim) allegedly paid €13 million to various jihadist militias, including the Islamic State, to not interrupt production in their Jalabiya cement factory. The site was closed in 2014, but bribes were still paid out to jihadists by the Franco-Swiss group even after production ceased. Schneider Electric also operated in Syria with good results, as demonstrated by company’s 1999 annual report: "To strengthen the energy system of the city of Damascus, the PEEGT (Public
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lazione annuale del gruppo datata 1999: «Per rafforzare il sistema energetico della città di Damasco, il PEEGT (Public Establishment of Electricity for Generation and Transmission), la centrale elettrica pubblica, ha scelto Schneider Electric per fornire sottostazioni e trasformatori per tre livelli di tensione: 230 kV, 66 kV e 20 kV. I precedenti risultati di Schneider Electric in questo paese, comprese le sottostazioni delle centrali elettriche Jandar e Aleppo, hanno motivato questa scelta». Oggi, Schneider Electric ha trasferito alcuni dei suoi ex dipendenti della sede di Damasco a Beirut, in Libano. Pare che da lì gestiscano alcuni clienti rimasti in Siria (vedi l’ambasciata iraniana), alcuni alberghi e ciò che resta di supermercati ex Carrefour. A proposito del gigante della grande distribuzione francese, va detto che aveva puntato molto sul Paese degli Assad, tanto che nelle relazioni annuali del gruppo tra il 2008 e il 2010 (recentememte epurate dal sito web!), si faceva riferimento all’apertura di nuovi ipermercati Carrefour con la formula del franchising. Nel rapporto annuale del 2013, si apprende che in quell’anno un ipermercato ancora funzionava, poi nel 2014 l’inevitabile chiusura. Uno dei primi a trasferirsi nel Paese (nel 2005) era stato il gruppo caseario Bel, che per anni ha portato avanti la produzione, fino all’annuncio del 2012 con cui il gruppo riferiva: «la difficile situazione in Siria ci ha portato alla chiusura temporanea del sito di produzione». Anche loro, perciò, si sono spostati con attrezzature e dipendenti in Libano. Il gruppo oggi sta valutando di aprire uno stabilimento in Egitto, che si aggiugerebbe a quelli in Iran e Turchia, dove la sua presenza è radicata da tempo. Unico gruppo che ha mantenuto una vera presenza sul territorio siriano è invece Air Liquide, che nel 2010 ha aperto uno stabilimento di produzione di ossigeno vicino a Damasco, dove ha anche degli uffici commerciali. La fabbrica di Daraa si trova nel Governatorato omonimo, proprio al confine con Giordania, Libano e Israele, e qui produce azoto e argon liquido. In ogni caso, le rappresentanze diplomatiche francesi in Siria sono chiuse dal marzo del 2012 e, secondo il Ministero degli Affari Esteri, «non è all'ordine del giorno la loro riapertura e non c'è riflessione su questo argomento». Il pensiero dominante francese sulla Siria è quello riportato nella pagina web del Ministero del Tesoro, che parla espressamente della missione economica francese spostatasi in Libano come migliore soluzione: «la crisi interna, l’isolamento regionale e le sanzioni economiche decise dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti hanno portato a un deterioramento della situazione economica in Siria. Un certo numero di uomini d'affari hanno preso le distanze dal regime. Le finanze pubbliche sono estremamente degradate e la sterlina siriana è stata svalutata di oltre il 200% dall'inizio della crisi». Sono in molti all’Eliseo a ritenere che, almeno per quanto concerne gli interessi francesi, il capitolo Siria sia da considerarsi chiuso.
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Establishment of Electricity for Generation and Transmission), the public electric power plant, chose Schneider Electric to supply substations and transformers for three voltage levels: 230 kV, 66 kV and 20 kV. The previous results of Schneider Electric in this country, including the substations of the Jandar and Aleppo power plants, have motivated this choice.” Today, Schneider Electric has transfered some of its former employees from Damascus to Beirut in Lebanon. It would appear that from there, they are able to manage some clients that still remain in Syria (the Iranian Embassy), some hotels, and the remaining former Carrefour supermarkets. Speaking of which, it must be said that the company focused heavily on Assad’s land, so much so that in the group’s annual reports from 2008 until 2010 (recently purged from the company website!), reference was made to opening new Carrefour supermarkets through franchising. In the 2013 annual report it is evident that one supermarket was still in business, with an inevitable closure in 2014. One of the first to move to the country (in 2005) was the Bel dairy group, which carried on production for years until 2012 when they announced: “the difficult situation in Syria forces us to temporarily close the production site.” They too then moved their equipment and employees to Lebanon. Today, Bel is considering a new plant in Egypt, to add to their sites in Iran and Turkey, where their presence has been well-rooted for some time. The only group that has maintained a true presence in Syria is Air Liquide, which in 2010 opened an oxygen production plant near Damascus, where it also has commercial offices. The Daraa factory is located in governorate of the same name, right on the border with Jordan, Lebanon and Israel, where it produces nitrogen and liquid argon. French diplomatic missions to Syria have been closed since March 2012 and, according to the Ministry of Foreign Affairs, "their reopening is not on the agenda and there is no reflection on this topic.” The prevailing thought on Syria is reported on the Ministry of the Treasury website, which speaks explicitly on the relocation of the French economic mission to Lebanon as the best solution: "the internal crisis, regional isolation and economic sanctions decided by the European Union and the United States have led to a deterioration of the economic situation in Syria. A number of businessmen have distanced themselves from the regime. Public finances are extremely degraded and the Syrian pound has been devalued by more than 200% since the beginning of the crisis.” There are many in the Elysée who believe that, at least for French interests, the Syria chapter should be considered closed.
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DURA LEX
CHEMICAL WEAPONS: ARE YOU SERIOUS? COME SI OTTENGONO LE PROVE E COME GLI STATI GESTISCONO TALI SITUAZIONI?
