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ELIO CASALINO Parzifal
18 june - 18 august 2017 Bibliothèque Solvay Bruxelles
Tre passi sopra l’abisso Prof. Mariano Bizzarri
Ci sono tanti modi per avvicinarsi e cercare di comprendere il significato di un’opera d’arte.
Si possono invocare i canoni dell’estetica - che hanno costituito uno dei capisaldi della tradizione filosofica classica, da Platone a Benedetto Croce, passando per Baumgarten - così come sconfinare nei meandri incerti della gnoseologia contemporanea, dove il discorso sull’arte si risolve nella dialettica tra i due approcci dell’estetica americana e quelli della cosiddetta “percettologia”, o estetica continentale.
Nel nostro caso ci limiteremo a prendere in considerazione l’opera prima del Maestro Elio Casalino in relazione alla sua dichiarata necessità di esprimere - nelle forme e nei modi che la pittura gli consente - un percorso declinato per il tramite di una sua personale semantica.
Qui per semantica ci riferiamo al coinvolgimento di simboli – sia come forme sia come colori - che costituiscono l’architrave dell’esperienza specifica di cui il Maestro offre testimonianza. Diciamo allora, in accordo con il suggerimento del Garroni1, che proveremo a vedere in quest’arte una “filosofia non speciale”, ovvero quella filosofia che si propone di ricostruire le condizioni specifiche del vissuto esperienziale dell’Autore per il mezzo della “analisi trascendentale” dell’opera d’arte. Decodificare il Simbolo.
Non a caso parliamo qui di trascendentale, proprio perché l’intento del Maestro è di rappresentare un percorso che, per il tramite di fasi progressive, permetta di accedere ad uno stato che, per l’appunto, trascenda le condizioni usuali – di tempo e di luogo – che caratterizzano l’esperienza quotidiana: per analogia con quanto avviene in chimica e fisica, si può parlare di transizioni di stato. E come un gas può passare dallo stato gassoso a quello liquido ed infine trasformarsi in solido, così l’essere umano può transitare su livelli diversi o ‘fasi’, trascendendo lo stato attuale. I passaggi sono contraddistinti da colori diversi – il nero, il rosso e finalmente il bianco – che nel nostro contesto assumono un sapore ed un significato volutamente alchemico.
Qui per alchimia si intende un processo che permette di cogliere l’essenza della materia e quindi ‘superarla’, dopo averne esperito tutte le possibilità.
La tradizione aristotelica, filtrata nell’alchimia tramite lo gnosticismo alessandrino, ritiene che la materia - la “sostanza” - esista solo come potenzialità. Perché si realizzi “in atto” deve subire un processo di auto-realizzazione (“perfezionamento”) guidato verso il raggiungimento di quella forma cui ogni sostanza spontaneamente tende (entelechia).
Il ‘perfezionamento’ consente di ridurre la materia al suo seme – immortale – di pura essenza spirituale. In questo senso la funzione dell’alchimia è quella di rendere gloria, cioè di restituire le cose e gli esseri alla loro sorgente luminosa eterna e di reintegrarli nell’ordine universale, una volta resi ‘perfetti’. Il raggiungimento della perfezione che per i metalli è l’oro, in geometria il cerchio e per gli uomini la liberazione dal Male e dalle malattie (longevità e redenzione), viene rappresentato in pittura dal percorso che punta a ridurre l’elemento materiale ai suoi principi essenziali: forme e colori. Solo questi elementi sfuggono alla tirannia del tempo e del suo corollario: il necessario decadimento.
Per questo le opere del Maestro hanno tutte il sapore agrodolce dell’atemporalità.
Tocchiamo qui uno dei temi centrali della ricerca del nostro Autore: come sfuggire alla consunzione del tempo ed alle insidie inebrianti del lato oscuro, per giungere ad una ‘rinascita’ (si veda l’opera Fecondazione) che vede i tre momenti salienti riuniti in un trittico di colori: nero, rosso e bianco, per l’appunto. Come tutte le fecondazioni nasce da un atto d’amore (si veda Evoluzioni amorose) che parte dal sentimento di isolamento dell’Io (in nero), al suo sdoppiamento nella fase al rosso (dove prevale l’elemento della dicotomia e della contrapposizione tra opposti), per giungere infine alla ricomposizione della sintesi che sfocia inevitabilmente nel ternario (il bianco): il ternario è in alchimia il superamento delle contraddizioni e della molteplicità, dove si torna ad essere uno in tre, perché si supera la perso1
E. Garroni, L’estetica, filosofia non speciale, Roma-Bari, Laterza, 1995
nalità (da ‘persona’, cioè ‘maschera’) per giungere all’Io (spirituale).
Morte e rinascita. La fase al nero è quella della putrefatio, dove la materia esposta al calore incandescente dell’Atanor, viene calcinata e ridotta alla sua essenza, liberata dalle scorie. Questa fase di lavoro sulla materia ha una componente violenta innegabile – si veda Stupro – che costituisce il prerequisito perché la materia muoia a sé stessa, prima di essere ‘purificata’ e avviata a rinascita. Equivale alla sgrossatura della pietra che, ora divenuta ‘mattone’ può essere utilizzata per la costruzione del tempio.
Questa è la fase da cui più difficilmente il Maestro tende ad affrancarsi, considerata la riluttanza che mostra nell’abbandonare il corpo, luogo di equivoci e di ambiguità (in Nudi in un interno i corpi sono intercambiabili, e i volti non hanno fattezze né occhi), cui colpevolmente concede anche troppo spazio (si vedano le opere Amori velati e Giochi di corpi).
Per converso il Maestro si compiace di permanere nella fase del rosso: luogo di ogni possibile, dominio vero del sogno irrealizzabile e di ogni ‘rivolgimento’: è il luogo di grandi e pericolose tentazioni, dove si indulge a ritenere che sarà sempre possibile cambiare (si veda Revolucion) ed eventualmente ‘tornare indietro’.
È questo il limite dell’orizzonte spirituale entro cui si muove l’Autore: la supponenza (errata) che si possa ancora ‘gestire’ una fase come quella del Rosso, ed uscirne indenni. Invero, ci sono i pericoli di involuzione, di morte e addirittura di dissoluzione (si veda Trans-gression e Il gioco degli Dei dove il ritorno alla forma del corpo giovane si caratterizza per la involontaria comparsa di irriducibili enigmaticità).
È paradigmatico il caso dell’opera Natura Morta. Qui il movimento che dovrebbe essere ascensionale, sfuma invece nelle due dimensioni superiore/inferiore (aspirazioni/radici) per risolversi nella immanenza della fase intermedia, guarda caso segnata, dominata, dal rosso. Va opportunamente rilevato come le radici – superiori e inferiori – si dipartano tuttavia da un quadrato nero, segno che, nonostante tutto, prevalga la necessità di purificazione (la fase al Nero) se si vuole conservare la continuità del percorso esistenziale.
Non è irrilevante al riguardo rimarcare come l’uso sapiente del tratto – del colpo di pennello, firma inconfondibile della personalità del Maestro – accompagni queste fasi, risultando ora più marcato, ora appena accennato. Laddove il tratto è impetuoso nella sua corposità, là il conflitto è maggiore. Non deve stupire che in questo si possa ravvisare sofferenza, la stessa che l’Autore cerca di vincere esteriorizzandola, dimostrando come in questo la sua pittura risponda – ancora una volta – ad una necessità esistenziale. C’è sofferenza perché nessun parto è indolore. C’è dolore perché qualunque Morte – anche quella iniziatica che prelude alla nuova nascita – non è vissuta senza partecipazione sofferta. Oltre la forma. La forma è innanzitutto ricognizione e definizione degli spazi.
Casalino è attentissimo a questi: ne definisce i perimetri, badando bene a sigillare gli angoli, per far convergere la prospettiva – e quindi guidare l’occhio dell’osservatore – verso il punto focale ove il colore si addensa.
Chi guarda quei quadri comprende benissimo dove è il centro dell’azione. Perché quei quadri parlano di una azione, la stessa che è implicita nel processo attivo della trasformazione. L’azione ha un suo tempo, ed uno spazio – quello appunto definito dalla forma che ne segue in qualche modo il ‘ritmo’.
È per questo che le dimensioni (e le forme geometriche) sono sempre mutevoli e suggeriscono i tempi della lettura. Il cambiamento delle forme all’interno del dialogo pittorico si associa al colore. Così, mentre la forma è ancora dominante nelle prime fasi, quando la materia parla attraverso le relazioni tra le parti (questo significa propriamente “forma”), con il bianco la forma tende a svanire: il passaggio al bianco – luogo di ricomposizione e superamento di tutti i possibili impliciti nello stato di esistenza considerato (il bianco contiene tutti i colori) – è anche il momento in cui ci si può affrancare dalla ‘morfologia’, ovvero l’apparenza sensibile di cui si riveste l’idea.
È il passaggio noto ai greci dal morphè all’eidos, dove quest’ultima è il riflesso dell’idea sul piano della materia: la tradizione aristotelica e platonica distingue infatti i due termini – morphé e eidos – che oggi traduciamo indistintamente come “forma”. Ma la differenza è di vaglia perché il passaggio dall’uno all’altra segna il raggiungimento dell’ultimo cielo (ed ogni
cielo è una “conoscenza”, come insegna Dante nel Convivio), laddove forme e colori sfumano nella Luce. Luce, senza né forma né colore, perché si colloca al di là del piano del manifestato, spartiacque insuperabile per chi non ha compiuto il viaggio “perilloso”.
La ‘luce’ è quella della Apocalisse (ovvero: rivelazione). L’opera mette plasticamente in rilievo il monumento caro della Tradizione (il Colosseo) illuminato a giorno, a fronte del quale una folla di esseri semi nascosti dall’oscurità attende il suo momento. Come ricorda il Prologo di San Giovanni, quanti sapranno “accogliere” la luce? E quindi rinunciare al mondo delle forme? L’interrogativo resta senza risposta.
Multi vocati, pauci electi. Ma il momento non giunge per tutti. È quello che sembra dirci Ebola: la moltitudine ‘segnata’ ancora dal colore rosso, come tante file di cadaveri, ed un solo cerchio bianco, che si ‘libera’ in alto a sinistra, in una distribuzione che ricorda quella del grafico cartesiano. Per superare i rischi e i pericoli occorre coraggio, costanza, determinazione. Ma anche vocazione e altre qualificazioni di cui non tutti dispongono.
Per questo l’opera del Maestro Casalino è riservata a pochi, e non è di immediata decifrazione. Sembrerebbe quasi di sentire riecheggiare l’ammonimento di Dante: “State contente umane genti al quia, ché se potuto aveste saper tutto, mestier non era partutir Maria”. In questo c’è il riscontro di un limite – la conoscenza è frutto di impresa apollinea e non garantita da alcuna ‘mutua’ sociale – e di un pericolo. Il pericolo è lo stesso denunciato nella Queste dou Graal: al Cavaliere non è dato avere incertezze nel momento in cui si trova dinnanzi alle scelte irreversibili.
E non a caso la raccolta prende il nome dell’eroe eponimo del ciclo Arturiano, Parzifal.
E nel corso della sua ricerca, da castello a castello, anche Parzifal finirà con il trovarsi davanti alla questione decisiva. Quella che, muto, gli grida l’Ouroboros. Qui c’è un grande mistero, adombrato dal concetto stesso di uovo cosmico, strettamente legato alla rinascita. Per rinascere occorre prima morire e andare oltre l’ambito della manifestazione in cui dominano i contrari. Insomma, se si vuole accedere alla trasfigurazione del bianco occorre definitivamente superare il rosso. C’è infatti il rischio che, ostinandosi a permanere nel rosso, quasi dilaniato tra opposte tendenze, si finisca per cadere non già nell’uovo, ma nell’abisso. E questa è la sfida che Casalino lancia a se stesso: come procedere tre passi sopra l’abisso per tornare a quel Cielo da cui troppe lacerazioni ancora lo tengono lontano.
Prof. Mariano Bizzarri Università di Roma - La Sapienza
Three steps above the abyss Prof. Mariano Bizzarri
There are many ways to approach and attempt to gain an understanding of the meaning behind a work of art.
