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L’età dell’incertezza. Un racconto in undici capitoli Matteo Fochessati e Gianni Franzone Rispetto alle numerose esposizioni dedicate, anche in tempi recenti, alle tendenze artistiche degli anni venti1 o, in riferimento alla stessa epoca, al variegato fenomeno déco2, la mostra Anni venti in Italia. L’età dell’incertezza intende focalizzarsi sulla complessità storica, politica, sociale e culturale del decennio e sull’impatto che i suoi precipui caratteri esercitarono sulle ricerche estetiche del tempo, in particolare sulla produzione pittorica e plastica. Gli anni venti rappresentarono infatti una cruciale fase di passaggio tra la carneficina della Grande Guerra (con il conseguente crollo delle certezze e dell’ottimismo che avevano pervaso il periodo della Belle Époque) e la crisi mondiale del decennio successivo che, annunciata dal crollo di Wall Street del 1929 e seguita dalla progressiva affermazione sullo scacchiere internazionale di regimi dittatoriali, ispirati da ideologie nazionalistiche e antidemocratiche, si concluse con un nuovo ancor più tragico conflitto. Come sintetizzato da Anna Kuliscioff in una lettera a Filippo Turati dell’8 febbraio 1922, il turbolento clima del dopoguerra in Italia – caratterizzato dall’incapacità delle élites di governare le tensioni sociali entro il fragile alveo democratico e dalle divisioni tra le forze popolari socialiste e cattoliche, che favorirono l’affermazione e l’ascesa al potere dell’aggressivo e ultranazionalista movimento fascista – presentava «[…] una situazione terribile, il Paese di giorno in giorno si avvicina al precipizio»3. Chiamato al governo dalla Corona con la promessa di restaurare l’ordine, il fascismo a metà decennio – in un clima di violenza culminato con l’omicidio del socialista riformista Giacomo Matteotti – imboccò una deriva dittatoriale col sostegno di una vasta alleanza politica e istituzionale di forze conservatrici e con l’appoggio dei centri finanziari e imprenditoriali. La lunga ombra della guerra e delle sue brutalità; la travagliata transizione a un’economia di pace in un quadro internazionale di persistente arduo assestamento; il passaggio da una febbrile stagione di rivendicazioni sociali e di primi esperimenti di partecipazione politica di massa a una svolta autoritaria; le spinte ai cambiamenti culturali e nei rapporti di genere ereditate dalla Belle Époque: tutto contribuì al diffondersi di un forte senso di incertezza individuale e collettiva. In un fase in cui l’immagine del Parlamento e dei suoi membri divenne sempre più impopolare, si venne affermando una nuova maniera di intendere la politica, che non si identificava più con i modelli di interpretazione della realtà e della storia della tradizione liberale. Il fascismo assurse così a emblema della nuova corrente antipolitica: il disprezzo che manifestava verso i partiti e i princìpi politici tradizionali non appariva infatti vincolato a nessuna specifica dottrina ideologica, non proiettava la propria azione verso nessun futuro, ma si esplicitava piuttosto verso una presa diretta sulla realtà, fomentando odi e risentimenti. L’antiparlamentarismo, condiviso da molte altre forze politiche radicali dell’epoca, appariva peraltro fortemente radicato nei futuristi, poiché tale istituzione rappresentava ai loro occhi l’emblema di un antiquato sistema di governo4. E lo stesso antisocialismo del futurismo è spiegabile, d’altra parte, con il fatto che tale movimento politico veniva inquadrato all’interno delle dinamiche parlamentari, a cui erano invece estranee quelle forze sovversive di sinistra verso le quali Marinetti e molti futuristi continuarono a lungo ad avere simpatia. Significativa, per la sua variegata composizione politica e culturale e per le sue non trascurabili ricadute sulla società italiana del tempo, risultò la breve ma intensa avventura fiumana. L’esperienza di autogoverno della città dalmata esercitò infatti, con i suoi rituali civili, un’influenza fondamentale sull’estetica politica del fascismo, ma contribuì pure a elaborare – grazie a un gioioso approccio libertario, sintetizzato dalla rivoluzionaria Carta del Carnaro redatta nel 1920 dal sindacalista Alceste De Ambris – un utopico ideale di modernità da contrapporre ai tradizionali retaggi nazionali. Inedito