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opo l’attacco della Siria di metà aprile da parte di Stati Uniti, Francia e Regno Unito come forma di reazione all’uso di armi chimiche in Siria, è doveroso riproporre un interrogativo di fondo: sulla base di quali prove è stato deciso l’intervento? Certamente l’intervento “punitivo” di aprile 2018, così come quello dell’aprile 2017 hanno nuovamente richiamato all’attenzione della comunità internazionale il tema della legittimità dell’intervento unilaterale di uno o più Stati che fanno ricorso all’uso della forza, in assenza di una decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Oltre a questo, vi è anche l’interrogativo se esistano o no e, in caso, quali siano le prove dell’uso di armi chimiche in Siria. Tutto ciò porta alla mente che, anche nel diritto internazionale, vi è sempre un presupposto logico, giuridico e politico che serve a legittimare un qualche intervento. Ebbene, questo interrogativo dev’essere risolto in senso positivo poiché, anche nel diritto internazionale, è l’accertamento del fatto che legittima una certa reazione. Sicuramente, l’accertamento del fatto nel diritto internazionale non è - ovviamente nel momento in cui viene deciso l’intervento - quello tipico del processo cui siamo abituati. Semmai, quell’accertamento tipico del processo civile o penale potrà avvenire dopo presso i vari tribunali internazionali qualora siano operativi (nel caso di specie, non risulta che la Siria abbia aderito alla Corte Penale internazionale). Ma, con riferimento all’applicazione del divieto dell’uso di armi chimiche, abbiamo un articolato sistema volto ad accertare ipotetiche violazioni delle norme che pongono capo a due istituzioni del diritto internazionale: le Nazioni Unite e l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC/OPCW) le quali, peraltro, hanno anche concluso un accordo di cooperazione tra loro. Con riferimento alla Siria, non è lontana nel tempo la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 28 settembre 2013, n. 2118, che aveva imposto alla Siria di provvedere alla distruzione integrale del proprio arsenale chimico entro il 30 giugno 2014, subito dopo l’adesione della Siria alla Convenzione.
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by
Fabio Valerini
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fter the mid-April attacks on Syria carried out by the United States, France and the United Kingdom as a reaction to the use of chemical weapons, we must ask a fundamental question: on what basis did they decide to carry out the operation? Certainly the "punitive" intervention of April 2018, as well as that of April 2017, once again brought the attention of the international community questions regarding the legitimacy of unilateral intervention of one or more countries that resort to the use of force in absence of a United Nations Security Council resolution. Additionally, there is also the question whether chemical weapons exist or not and, if so, what is the evidence of their use in Syria? All this brings to the mind that, even in international law, there is always a logical, legal and political assumption to legitimize operations. Well, this question must be resolved in a positive sense because, even in international law, it is the verification of the fact that it legitimizes a certain reaction. Surely, verifying facts in international law does not – obviously when operations are carried out – follow the process that we are accustomed to. If anything, assessment in civil or criminal proceedings can take place later in the various international courts if they are operational (in this case, it does not appear that Syria has joined the International Criminal Court.) However, with reference to the application of a ban on the use of chemical weapons, we have a complex system aimed at ascertaining hypothetical violations of the rules that lay before two institutions of international law: the United Nations and the Organization for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW) which, furthermore, have also signed a cooperation agreement. With reference to Syria, the United Nations Security Council Resolution 2118 of 28 September 2013, which called on Syria to destroy its entire chemical arsenal by June 30, 2014, immediately after the accession of Syria to the Convention. In 2013 OPAC also carried out an assessment that came to the following conclusion: "Chemical weapons were used during the ongoing conflict between the parties of the Syrian Arab Republic, in-
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Nel 2013 vi fu anche un accertamento da parte dell’OPAC che giunse alla seguente conclusione: «armi chimiche sono state usate durante il conflitto attualmente in corso tra le parti della Repubblica Araba di Siria, anche contro civili, compresi bambini, su scala relativamente ampia». Tuttavia, sia oggi che l’anno scorso rimane ferma la domanda se effettivamente in Siria vi siano ancora agenti chimichi (magari non del tutto eliminati rispetto all’azione del 2013) ovvero se vengano tutt’ora prodotte o, ancora, se siano state utilizzate contro la popolazione civile. Mutatis mutandis, è lo stesso problema posto nel caso dell’uso del gas Novichok contro l’ex agente doppiogiochista russo Sergei Skripal che avrebbe legittimato la reazione inglese nei confronti della Russia. Ebbene, le modalità dell’accertamento che dovrebbero essere seguite sono quelle previste e disciplinate dall’art. IX della Convenzione di Parigi del 1993 che è dedicato, per l’appunto, alle consultazioni, cooperazione e investigazioni e che vengono dettagliate dall’allegato sulle verifiche. Un sistema articolato e complesso che consente accertamenti presso gli Stati e che fa comunque salve le procedure internazionali appropriate che potrebbero trovare applicazione. In questo senso, le Nazioni Unite mantengono la possibilità di accertare e assumere eventuali risoluzioni che possono arrivare anche all’uso della forza. Ma, nel caso della Siria, questa procedura non appare percorribile in considerazione del veto che la Russia ha posto sull’indagine proposta dagli Stati Uniti. E allora, volendo vedere quali sono i mezzi per accertare eventuali violazioni della Convenzione, questi possono consistere, in primo luogo, nella cooperazione tra gli Stati. Infatti, la Convenzione prevede che gli Stati dovranno fare anzitutto ogni sforzo per chiarire e risolvere mediante lo scambio di informazioni e consultazioni tra loro anche di natura bilaterale, ogni circostanza che possa dare adito a dubbi circa l’osservanza della Convenzione o che possa far sorgere ambiguità. In secondo luogo, vi è la richiesta di chiarimenti tramite il Consiglio esecutivo e, in terzo luogo, un’ispezione su sfida. Ecco allora che, anche sul piano giuridico, esiste un meccanismo che consente di accertare il presupposto di ogni intervento in materia e che consentirebbe di superare le iniziative unilaterali, non soltanto in termini di intervento (dalla dubbia legalità internazionale), ma anche di affermazione dell’esistenza di tutti i presupposti di fatto.
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CHEMICAL WEAPONS: ARE YOU SERIOUS?
cluding against civilians, including children, on a relatively large scale.” However, for both today and last year, the question remains whether or not there are still any chemical agents in Syria (perhaps they have not yet been completely eliminated following the 2013 action) or if they are still being produced or, again, if they have been used against the civilian population. Mutatis mutandis, we see the same problem in the case of the use of Novichok gas against former Russian double agent Sergei Skripal who provided information that legitimized English reaction against Russia. The assessment procedure that should be employed is that established by Article IX of the 1993 Paris Convention which is dedicated, in particular, to consultations, cooperation and investigations which are detailed in the annex on verifications. The articulated and complex system allows for checks by states, which, however, do not influence the appropriate international procedures that could be applied. In this sense, the United Nations maintain the right to ascertain and accept resolutions that could arise, including the use of force. In Syria’s case, this procedure does not seem viable due to Russia’s veto on the investigation proposed by the United States. And so, to understand which are the means to confirm possible violations of the Convention, cooperation between countries may be used in a first stance. In fact, the Convention states that states must first make every effort to clarify and resolve any circumstance that may give rise to doubts about compliance with the Convention or that may give rise to ambiguity, through the exchange of information and consultations among themselves, including of a bilateral nature. Secondly, there is a request for clarification through the Executive Council and, thirdly, an inspection. Here, also from a legal point of view, there is a mechanism that makes it possible to ascertain a basis for any intervention in the matter, which allows overriding of unilateral initiatives, not only in terms of intervention (from dubious international legality), but also in affirming existence of all the de facto conditions. To justify all types of intervention, the states that have bombed Syria in retaliation have claimed, coram populo, to have evidence of the use of chemical weapons in Syria. But the point, often, is just that: do the tests exist? And if they exist, is the evidence conclusive of the existence of chemical weapons? Here then, in addition to international legality regarding the use of force, we must always assume the legitimacy of any action or reaction in international law, which is based on the need to have evidence and, above all, that the evidence follows, when present, as in the case of chemical weapons, international standards.