One might invoke sets of aesthetic guidelines – the very cornerstones of the classical, philosophical tradition from Plato to Benedetto Croce, passing Baumgarten on the way – just as one might trespass upon the uncertain meanderings of contemporary gnoseology where discussion of art is resolved in the dialectic between the two American aesthetic approaches and those known as “perceptology” or continental aesthetics. In this instance, we shall limit ourselves to a consideration of the first work of Maestro Elio Casalino in relation to his self-declared need to express – through the forms and means permitted by painting - a path declined by his own personal semantics.
Here, by semantics, we are referring to the involvement of symbols – both as form and colour – constituting the architrave of a specific experience of which the Maestro offers his testimony. We might say that, in accordance with the suggestions of Garroni1, we shall set out to perceive in this artwork a “non-special philosophy”, in other words a philosophy proposing to reconstruct the specific conditions of the artist’s experiential happening by means of the “transcendental analyses” of the artwork.
Decodifying the symbol.
It is not by chance that the transcendental is mentioned here. Indeed, the Maestro’s intent is that of representing a pathway which, by means of progressive phases, allows eventual access to a state which, indeed, transcends the usual circumstances – of time and place – which generally characterize our daily experience. As an analogy, we might think of what happens in chemistry and physics when we talk about transition states. It is akin to the way that a gas may change from a gaseous state to a liquid one before finally transforming into a solid; in the same way a human may move between different levels or “phases”, transcending the actual state.
These movements are distinguished by different colours – black, red and finally white which, in this context, assume a purposefully alchemic flavour and meaning. Alchemy here is understood as a process whereby the essence of matter is brought together and subsequently exceeded, after having experienced all its possibilities.
The Aristotelian tradition, filtrated into alchemy via Hellenistic gnosticism, claims that matter – “substance” – exists merely as potential. Since it manifests itself “in place” it must undergo a process of self-realization (“perfecting”) aimed at the achievement of the form towards which every substance spontaneously tends (entelechy).
This “perfecting” allows matter to be reduced to a seed-like state – immortal – of pure, spiritual essence. In this sense, the function of alchemy is that of glorifying, namely returning entities and beings to their luminous, eternal source and reintegrating them in the universal order once they have been rendered “perfect.” The achievement of perfection, which in metals is represented by gold, in geometry by the circle and in man by the deliverance from evil and sickness (longevity and redemption), is represented in painting by the pathway which seeks to reduce the material element to its essential principles: form and colour.
It is these elements alone which succeed in escaping the tyranny of time and its corollary: necessary decay.
This is why the works of the Maestro have the bittersweet taste of atemporality.
Here we touch upon one of the central themes in the artist’s work, namely how to escape the ravages of time and inebriating pitfalls of the dark side in order to be rebirthed (see the artist’s work Fecondazione – Insemination) which portrays the union of these three salient moments in a triptych of colour: black, red and white. Just as all inseminations come about through an act of love (see Evoluzioni amorose - Amorous evolutions), commencing with a sense of the isolation of the I (in black), to its duplication in the red phase (in which the element of dichotomy prevails along with the contrast between opposites), before finally recomposing the synthesis which inevitably culminates in the ternary 1
E. Garroni, L’estetica, filosofia non speciale, Roma-Bari, Laterza, 1995
(white). In alchemy, the ternary is the superseding of contradictions and multiplicity, where there is a return to the state of one in three, going beyond personality (from “person”, or “mask”) to achieve the spiritual I.
Morte e rinascita (Death and Rebirth). The phase in black is that of putrefactio in which matter, exposed to the incandescent heat of the Athanor, is calcinated and reduced to its essence, liberated of its impurities. This phase of work on matter exhibits a component of undeniable violence – see Stupro (Rape) – constituting a prerequisite for matter to die unto itself prior to its “purification” and the onset of rebirth. This is equivalent to the rough-hewing of stone which, in becoming a “building block”, may then be used in the construction of the temple.
This is the phase in which the Maestro encounters most difficulty in freeing himself, considering the reluctance he demonstrates in abandoning the body,site of equivocation and ambiguity (in Nudi in un interno – Nudes in an indoor space, the bodies are interchangeable and the faces lack facial features and eyes), and to which he is guilty of conceding too much space (see Amori velati – Veiled games and Giochi di corpi – Body games).
Conversely, the Maestro welcomes the possibility of lingering in the red phase: site of all possible, real domination of the unachievable dream and every “upheaval”. It is the place of great and dangerous temptation, where one might indulge in the belief that change is always possible (see Revolucion) in addition to a conceivable “return”.
This represents the boundary on the spiritual horizon within which the artist operates. The (erroneous) supposition that one might still “control” a phase such as the Red one, and come out of it unscathed. In truth, therein lie the perils of regression, death and even dissolution (see Trans-gression, where a return to the youthful form of the body is characterized by the involuntary loss of irreducible unfathomableness).
A prime example of this is seen in the artwork entitled Natura Morta- Still Life. Here, the movement which should be in an upward direction segues into the two upper-lower dimensions (aspirations/roots), before resolving itself, by its very nature, in the intermediate phase which is conveniently distinguished, dominated by red. It is opportune to note that the roots – both upper and lower – depart from a black square, an indication that, despite it all, the need for purification must prevail (the phase in Black) if continuation along the path of existence is to be preserved.
In this regard, it is useful to consider how skilful stroke use – the brushstroke, that unmistakable signature denoting the Maetro’s personality – is so evident in these phases, at times more accentuated, at others just hinted at. A more dashing stroke corresponds with an increased degree of conflict. It is no surprise that suffering can be discerned therein, the same suffering that the artists seeks to overcome by externalizing it, demonstrating how his painting responds – once again – to an existential demand. Suffering is present since no birth is painless. Suffering is present because participation in any Death – even that of initiation as a prelude to new birth – is painful. Oltre la forma - Beyond from. Form, primarily, is the recognition and definition of spaces.
Casalino pays the utmost attention to these: he defines their boundaries, taking great care to seal the corners in order to achieve a convergence of prospective and thus guide the eye towards the focal point where colour thickens.
Whoever looks at those paintings is immediately aware of the epicentre of action. The paintings convey an action, the same action implicit to the active process of transformation. The action occupies its own time and space – specifically the one laid out in the form which, in some way, follows its rhythm.
This is why dimensions (and geometric shapes) are always changeable and somehow infer the timings for their interpretation. The changing of forms within the pictorial dialogue is associated with colour. Thus, whilst form remains a dominant element in the early phases, when matter communicates through relations existing between the various parts (the exact meaning of “form”), in the case of white we see form as tending to fade away. The movement into white – the site of reconstitution and the superseding of everything embedded within the state of existence in question (white encompasses all other colours) – is also the moment delivering “morphology” or, in other words, the delicate exterior shrouding the idea itself.
It was the Greeks who first distinguished the transition from morphe to eidos, the latter being the reflection of an idea on the material plane. Indeed, Aristotelian and Platonic tradition determine two separate terms – morphe and eidos – both of which we now translate indiscriminately as “form”.
Yet the difference is of relevance since the transition from one to the other marks the achievement of the last heaven (with each heaven being a different “knowledge”, as Dante teaches in the Convivio), where forms and colours fade into Light. Light, lacking in both form and colour since it lies beyond the plane of manifestation, the unsurmountable watershed for whoever has not completed the “perilous” journey.
The “light” is that found in the Apocalisse (Apocalypse, or Revelation). The focus of this artwork is a monument close to the heart of the tradition, namely the Colosseum; floodlit and depicting a crowd of beings in front of it, halfshrouded in darkness, who have gathered to await their moment. As the Prologue of the Gospel of Saint John reminds us, how many of them will “receive” the light, and thus renounce the world of form? This is the unanswerable question.
Multi vocati, pauci electi (For many be called, but few chosen). And yet, the time has not come for all. This is the message that Ebola seems to convey: the multitude still “marked” by the colour red, like row upon row of cadavers, and a single white circle, set free in the top right-hand corner, distributed in a way reminiscent of a Cartesian graph. Courage, constancy and determination are required in overcoming risks and perils. But also vocation and other qualities not possessed by all.
For this reason, the work of Maestro Casalino remains the reserve of a select few and is not easily decipherable. It is almost as if one hears the echo of Dante’s warning: “Content you with the ‘quia’, sons of Eve: For had you power to see the whole truth plain No need had been for Mary to conceive.” Here we run up against a limitation (namely that knowledge is the fruit of an Apollonian undertaking and comes with no guarantee of social security) and an impending danger. The danger is the same as that denounced in the Queste dou Graal: there is absolutely no room for uncertainty when the Knight stands before irreversible choices. And it is not merely by chance that the collection takes its name from that of the same-named hero in the Arthurian cycle, Parzifal.
During his quest, which takes him from castle to castle, Parzifal too finds himself facing the decisive question. The one which, in silence, the Ouroboros shouts at him. Herein lies a great mystery, overshadowed by the concept of the cosmic egg, closely linked as it is to the theme of rebirth. In order to be reborn, one first has to die and go beyond the realm of manifestation dominated by opposites. In short, if one wishes to access the transfiguration of white, one needs to go beyond red definitively. There is indeed the risk that the stubborn persistence in red, almost torn asunder by opposing tendencies, may result in falling not merely into the egg but into the abyss.
This is the challenge Casalino tasks himself with: how to proceed three steps above the abyss in order to return to that Heaven from which a host of lacerations still keep him at arm’s length.
Prof. Mariano Bizzarri University of Rome – La Sapienza
Trois mètres au-dessus de l’abîme Prof. Mariano Bizzarri
Il y a plusieurs manières de se pencher sur une œuvre d’art et d’essayer de la comprendre.
Nous pouvons invoquer les canons de l’esthétique – qui ont constitué l’un des fondements de la tradition philosophique classique, de Platon à Benedetto Croce, en passant par Baumgarten – ou bien franchir les méandres incertains de la gnoséologie contemporaine, où le discours sur l’art se résout dans la dialectique entre les deux approches de l’esthétique américaine et celles de la “perceptologie”, ou esthétique continentale. Dans notre cas, nous nous limiterons à prendre la première œuvre d’Elio Casalino en considération par rapport à son évidente nécessité d’exprimer – sous les formes et les modes consentis par la peinture – un parcours qu’il décline au moyen d’une sémantique personnelle.
Dans ce contexte, par sémantique nous nous référons à la présence de symboles – aussi bien au niveau des formes que des couleurs – qui constituent l’architrave de l’expérience spécifique témoignée par le peintre. Voilà pourquoi, conformément à la suggestion de Garroni1, nous tâcherons d’entrevoir dans cet art une “philosophie non spéciale”, à savoir un type de philosophie qui se propose de reconstituer les conditions spécifiques du vécu expérientiel de l’auteur par le biais d’une “analyse transcendantale” de l’œuvre d’art. Décodifier le symbole.
Ce n’est pas un hasard si nous parlons ici de transcendantale, car l’intention du peintre est de représenter un parcours qui, par l’intermédiaire de phases progressives, permettra d’accéder à un état qui transcende les conditions usuelles – de temps et de lieu – qui caractérisent l’expérience quotidienne: par analogie avec ce qui se passe en chimie et en physique, nous pourrions parler de transition d’état. A l’instar d’un gaz qui peut passer de l’état gazeux à l’état liquide et enfin se transformer en solide, l’être humain peut transiter sur des niveaux différents ou “phases”, en transcendant l’état actuel. Les passages sont caractérisés par des couleurs différentes – le noir, le rouge et, finalement, le blanc – qui, dans notre contexte, prennent une saveur et une signification intentionnellement alchimique.
Ici, par alchimie, nous entendons un processus qui permet de saisir l’essence de la matière et, par conséquent, de la “dépasser”, après en avoir expérimenté toutes les possibilités.
La tradition aristotélique, filtrée dans l’alchimie par l’entremise du gnosticisme alexandrin, estime que la matière - la “substance” – existe seulement comme potentialité. Afin qu’un acte de réalise, elle doit subir un processus d’autoréalisation (“perfectionnement”) guidé vers l’obtention de la forme innée à chaque substance (entéléchie).