prototipo di rivoluzione politica e di costume, la Fiume di Gabriele d’Annunzio rappresentò infine un perfetto modello di applicazione di quella convergenza tra arte e vita, già auspicata dal movimento futurista. Se Fiume – laboratorio di tutte le ribellioni politiche, morali e sessuali – rappresentò la festa della rivoluzione5, la piazza acclamante sperimentata da d’Annunzio fu ben presto perfezionata da Mussolini che, in un discorso di poco precedente la Marcia su Roma, dichiarò: «Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani “indifferenti” che rimarranno nelle loro case ad attendere; i “simpatizzanti”, che potranno circolare; e finalmente gli italiani “nemici”, e questi non circoleranno»6. Con i dovuti distinguo storiografici, si possono ravvisare alcune corrispondenze tra gli anni venti e l’epoca odierna: in particolare nel dominante clima di incertezza e di transizione, nella latente violenza che caratterizza la quotidianità e nello scontro sociale che, fortemente segnato allora dalla lotta di classe, si ripropone oggi a livello planetario nelle problematiche legate alle migrazioni dei popoli. La mostra intende quindi offrire alcuni angoli visuali per interpretare il nostro presente attraverso la lettura del passato. A questa drammatica e convulsa complessità di eventi corrispose infine, nel campo delle arti figurative, un’ampia varietà di declinazioni linguistiche che - spesso integrate nel processo di estetizzazione politica con cui il regime impostò la sua azione di controllo sociale e di creazione di un consenso popolare sempre più totalizzante - rappresentarono il termometro di un’epoca inquieta e tormentata.

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Incertezza. La tempesta La guerra è appena finita, ma il mondo è ancora in subbuglio. In Italia il 23 marzo 1919 Mussolini fonda a Milano i Fasci italiani di combattimento; il 15 aprile fascisti e futuristi assaltano e incendiano a Milano la sede del quotidiano socialista “Avanti!”; il 12 settembre Gabriele d’Annunzio occupa Fiume e vi instaura la cosiddetta Reggenza del Carnaro; il 16 novembre alle elezioni, che per la prima volta avvengono con il sistema proporzionale, si impongono i socialisti e i cattolici. Dalle angosciose incertezze e inquietudini di questa navigazione tempestosa scaturisce una sensazione di attesa, di sospensione dal tempo reale o di fuga nel passato, che nelle arti figurative determina il recupero, in chiave moderna, di forme classiche e arcaiche. È la “moderna classicità” evocata da Margherita Sarfatti; un ossimoro, come nel caso dell’altra definizione coniata per uno degli stili più incisivi del decennio: il Realismo Magico7. Martini recupera in questo periodo la tensione arcaica della scultura romana. Alla XV Biennale di Venezia del 1926 espone il bassorilievo La tempesta8, raffigurante, in un paesaggio inquadrato da quinte di alberi secchi, un mare impetuoso e oppresso dalla minacciosa gravità del cielo, su cui naviga perigliosamente una navicella, alla quale non appare in grado di poter prestare soccorso la figurina a destra che, impotente, assiste alla scena dalla riva. Questo senso di inadeguatezza si respira d’altronde anche nei comportamenti dei personaggi de Gli indifferenti di Alberto Moravia, pubblicato nel 1929: sia nella debolezza della giovane Carla, afflitta da «una mortale rassegnazione di fronte all’inevitabile caduta, presentita da lungo tempo e finalmente accettata»9; sia nella inettitudine del fratello Michele: come su uno «[…] schermo bianco e piatto, sulla sua indifferenza, i dolori e le gioie passavano come ombre senza lasciare traccia e, di riflesso, come se questa sua inconsistenza si comunicasse anche al suo mondo esterno, tutto intorno a lui era senza peso, senza valore, effimero come un giuoco di ombre e di luci»10. Ma nel vortice della tempesta martiniana si riconosce anche il gorgo psichico che colpisce Vitangelo Moscarda, moderno antieroe del romanzo Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello (1926): è il sospetto che non esista corrispondenza tra immagine interna e immagine esterna, lo sdoppiamento e la distruzione di ogni certezza che conduce alla pazzia e che nel suo caso lo porta, per sfuggire alle tante forme imposte dalla società, a evadere attraverso la follia, finendo per accettare una nuova, ennesima maschera.