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CULTURE
WEAPONS OF MASS
DISTRACTION IL FRUTTUOSO COMMERCIO DELLE ARMI IN MEDIO ORIENTE e
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by Emiliano Battisti Marco Giulio Barone
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proposito del conflitto siriano, si parla molto del ruolo di Stati Uniti, Russia, Iran, Arabia Saudita e altre potenze che giocano ciascuna un diverso ruolo nel conflitto, non senza partigianerie che difendono strenuamente il “valore assoluto” dei sistemi d’arma della propria fazione favorita. Pur approfittando dell’ottimo terreno di prova che la Siria rappresenta, nessuno dei grandi attori coinvolti ha però intenzione di rivelare le reali capacità dei propri sistemi d’arma. Questo perché - diciamolo esplicitamente - la guerra in Siria non è un conflitto esistenziale per nessuno di loro. Non vedremo mai duelli aerei reali tra caccia russi e jet statunitensi, né confronti diretti tra le rispettive marine. Per contro, tutti gli attori coinvolti hanno un’occasione d’oro sia per studiare le capacità del probabile nemico sia per testare le proprie, cercando di non esporsi troppo all’avversario. L’esempio di maggiore impatto è la “bolla A2/ AD” (che sta per Anti-Access/Area Denial, vedi box a pagina seguente) costruita intorno alla base navale di Tartous, provincia di Latakia, dove operano esclusivamente i russi. Le bolle A2/AD permettono di rimodellare un ipotetico campo di battaglia per esaltare i propri punti di forza e preparare il terreno in anticipo, stabilendo così le regole del gioco anziché subire quelle che si verrebbero a creare allo scoppio di una crisi. Ma il tentativo di creare
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egarding the Syrian conflict, there is much talk of the role of the United States, Russia, Iran, Saudi Arabia and other powers that each play a different role in the conflict, without failing to mention partisans who strenuously defend the "absolute value" of the weapons systems of their own favorite faction. While taking advantage of the excellent testing ground that Syria represents, none of the major actors involved, however, intend to reveal the true capabilities of their weapons systems. This is because - let's be honest - the war in Syria is not an existential conflict for any of them. We will never see real plane duels between Russian fighters and US jets, nor direct comparisons between their respective marines. On the other hand, all the actors involved have a golden opportunity both to study the capabilities of a probable enemy and to test their own, while trying not to expose themselves too much to the opponent. The best example are the “A2/AD bubbles” (which stands for Anti-Access/Area Denial, see the box at the following page) built around the naval base of Tartous in the province of, where only the Russians operate. The A2/AD bubbles allow the modelling of a hypothetical battlefield to enhance their strengths and prepare the ground in advance, thus establishing the rules of the game, rather than undergoing those created with the outbreak of a crisis.
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CULTURE
certezze in ambito politico e militare su scala locale tramite la costruzione di bolle A2/AD rischia di ledere la libertà dei mari, con possibili importanti conseguenze economiche su scala globale. Oggi esistono almeno sette bolle A2/AD attive o che lo saranno nell’immediato futuro. Quattro di queste sono in mani russe, due sono cinesi e una è iraniana. Dunque, la parte più importante non è vedere se una singola batteria di missili S-400 russi sia in grado o meno di intercettare i Tomahawk americani (lo può fare, ma comunque una singola batteria con quattro lanciatori quadrupli ha capacità limitate contro salve da diverse decine di missili). Studiare l’efficacia di una tale formula serve a erodere la capacità statunitense di garantire la libertà di navigazione su scala globale (secondo regole statunitensi), il che è molto più pagante in termini geopolitici che “contare i soldatini” e fare il tifo. Analogamente, per gli Stati Uniti e per altri Paesi occidentali, dimostrare di poter forzare la bolla non è il quid delle operazioni: lo è piuttosto il capire come neutralizzarla, se mai dovesse servire. Per tutti gli attori impegnati militarmente da sette anni in questa regione, non vale la pena mostrare troppo per un teatro che, come abbiamo detto, non è esistenziale. Si cerca invece di studiare le capacità avversarie e la loro impostazione dottrinale, possi-
But the attempt to create certainties in politics and military on a local scale through the construction of A2/AD bubbles risks damaging the freedom of the seas, with important possible economic consequences on a global scale. Currently there are at least seven A2/AD bubbles that are active now or will be in the immediate future. Four of these are in Russian hands, two are Chinese and one is Iranian. Therefore, the most important part is not to see if a single battery of Russian S-400 missiles is able to intercept American Tomahawks (it could, but a single battery with four quadruple launchers has limited capacity anyway against salvos from dozens of missiles). Studying the effectiveness of such a formula serves to erode the USA’s ability to guarantee freedom of navigation on a global scale (according to US rules), which is much more rewarding in geopolitical terms than "counting soldiers" and cheering on your side. Likewise, for the United States and other Western countries, proving to be able to force the bubble is not the point of operations: it is rather to understand how to neutralize it, if the need should ever arise. For all the actors who have been militarily engaged in this region for seven years, it is not worth showing too much for a theater that, as we said,
A2/AD Quando si parla di “bolla A2/AD” si intendono i due concetti strategici che sono stati riscoperti recentemente da Russia, Cina e Iran, e che sono sotto osservazione da parte della NATO. La filosofia “Anti Access” (A2) è una strategia difensiva che mira a impedire o rendere estremamente difficoltoso l’accesso e lo schieramento di forze militari nemiche in determinate aree geografiche (stretti, arcipelaghi, mari interni, regioni). Quella che prende il nome di “Area Denial” (AD) prevede di limitare fortemente la libertà di movimento a forze nemiche (terrestri, aeree o navali) già presenti in una determinata zona. When someone uses the term “A2/AD bubble”, they are referring to strategic concepts that were recently rediscovered by Russia, China and Iran, and which are under observation by NATO. “Anti Access” (A2) philosophy is a defensive strategy that aims to prevent (or make extremely difficult) access and deployment of enemy military forces in certain geographical areas (straits, archipelagos, inland seas, regions.) What takes the name of “Denial Area” (AD) means to strongly limit the freedom of movement to enemy forces (by land, air or sea) already present in a given area.