Le “perfectionnement” permet de réduire la matière à sa plus simple expression – immuable – de pure essence spirituelle. Dans ce sens, la fonction de l’alchimie est celle de rendre gloire, c’est-à-dire de restituer les choses et les êtres à leur source lumineuse éternelle et de les réintégrer dans l’ordre universel, lorsqu’ils ont été rendus ‘parfaits’. En peinture, l’obtention de la perfection – qui est l’or pour les métaux, le cercle en géométrie et la libération du Mal et des maladies (longévité et rédemption) pour l’homme – est représenté par le parcours qui tend à réduire l’élément matériel à ses principes essentiels: les formes et les couleurs. Seuls ces éléments échappent à la tyrannie du temps et de son corollaire: la dégradation nécessaire.
Voilà pourquoi toutes les œuvres du peintre dégagent la saveur aigre-douce de l’intemporalité.
Nous touchons ici l’un des thèmes principaux de la recherche de notre auteur: comment échapper à la consomption du temps et aux pièges enivrants du côté obscur, pour atteindre une “renaissance” (voir l’œuvre Fecondazione) qui voit les trois moments saillants réunis dans un triptyque de couleurs: le noir, le rouge et le blanc, pour être précis. 1
E. Garroni, L’estetica, filosofia non speciale, Roma-Bari, Laterza, 1995
Comme toutes les fécondations, elle est le fruit d’un acte d’amour (voir Evoluzioni amorose) qui part du sentiment d’isolement de l’ego (en noir), en passant par son dédoublement dans la phase rouge (où prévaut l’élément de la dichotomie et de l’opposition entre opposés), pour atteindre enfin la recomposition de la synthèse qui débouche inévitablement dans le ternaire (le blanc): en alchimie, le ternaire est le dépassement des contradictions et de la multiplicité, où l’on redevient un en trois, car on dépasse la personnalité (de ‘personne’, c’est-à-dire le ‘masque’) pour atteindre l’ego (spirituel).
Mort et renaissance. La phase noire est celle de la putréfaction, où la matière exposée à la chaleur de l’athanor est calcinée et réduite à son essence, libérée des déchets. Cette phase de travail sur la matière possède une indéniable composante violente – cf. Stupro – qui constitue la condition sine qua non pour que la matière meure toute seule avant d’être “purifiée” et renouvelée. Cela équivaut au dégrossissage de la pierre qui, après avoir été transformée en “brique”, peut être utilisée pour la construction du temple.
Il s’agit-là de la phase de laquelle le peintre a plus difficile de se détacher, compte tenu de la réticence dont il fait preuve pour abandonner le corps, lieu plein d’équivoques et d’ambiguïté (dans Nudi in un interno, les corps sont interchangeables et les visages n’ont ni traits, ni yeux), auquel il concède coupablement trop d’espace (cf. les œuvres Amori velati et Giochi di corpi).
Par contre, le peintre se complaît à demeurer dans la phase rouge: lieu où tout devient possible, la véritable domination du rêve irréalisable et de tout “changement”: il s’agit du lieu des grandes et dangereuses tentations, où il a tendance à croire qu’il sera toujours possible de changer (voir Revolucion) et, éventuellement, revenir en arrière.
Voilà la limite de l’horizon spirituel de l’auteur: la présomption (erronée) qu’il est encore possible de “gérer” une phase comme la phase rouge et en sortir indemne. En vérité, il existe des dangers de régression, de mort, voire même de dissolution (voir Trans-gression où le retour à la forme du corps jeune est caractérisé par l’apparition involontaire d’un irréductible caractère énigmatique).
Le cas de l’œuvre Natura Morta est paradigmatique. Ici le mouvement qui devrait être ascensionnel s’estompe dans les deux dimensions supérieure/inférieure (aspirations/racines) pour se résoudre dans l’immanence de la phase intermédiaire, comme par hasard caractérisée, dominée, par le rouge. Il y a lieu de noter que les racines – supérieures et inférieures – s’éloignent cependant d’un carré noir, signe que, malgré tout, la nécessité de purification prévaut (la phase noire) si nous voulons conserver la continuité du parcours existentiel.
A ce propos, il n’est pas insignifiant de remarquer que l’utilisation savante du trait – du coup de pinceau, signature incomparable de la personnalité du peintre – accompagne ces phases, parfois de manière plus marquée, parfois de manière à peine perceptible. Plus le trait est puissant dans sa splendeur, plus le conflit est important. Il ne faut pas s’étonner qu’il puisse dégager de la souffrance, la même que l’auteur essaie de vaincre en l’extériorisant à travers sa peinture qui répond – encore une fois – à une nécessité existentielle. La souffrance est présente, car aucun accouchement ne se fait sans douleur. La douleur est présente, car aucune mort – même celle initiatique qui prélude à une nouvelle naissance – n’est vécue sans souffrance. Au-delà de la forme. La forme est avant tout la reconnaissance et la définition des espaces.
Casalino est très attentif aux formes: il définit leurs périmètres, en faisant bien attention à fermer leurs angles afin de faire converger leurs perspectives – et, par conséquent, guider l’œil de l’observateur – vers le point focal où la couleur s’intensifie.
L’observateur de ces tableaux comprend parfaitement bien où se trouve le centre de l’action, car ils parlent d’une action, identique à celle qui est implicite dans le processus actif de la transformation. L’action possède son temps et son espace – celui qui est défini par la forme qui, en quelque sorte, suit son “rythme”.
C’est pour ce motif que les dimensions (et les formes géométriques) sont toujours changeantes et suggèrent les temps de la lecture. Le changement des formes à l’intérieur du dialogue pictural s’associe à la couleur. Alors que la forme
est encore prédominante lors des premières phases, lorsque la matière parle à travers les relations entre les parties (cela signifie proprement “forme”), avec le blanc, la forme a tendance à disparaître: le passage au blanc – lieu de recomposition et de franchissement de tous les éléments implicites possibles dans l’état d’existence pris en considération (le blanc contient toutes les couleurs) – est aussi le moment où il est possible de se libérer de la “morphologie”, à savoir l’apparence sensible qui revêt l’idée.
Il s’agit du passage, bien connu des Grecs, de morphê à èidos, où cette dernière est le reflet de l’idée au niveau de la matière: en effet, la tradition aristotélique et platonique fait la distinction entre les deux termes – morphê et èidos – que nous traduisons aujourd’hui indistinctement comme “forme”.
Mais la différence est de taille, parce que le passage de l’une à l’autre marque la réalisation de l’ultime ciel (et chaque ciel est une “connaissance”, comme Dante l’enseigne dans le Convivio), là où les formes et les couleurs s’évanouissent dans la Lumière. Une Lumière sans forme ni couleurs, car elle se situe au-delà de l’expression, frontière infranchissable pour ceux qui n’ont pas accompli le voyage “périlleux”. La “lumière” est celle de l’Apocalypse (c’est-à-dire: révélation). L’œuvre met plastiquement en relief le monument cher à la tradition (Le Colisée) illuminé, face auquel une foule d’êtres à demi-cachés par l’obscurité attend son moment. Comme le rappelle le Prologue de l’Evangile selon Jean, combien sauront “saisir” la lumière? Et donc renoncer au monde des formes ? La question reste sans réponse.
Multi vocati, pauci electi. Mais le moment n’est pas arrivé pour tout le monde. Voilà ce qu’Ebola semble vouloir nous dire: la multitude encore “marquée” par la couleur rouge, comme plusieurs rangées de cadavres, et un seul cercle blanc, qui se “libère” en haut à gauche, dans une répartition qui évoque celle du graphique cartésien. Pour franchir les risques et les dangers, il faut avoir du courage, de la persévérance, de la détermination, mais aussi une vocation et d’autres qualités que tout le monde ne possède pas.
Pour ce motif, l’œuvre de Casalino s’adresse à un cercle restreint et s’avère assez subtile à déchiffrer. On croirait entendre retentir l’avertissement de Dante: “Humains, contentez-vous du pourquoi. Si vous aviez pu tout voir, il n’était pas besoin que Marie enfantât.”. Il y donc la constatation d’une limite – la connaissance est le fruit d’un exploit apollinien et n’est garantie par aucune “mutuelle” sociale – et d’un danger. Le danger est le même que celui dénoncé dans la Queste dou Graal: le Chevalier ne peut avoir d’incertitudes au moment où il se trouve devant des choix irréversibles. Et ce n’est pas un hasard si le recueil prend le nom du héros éponyme du cycle arthurien, Parsifal.
En effet, au cours de sa recherche, de château en château, même Parsifal finira par se retrouver devant la question décisive. Celle que lui crie l’Ouroboros en silence. Il y a un grand mystère, voilé par le concept lui-même de l’œuf cosmique, étroitement lié à la renaissance. Pour renaître il faut d’abord mourir et aller au-delà du domaine de la manifestation dominé par les opposés. En définitive, si nous voulons accéder à la transfiguration du blanc, il faut définitivement dépasser le rouge. En effet, en s’obstinant à rester dans le rouge, presque déchiré entre les tendances opposées, il existe le risque de finir par tomber dans l’abîme et non dans l’œuf.
Voilà le défi que Casalino se lance: comment se mouvoir trois mètres au-dessus de l’abîme pour retourner dans ce Ciel dont il est encore si éloigné en raison d’une multitude d’afflictions.