Prologo. Volti del tempo Di fronte a un mondo che appariva sempre più enigmatico e incomprensibile, la figura umana assunse negli anni venti una nuova centralità che nelle arti figurative, attraverso la ripresa del principio rinascimentale della gerarchia dei soggetti, conferì al tema del ritratto un posto di primo piano. La mostra si apre così con una fitta galleria di volti che, con le loro peculiari espressioni fisiognomiche e i loro marcati caratteri identitari, pubblici o privati, riflettono una variegata rappresentazione della società dell’epoca. Nelle espressioni estatiche di questi personaggi sembra aleggiare una sospesa atemporalità, spesso ricreata mischiando simboli della modernità con reperti dell’antico. Entro schemi formali e iconografici classici, anche gli oggetti e gli sfondi moderni rimandano ad archetipi remoti, contribuendo a incorniciare questi ritratti all’interno di un austero monumentalismo e di un’epica atmosfera senza tempo. Nel clima del “ritorno all’ordine” matura infatti un differente concetto di modernità, i cui sedimenti erano già presenti negli anni precedenti il conflitto, che respinge i modelli rivoluzionari e trasgressivi dell’anteguerra, prendendo comunque avvio proprio nell’alveo dell’avanguardia, per un alternativo indirizzo di ricerca11. Dominante appare il tema dell’“eterno ritorno”, trasposto dal pensiero filosofico di Nietzche e a sua volta rielaborato dal concetto di tempo ciclico dello stoicismo. All’interno di questo percorso circolare del tempo, le arti figurative dell’epoca aspirano a formalizzare un simbolico punto di convergenza tra passato e presente: un atteggiamento estetico e culturale che appare ancora più evidente nei ritratti. Pose, inquadrature, abbigliamenti, manufatti mescolano modernità e tradizione, come nel caso della Maternità di Gino Severini che nel 1916, anno in cui tramite Juan Gris entra in contatto col gallerista Léonce Rosenberg, segna la sua clamorosa svolta verso la forma classica, proponendosi come un’icona universale dell’allora emergente clima del “ritorno all’ordine”. Lo spazio in questo dipinto appare indefinito e il tempo sembra essersi arrestato ma, a conferma delle sue coeve sperimentazioni cubo-futuriste, l’opera non è improntata da un mimetismo naturalistico, bensì dal senso geometrico delle proporzioni e da una rigorosa visione matematica dello spazio. Il ritorno al mestiere e i precisi riferimenti ai primitivi toscani appaiono quindi mediati da una moderna consapevolezza estetica. E

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tuttavia l’esposizione del dipinto a Parigi – alla mostra del Salon D’Antin fu presentato a fianco de Les Demoiselles d’Avignon di Picasso – suscitò l’irritazione dei cubisti12. Al di là di ogni considerazione di analisi storica sull’opera, in questo ritratto della moglie Jeanne intenta ad allattare il loro secondogenito13, ciò che appare opportuno sottolineare è come tale modello iconografico avrebbe avuto da lì a poco ampia diffusione nelle tante raffigurazioni postbelliche dedicate al dolore delle madri per la perdita dei loro figli al fronte. E peraltro un senso di inquietudine traspare anche dal netto contrasto tra la compostezza formale dell’opera e il presagio della morte del bambino in essa contenuto: come raccontato dallo stesso Severini nei suoi ricordi, il figlio Antonio sarebbe infatti mancato pochi mesi dopo14. Cospicua è la presenza di altri futuristi o ex futuristi in questa galleria di ritratti. A partire da Giovanni Papini che – raffigurato da Carlo Carrà nel 1913, prima del distacco definitivo dal movimento di Marinetti avvenuto nel 1915 – rappresentò negli anni venti il prototipo dell’intellettuale italiano del tempo che, in cerca di una propria identità e nel continuo inquieto cambiamento dei propri campi di interesse, lo portò a un avvicinamento al cattolicesimo, sancito dal successo della sua Storia di Cristo (1921). Altro transfuga del futurismo Achille Funi propone nel Ritratto di Umberto Notari (1921) un classico state portrait, in cui motivi rinascimentali - la funzione prospettica della balaustra; il dialogo tra interno ed esterno attraverso la finestra aperta; le nuvole in cielo alla maniera di Mantegna (riprese lo stesso anno ne La maternità) – dialogano con una moderna sintesi compositiva e formale che, come notato dalla critica, rimanda