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bilmente senza far clamore e senza colpi roboanti. Ci sono poi aspetti più granulari, come il significato simbolico di alcuni sistemi d’arma, che aggiungono complessità a questo grande gioco delle parti. Per esempio, gli Stati Uniti hanno deciso sin dal principio del loro coinvolgimento diretto nel teatro siriano, di schierare asset pregiati per quanto riguarda la ricognizione e l’attacco. Ovviamente, il principale è il caccia di quinta generazione F-22 Raptor. Nell’area, solo Israele può vantare una piattaforma paragonabile, cioè il cacciabombardiere F-35 versione “A”, anche se non vi sono prove certe di un suo utilizzo sui cieli siriani. Mentre, da parte russa, lo scorso febbraio alcune immagini satellitari avrebbero rivelato la presenza di due esemplari del caccia dichiarato di “quinta generazione” SU57. Come detto, quindi, la Russia ha creato una cosiddetta “bolla A2/AD” su gran parte del territorio siriano grazie ai suoi performanti sistemi antiaerei e antimissile S-300 e S-400.
does not exist. Instead, it seeks to study the opposing capacities and their doctrinal approach, possibly without making a fuss or too much noise. Then there are more granular aspects, such as the symbolic meaning of some weapon systems, which increase the complexity of this great game. For example, the United States has decided, from the very beginning of their direct involvement in the Syrian theater, to deploy valuable assets with regard to reconnaissance and attack. Obviously, their most valuable is the fifth generation F-22 Raptor fighter jet. In the area, only Israel can boast a comparable platform, that is, the F-35A fighter jet, even if there is no evidence of its use on the Syrian skies. While in February, on the Russian side, satellite images revealed the presence of two fifth-generation SU-57s. As previously mentioned, therefore, Russia has created a so-called A2/AD bubble on most of the Syrian territory, thanks to its S-300 and S-400 anti-aircraft and anti-missile systems.
Mettere in campo sistemi avanzati per la penetrazione aerea presenta ovvi vantaggi, ma anche diverse problematiche. Teatri come quello siriano permettono ad attori come Stati Uniti e Russia (e anche Israele) di mettere alla prova i propri mezzi, oltre che studiare quelli dell’avversario. È un fatto che la presenza dell’F-22 Raptor sia utile soprattutto per la raccolta di dati tramite i suoi sensori, e la distribuzione alle altre piattaforme dello schieramento statunitense. Si possono così studiare in profondità gli asset avanzati russi quali caccia, droni e in via principale i sistemi antimissile S-300 ed S-400, considerati tra i più affidabili tra quelli prodotti. Il principale problema è invece che l’avversario può fare lo stesso e studiare a sua volta strategie d’impiego nonché asset veri e propri. Gli F-35 israeliani, ad esempio, sarebbero costretti a decollare dalle proprie basi scortati da velivoli non stealth (cioè non invisibili ai radar) e, inoltre, sarebbero dotati di apparati riflettenti per farsi individuare normalmente dai radar degli S-400 ed evitare così che questi possano raccogliere dati sulla reale configurazione dell’aereo. Anche gli F-22 potrebbero usare tecniche simili per confondersi.
The introduction of advanced systems for aerial penetration has obvious advantages as well as a variety of problems. Theaters like that in Syria allow actors such as the United States and Russia (and even Israel) to test their own means, as well as to study those of the adversary. It is a fact that the presence of the F-22 Raptor is useful, above all, to collect data through its sensors, and for distribution to other US platforms. In this way, the US can analyze advanced Russian assets such as fighter jets, drones and the S-300 and S-400 anit-missile systems, considered among the most reliable.
Un altro dei principali fattori a favore dello schierare mezzi di generazione avanzata è poi quello politico. Essere presenti in un teatro bellico con “il meglio del meglio” manda un messaggio a nemici, avversari e alleati per testimoniare la serietà del proprio impegno. Sarebbe questo il caso della possibile presenza dei caccia SU-57 russi, il cui sviluppo non è ancora completo (pare siano affetti da diversi problemi tecnici), ma il cui messaggio anche in termini di marketing è più che chiaro.
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
The main problem is that one’s opponent can do the same and, in turn, study employment strategies and assets. The Israeli F-35, for example, would be forced to take off from their bases escorted by non-stealth aircraft (not invisible to radar) and, moreover, would have to be equipped with reflecting devices to be identified normally by the S-400's radar and avoid that they collect data on the actual configuration of the aircraft. Even the F-22 could use similar techniques to create confusion. Another of the main factors in favor of deploying advanced weaponry is purely political. Being present in a war theater with the best of the best sends a message to enemies, adversaries and allies to testify to the seriousness of your commitment. This would be the case for the possible presence of the Russian SU-57 fighters, whose development is not yet complete (apparently they are affected by various technical problems), but whose message, in terms of marketing, is abundantly clear.
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DURA LEX
IT’S CHEMISTRY, BABY! LA QUESTIONE DELL’USO DELLE ARMI CHIMICHE NEL CONFLITTO SIRIANO by
Lorenzo Nannetti & Pietro Costanzo
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n Siria sono state utilizzate numerose volte armi chimiche, anche se l’opinione pubblica se ne è interessata solo in tre casi particolari: agosto 2013, aprile 2017 e più recentemente nell’aprile di quest’anno. Le responsabilità rimangono ancora oggi oggetto di discussione: nel primo caso, si è rinunciato a un’inchiesta ufficiale sulle responsabilità in seguito all’accordo per la distruzione degli arsenali in mano al governo di Bashar al Assad. Per l’attacco di aprile 2017, lo UN Human Rights Council ha pubblicato invece i risultati di un’inchiesta che indica la responsabilità del governo siriano. Per quello di aprile 2018 gli accertamenti sono ancora in corso. Va ricordato che nonostante la presenza in loco, le varie Fact Finding Missions e il disciolto OPCWUN Joint Investigative Mechanism hanno il proprio tallone d’Achille nel meccanismo di veto del Consiglio di Sicurezza ONU, che consente alle grandi potenze di bloccare qualsiasi risoluzione che possa risultare lesiva dei propri interessi strategici nell’area. La situazione caotica e pericolosa sul terreno poi, rende assai difficile la creazione di un framework di sicurezza intorno al personale impegnato ad accertare l’accaduto. Abbiamo perciò chiesto a due veri esperti, Fabrizio Malaspina (Vigile del Fuoco Coordinatore del Nucleo NBCR di Torino) e Matteo Guidotti (Ricercatore all’Istituto di Scienze e Tecnologie Molecolari del CNR di Milano) di rispondere ad alcune domande al riguardo per aiutarci a fare chiarezza. Ecco le loro osservazioni. Cosa sono le armi chimiche? Secondo l’art. 3 della Convenzione per la Proibizione delle Armi Chimiche, redatta a Parigi nel 1993 e a oggi ratificata da 192 paesi nel mondo (con l’esclusione di Corea del Nord, Israele, Egitto e Sudan del Sud, ndr), sono definite “armi chimiche” tutte le sostanze che, tramite il loro effetto tossico sull’uomo, sugli animali o sull’ambiente, causano la morte o l’incapacità permanente di un organismo. Non rientrano nel bando della Convenzione le sostanze impiegate per scopi pacifici, per fini industriali, di ricerca o di controllo dell’ordine pubblico. Rientrano invece nella proibizione imposta dalla Convenzione tutti i dispositivi, le munizioni e gli apparati tecnici specificamente progettati per il rilascio e la diffusione di aggressivi chimici tossici.