Prof. Mariano Bizzarri Université de Rome – La Sapienza
PATHOS Gianluca Marziani La pittura esige una limpida disciplina del quotidiano, un esercizio metodico fatto di visione veggente, energia espressiva e necessario talento. Dipingere con serietà e coerenza rimane un mantra muscolare che coinvolge i cinque sensi in una vertigine interiore dalle ricadute epifaniche. Sia chiaro, non si deve parlare di quantità ma di qualità del momento esecutivo, racchiudibile in pochi minuti d’azione (come nel caso di Cy Twombly) o in un lunghissimo approccio pratico (come nel caso di Balthus che impiegava mesi per eseguire una singola tela). Tutto dipende dalla grammatica pittorica nonché dal percorso che l’artista compie, dalle sue abitudini, dagli obiettivi e dai modi che determinano una personalità e uno stile. Mario Schifano, ad esempio, dipingeva a velocità vertiginose, in pieno caos domestico, mostrando un’indole selvaggia, priva di pazienza e intellettualismi, una slavina istintiva che avvolgeva il mondo coi suoi filamenti e schizzi liberatori. Capirete bene che la pittura va relazionata alla vita del suo autore, al contesto d’origine e sviluppo, ai riferimenti storici e umani, ai temi affrontati, alla natura di un’estetica funzionale. Non esiste un singolo metodo d’azione come non esiste una singola lettura dell’opera: l’arte è molteplicità, alterazione della norma, angolo non sospetto, scarto e scatto improvviso. L’arte ragiona per valori autonomi, ritualità private, ossessioni interiori. Avviene una sospensione della normalità quando si parla di arte visiva: ogni visione rappresenta la regola e la sua eccezione, l’artista diviene archetipo e la sua interiorità si trasforma in un mondo. Il suo personalissimo mondo. Un mondo che l’autore, attraverso l’opera, offre al di fuori di sé. Il vero racconto di una mostra inizia dalla geografia biografica di un artista. Ciò significa entrare nelle zone dell’animo, nei sentimenti profondi, nella coscienza dietro il quotidiano. Significa illuminare le stanze intime che disegnano l’attitudine, l’indole, l’etica e le passioni di una persona con il fuoco limpido della creazione. I quadri diventano capitoli temporanei di una cronologia che si porta appresso implicazioni, desideri, esperienze, decisioni, errori, ripensamenti, intuizioni… il DNA di un quadro contiene la sintesi compressa di una vita umana, un codice informativo in cui la disciplina del quotidiano si tramuta in una qualità del momento esecutivo. La storia che voglio raccontarvi è quella di Elio Casalino. Un uomo che fino a ieri regalava ai propri quadri un’esistenza privata, lontana dai contesti espositivi. La casa in cui vive è (quasi) interamente arredata con le sue opere, sparse negli ambienti con un allestimento mimetico, come se volesse lasciarle intravedere, darne tracce timide. Nel suo appartamento ho scoperto le prove di una lunga relazione con la pittura, anni di passione artistica dentro una vita da professionista affermato, dentro una di quelle esistenze in cui non è semplice sottrarre tempo ai doveri del mestiere. Ma come dicevo prima, l’arte è qualità del momento esecutivo, miscuglio virtuoso di metodo e disciplina, una questione intima che occupa gli spazi conquistati, giammai gli spazi del semplice dovere. Casalino usa la notte per ritrovarsi faccia a faccia col quadro, lui e la sua coscienza rivelata per un dialogo con i propri fantasmi, le ombre, i ricordi, le idee, le priorità, l’urgenza di un tema da affrontare e sviscerare. Il quadro si trasforma nel palcoscenico notturno di una lirica struggente, un grido straziato o un volo nel mondo di Eros, una torsione drammatica dei corpi o un gioco di apparenze carnevalesche. Fateci caso, le opere hanno atmosfere notturne e fantasmatiche, le luci plasmano note artificiali che esaltano i corpi nel buio cavernoso. Lo sguardo incarna quella luce aggiunta: l’occhio come un faro per scegliere il focus dentro il respiro affannoso del mondo. Casalino dipinge di notte, con la notte, dentro l’anima della notte: assorbe le radici barocche di una Roma che al buio mostra il suo aspetto veritiero, una Roma che rilascia la memoria sanguigna di Scipione, Mario Mafai, Tano Festa… una città di prelati e fantasmi, togati e corrotti, banditi e puttane, intellettuali e artisti eroici, attori e registi altrettanto eroici, scrittori e scritturanti, politici e politicanti, una città tra delirio e follia, bellezza struggente e decadenza congenita… Roma ha plasmato le atmosfere mentali di Casalino, stabilito le coordinate della sua luce, regolato il suo corredo linguistico e tematico. Quei neri astronomici, i rossi lavici, il bianco alieno degli incarnati, la pastosità archeologica della materia, le chiarezze espressive della pelle denudata: d’improvviso Roma abbassa le voci per lasciare la scena ai quadri, inscenando l’ennesima sospensione della normalità quotidiana… l’artista metabolizza la città, la cronaca, i riferimenti culturali, le esperienze immaginate e vissute, l’amore per il femminile… l’artista non resiste alla forza soggiogante di Roma, al contrario accetta le regole d’ingaggio e fa scorrere la città dentro le opere, lasciando che la potenza millenaria reciti il ruolo che le compete. La parola del titolo, PATHOS, attraversa la produzione di Casalino come un filo rosso che traccia connessioni figurative e simboliche. Quasi ovvio che la cucitura ideale ricordasse una scia di sangue vivo: non esiste colore più evocativo per ragionare sulla drammaturgia dei grandi temi morali, per criticare, con spessore tattile, la violenza, i modi di ferire e uccidere, l’ingiustizia nei confronti dei deboli. I quadri nel catalogo introducono lo sguardo nella pulsazione vertiginosa del rosso sangue, densamente grumoso e atavico, che si rivela una ferita figurativa e metaforica. Talvolta
il rosso invade l’intera superficie di volti e corpi, esasperando la radice drammaturgica del tema pittorico. Altre volte torna per dettagli significanti, con linee o riquadri compatti, definendo un prologo o un raccordo, una fusione o una linea di confine. Un rosso dagli odori bruciati e ferrosi, sovraccarico di contenuti, così magmatico da sconfinare nel solido, fino a rendere la pittura un bassorilievo anomalo, una figurazione che spinge verso l’esterno, con quei volti che sembrano fuggire dal cuore del dramma, cercando ossigeno oltre il nero. Partirei da un quadro bianco, sorta di sindone misteriosa che ci osserva dal suo substrato archeologico, come se gli occhi e la bocca spuntassero da una pietra carsica che ha visto e registrato guerre, atti di pace, scene d’amore, bellezza e crudeltà nel corso dei secoli. Un volto che è fuori dal tempo storico, archetipo della pietas umana, incipit definitivo per l’arte di Casalino. Sembra l’inizio perfetto del suo viaggio pittorico: un osservatore etico che non parla ma capisce gli eventi, non attacca ma giudica in silenzio, registrando il mondo attraverso lo sguardo, nel silenzio francescano di una pietas dolente ma necessaria. Il volto si prende il centro dello scenario pittorico, sembra quasi avanzare verso la tela, spingendo con forza la trama e le materie. Facce urlanti o straziate, figlie di paura e violenza, facce che vibrano nel loro mutismo cavernoso, stravolte dall’orrore vissuto. Visi luciferini che hanno percepito il diavolo attorno a loro, nella disfatta del virtuosismo civile, nella caduta di qualsiasi ideale, nell’assurdo che governa le ragioni del potere. I volti di Casalino hanno assorbito il dolore sulla pelle, i loro occhi hanno ferite che sono solchi in cui scorre il sangue dei vinti. Sono davanti a noi, impressivi e catartici, degni della nostra pietas, del nostro accordo interiore. Chiedono di essere guardati: per comprendere il loro dramma avvenuto, per capire noi stessi e la nostra posizione davanti al dramma, aiutando ad alzare l’asticella del nostro coraggio, della nostra forza morale, del nostro collocarci dentro la rivoluzione interiore. Capita spesso che il volto si trasformi in una maschera, carnevalesca e ambigua, al confine tra il folklore di alcune tradizioni e la letteratura dei surrealismi magici. Ho pensato subito al belga James Ensor, grande artista nel solco di una scuola fiamminga dai simbolismi onirici. E’ stato il pittore delle maschere e degli scheletri, due archetipi tra satira e grottesco, due momenti in cui si sfida la morte, smascherando coloro che non sanno giocare con il doppio, l’ambiguo, il trasgressivo. Le maschere di Casalino sono merce rara nella pittura italiana, anche perché la nostra tradizione del Carnevale, unita alla cultura cattolica, produce un grottesco non sempre perfezionato, talvolta così comico da perdere l’effetto dissacrante che la satira possiede. Per il nostro artista c’è una coincidenza tra volti e maschere, quasi una fusione che amplifica il legame tra tragico e grottesco, realtà e finzione, amore e morte. Torna in luce il ruolo attivo di Roma nell’immaginario artistico: esiste una città italiana più carnevalesca e mascherata, più ambivalente e ambigua della Capitale? Altro archetipo immancabile è la figura femminile. La Donna spunta nella maggior parte dei quadri, ora con una centralità monolitica, ora nel campo lungo di una narrazione collettiva. Rinascita e salvezza passano comunque per Lei, per la vertigine erotica dello sguardo, per il sinuoso erotismo del corpo, per la morbidezza setosa dei capelli, per l’energia rigenerante di una nudità catartica. Casalino trova qui lo spazio alchemico della bellezza, unico antidoto al male che affligge l’umana specie. In un quadro verticale ci sono tre donne strette assieme, nude e amalgamate nelle loro forme tornite e invitanti: racchiudono la misura dello sguardo privato, della passione intima, della pulizia morale. Incarnano un dialogo muto dove il conflitto viene risolto con lo sguardo, l’abbraccio, la comprensione silenziosa delle anime vaganti. La Donna incarna la riconciliazione, l’armonia momentanea, il valore generativo, il nuovo inizio dopo ogni fine. La Donna riconcilia l’artista con una luce mercuriale, mistica, effettivamente rigenerante. Sembra dirci che ogni buio, anche il più arcaico, rinasce nella luce del mistero femminile. Il pathos cresce lungo la produzione, attraversa le opere con le loro storie, catalizza i nostri sguardi, ci trascina nella vertigine narrativa dei protagonisti. L’atmosfera è intensa, stratificata, bollente. Le storie figurative sono sguardi profondi che tagliano il buio, illuminando solo ciò che merita una carezza visiva o un conflitto muscolare. La vita è lotta, l’arte è lotta: e il quadro si trasforma nel campo di una battaglia sanguinosa eppure indimenticabile. Una sfida necessaria e ancora bellissima. Gianluca Marziani
PATHOS Gianluca Marziani Painting demands lucid discipline over daily life, a systematic exercise regime comprising seer-like vision, expressive energy and indispensable talent. Painting seriously and consistently is something akin to chanting a mantra for the muscles, involving all five senses in an interior vertigo with epiphanic effects. Let it be understood that it is not a question of quantity but rather quality of the moment of execution, which may be enclosed within just a few minutes of action (as is the case with Cy Twombly) or part of an extended practical approach (as in the case of Balthus, who spent months completing a single canvas). It all depends on the grammar of painting in addition to the journey the artist undertakes, the objectives and methods determining an individual’s personality and style. Mario Schifano, for example, painted at a staggering speed in the midst of domestic chaos, demonstrating his wild nature devoid of patience and intellectualism; an instinctive avalanche enveloping the world with its tendrils and liberating sketches. It goes without saying that painting must be viewed in relation to the life of its creator, to the context within which it originated and developed, to historic and human references, to the themes it deals with and to the nature of functional aesthetics. There is no such thing as a single method of action just as there is no single way to interpret an artwork: art itself implies multiplicity, the alteration of norms, an unexpected corner, sudden outbursts and deviations. Art reasons by means of a set of independent values, private rituals, interior obsessions. Any discussion of visual art implies the suspension of normality: every viewing represents both a rule and its exception, the artist becoming an archetype and his interior landscape transfigured into a world. His own, highly personal world. A world which the artist, through his work, offers to the outside. A true account of an exhibition starts with the geographical biography of the artist. This implies entering into areas inhabited by the soul, into the profound feelings and consciousness forming the underlay of daily life. It implies shining a bright light into the innermost chambers dictating the attitudes, nature, ethics and fervour of an individual with the lucid focus of creation. Paintings become temporary chapters in a chronology imbued with implications, cravings, experiences, decisions, mistakes, regrets, intuitions … within a painting’s DNA resides the compressed synthesis of a human life, an information code in which the discipline of daily life is transformed into a quality of the moment of execution. The story I wish to tell here is that of Elio Casalino. A man who, up until yesterday, conferred on his paintings a private existence, far from any sort of exhibition context. His home is (almost) entirely furnished with his artworks, scattered throughout the various spaces in a virtually camouflage-like exhibition, as if he only wanted them to be glimpsed at, offering no more than a shy suggestion. In his apartment, I came across the testament to his long relationship with painting; years of artistic passion dwelling within the confines of a well-established professional life, within one of those existences from which time is detracted with immense difficulty from workaday demands. Yet, as I said before, art lies in the quality of the moment of execution, a virtuous mix of method and discipline, an intimate question occupying the spaces it has won over, never the space of straightforward duty. Casalino exploits the night time to come face to face with his painting, him and his consciousness revealed in readiness to engage with his ghosts, shadows, memories, ideas, priorities; the pressing need of a theme to be dealt with and thrashed out. The painting is transformed into the nocturnal stage of a heart-breaking opera, a ravaged howl or a flight into the world of Eros, a dramatic twist of bodies or an interplay of carnivalesque impressions. Notice how all his works have a nocturnal, ghostly feel to them; the lights moulding artificial notes serving to exalt the bodies in the cavernous darkness. The gaze embodies that added light; the eye like a beacon facilitating the choice of focus in the world’s laboured breathing. Casalino paints at night, with the night, in the soul of the night: he absorbs the baroque roots of a Rome which, in the darkness, reveals its true self, a Rome redolent of the bloody memory of Scipione, Mario Mafai, Tano Festa … bandits and whores, heroic intellectuals and artists, writers and casting agents, politicians and politicos, a city situated somewhere between delirium and madness, heart-rending beauty and inborn decay … Rome has moulded Casalino’s mental climates, stabilized the coordinates of his light, regulated his linguistic and thematic dowry. Those astronomical blacks, lava-like reds, the alien white of personifications, the archaeological pastiness of matter, the expressive clarity of denuded skin: all of a sudden, Rome lowers its voice and allows the paintings to take the stand, staging yet another suspension of normality … the artist metabolizes the city, news items, cultural references, imagined and real experiences, love of the feminine … the artist offers no resistance against the compelling force which is Rome, on the contrary he embraces the rules of engagement and allows the city to flow through his work, letting the millennial power play its part and complete it.