ad alcune celebri opere della Neue Sachlichkeit, quali L’affarista di Heinrich Maria Davringhausen (1921), il Ritratto di Underberg di Carl Mense (1921) o il Ritratto del banchiere Kahnheimer di Georg Scholz (1923). E nonostante il suo impianto antipsicologico, pure questo ritratto rivela, nell’immobile fissità dello sguardo di Notari e nella rigidezza della postura, il dolore per una perdita: quella recente del figlio diciannovenne. Anche il dipinto di Baccio Maria Bacci segna, dopo una significativa fase di ricerca futurista, il ritorno a una figurazione classica e anticipa la sua adesione alla cultura pittorica novecentista. A tale svolta contribuì la sua salda amicizia con Matteo Marangoni che – brillante storico dell’arte, ricordato per i suoi manuali di successo e per il ritrovamento nel 1916 nei depositi degli Uffizi del Bacco di Caravaggio – collaborò nel 1922 con Ugo Ojetti alla realizzazione a Firenze della mostra Pittura Italiana del Seicento e del Settecento: un’esposizione che contribuì a quel revival seicentesco cui aderì il pittore di origine russa Gregorio Sciltian, il quale, stabilitosi a Roma nel 1923, vi ritrae l’emergente artista futurista Ivo Pannaggi, con una fedeltà di rappresentazione fotografica che restituisce una dimensione di immobilità artificiale all’intera scena. Sempre in ambito futurista, se i due ritratti di Fillia e di Enrico Prampolini appaiono conformi ai canoni della poetica del movimento in un’ideale passaggio di testimone, tra il primo e il secondo, dalle atmosfere macchiniste alle istanze biomorfiche della nuova tendenza aeropittorica, Il nomade di Pippo Rizzo (1929) fissa – attraverso i tagli diagonali dei fasci di luce, la stilizzazione di matrice grafica della composizione e il glamour del personaggio raffigurato in trench e borsalino – il suo ultimo ed estremo omaggio alla modernolatria futurista e alla celebrazione delle macchine e della velocità15. Nel ritratto di Alfredo Casella – raffigurato da de Chirico in piedi con le braccia conserte, in un’immagine trasposta da una celebre foto del compositore – compaiono per contro una serie di elementi classici: come la finestra aperta (funzionale allo spiazzamento tra esterno e interno caratteristico della sua pittura) o l’alloro sullo sfondo, trasposto dall’Autoritratto di Arnold Böcklin del 1873. Casella, fondatore della Corporazione delle Nuove Musiche, auspicava d’altronde un risanamento dell’arte musicale in Italia e la diffusione di un gusto moderno basato sull’esperienza classica. Teorico del ritorno all’ordine in musica e fautore della “finis avanguardiae”, si poneva quindi in piena sintonia con la poetica di de Chirico e con le posizioni teoriche di Carrà, Soffici e Bontempelli. Tra i principali esponenti della cultura di Novecento, interprete in Italia del clima del ritorno all’ordine, troviamo anche Piero Marussig e Francesco Messina, il quale realizzò – durante un soggiorno a Genova dell’amico pittore16 – un suo ritratto, il cui impianto classicista si traduceva in un’aspra e tormentata resa realistica dei caratteri psicologici e fisiognomici, particolarmente accentuata da una materia ruvida e irregolare17. Un’eterea e impalpabile atmosfera traspare, per contro, nella cristallizzata luminosità del Ritratto di Alma Fidora di Domenico Guerello (1922). In esso la moglie del critico d’arte Ugo Nebbia appare ritratta sullo sfondo di Portofino, paesaggio d’elezione, su cui il pittore proiettava le proprie istanze psicologiche e quelle dei personaggi raffigurati nelle sue opere. Analoga immobile sospensione si ritrova nelle limpide e rigorose semplificazioni formali de L’infermiera della pittrice siciliana Lia Pasqualino Noto (1931); mentre una sorta di ipnotica staticità sembra connotare – attraverso una rielaborazione della tecnica divisionista condivisa dal fratello de Chirico tra il 1927 e il 1929 – il Ritratto di Mademoiselle Parisis, dipinto da Alberto Savinio nel 1929, anno in cui eseguì alcuni altri ritratti di personaggi da lui frequentati a Parigi, dove si era trasferito due anni prima18. E d’altronde proprio nel 1927 Savinio aveva pubblicato il romanzo Angelica o la notte di maggio, caratterizzato da una assenza psicologica nella descrizione dei personaggi e da una protagonista – il sottotitolo sarebbe dovuto essere La bella addormentata – afflitta da una misteriosa catalessi.