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hemical weapons have been used in Syria several times, yet public opinion is only interested in three particular cases: August 2013, April 2017 and more recently in April of this year. Who is responsible is still up for debate: in the first case, official inquiry was called off following an agreement fo destroy arsenals in the hands of Bashar al Assad. For the April 2017 attack, the UN Human Rights Council published results of an investigation indicating naming the Syrian government as responsible. Assessment is still ongoing for the April 2018 attacks. We must remember that despite on-site presence, various fact finding missions and the dissolved OPCW-UN Joint Investigative Mechanism have their own Achilles’ heel in the veto mechanism of the UN Security Council, which allows major powers to block any resolution that may be detrimental to its strategic interests in the area. The chaotic and dangerous situation on the ground also makes it very difficult to create a security environment around personnel involved in the investigations. We therefore have asked two experts, Fabrizio Malaspina (Firefighting Coordinator of the Nuclear, Biological, Chemical and Radiologic Core in Turin) and Matteo Guidotti (Researcher at the Institute of Molecular Sciences and Technologies of the National Research Council of Milan) to clarify the situation. Here are their comments. What are chemical weapons? According to Article 3 of the Chemical Weapons Convention, written in Paris in 1993 and currently ratified by 192 countries (with the exception of North Korea, Israel, Egypt and South Sudan, editor’s note), “chemical weapons” are all substances which, through their toxic effect on humans, animals or the environment, cause the death or permanent incapacity of a living being. Substances used for peaceful purposes, for industrial purposes, for research or in the name of public order are not covered by the Convention. On the contrary, the prohibition imposed by the Convention includes all devices, ammunition and technical equipment specifically designed to release and diffuse aggressive toxic chemicals.
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Cosa si suppone sia stato usato in Siria?
IT’S CHEMISTRY, BABY!
What do you think was used in Syria?
Dall’inizio della guerra civile sino a ora, è stato acclarato l’impiego sul territorio siriano del Sarin, aggressivo nervino che compromette la trasmissione dei segnali nervosi all’interno del corpo; dell’Iprite, agente vescicante che colpisce le mucose e l’epidermide; e del Cloro, come gas asfissiante. Il Sarin è stato impiegato dalle 6 alle 9 volte, a seconda delle fonti cui si fa riferimento. L’Iprite probabilmente in 4 occasioni, mentre il Cloro, usato in svariati attacchi, è la sostanza che ha causato il maggior numero di vittime, anche grazie alla facilità con cui può essere reperito: è infatti un gas utilizzato anche per svariati usi pacifici, dalla produzione di alcune plastiche alla potabilizzazione delle acque, dalla produzione di detergenti alla sintesi di fitofarmaci.
From the beginning of the civil war until the present, it is certain that Sarin, an aggressive nerve that compromises the transmission of nervous signals inside the body, Iprite, a blistering agent that affects the mucous membranes and the epidermis, and Chlorine, a suffocating gas, have been used in Syria Sarin has been used from six to nine times, depending on the source. Iprite was probably used on four occasions, while Chlorine, used in various attacks, is the substance that has caused the greatest number of victims, due to the ease with which it can be found, as it can also be used for a variety of peaceful purposes such as production of plastics and detergents, water purification and the creation of crop protection products.
Le fonti informative sembrano non essere mai concordi tra loro. Com’è possibile?
Sources of information are always conflicting. How is this possible?
In alcuni casi non è stato possibile identificare con certezza la natura del composto tossico impiegato, ci si è dovuti quindi basare principalmente sulle diagnosi dei medici operanti sul campo che hanno visitato i colpiti dopo gli attacchi. Tale difficoltà analitica potrebbe indicare l’uso di agenti prodotti in laboratori con limitate capacità di portare a termine una sintesi “da manuale”, che hanno generato cioè sostanze impure e ad efficacia limitata. Questo dev’essere ritenuto preoccupante, visto che si tratta comunque di sostanze tossiche in grado di colpire gravemente la popolazione non protetta. Si ricordi, a scopo di esempio, l’attentato nella metropolitana di Tokyo nel 1995 (opera della setta Aum Shinrikyo, ndr), che ebbe un impatto inferiore alle aspettative proprio perché il prodotto ottenuto era fortemente impuro, ma che comunque registrò 12 vittime e un alto numero di intossicati gravi. Sempre in Siria inoltre, in almeno un caso, ovvero Homs 2012, i rapporti tecnici hanno fatto cenno al cosiddetto “Agent 15”, definizione ex sovietica di un composto psicoattivo allucinogeno simile al cosiddetto “Buzz” (BZ), un tempo presente nell’arsenale NATO. I quesiti dunque aumentano, in quanto la provenienza di tale sostanza risulta ancora oscura.
In some cases it was not possible to identify with certainty the nature of the toxic compound used, so we had to base our diagnoses primarily on doctors in the field who visited those who were hit by the attacks. This difficulty could also indicate the use of agents produced in laboratories with limited ability to carry out a by-the-book synthesis, thus generating impure substances with limited effectiveness. This is still worrisome, as the toxic substances can still seriously affect the unprotected population. Remember, for example, the attack on the Tokyo subway in 1995 (the work of Aum Shinrikyo, editor’s note), which had a lower impact than expected because the product obtained was strongly impure, but that nevertheless claimed 12 victims and a high number of serious intoxications. Also in Syria, in at least one case, or Homs 2012, technical reports made reference to the so-called “Agent 15”, a former Soviet definition of a psychoactive hallucinogenic compound similar to the so-called “Buzz”, once present in the NATO arsenal. The questions therefore increase, as the origin of this substance is still unknown.