The word in the title, PATHOS, runs through Casalino’s artistic output like a red thread, linking figurative and symbolic connections. Obviously, the most appropriate stitching should be reminiscent of a trail of fresh blood: no colour is more evocative when pondering the drama of great moral themes, when condemning - with tactile substance – violence, means of injuring and killing, injustice over the weak. The paintings in the catalogue direct the viewers’ gaze towards the spiralling throb of blood red, densely lumpy and atavistic, revealing itself as a figurative and metaphoric wound. At times, red takes over the entire surface of faces and bodies, exasperating the dramatic roots of the pictorial theme. At other times, it makes a return in the shape of insignificant details, in compact lines or squares, setting out either a prologue or a junction, a fusion or a boundary line. A ferruginous, burnt-smelling red, overloaded with content, so magma-like that it goes beyond the solid state to the point that it renders the painting an abnormal bas-relief, an outline pushing towards the outside, the faces seemingly escaping from the very heart of the drama, gasping for oxygen beyond the black. I would like to start with a white painting, a sort of mysterious shroud observing us from its archaeological substratum, as if the eyes and mouth have burst forth from a karstic stone which, over the centuries, has witnessed and recorded wars, acts of peace and scenes of love, beauty and cruelty. A face beyond historic time, an archetype of human pietas, the definitive first line of Casalino’s art. It would seem to be the perfect start for his pictorial journey: an ethical bystander who does not speak yet understands events, who does not attack but judges in silence, recording the world through its gaze, in a Franciscan silence of painful yet necessary pietas. The face occupies the centre of the pictorial field, seeming almost to advance towards the canvas, pushing forcibly against the weave and materials. Shouting or ravaged faces, daughters of fear and violence, faces that vibrate in their cavernous muteness, overwhelmed by the horror they have experienced. Luciferin faces that have perceived the devil in their midst, in the destruction of civil virtuosity, in the fall of all ideals, in the absurdity governing the reasons of power. Casalino’s faces have absorbed pain through the skin, their eyes having furrow-like sores through which the blood of the defeated runs. They are before us, imposing and cathartic, worthy of our pietas, of our inner consensus. They ask to be looked at, for their plight to be understood, for us to understand ourselves and our position in the face of that plight, helping them to raise the bar of our courage, our moral strength, our place within the interior revolution. It is frequently the case that the face mutates into a mask, carnivalesque and ambiguous, bordering between the folklore of certain traditions and the literature of magical surrealisms. For me, calling to mind James Ensor, that great Belgian artist in the groove of a Flemish school of dreamlike symbolisms. He was the painter of masks and skeletons, two archetypes lying somewhere between satire and the grotesque, two moments in which the gauntlet is laid down in the face of death, unmasking those unable to manipulate the double, the ambiguous, the transgressive. Casalino’s masks are a rare commodity in Italian painting, also in view of the fact that our carnival tradition, along with the catholic culture, produces a frequently unperfected form of the grotesque at times so comic as to lose the desecrating effect achievable through satire. In Casalino’s case, we see an overlap, almost a fusion, between faces and masks which amplifies the connection between the grotesque and tragic, reality and fiction, love and death. The active role played by the city of Rome in the artist’s imagination re-emerges here: is there any other city in Italy more carnivalesque and masked than the capital? Another unmissable archetype is the feminine figure. The Woman makes an appearance in the majority of his paintings, at times occupying a central position of monolithic proportion, at others as part of a wide shot of a collective narrative. Rebirth and salvation are both discharged through Her, through the erotic vertigo of her gaze, through the sinuous eroticism of her body, through the silky softness of her hair, through the rejuvenating energy of her cathartic nudity. It is here that Casalino finds the alchemic space of beauty, the only antidote against the evils afflicting the human species. A vertical painting depicts three women huddled together, naked and mingling in their twisting, inviting forms: they encapsulate the gauge of a private gaze, an intimate passion, moral cleansing. They embody a mute exchange in which conflict is resolved with a glance, an embrace, the silent understanding of wandering souls. The Woman is the embodiment of reconciliation, momentary harmony, generative worth, a new beginning after every end. The Woman reconciles the artist with a mercurial, mystic, substantively rejuvenating light. She seems to be telling us that every darkness, even the most archaic, is reborn in the light of the feminine mystery. Pathos grows through the production process, through the works and their stories, it catalyses our gaze, it drags us into the narrative giddiness of its protagonists. The atmosphere is intense, stratified, scorching. The figurative stories are like a piercing gaze cutting through the darkness, illuminating nothing more than that truly deserving a visual caress or muscular conflict. Life is a struggle: the painting is transformed into a bloody yet unforgettable battlefield. A necessary yet still beautiful challenge.
PATHOS Gianluca Marziani La peinture exige une discipline limpide du quotidien, un exercice méthodique fait de vision voyante, d’une énergie expressive et d’un talent nécessaire. Peindre avec sérieux et cohérence reste un mantra musculaire qui implique les cinq sens dans un tourbillon intérieur aux retombées épiphaniques. Que ce soit clair, on ne peut pas parler de quantité, mais de qualité du moment exécutif, que l’on peut résumer en quelques minutes d’action (comme dans le cas de Cy Twombly) ou dans une très longue approche pratique (comme dans le cas de Balthus qui mettait des mois pour réaliser une toile). Tout dépend de la grammaire picturale, ainsi que du parcours que l’artiste accomplit, de ses habitudes, des objectifs et des modes qui déterminent une personnalité et un style. Mario Schifano, par exemple, peignait à une vitesse vertigineuse, en plein chaos domestique, en montrant un naturel sauvage, sans patience et intellectualisme, une avalanche instinctive qui entoure un monde avec ses filaments et ses ébauches libératoires. Vous comprendrez bien que la peinture doit se référer à la vie de son auteur, au contexte d’origine et de développement, aux références historiques et humaines, aux thèmes affrontés, à la nature d’une esthétique fonctionnelle. Il n’existe pas une seule méthode d’action tout comme il n’existe pas une seule lecture de l’œuvre: l’art est une multiplicité, une altération de la norme, un angle non suspect, un écart et un déclic improviste. L’art résonne en fonction de valeurs autonomes, de rituels privés, d’obsessions intérieures. Une suspension de la normalité a lieu lorsqu’on parle d’art visuel: chaque vision représente la règle et son exception, l’artiste devient l’archétype et son intériorité se transforme en un monde. Son monde très personnel. Un monde que l’auteur extériorise à travers son œuvre La véritable histoire d’une exposition commence par la géographie biographique d’un artiste. Ceci signifie rentrer dans les zones de l’âme, dans les sentiments profonds, dans la conscience derrière le quotidien. Elle signifie éclairer les lieux intimes qui dessinent l’attitude, le naturel, l’éthique et les passions d’une personne avec le feu limpide de la création. Les tableaux deviennent des chapitres temporaires d’une chronologie qui entraînent avec soi des implications, des désirs, des expériences, des décisions, des erreurs, des regrets, des intuitions, …, l’ADN d’un tableau contient la synthèse comprimée d’une vie humaine, un code informatif où la discipline du quotidien se transforme en une qualité du moment exécutif. L’histoire que je veux vous raconter est celle d’Elio Casalino. Un homme qui, jusqu’à hier, offrait une existence privée à ses tableaux, loin des contextes d’exposition. La maison dans laquelle il vit est (quasi) entièrement décorée avec ses œuvres, éparpillées dans les pièces avec un aménagement mimétique, comme si on voulait les laisser entrevoir, en donner des traces timides. Dans son appartement, j’ai découvert les preuves d’une longue relation avec la peinture, des années de passion artistique au sein d’une vie de professionnel affirmé, dans une de ces existences où il n’est pas simple de soustraire le temps aux devoirs du métier. Mais comme je le disais auparavant, l’art est la qualité du moment de l’exécution, mélange vertueux de méthode et de discipline, une question intime qui occupe les espaces conquis, jamais les espaces du simple devoir. Casalino utilise la nuit pour se retrouver face à face avec le tableau, lui et sa conscience révélée par un dialogue avec ses propres fantômes, les ombres, les souvenirs, les idées, les priorités, l’urgence d’un thème à affronter et à épuiser. Le tableau se transforme en scène nocturne d’une lyrique poignante, un cri déchirant ou un vol dans le monde d’Eros, une torsion dramatique des corps ou un jeu d’apparences carnavalesques. Si vous faites bien attention, les œuvres dégagent des atmosphères nocturnes fantasmatiques, dont les lumières modèlent des notes artificielles qui exaltent les corps dans l’obscurité caverneuse. Le regard incarne cette lumière ajoutée: l’œil comme un phare pour choisir le focus dans la respiration haletante du monde. Casalino peint la nuit, avec la nuit dans l’âme de la nuit: il absorbe les racines baroques d’une Rome qui, dans l’obscurité, dévoile son véritable aspect, une Rome qui délivre la mémoire sanguine de Scipion, Mario Mafai, Tano Festa … une ville de prélats, de fantômes, de gens de robes et de corrompus, de bandits et de prostituées, d’intellectuels et d’artistes héroïques, d’acteurs et de metteurs en scène également héroïques, d’écrivains et de copistes, de politiciens et de politicards, une ville entre le délire et la folie, la beauté poignante et la décadence congénitale … Rome a façonné les atmosphères mentales de Casalino, a établi les coordonnées de sa lumière, a réglé son bagage linguistique et thématique. Ces noirs astronomiques, les rouges laviques, le blanc aliène des incarnats, la consistance pâteuse archéologique de la matière, les clartés expressives de la peau dénudée: à l’improviste, Rome baisse le ton pour laisser la scène aux tableaux, en mettant en scène l’énième suspension de la normalité quotidienne … l’artiste métabolise la ville, la chronique, les références culturelles, les expériences imaginées et vécues, l’amour pour la femme … l’artiste ne résiste pas à la force dominante de Rome, au contraire, il accepte les règles d’engagement et fait défiler la ville dans les œuvres, en laissant la puissance millénaire réciter le rôle qui lui incombe. Le mot du titre, PATHOS, traverse la production de Casalino comme un fil conducteur qui trace les liaisons figuratives