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In un ambito di carattere famigliare si collocano altri ritratti presenti in questa galleria. Da Il figlio dell’armatore, dipinto nel 1925 da Ubaldo Oppi con evidenti riferimenti alla ritrattistica cinque-seicentesca, al ritratto del fratello e della sorella di Carlo Levi che, nelle loro rigide posture e nel riflesso simbolico di alcuni oggetti a loro riferiti, appaiono cristallizzati in un dialogo impossibile, accentuato dalla evidente discordanza tra i reciproci caratteri: inquieta e incantata la sorella, saldo e sicuro di sé il fratello. La stessa minuziosa descrizione si ritrova nell’impietosa raffigurazione delle imperfezioni del viso di Marcella (1923), compagna di Leonardo Dudreville, qui in posa – nella perturbante sovrapposizione tra la realtà e lo spazio illusivo della pittura – davanti al riquadro centrale del suo celebre dipinto Amore: discorso primo. Analoga impostazione analitica emerge anche nel suo Studio di carattere, caratterizzato dalla pressione dell’inquadratura laterale e dal contrasto tra l’inclemente rappresentazione dei turgori e delle pieghe di grasso del viso arcigno e il risalto dato al temperamento austero del personaggio ritratto e al suo gusto raffinato, testimoniato dal vestiario elegante, dal monocolo e dalla spilla sulla cravatta bianca. Una descrizione più vera del vero, tangente alle coeve ricerche della Neue Sachlichkeit, ma che guardava anche alla tradizione fiamminga, come rilevato da Margherita Sarfatti: «Attraverso i solchi dei volti, nelle sagome delle cose, negli spigoli degli stessi oggetti, il Dudreville scruta inesorabilmente l’espressione e il carattere, e usa la pittura quale strumento di scarnificatrici psicologie»19. Solenne e monumentale appare il ritratto di Renato Gualino di Felice Casorati: il taglio frontale e la posa fiera e impositiva rimandano – quasi nella previsione di un passaggio ereditario nella gestione delle imprese famigliari – al ritratto paterno, cui fu affiancato, insieme a quello della madre, alla Biennale veneziana del 1924. E così scriveva, in quell’occasione in catalogo, Lionello Venturi: «[…] l’ardimento dell’accordo cromatico, la dignità della forma, la bella materia pittorica sorprendono e conquistano»20. Eppure il presagio della futura rovina che si sarebbe abbattuta sul padre - il finanziere e mecenate Riccardo21 - e, quindi, su tutta la famiglia si poteva già intravvedere nell’incantata fissità e nello spaesato straniamento dell’espressione di Renato in uno studio precedente, rimasto incompiuto per volere dei committenti, insoddisfatti di quell’ambientazione meno severa e aulica, caratterizzata da una misteriosa atmosfera, accentuata dal contrappunto del fogliame sullo sfondo. Solenne e austero si presenta ugualmente il dipinto I chirurghi di Oppi (1926): una sacra conversazione laica, come rilevato da Margot Riess22, che celebra in un’algida ambientazione la dimensione eroica della funzione sociale del medico. Una celebrazione della missione scientifica che accomuna quest’opera all’inquietante ritratto di Vittorio Dal Nero di Giuseppe Zancolli (1924), raffigurante, attraverso un’ampia gamma cromatica di sfumature grigioverdi, un laboratorio popolato dalle carcasse mummificate di decine di uccelli, da cui il tassidermista e zoologo veronese, con in mano un bisturi, ci rivolge direttamente lo sguardo. Ultimo personaggio di questa galleria di ritratti, Lauro De Bosis che, raffigurato da Antonio Donghi23, fu protagonista nel 1931 di uno spericolato raid areo di propaganda antifascista su Roma, la cui tragica conclusione lui stesso aveva già anticipato in un memoriale, La storia della mia morte, pubblicato postumo nel 1948 a cura di Gaetano Salvemini.