Vi sono problemi di natura tecnica nelle missioni investigative in loco? Gli ispettori internazionali sono spesso costretti, per motivi sia diplomatici sia di sicurezza, a svolgere la missione di campionamento e analisi in situ molte settimane dopo un attacco. In tal modo, la dispersione nell’ambiente e la degradazione degli eventuali composti tossici a opera degli agenti meteorologici diventa sempre più importante e i residui di armi chimiche, se presenti, risultano sempre più difficili da identificare, nonostante le tecniche analitiche più all’avanguardia.
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
Are there technical problems with on-site investigations? International inspectors are often forced, for both diplomatic and security reasons, to carry out onsite sampling and analysis missions several weeks after an attack. Thus, dispersion into the environment and degradation of any toxic compounds by meteorological components become more and more critical, and the residues of chemical weapons, if present, are increasingly difficult to identify, despite avant-garde analytical techniques.
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SURABAYA, INDONESIA
RAGES
Il più grande Paese musulmano al mondo ha scoperto una nuova frontiera del terrorismo: le famiglie kamikaze. A metà maggio una coppia a bordo di motociclette-bomba si è lanciata contro il quartier generale cittadino della polizia, seguita dall’assalto a tre chiese di Surabaya, compiuto da una madre e un padre con i propri figli al seguito. The world’s largest Muslim country has discovered a new frontier of terrorism: suicide bomber families. In mid-May, a couple with their children rode into Surabaya police headquarters on motorcycle and detonated explosives, followed by similar attacks on three churches.
RAGES
RABBIA E DISSENSO IN GIRO PER IL MONDO
For over 70 days, protests have raged against Sandinista dictator Daniel Ortega. Originally against the government’s reduction of minimum pensions, the rebellion spread rapidly to all sectors of the country’s population, with students in the front line. So far, at least 135 young people have been killed by the paramilitary.
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MANAGUA, NICARAGUA
Da oltre 70 giorni è esplosa la protesta contro il dittatore sandinista Daniel Ortega: partita contro la riduzione delle pensioni minime operata dal governo, la ribellione è presto dilagata e ormai intercetta tutti i settori della popolazione, a cominciare dagli studenti che sono in prima fila. Il numero dei giovani ammazzati dai paramilitari è già salito a oltre 135.
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GAZA STRIP, PALESTINIAN TERRITORIES
Puntualmente da due mesi a questa parte, sul confine tra la Striscia di Gaza e Israele la popolazione palestinese ogni venerdì si raduna esponendosi al fuoco nemico per celebrare la “marcia del ritorno”, una manifestazione che intende simboleggiare la riappropriazione del territorio contestato. Risultato: decine di morti e centinaia di feriti sinora. For two months, on the border between Gaza and Israel, Palestinians have rallied under enemy fire every Friday for the March of Return to symbolize the reappropriation of disputed territories. The result: dozens of deaths and hundreds wounded.
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CULTURE
WHY AL QAEDA BETS ON SYRIA QUAL È OGGI IL GRUPPO ANCORA FEDELE AD AL ZAWAHIRI E QUALE FUTURO ATTENDE I QAEDISTI NELLA REGIONE by
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Valerio Mazzoni
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WHY AL QAEDA BETS ON SYRIA
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l biennio 2014-16, che ha visto la nascita dello Stato Islamico e la proliferazione delle sue filiali regionali, non è stato un periodo facile per l’organizzazione terroristica Al Qaeda. Oltre alla comparsa di un competitor agguerrito all’interno della galassia jihadista, il gruppo ha dovuto continuare ad affrontare i suoi nemici di sempre che danno la caccia ai suoi sodali in ogni angolo del mondo e con qualsiasi mezzo disponibile. Passata una fase di difficile assestamento, sembra però che le filiali regionali del gruppo - lentamente e lontano da quei riflettori che lo Stato Islamico ha contribuito in buona parte a far puntare su di sé - stiano riprendendo vigore. La Siria non fa eccezione a questo trend. Il network qaedista siriano è in fase di riorganizzazione, dopo che la leadership del gruppo Hayat Tahrir al Sham, guidato dal suo leader Abu Mohammad al Julani, ha deciso di tagliare i legami con l’organizzazione madre. Un rebranding mirato a rendere l’ex Fronte al Nusra più presentabile sia agli occhi delle altre fazioni ribelli sia agli occhi della comunità internazionale. La fase più critica, per gli uomini che sono rimasti fedeli ad Ayman al Zawahiri e ai suoi luogotenenti dopo lo strappo con l’ex Fronte al Nusra, sembra dunque passata. Al momento della scissione, molte fazioni all’interno del gruppo Hayat Tahrir al Sham avevano defezionato in seguito agli arresti di luogotenenti lealisti di Al Qaeda che avevano aspramente criticato tanto lo split voluto da al Julani quanto i colloqui intrattenuti da quest’ultimo con la Turchia, che a ottobre scorso ha installato i suoi primi checkpoint militari nella provincia di Idlib. La successiva scarcerazione dei leader rimasti fedeli ad al Zawahiri non ha riportato alla ricucitura dello strappo. Così, queste fazioni disertrici hanno dato vita a una seria di gruppi autoproclamatisi fedeli ad Al Qaeda. Jaysh al Malhaim, Jaysh al Badiya, Jaysh Sahel, per citare solo alcuni di quelli più organizzati e pericolosi, hanno partecipato nella prima linea degli scontri che sono seguiti all’avanzata degli assadisti nei governatorati di Hama e Idlib. Questi ultimi, insieme ad altre fazioni più piccole, si sono recentemente uniti e hanno dato vita a Tanzim Hurras al Deen, il Gruppo dei Guardiani della Religione. La nuova emanazione siriana di Al Qaeda, nonostante non abbia ancora ricevuto l’endorsement dalla leadership centrale del gruppo, è guidata da Abu Hammam al Shami, al secolo Samir Hijazi, uno dei veterani con più esperienza di guerra all’interno dei ranghi di Al Qaeda. Samir aveva giurato la propria fedeltà a Osama bin Laden in persona, aveva combattuto in Afghanistan e in Iraq sotto le direttive di Abu Musab al Zarqawi, e in Siria si è distinto come uno tra i leader di rango più alto all’interno del Fronte al Nusra, per poi però lasciare l’organizzazione non appena essa si è smarcata dalla casa madre. Insieme a lui, operano una serie di fedelissimi che condividono un legame quasi fraterno, avendo con-
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T
he years 2014-16, which saw the birth of the Islamic State and the generation of its regional branches, was not an easy period for the Al Qaeda terrorist organization. In addition to the arrival of a vicious competitor in the jihad world, the group continually faced its historic enemies who are going after their comrades in all corners of the globe with all means available. After a difficult adjustment phase, it would seem however that the group’s regional branches are starting to pick up the pace, slowly and far from the spotlight that has largely been stolen by the Islamic State. Syria is no exception to this trend. The Syrian Al Qaeda network is currently in a phase of reorganization, under the leadership of Abu Mohammad al Julani, having decided to sever ties with the home office. The group’s rebranding hopes to make the former Al Nusra Front more presentable to other rebel factions and to the eyes of the international community. The most critical phase for the men who have remained faithful to Ayman al Zawahiri and his lieutenants, following the rift with the former Al Nusra Front, seems to have passed. During the scission, many factions within the Hayat Tahrir al Sham group defected following the arrest of lieutenants loyal to Al Qaeda who had bitterly criticized the split desired by al Juliani as well as his talks with Turkey, which installed its first military checkpoints in the province of Idlib last October. The subsequent release of the leaders who remained loyal to al Zawahiri did not lead to a mending of the tear. The scattering factions then gave life to a series of groups that claimed loyalty to Al Qaeda. Jaysh al Malhaim, Jaysh al Badiya, Jaysh Sahel, to name only some of the most organized and dangerous organizations, were in the front line of clashes that followed the advance of Assad’s forces in the governorates of Hama and Idlib. The latter, along with other smaller factions, have recently joined forces and established Tanzim Hurras al Deen, the Guardians of Religion Organization. The new Syrian emanation of Al Qaeda, despite not having received official endorsement from the group’s central leadership, is headed by Abu Hammam al Shami, these days known as Samir Hijazi, one of the veterans with the most war experience within the ranks of Al Qaeda. Samir had proclaimed his loyalty to Osama bin Laden in person, he fought in Afghanistan and in Iraq under Abu Musab al Zarqawi, and in Syria he distinguished himself as one of the highest ranking members of the Al Nusra Front, to then leave the organization as soon as it abandoned the central command.