et symboliques. Il est presque évident que le lien idéal rappelle une traînée de sang vif: il n’existe pas de couleur plus évocatrice pour raisonner sur la dramaturgie des grands thèmes moraux, pour critiquer avec une épaisseur tactile, la violence, les modes de blesser et de tuer, l’injustice vis-à-vis des plus faibles. Les tableaux dans le catalogue introduisent le regard dans la pulsation vertigineuse du rouge sang, très grumeleux et atavique, qui se révèle une blessure figurative et métaphorique. Parfois, le rouge envahit toute la surface de visages et de corps, en exacerbant la racine dramaturgique du thème pictural. D’autres fois, il revient pour des détails importants, avec des lignes ou des carrés compacts, en définissant un prologue ou un raccord, une fusion ou une ligne de frontière. Un rouge aux odeurs brûlées et ferreuses, surchargé de contenus, magmatique au point de déborder dans le solide, jusqu’à faire en sorte que la peinture devienne un bas-relief anormal, une figuration qui pousse vers l’extérieur, avec ces visages qui semblent fuir du cœur du drame, en cherchant l’oxygène au-delà du noir. Je partirais donc d’un tableau blanc, une sorte de suaire mystérieux qui nous observe à partir de son substrat archéologique, comme si les yeux et la bouche surgissent d’une pierre karstique qui a vu et enregistré des guerres, des actes de paix, des scènes d’amour, la beauté et la cruauté au cours des siècles. Un visage qui est en dehors du temps historique, archétype de la pitié humaine, incipit définitif pour l’art de Casalino. On dirait le début parfait de son voyage pictural: un observateur éthique qui ne parle pas, mais qui comprend les événements, il n’attaque pas, mais juge en silence, en enregistrant le monde à travers le regard, dans le silence franciscain d’une pitié douloureuse, mais nécessaire. Le visage se trouve au centre de la scène picturale, il semble presque avancer vers la toile, en poussant la trame et les matières avec force. Des visages hurlants ou déchirants, enfantés par peur et la violence, des visages qui vibrent dans leur mutisme caverneux, bouleversés par l’horreur vécue. Des visages lucifériens qui ont aperçu le diable autour d’eux, dans la défaite de la virtuosité civile, dans la perte de tout idéal, dans l’absurde qui gouverne les raisons du pouvoir. Les visages de Casalino ont absorbé la douleur sur la peau, leurs yeux ont des blessures qui sont des sillons dans lesquels coulent le sang des vaincus. Ils sont devant nous, impressifs et cathartiques, dignes de notre pitié, de notre accord intérieur. Ils demandent à être regardés: pour comprendre leur drame qu’ils ont vécu, pour nous comprendre nous-même et notre position face le drame, en aidant à lever le niveau de notre courage, de notre force morale, de notre place dans la révolution intérieure. Il arrive souvent que le visage se transforme en un masque ambigu carnavalesque, à la frontière entre le folklore de certaines traditions et la littérature des surréalismes magiques. J’ai immédiatement pensé au belge James Ensor, grand artiste dans la lignée d’une école flamande des symbolismes oniriques. Il a été le peintre des masques et des squelettes, deux archétypes entre satire et grotesque, deux moments où il défie la mort, en démasquant ceux qui ne savent pas jouer avec le double, l’ambigu, la transgression. Les masques de Casalino sont une marchandise rare dans la peinture italienne, car notre tradition liée au Carnaval, unie à la culture catholique, produit un effet grotesque pas toujours perfectionné, souvent si comique qu’il perd l’effet désacralisant que la satire possède. Pour notre artiste, il y a une coïncidence entre les visages et les masques, presqu’une fusion qui amplifie le lien entre le tragique et le grotesque, la réalité et la fiction, l’amour et la mort. Le rôle actif de Rome revient en force dans l’imaginaire artistique: existe-t-il une ville italienne plus carnavalesque et masquée, plus ambivalente et ambigüe que la Capitale? La figure féminine est un autre archétype immanquable. La Femme apparaît dans la plupart des tableaux, parfois, avec une position centrale monolithique, d’autres fois, le long d’une narration collective. La renaissance et le salut passent de toute manière par elle, pour la beauté érotique du regard, pour l’érotisme sinueux de son corps, pour le soyeux de ses cheveux, pour l’énergie régénératrice d’une nudité cathartique. Casalino trouve ici l’espace alchimique de la beauté, seul antidote au mal qui touche l’espèce humaine. Dans un tableau vertical, il y a trois femmes serrés les unes aux autres, nues et mélangées dans leurs formes galbées et invitantes: elles renferment la mesure du regard privé, de la passion intime, de la pureté morale. Elles incarnent un dialogue muet où le conflit est résolu avec le regard, l’embrassade, la compréhension silencieuse des âmes errantes. La Femme incarne la réconciliation, l’harmonie momentanée, la valeur générative, le recommencement après chaque fin. La Femme réconcilie l’artiste avec une lumière mercurielle, mystique, effectivement régénératrice. On dirait qu’elle nous dit que chaque obscurité, même la plus archaïque, renaît dans la lumière du mystère féminin. Le pathos croît le long de la production, à travers les œuvres avec leurs histoires, il catalyse nos regards, nous entraîne dans le tourbillon narratif des protagonistes. L’atmosphère est intense, stratifiée, bouillante. Les histoires figuratives sont des regards profonds qui coupent l’obscurité, en éclairant uniquement ce qui mérite une caresse visuelle ou un conflit musculaire. La vie est une lutte, l’art est une lutte: et le tableau se transforme en un champ de bataille sanglante et inoubliable. Un défi nécessaire et encore très beau. Gianluca Marziani
DIALOGO SULLA PITTURA Francesca Carol Rolla e Elio Casalino Per te parola è libertà, dici che il mare è il tuo specchio e che l’arte è lo spazio dell’anima. Nella libertà si esprime ciò che si è davvero, si assume la responsabilità delle decisioni prese. Dici che libertà è nascita e dominio di sé. Ma accettare la libertà significa altrettanto sapere che non vi sono certezze, perché il confine è l’orizzonte. Libertà è per me altresì partecipazione, ma non è sempre facile sostenere il peso del sé liberato. Com’è possibile, attraverso l’arte, agire in nome di una libertà plurale? Libertà è possibilità di essere e mi muovo nel tempo cercando di interpretarlo. Contemplo la mia anima e dal mare mi volgo all’infinito dell’orizzonte. Gli episodi che hanno costituito la mia vita sono la materia attraverso cui la pittura prende forma e le emozioni scandiscono la mia relazione al tempo. Sulla tela proietto forme, odori, sensazioni, colori. Sento tutte le direzioni appartenermi. E’ il mistero del non sapere cosa apparirà, qualcosa di molto istintivo. Mi lascio trasportare, non resisto. Mi avvicino alla tela senza una meta precisa. Riconosco il punto dove ombre e colori si proiettano ed è lì che l’esperienza si apre. Ci sono pittori che abitano la tela per arrivare a esprimere ciò che la parola è costretta a lasciare sulla soglia delle frasi. Secondo quello che dici, mi sembra che per te la pittura rappresenti la possibilità di non rispondere alla logica della mente, ma di integrarti e riflettere sul mondo, di ripensare alle cose nel piacere e nella necessità. Ciò che vorrei dipingere è lo spazio dell’anima. I miei quadri, Aborto, Evoluzioni amorose, Vitriol, Atanor, ad esempio, sono indicazione di un passaggio attraverso un muro invisibile, dove la materia s’impasta con l’immaginazione. Le mani lavorano e l’azione è diretta. Non dipingo le cose. Cerco di intingere il pennello nell’anima ed ogni quadro è il risultato di un’emozione che attraversa la materia e nel colore si proietta. I colori sono un potente mezzo per far vibrare l’anima. Il tuo rosso non esisterebbe se non ti fossi servito del bianco e del nero. Dici che cerchi di restituire la pienezza attraverso i contrasti. Cerchi di essere libero, ma intravedo un limite nella tua pittura: non resisti davanti alla rappresentazione e alla forma, da cui invece dici di volerti liberare in nome di una libertà più grande. Pensi che sia possibile riuscire a rinunciare all’imitazione della natura, a uscire dalle forme di riferimento, dalla classicità, per aprirci veramente all’indifferenziato, per dipingere l’emozione risvegliata della relazione misteriosa tra sé e il quadro? Il rosso è l’espressione esteriore del mio essere, rappresenta il contrasto per eccellenza, la passione, il movimento, e si unisce al bianco per dialogare con la fragilità della carta. La carta si modella con facilità e il nero copre la tela così come la notte si apre al giorno. Proietto nei colori tutto ciò che lungo la strada ho visto e accumulato, un processo di evoluzione interiore, d’individuazione del sé e di apertura al mondo. Ma prima e dopo i colori, ci sono la luce e l’ombra e questi non hanno forma. Così cerchi la grande luce e la grande ombra, e nella continua trasformazione delle forme ti accompagna la necessità di rappresentare gli esseri che vivono, amano, soffrono, sentono. Perché allora ti ostini a ricorrere ad una forma ancora troppo intrisa di tradizione, classicismo e figurazione? Sono consapevole delle mie contraddizioni, ma per questo continuo a cercare la funzione trascendente nel movimento dinamico degli opposti. Dipingere per me è un processo alchemico, e si comincia pur sempre da qualcosa. Vivo il quadro come un arrivo e una partenza, dove gli elementi e le forme mi permettono di individuare e di riconoscere ciò che cerco. A quale età si osserva meglio la luce? Verrà forse un tempo in cui non avremo più paura del buio? La luce si da di per sé e mai si risparmia, ma allo stesso tempo, ovunque io vada, tremo nel mio sguardo sapendo dell’enorme sforzo che questa luce realizza nel manifestarsi. La pittura per me, massimo della forma, è la sfida dell’umano. Dipingo perché intimamente sento che è un processo
di purificazione. Ed è nella notte, nell’atto di creazione, che pulisco l’anima. La notte è il tempo del contatto e dell’interiorità, della sacralità e del silenzio. E un atto di vita, per te, la pittura? Sì, assolutamente. Il tempo del buio. Ascoltare e imparare dal silenzio significa lasciarsi andare ad una dimensione che si rivela solo a chi cerca. Mi sembra che l’uomo, oggi, abbia voltato le spalle al silenzio. Eppure la natura cresce e si muove nel silenzio e questo mi sembra un grande insegnamento. Il silenzio è meditazione, correttezza, capacità d’introspezione e riflessione. Il silenzio è una condizione indispensabile, per assorbire, valutare, meditare. Ma in certi contesti, silenzio è anche non poter ribattere, non contrastare, non potersi aprire al colloquio. Prima di parlare si deve saper quello che si vuole dire. E il silenzio tocca il sapere nella misura della sua intrinseca disponibilità all’apprendimento. Il silenzio è forza, o meglio, acquisizione di forza. Più forte è colui che fa del silenzio il suo potere e la sua arma. “Ora, le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio. Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere.”, Franz Kafka, Il Silenzio delle sirene, 1917. Silenzio e tolleranza. Tolleranza è forza, non debolezza, e solo chi è forte può essere tollerante perché ha capacità di comprendere e accettare; e quindi di vivere e non cedere. Pensi che la contemporaneità sia oggi nel silenzio o nella parola? Penso che avremmo bisogno di maggior silenzio. La pittura esige silenzio. Perciò il mio tempo è la notte. Quando sei di fronte alla tela, cosa vedi? Mi sembra di capire che per te il silenzio è il vero tempo dell’anima, un tempo segreto. Lo osservi, lo vedi. Ma è difficile esprimere qualcosa che abbia la stessa portata del silenzio. E allora intuisco che nelle tue tele nascondi dei segreti. Quando sono di fronte alle mie opere, riprovo le emozioni che hanno motivato il mio disegno. Risuonano queste nel mio corpo e si cristallizzano nella forma e nella pittura. Quando dipingo sento la relazione tra me e il tutto, e per questo inserisco alcuni particolari nascosti. Sono questi particolari visibili o invisibili? Alcuni visibili, altri no. Il tuo rapporto verso il femminile. Nei tuoi quadri la presenza della donna è preponderante. (ride) Il mio rapporto verso il femminile è di odio e amore. Il mondo femminile mi affascina enormemente: la donna è forza, onestà e purezza. Ma, a partire dalla mia esperienza, ho sempre avuto paura di quei rapporti che si articolano su un legame di dipendenza, di prevaricazione. Ho sempre temuto il bisogno di legarsi; diffido da chi cerca di soffocare la libertà dell’altro. Allo stesso tempo, riconosco che l’uomo spesso è debole. Forse per un complesso ancestrale d’inferiorità rispetto alla donna, perché la donna è madre e da la vita. E come se l’uomo non fosse riuscito a ricomporre quell’unità che ognuno di noi ha dentro, ma che simbolicamente si è persa con la caduta edenica dal paradiso terrestre. Ma mentre la donna, per sua natura, è in grado di ricomporre questa spaccatura, l’uomo ha più difficoltà a relazionarsi al tutto. Cos’è per te bellezza?