Attese. Sospensione Malinconia Inquietudine Se c’è un’atmosfera o, meglio, un clima esistenziale che connota molta della produzione figurativa italiana degli anni venti, questo è l’attesa. Attesa declinata nelle più svariate accezioni: sospensione, incanto, magia, stupore, spaesamento, straniamento, malinconia, inquietudine. Comune a tutte le varianti è l’essere fuori del tempo, negare il passeggero e l’effimero, per aprire uno spiraglio verso l’immobilità, l’immutabilità, l’eternità. Sebbene la poetica di Novecento e del Realismo Magico prediliga soggetti quotidiani, a essi conferisce una forza sublimante, che supera l’accidentale, grazie a un’attenta lettura della tradizione classica italiana del passato, in particolare del Tre-Quattrocento, e alla ricerca di valori ideali «sempre più chiari e definiti di concretezza e di semplicità»24, nel caso di Novecento; all’uso di una cromia smaltata, di una precisione chirurgica nella resa dei dettagli e di una luce fredda e tagliente, nel caso del Realismo Magico. Realismo Magico che di per sé è già un ossimoro, come più volte notato, nel senso di una resa iperrealistica o neoidealistica che, pur non arrivando mai a negare il canone della riconoscibilità naturalistica, di fatto supera il dato reale giungendo a un effetto straniante, di «congelazione statuaria»25. Per capire i caratteri precipui dell’attesa novecentista e realistico-magica basta mettere a confronto due dipinti eseguiti a neppure sette anni di distanza tra loro. Nel 1916 il ligure Domenico Guerello dipinse L’attesa, in cui la finestra si pone come diaframma tra il raccoglimento della figura e l’esterno, tra l’ambiente in cui la giovane donna si trova, e in cui si raccoglie lo stato d’animo che sta vivendo (forse l’attesa tormentata del fidanzato o del marito o di un fratello al fronte), e il paesaggio al di fuori, un rapporto mediato dalla luce che rivela la formazione simbolista-divisionista dell’artista. Si osservi ora In tram (1923) di Virgilio Guidi, uno dei testi fondamentali della nuova poetica e capolavoro indiscusso del periodo romano dell’artista. In questo dipinto, molto pensato visto che alcuni disegni preparatori risalgono al 192026, è la luce ad essere protagonista, anche della resa spaziale: Guidi inonda la scena – sia l’interno della vettura con i viaggiatori

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sia il paesaggio circostante – di una luce “meridiana”, assoluta, quasi irreale, che blocca ogni dettaglio, perfino i cappelli e l’uovo che la donna in primo piano ripone nel cesto, in una fissità quasi metafisica, rendendo così monumentale l’intera composizione. Le figure, ognuna isolata in una incomunicabilità alienante, sono impassibili, hanno volumi rigorosi ma astratti, come negli affreschi antichi. L’iconografia è quotidiana ma la resa pittorica la rende solenne ed estatica: più che un tram sembra una cabina trasparente sospesa nel vuoto con, sullo sfondo, qualche montagna brulla a dare un segno di terrestrità o un volume prismatico di cristallo, se volessimo ricollegarci al motivo caro a Ferrazzi, anche lui attivo a Roma in quegli anni e pure lui, come Guidi, artista sostanzialmente appartato, solitario, che diede significativi contributi alle nuove ricerche pittoriche ma non aderì mai programmaticamente a gruppi o correnti. Un analogo clima esistenziale si respira in Composizione (Le amiche) di Pompeo Borra del 1924, in cui la solida concretezza dell’insieme è come congelata in un purismo severo dalle cromie opache e terrose; nelle Lavandaie (1922 circa) di Donghi, in cui risalta la pesante plasticità delle due figure femminili; nella Sera (Rosario) di Cagnaccio del 1923, in cui le due anziane popolane e gli oggetti sono immersi in un’atmosfera rarefatta e straniante, di un nitore cristallino, grazie anche a un disegno duro e analitico che esaspera la resa realistica. Ragazza con scodella di Casorati, databile al 1919, l’anno dopo che l’artista si era stabilito a Torino, presenta una figura femminile sola, impaurita, quasi allucinata in uno spazio come di scatola dalla prospettiva rigorosa e profondissima, facendo così emergere un senso di desolazione e di inquietudine, di disagio e di mistero. Stupore e immobilità dominano anche in Nudo con fruttiera (1923 circa) di Mario Sironi, in cui il pittore attua una rigorosa semplificazione delle forme che risente ancora della sintesi propugnata nel manifesto Contro tutti i ritorni in pittura del 1920 e che si sostanzia essenzialmente nella stilizzazione del disegno.