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CULTURE
diviso insieme esperienze nelle carceri siriane o sui campi di addestramento afghani. Tra questi spiccano: Abu al Qassam, cognato di Al Zarqawi che si era peraltro occupato di guidare le delicate trattative tra il neonato Stato Islamico e il Fronte al Nusra nella fasi più concitate dello scontro; Sami al Oraidi, uno dei luogotenenti più influenti di Al Qaeda, che godeva di legami strettissimi con Abu Khayr al Masri, secondo solo ad al Zawahiri nella scala gerarchica di Al Qaeda e che per anni, prima di morire a causa di uno strike aereo statunitense a Idlib, era stato inviato a vigilare sulle politiche di Jabhat al Nusra; Abu Julaybib al Urduni, uno dei più feroci critici dello split tra il Fronte al Nusra e Hayat
“
Working with him are a series of extremely loyal men linked by a nearly fraternal bond, having spent time together in Syrian prisons or in Afghan training fields. Among them are: Abu al Qassam, Al Zarqawi’s brother-in-law who also guided delicate negotiations with a newly formed Islamic State and the Al Nusra front in the most heated moments of the clash; Sami al Oraidi, one of the most influential lieutenants of Al Qaeda, who enjoyed a close relationship with Abu Khayr al Masri, second only to al Zawahiri in the Al Qaeda hierarchy, and for years, before dying in an American air strike in Idlib, he was sent to monitor Jabhat al Nusra’s policies; Abu Julaybib al Urduni, one of the most fero-
Il cantone di Idlib presto o tardi entrerà nelle mire delle milizie ribelli fedeli ad Ankara o affronterà direttamente l’offensiva governativa. Thee canton of Idlib will sooner or later join loyal rebel militias in Ankara or will directly address the government offensive.
Tahrir al Sham di cui si sa poco e nulla, ma che molti descrivono come tra i più autoritari all’interno del network qaedista. Queste eminenze grigie sono la vera anima di Al Qaeda in Siria e, al momento, sembra che possano contare su un gruppo di circa 3mila unità. Il tuttora mancante riconoscimento ufficiale da parte della leadership centrale non deve ingannare, perché la Siria per Al Qaeda rappresenta un teatro di capitale importanza. Prima di riconoscere ufficialmente il gruppo, è probabile che l’organizzazione attenda di vedere l’evoluzione dello scenario siriano lungo il 2018. Il cantone di Idlib, controllato per la maggior parte da Hayat Tahrir al Sham e ultima vera roccaforte dei ribelli anti Assad, presto o tardi entrerà nelle mire delle milizie ribelli fedeli ad Ankara o affronterà direttamente l’offensiva governativa. Come si comporterà allora il gruppo di Al Julani in tali circostanze? L’idea è che Hurras al Deen, e il network che agisce al suo interno, sia in attesa di vedere quali scelte dolorose prenderà Julani, nella speranza di poter rimpolpare i suoi ranghi con nuove fazioni che potrebbero fuoriuscire da HTS. Con la Siria che sembra destinata a rimanere impantanata nel caos ancora per molto tempo, Al Qaeda sta dunque continuando la sua semina, ma sembra che il momento del raccolto possa arrivare a breve.
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cious critics of the split between the Al Nusra Front and Hayat Tahrir al Sham, while little is known about him, he is described as one of the most authoritarian in the Al Qaeda network. These gray eminences are the true soul of Al Qaeda in Syria, and, at the moment, it seems that they can count on nearly 3,000 members. We must not be fooled by the lack of official recognition from central leadership, as Syria is a theater of capital importance for Al Qaeda. Before officially recognizing the group, it is likely that the organization is waiting to see the evolution of the Syrian situation in 2018. The canton of Idlib, controlled by Hayat Tahrir al Sham and the last real stronghold of the anti-Assad rebels, will sooner or later join loyal rebel militias in Ankara or will directly address the government offensive. How will Al Julani's group behave in such circumstances? The idea is that Hurras al Deen, and the network that acts within it, is waiting to see what painful choices Julani will take, hoping to be able to flesh out his ranks with new factions that could escape from HTS. With a Syria that seems destined to remain in chaos for a long time to come, Al Qaeda is still planting its seed, and it seems that the harvest could come soon.
BABILON N°2
WHY AL QAEDA BETS ON SYRIA
JUN 2018
Jaysh al Islam is the group that led the recent offensive in East Ghouta. They were the ones to report the Syrian regime’s chemical attacks, leading to the US raid of Syrian military bases.
Jaysh al Islam ISLAMIC FRONT
WHERE THEY ARE ACTIVE: Aleppo Governorate, the Qalamoun Mountains, Daraa Governorate. OPERATIVES: approximately 10,000. ORIENTATION: Salafi / Syrian nationalist.