Bellezza sono gli occhi. Hai dipinto pochissimi occhi nei tuoi lavori. L’occhio è lo specchio dell’anima, e per questo è difficile definirlo. Che cosa significa essere contemporanei? E qual è la responsabilità che abbiamo in quanto contemporanei? Essere contemporanei significa cercare di capire l’evoluzione del mondo e anticiparla. Anticipare il tempo, superando la percezione statica che si ha del presente. Contemporaneo è colui che guarda al futuro e così anche l’arte deve prefigurarsi. L’arte deve lanciare un ponte ed esprimere la complessità del mondo attraverso un linguaggio semplice e diretto, il che non è sempre facile. Ecco perché il rischio è quello di chiudersi nel proprio mondo, parlando a sé stessi o a pochi eletti. Il filosofo Giorgio Agamben afferma che contemporaneo è colui che appartiene al suo tempo, ma che a questo non coincide perfettamente. Forse è proprio questo anacronismo, la capacità di distanziarsi dal tempo, di ricevere il futuro, a permettere di leggere in maniera diversa il momento presente. Personalmente trovo sia questo lo sforzo da fare, la responsabilità che ci appartiene. Colui che sa vedere l’oscurità del proprio tempo, e non solo la luce, è il vero contemporaneo, afferma Agamben in una seconda definizione rispetto alla contemporaneità. Ora, se tu dici che per te l’arte è un mezzo per curare l’anima e il suo tempo, mi viene spontaneo chiederti da cosa si dovrebbe guarire. (silenzio) Questa è una bella domanda, la più difficile. (silenzio) In Lettere a un giovane poeta, il giovane Kappus si rivolge a Reiner Maria Rilke, tra il 1903 e il 1908, per avere il suo parere riguardo i suoi versi. “La maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura”. Questa corrispondenza rivela quanto per Rilke scrivere sia un atto di vita, di ascolto e di necessità. Vorrei dunque chiederti, Elio, se per te la pittura risponde a un parametro di vera necessità, un’esigenza assoluta che ha la capacità di mutare e di indirizzare la vita intera. Dipingere per me è respirare, è rinnovamento, è morte e rinascita, è l’Ouroboros, è pulizia dell’anima, è ricerca continua, è processo alchemico! Francesca Carol Rolla e Elio Casalino, Roma, studio d’artista, marzo 2016. Intervista di Francesca Carol Rolla Independent Curator of Contemporary Art Ecole Doctorale des Humanités, Université de Stasbourg
DIALOGUE ON PAINTINGS Francesca Carol Rolla and Elio Casalino For you, words are freedom, you say that the sea is your mirror and art is a space within the soul. When we are free, we are able to express our true selves and take responsibility for decisions we make. You say that freedom is birth and self-possession. Yet accepting freedom also implies an awareness of the fact that there are no certainties, since the boundary lies on the horizon. To my mind, freedom also means participation, but it is not always easy to bear the burden of the liberated self. How is it possible, through art, to act in the name of a plural freedom? Freedom implies the possibility of being and I move through time seeking to interpret just that. I contemplate my soul and, from the sea, I turn to the infinity that is the horizon. The episodes which have gone into making up my life are the matter through which my painting takes shape and emotions mark the beat of my relations with time. I project forms, smells, sensations, colours onto my canvas. I feel all directions as belonging to me. It is the mystery of never knowing exactly what will appear, it is something highly instinctive. I simply allow myself to be transported, I offer no resistance. I approach the canvas without a specific destination in mind. I see the point where shade and colour are projected and it is where the experience begins. There are painters who inhabit the canvas in order to express that which words are forced to leave behind on the threshold of sentences. According to what you say, it seems to me that, in your view, painting offers us the chance to simply not respond to the mind’s logic, but rather to become one with it and reflect upon the world at large, to rethink things as pleasure and necessity dictate. What I set out to paint is the space existing within the soul. My paintings, for example Aborto, Evoluzioni amorose, Vitriol, Atanor, are an outward indication of a journey through an invisible wall, where matter blends with imagination. My hands work and the action is direct. I don’t paint things. I try to dip my brush into the soul and every painting is the result of an emotion which is then projected through matter and colour. Colour is a powerful vehicle capable of making the soul vibrate. Your red would be as nothing if it weren’t also for your white and black. You say that you seek to achieve fullness through contrasts. You try to be free, but I detect a certain limitation to your painting: you are unable to hold out against representation and form, which you say you wish to free yourself from in the name of a greater freedom. Do you believe it is possible to renounce an imitation of nature, to turn your back on forms of reference and classicality, in order to open oneself fully to the non-differentiated, to paint that emotion awoken by the mysterious relationship existing between oneself and the painting? Red is the external expression of my being, it is the representation of contrast par excellence – passion, movement, combining with white while entering into discourse with the fragile nature of paper. Paper can be easily shaped and black covers the canvas in the same way that night opens onto day. In the colours, I project everything that I have seen and accumulated along the way; it is a process of personal growth and development, the identification of oneself and the act of opening oneself to the world. But before and after colours there is light and shade, and these have no form. So, you’re looking for the great light and the great shade, and in your ongoing transformation of forms you are accompanied by the need to represent beings which live, love, suffer, feel. Why then do you persist in returning to a form which remains so imbued with tradition, classicism and figuration? I am aware of the contradictions in my work, and that is why I continue in my search for the transcendent function in the dynamic movement of opposites. Painting for me is a process of alchemy, and everything has to start somewhere. I experience the painting as both a destination and a point of departure, where elements and forms allow me to identify and acknowledge whatever it is I am searching for. At what age do you think we are best equipped to observe light? Do you think a time will come when we are no longer afraid of the dark? Light gives of itself freely, never holding back, yet at the same time, wherever I go, I tremble as I
look around me, aware of the enormous effort light exerts in manifesting itself. Painting for me, in its highest form, represents the challenge for humankind. I paint because, in my innermost being, I experience it as a form of purification. And it is at night, during the act of creation itself, that I cleanse my soul. Night is a time for getting in contact with our innermost selves, a time for sacredness and silence. Is painting an act of life, then, for you? Yes, absolutely. The time of darkness. Listening to and learning from silence implies letting oneself go into a realm which only reveals itself to those who search for it. It seems to me that nowadays, humankind has turned its back on silence. And yet nature grows and moves in silence, which seems to me a great teaching. Silence is meditation, rightness, the capacity for introspection and reflection. Silence is a necessary requisite for absorbing, assessing, meditating. But in some circumstances, silence also implies an inability to answer back, to contradict, to be receptive to dialogue. Before speaking, we should know what it is we want to say. And silence comes into contact with knowledge in terms of its intrinsic willingness to learn. Silence is strength or, better still, the achievement of strength. Stronger is he who makes silence his strength and weapon. “Now the Sirens have a still more fatal weapon than their song, namely their silence. And though admittedly such a thing has never happened, still it is conceivable that someone might possibly have escaped from their singing; but from their silence certainly never. Against the feeling of having triumphed over them by one’s own strength, and the consequent exaltation that bears down everything before it, no earthly powers could have remained intact.” Franz Kafka, The Silence of the Sirens, 1917. Silence and tolerance, not weakness, and only the strong can be tolerant as this also requires the ability to understand and accept; to live and not cede. Nowadays, do you believe that contemporaneity lies in silence or in words? I believe we will need more silence. Painting demands silence. For this reason, night time is my time. When you stand before a canvas, what do you see? You have led me to understand that, for you, silence is the true temple of the soul, secret time. You observe it, you see it. Yet it is no easy task portraying something of the magnitude of silence. And so I have the feeling that, in your paintings you are hiding something, keeping secrets. When I stand in front of one my works, it generates within me the same emotions which initially motivated the painting. These sensations resonate again through my body, crystalizing in forms and painting. When I paint, I am aware of the relationship between myself and everything else around me, and it is for this reason that I include some hidden details. Are these details visible or invisible? Some are visible, others not. Now, your relationship with the feminine. The presence of woman in your paintings plays a predominant role. (laughs) My relationship with the feminine is one of love and hate. I am fascinated by the feminine world; womanhood represents strength, honesty, purity. But, in terms of my own experience, I have always feared the type of relationships which are underpinned by dependency and abuse. I have always feared the need to get tied down; I am wary of anyone trying to curtail another person’s freedom. Yet at the same time I acknowledge that, at times, man can be weak.
Possibly owing to an age-old inferiority complex he has towards woman, since womanhood is also motherhood and the source of all life. It is as though man were unable to recompose that single unit that each of us has within but which, symbolically, was lost at our fall from Eden and expulsion from earthly paradise. But while woman by virtue of her nature is able to heal this fissure, man on the other hand encounters more difficulties in relating to the world around him. In your opinion, what is beauty? Beauty is eyes. You have painted very few eyes in your work. Eyes are the window of the soul and, for that reason, they are difficult to define. What does it mean to be contemporary? And what, being contemporary, are we accountable for? Being contemporary implies seeking to understand the way the world is evolving and keeping one step ahead of it. Keeping ahead of time, going beyond the static perception we have of the present. Someone who is contemporary looks to the future and likewise, art also has to be envisaged in the same way. Art must launch a bridge, expressing the complexity of the world using simple, direct language – something which is not always easy. Which is why we run the risk of closing in on ourselves, communicating only with ourselves or a select few. The philosopher Giorgio Agamben claims that to be contemporary, one must be of one’s time yet simultaneously not coincide with it perfectly. It may be this anachronism, this ability to distance oneself from time, to be open to the future, which allows one to interpret the present moment in a slightly different key. Personally, this is where I believe we need to engage our efforts, this is what I believe we need to be held accountable for. Whoever is able to perceive the darkness, not only the light, in his own time, is truly contemporary – Agamben claims in another definition of contemporaneity. Now, if you say that art is a means to heal the soul and its time, it only follows that I should ask you what you believe it needs to be healed from. (silence) That’s a good question, the most difficult. (silence) In Letters to a Young Poet, young Kappus turns to Reiner Maria Rilke, between 1903 and 1908, asking his opinion on some of his verses. “Most happenings are beyond expression; they exist where a word never intruded. Even more inexpressible are works of art; mysterious entities they are, whose lives, compared to our fleeting ones, endure.” In this correspondence, it is clear that for Rilke, writing is an act of life, of listening and of necessity. I would therefore like to ask you, Elio, if you believe that painting responds to parameters of pure necessity, an absolute demand capable of mutating and guiding an entire life. Painting for me is breathing, it is renewal, it is death and rebirth, it is the ouroboros, it is the cleansing of the soul, it is continual study, it is alchemy! Francesca Carol Rolla and Elio Casalino, Rome, the artist’s studio, March 2016. Interview by Francesca Carol Rolla Independent Curator of Contemporary Art Ecole Doctorale des Humanités, Université de Stasbourg
DIALOGUE SUR LA PEINTURE Francesca Carol Rolla et Elio Casalino Pour vous, la parole est liberté, vous dites que la mer est votre miroir et que l’art est l’espace de l’âme. Dans la liberté, on exprime ce qui est vrai, on assume la responsabilité des décisions prises. Vous dites que la liberté est la naissance et la maîtrise de soi. Mais accepter la liberté signifie aussi savoir qu’il n’y a pas de certitudes, car la ligne de l’horizon, c’est la frontière. Pour moi, la liberté est également la participation, mais il n’est pas toujours facile de soutenir le poids de sa propre liberté. Comment est-il possible d’agir à travers l’art au nom d’une liberté plurielle ? La liberté est la possibilité d’être et je me déplace dans le temps en essayant de l’interpréter. Je contemple mon âme et à partir de la mer, je me tourne vers l’infini de l’horizon. Les épisodes qui ont constitué ma vie sont la matière à travers laquelle la peinture prend forme et les émotions marquent ma relation par rapport au temps. Je projette les formes, les odeurs, les sensations et les couleurs sur la toile. Je sens que toutes les directions m’appartiennent. C’est le mystère de ne pas savoir ce qui apparaîtra, quelque chose de très instinctif. Je me laisse transporter, je ne résiste pas. Je m’approche de la toile sans un but précis. Je reconnais le point où les ombres et les couleurs se projettent et c’est là que l’expérience commence. Il y a beaucoup de peintres qui vivent la toile pour arriver à exprimer ce que la parole est obligée à laisser sur le seuil des phrases. Par rapport à ce que vous dites, il me semble que pour vous, la peinture représente la possibilité de ne pas répondre à la logique de l’esprit, mais de vous intégrer et dans le monde et d’y réfléchir, de repenser aux choses dans le plaisir et dans la nécessité. Ce que je voudrais peindre est l’espace de l’âme. Mes tableaux, Aborto, Evoluzioni amorose, Vitriol, Atanor, par exemple, sont l’indication d’un passage à travers un mur invisible, où la matière se mélange à l’imagination. Les mains travaillent et l’action est directe. Je ne peins pas les choses. J’essaye de plonger mon pinceau dans l’âme et chaque tableau est le résultat d’une émotion qui traverse la matière et se projette dans la couleur. Les couleurs sont un moyen puissant pour faire vibrer l’âme. Votre rouge n’existerait pas si vous ne n’aviez pas utilisé le blanc et le noir. Vous dites que vous essayez de restituer la plénitude à travers les contrastes. Vous essayez d’être libre, mais vous entrevoyez une limite dans votre peinture: vous ne résistez pas devant la représentation et la forme, desquelles d’ailleurs vous voulez vous libérer au nom d’une plus grande liberté. Vous pensez qu’il est possible de réussir à renoncer à l’imitation de la nature, à sortir des formes de référence, du classicisme, pour nous ouvrir vraiment sur l’indifférencié, pour peindre l’émotion réveillée de la relation mystérieuse entre soi et le tableau? Le rouge est l’expression extérieure de mon être, il représente le contraste, la passion, le mouvement et s’unit au blanc pour dialoguer avec la fragilité du papier. Le papier se modèle facilement et le noir couvre la toile comme la nuit fait place au jour. Je projette dans les couleurs tout ce que j’ai vu le long de la route et que j’ai accumulé, un processus d’évolution intérieure, d’identification de soi et d’ouverture au monde. Mais avant et après les couleurs, il y a la lumière et l’ombre et ceux-ci n’ont pas de forme. C’est ainsi que vous cherchez la grande lumière et la grande ombre, et la transformation continuelle des formes est accompagnée par la nécessité de représenter les êtres qui vivent, aiment, souffrent et entendent. Pourquoi alors vous obstinez-vous à recourir à une forme encore trop imprégnée de tradition, de classicisme et de figuration? Je suis conscient de mes contradictions et c’est pour cela que je continue à chercher la fonction transcendante dans le mouvement dynamique des opposés. Pour moi, peindre est un processus alchimique et on commence toujours par quelque chose. Je vis le tableau comme une arrivée et un départ, où les éléments et les formes me permettent de déterminer et de reconnaître ce que je cherche. A quel âge observe-t-on mieux la lumière? Il arrivera le moment où nous n’aurons plus peur du noir ? La lumière est partout et ne se ménage jamais, mais en même temps, partout où je vais, je tremble en voyant l’effort énorme que la
lumière fait en se manifestant. La peinture est pour moi, le maximum de la forme et est le défi de l’homme. Je peins, car intimement je ressens qu’il s’agit d’un processus de purification. Et c’est pendant la nuit, au moment de la création, que je nettoie l’âme. La nuit est le temps du contact et de l’intériorité, du caractère sacré et du silence. La peinture est-elle pour vous un acte de vie? Oui, absolument. Le temps de l’obscurité. Ecouter et apprendre à partir du silence, signifie se laisser aller vers une dimension qui se révèle seulement à celui qui la cherche. Il me semble qu’aujourd’hui, l’homme a tourné le dos au silence. Et pourtant, la nature grandit et se déplace en silence et il me semble que ceci est un grand enseignement. Le silence est méditation, exactitude, capacité d’introspection et de réflexion. Le silence est une condition indispensable pour absorber, évaluer, méditer. Mais dans certains contextes, le silence est aussi ne pas pouvoir insister, ne pas contraster, ne pas pouvoir s’ouvrir au dialogue. Avant de parler, il faut savoir ce que l’on veut dire. Et le silence touche la connaissance dans la mesure de sa disponibilité intrinsèque à l’apprentissage. Le silence est force ou, mieux, l’acquisition de la force. Celui qui fait du silence son pouvoir et son arme est d’autant plus fort. “Or, les Sirènes possèdent une arme plus terrible encore que leur chant, et c’est leur silence. Il est peut-être concevable, quoique cela ne soit pas arrivé, que quelqu’un ait pu échapper à leur chant, mais sûrement pas à leur silence. Au sentiment de les avoir vaincues par sa propre force et à l’orgueil violent qui en résulte, rien de terrestre ne saurait résister.”, Franz Kafka, Le Silence des sirènes, 1917. Silence et tolérance. La tolérance est une force, pas une faiblesse. Et seulement celui qui est plus fort, peut être tolérant, car il a la capacité de comprendre et d’accepter; et donc de vivre et de ne pas céder. Pensez-vous que la contemporanéité existe aujourd’hui dans le silence ou dans la parole? Je pense que nous aurions besoin de plus de silence. La peinture exige le silence. Et donc, mon temps est la nuit. Lorsque vous êtes en face de la toile, que voyez-vous? Il me semble comprendre que pour vous le silence est le véritable temps de l’âme, un temps secret. Vous l’observez, le voyez. Mais il est difficile d’exprimer quelque chose ayant la même portée que le silence. Et alors, j’ai l’impression que dans les toiles vous cachez des secrets. Lorsque je suis en face de mes œuvres, je ressens les émotions qui ont motivé mon dessin. Elles résonnent dans mon corps et se cristallisent dans la forme et dans la peinture. Quand je peins, je sens la relation entre moi et le tout et c’est pour cela que j’insère quelques détails cachés. Ceux-ci sont-ils des détails visibles ou invisibles? Certains sont visibles, d’autres non. Quel est votre rapport vis-à-vis de la femme ? Dans vos tableaux, la présence de la femme est prépondérante. (Rires) Mon rapport vis-à-vis de la femme est un rapport d’amour et de haine. Le monde féminin me fascine énormément: la femme représente la force, l’honnêteté et la pureté. Mais d’après mon expérience, j’ai toujours eu peur de ces relations qui s’articulent sur un lien de dépendance, de prévarication. J’ai toujours crains le besoin de me lier; je méfie de celui qui essaye d’étouffer la liberté de l’autre. En même temps, je reconnais que l’homme est souvent faible. Peut-être à cause d’un complexe ancestral d’infériorité par rapport à la femme, car la femme est mère et donne la vie. C’est comme si l’homme n’était pas parvenu à récompenser cette unité que chacun de nous possède, mais qui s’est
perdue symboliquement avec la chute édénique du paradis terrestre. Alors que la femme, de par sa nature, est en mesure de recomposer cette division, l’homme a plus de difficulté à se mettre en relation avec le tout. Que représente la beauté pour vous? Les yeux sont la beauté. Vous avez peint très peu d’yeux dans vos œuvres. L’œil est le miroir de l’âme et c’est pourquoi il est très difficile de le définir. Que signifie pour vous être contemporain? Et quelle est la responsabilité que nous avons en tant que contemporains? Etre contemporains signifie essayer de comprendre l’évolution du monde et la devancer. Devancer le temps, en dépassant la perception statique que l’on a du présent. Celui qui regarde vers le futur est contemporain, tout comme l’art. L’art doit lancer un pont et exprimer la complexité du monde à travers un langage simple et direct, ce qui n’est pas toujours facile. Voilà pourquoi le risque est celui de se renfermer dans son propre monde, en soliloquant ou en parlant à peu d’élu. Le philosophe Giorgio Agamben affirme que Celui qui appartient véritablement à son temps, le vrai contemporain, est celui qui ne coïncide pas parfaitement avec lui. C’est peut-être cet anachronisme, la capacité de s’éloigner du temps, de recevoir le futur, qui permet de lire le moment présent d’une manière différente. Personnellement, je trouve qu’il s’agit là d’un effort à faire, une responsabilité qui nous incombe. Celui qui sait voir l’obscurité de son propre temps et pas seulement la lumière, est le véritable contemporain, affirme Agamben dans une deuxième définition par rapport à la contemporanéité. Maintenant, si vous dites que pour vous l’art est un moyen pour soigner l’âme et son temps, il me vient spontanément l’envie de vous demander de quoi devrions-nous guérir ? (Silence) Cette une très belle question, la plus difficile. (Silence) Dans Lettres à un jeune poète, le jeune Kappus s’adresse à Rainer Maria Rilke, entre 1903 et 1908, pour avoir son avis en ce qui concerne ses poèmes. “La plupart des événements sont indicibles, ils s’accomplissent dans un espace qu’aucune parole n’a jamais franchi et les œuvres d’art, les existences mystérieuses, dont la vie, aux côtés de la nôtre qui s’éteint, perdure, sont les plus indicibles dans l’absolu”. Cette correspondance révèle que pour Rilke écrire représente un acte de vie, d’écoute et de nécessité. Je voudrais donc vous demander, Elio, si pour vous, la peinture répond à un paramètre de véritable nécessité, une exigence absolue ayant la capacité de changer et de diriger la vie entière ? Peindre est pour moi comme respirer, c’est le renouveau, c’est la mort et la renaissance, c’est l’Ouroboros, c’est le nettoyage de l’âme, c’est la recherche continuelle, c’est un processus alchimique! Francesca Carol Rolla et Elio Casalino, Rome, Atelier d’artiste, mars 2016. Interview de Francesca Carol Rolla Independent Curator of Contemporary Art Ecole Doctorale des Humanités, Université de Stasbourg
OPERE
OUROBOROS 2017. Olio su tela e materia. 150x150 cm.
NATIVITÀ 2017. Olio su tela e materia. 150x100 cm.
MONDI PARALLELI 2017. Tecnica Mista su tela. 50x50 cm.
IL GIOCO DEGLI DEI 2017. Olio su tela e materia. 100x150 cm.
IL TEATRO DELLA VITA 2015. Olio su tela, tecnica Mista. 300x100 cm.
APOCALISSE 2013. Olio su tela. 80x120 cm.
ATANOR 2012. Tecnica Mista su tela. 50x50 cm.
TRANS-GRESSION 2014. Olio su tela. 100x150 cm.
NATURA MORTA 2014. Olio su tela. 100x100 cm.
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE 2014. Olio su tela, tecnica su tela. 180x120 cm.
IL FILO DI ARIANNA 2012. Olio su tel, tecnica mista. 50x100 cm.
EBOLA 2016. Olio su tela, tecnica mista. 120x120 cm.
AUTUNNO 2015. Olio su tela, tecnica mista. 50x100 cm.
REVOLUCIÃ’N 2016. Olio su tela. 150x100 cm.
STUPRO 2016. Olio su tela, tecnica mista. 150x50 cm.
ABORTO 2013. Olio su tela, tecnica mista. 150X300 cm.
EVOLUZIONI AMOROSE 2013. Olio su tela, tecnica mista. 50x150 cm.
GIOCHI DI CORPI 2016. Olio su tela grezza. 100x200 cm.
TRADIMENTO 2010. Acrilico su legno. 50x40 cm.
VITRIOL 2010. Olio su tela, tecnica mista. 80x60 cm.
NON NOBIS DOMINE 2009. Olio su tela, tecnica mista. 83X63 cm.
CAVALIERE ERRANTE IN CERCA DI PUREZZA 2011. Olio su tela, tecnica mista. 40X30 cm.
DANZA DI NUDI 2012. Olio su tela, tecnica mista. 150X50 cm.
AMORI VELATI 2012. Olio su tela, tecnica mista. 150X50 cm.
PROIEZIONI 2008. Olio su tela. 50x40 cm.
SOGNANDO TANGO 2014. Olio su tela, tecnica mista. 100x100 cm.
LACRIME D’ARLECCHINO 2010. Acrilico su legno, tecnica mista. 55x65 cm.
RISVEGLI 2015. Olio su tela, tecnica mista. 80X40 cm.
PIRAMIDE SILENZIOSA 2011. Olio su tela, tecnica mista. 50X300 cm.
MAE DE SANTOS - MACUMBEIRA 2013. Olio su tela. 120x80 cm.
WAITING FORRESTER 2012. Olio su tela. 50x60 cm.
NUDI IN UN INTERNO 2016. Acrilico su tela. 100x120 cm.
FECONDAZIONE 2010. Acrilico e olio su legno, tecnica mista. 80x60 cm.
NUDO DI LUNA 2011. Olio su tela. 35x45 cm.
Elio Casalino, di origini napoletane, si avvicina alla pittura in giovanissima età, ricercando nel colore delle avanguardie storiche le forme e i contenuti dell’espressione figurativa. Assorbito dallo studio e dalla carriera professionale, si discosta per anni dall’esercizio pratico ma resta sensibile e adiacente ai mondi culturali, amando e confrontandosi con la molteplicità linguistica, in particolare la musica jazz e la pittura, la fotografia e l’architettura. Ritrova la pratica pittorica durante gli anni Novanta, quando l’esigenza interiore torna a farsi sentire, quando la pittura si trasforma in una rivelazione quotidiana, metodica, catartica. Da quel momento inizia a dipingere le molteplici espressioni dell’animo umano, raccontando le emozioni, le paure, le senzazioni, le riflessioni, i ricordi e i sentimenti radicali che da sempre sente come una spinta necessaria e liberatoria. Elio Casalino vive e lavora a Roma, dove svolge la sua professione di notaio
www.eliocasalino.it
Finito di stampare nel giugno 2017 www.voilastampa.it