Jaysh Khalid ibn al Waleed KHALID IBN AL WALEED FRONT
Since the beginning of the Syrian civil war, the group has controlled most of the Daraa sector and has often been involved in clashes with other rebel factions in their area of operation.
WHERE THEY ARE ACTIVE: Daraa Governorate. OPERATIVES: approximately 1,000. ORIENTATION: jihadist – affiliated with the Islamic State. JTS is a fusion of Nour al Zinki and Ahrar al Sham, following heavy clashes for both groups in December 2017 and January 2018 with Hayat Tahrir al Sham in the rebel enclave of Idlib. WHERE THEY ARE ACTIVE: Aleppo Governorate, Idlib Governorate, Hama Governorate. OPERATIVES: approximately 5,000. ORIENTATION: Salafi / Syrian nationalist.
Jabhat Tharir Suriya SYRIAN LIBERATION FRONT
TIP - Turkistan Islamic Party (SYRIAN DIVISION)
TIP is headquartered in Afghanistan. However, the group, mainly made up of foreign fighters, is part of a number of foreign organizations affiliated to Al Qaeda, which reached Syria at the beginning of the war, like the Chechens of Junud al Sham and the Uzbeks of Katibat al Imam Bukhari.
WHERE THEY ARE ACTIVE: Latakia highlands, Idlib Governorate, Aleppo Governorate. OPERATIVES: approximately 1,000. ORIENTATION: jihadist.
Hayat Tahrir al Sham ORGANIZATION FOR THE LIBERATION OF THE LEVANT
Since the beginning of the Syrian civil war, the group has controlled most of the Daraa sector and has often been involved in clashes with other rebel factions in their area of operation.
WHERE THEY ARE ACTIVE: Daraa Governorate. OPERATIVES: approximately 1,000. ORIENTATION: jihadist – affiliated with the Islamic State.
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
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CULTURE
DESPERATELY SEEKING ABU BAKR AL BAGHDADI
L
a primula rossa del terrore, il Califfo Abu Bakr Al Baghdadi, ha fatto perdere le proprie tracce dal giorno in cui è caduta Mosul, capitale irachena del Califfato dove tutto ebbe inizio. Dove cioè uno sconosciuto trentenne con la lunga barba e il caftano nero si autoproclamò «Califfo di tutti i musulmani», dando avvio alla conquista manu militari di Siria e Iraq. Era il 29 giugno 2014 e nella grande moschea al Nuri andò in scena il primo atto della creazione di quello Stato Islamico che ha sconvolto la geografia del Medio Oriente e terrorizzato l’intero occidente. A quattro anni di distanza, quel proto-stato non esiste già più e molti dei suoi fondatori sono caduti in battaglia. Ma non lui. Il Califfo, pur se avvistato in innumerevoli occasioni, è semplicemente scomparso dal giorno della caduta di Mosul: Omar, Raqqa, Deir Ezzor sono solo alcuni dei luoghi dove il fantasma di Al Baghdadi è stato segnalato. L’ultimo sopravvissuto del gruppo fondatore dello Stato Islamico è in ogni caso considerato vivo dalla maggior parte degli esperti e uomini dell’intelligence. Nel novembre 2016 fu intercettato dai peshmerga curdi mentre parlava su radio frequenze tra Mosul e Tal Afar e settimane dopo in comunicazioni radio nei dintorni di un villaggio a sud di Baaj. Poi, il silenzio. L’unico - e ultimo - avvistamento che vanta riscontri oggettivi risale alla fine del Ramadan 2017 quando, secondo testimoni, il Califfo Al Baghdadi apparve ad Abu Kamal una delle ultime roccaforti dello Stato Islamico lungo la valle dell’Eufrate. Dove anche gli americani ritengono si nasconda ancora. C’è invece chi giura che sia ancora protetto dalle tribù sunnite che vivono tra la provincia di Ninive e quella dell’Anbar, che avversano il governo sciita di Baghdad. Sembra insomma che, come ogni grande ricercato, la primula rossa del terrore non si sia mai allontanato dai territori un tempo sotto il suo pieno controllo.
DESPERATELY SEEKING ABU BAKR AL BAGHDADI by
Claudio Stellari
A
ll traces of Caliph Abu Bakr Al Baghdadi have been lost since the fall of Mosul, the Iraqi capital of the Caliphate, where it all began. In other words, an unknown 30-year-old with a long beard and a black caftan declared himself Caliph of all Muslims, and began a military conquest of Syria and Iraq. It was June 29, 2014, and the first act in the creation of the Islamic State that shocked the geography of the Middle East and terrorized all of the West was staged in the Great Mosque of al Nuri. Four years later, the proto-state no longer exists and many of its founders have fallen in battle. But not him. The Caliph, although sighted on countless occasions, simply disappeared in the fall of Mosul: Omar, Raqqa and Deir Ezzor are just some of the places where the ghost of Al Baghdadi has been reportedly seen. The last survivor of the founding group of the Islamic State is still considered alive by most the experts and intelligence agencies. In November 2016, he was intercepted by the Kurdish peshmerga while he spoke on radio frequencies between Mosul and Tal Afar, and weeks later in radio communications around a village south of Baaj. Then, silence. The only - and last - sighting with concrete evidence dates to the end of Ramadan 2017 when, according to witnesses, Caliph Al Baghdadi appeared in Abu Kamal, one of the last strongholds of the Islamic State in the Euphrates valley, where even the Americans believe he is still hiding. Yet, there are those who swear that he is still protected by Sunni tribes that live between the province of Nineveh and Anbar, which are against Baghdad’s Shiite government. In short, it seems that, like any great fugitive, Al Baghdadi has never distanced himself from territories once under his full control.
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BABILON N°2
LA VIGNETTA JUN 2018
ELEZIONI POLITICHE
IN ITALIA VOL 2
Vignetta a cura di Sankara
n°2
A GEOPOLITICAL EXPERIENCE
BA BIL ON JUN 2018
Direttore Responsabile Luciano Tirinnanzi Direttore editoriale Alfredo Mantici Caporedattore Rocco Bellantone Coordinamento Editoriale Pietro Costanzo, Emiliano Battisti Hanno collaborato Generale Mario Mori Gian Micalessin Giulio Monga Emiliano Battisti Lorenzo Nannetti Marco Giaconi Gabriele Moccia Luca Steinmann Stefano Piazza Fabio Valerini Pietro Costanzo Valerio Mazzoni Francesco Ermini Claudio Stellari Fabrizio Malaspina Matteo Guidotti Marco Giulio Barone Progetto grafico CQ Agency www.cqagency.it Stampatore AGE s.r.l. - Pomezia (RM)
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