Preludio. Il trauma della guerra Rispetto all’audace impresa di De Bosis, innanzi citata, una differente tipologia di eroe, ispirata all’epica della Grande Guerra, si era venuta affermando lungo tutto il decennio. Alimentata dalla macchina propagandistica del regime, la retorica celebrazione dei caduti e dei mutilati ebbe infatti un peso determinante nel sublimare le inquietudini e le tensioni determinate dalla tragedia bellica, distogliendo nell’immediato la popolazione da una cosciente elaborazione del lutto e promuovendo, negli anni successivi, l’edificazione di sacrari, cimiteri e monumenti in memoria dei combattenti. Il drammatico bilancio del conflitto non fu, come è noto, rappresentato solamente dal penoso computo delle vittime, ma anche dalle migliaia di soldati che ritornarono dal fronte con mutilazioni agli arti e al viso. Se il loro reinserimento nella società civile risultò sin da subito traumatico, altrettanto arduo e complesso fu il ritorno a casa di tutti quei soldati che avevano condiviso l’esperienza di una guerra che, per la sua micidiale portata tecnologica, aveva determinato in loro un radicale scollamento spazio-temporale dalla realtà. E proprio la condivisione di una così tragica esperienza bellica contribuì ad avallare un prolungamento identitario del cameratismo nato sui campi di battaglia e nelle trincee: su di esso il regime cementò – istituendo una nuova fede in cui identificarsi – il proprio sostegno popolare. La guerra aveva peraltro contribuito alla politicizzazione delle masse, creando disagio e inquietudini, ma alimentando anche nuove aspettative: in particolare nei gruppi degli arditi, la cui partecipazione al conflitto si era radicalmente contrapposta, nella specificità delle loro spericolate azioni oltre trincea, al massacro industriale dei fanti, impegnati in una logorante guerra di posizione, oppressi dalla insensatezza degli ordini e della disciplina imposti dai loro superiori e sottoposti alla spietata e crudele pratica delle decimazioni. Guidati dal culto per l’eroismo, dalla celebrazione di un estremo individualismo e dal disprezzo per le regole sociali costituite, questi corpi scelti, una volta terminato il conflitto, traslarono la loro bellicosità dai campi di battaglia alle piazze27. Altrettanto determinante, nel clima sociale e politico del dopoguerra, fu il mito della «vittoria mutilata» che – evocata da Gabriele d’Annunzio sul “Corriere della Sera” il 28 ottobre 191828, prima ancora della firma dell’armistizio – che sovvertì il sentimento per la grande vittoria conseguita contro il nemico storico, trasformandola in una sconfitta e dando così avvio a un’opera di delegittimazione dello stato liberale. Tale concetto contribuì anche, semanticamente, a trasferire sul corpo della nazione le ferite dei reduci, fornendo al substrato ideologico del nascente fascismo una simbolica equivalenza tra lo spirito della «vittoria mutilata» e la falange dei reduci feriti e menomati, idealmente incarnati dal corpo mutilato di Carlo Delcroix il quale – privato della vista e di entrambe le mani dallo scoppio di un ordigno bellico e assurto a icona del martirio attraverso l’opera di Antonio Giuseppe Santagata – guidò dal 1924 l'Associazione Nazionale fra Mutilati e Invalidi di Guerra29. Favorendo la creazione di un culto cristologico connesso alla memoria della guerra, di cui il Milite ignoto divenne il simbolo più emblematico, il fascismo elaborò un’ideale integrazione tra i caduti del primo conflitto mondiale e i propri martiri, proponendosi – attraverso questa simbolica coincidenza – come unico legittimo erede del grande olocausto e dei meriti acquisiti nella difesa della nazione. L’ideologia del sacrificio per la

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patria potenziò la creazione di un mito superomistico, connesso al culto per l’identità nazionale, che il futurista Mario Carli espresse con queste parole nel corso di una conferenza tenuta alla Casa del Fascio di Bologna nel 1927: «Tutti hanno visto nella guerra il sanguinario Calvario che conduce al martirio, non l’impetuoso sfogo fisiologico, non il campo sportivo dell’eroismo, non il lievito per la creazione di nuova bellezza morale, non infine la facoltà di scatenare l’istinto guerriero della razza, che dormiva da secoli ma che era pur sempre quella potente bellicosità ereditata dai legionari di Roma e dai capitani di ventura del Rinascimento»30. Nonostante l’immagine ufficiale imposta dalla propaganda e riscontrabile ad esempio in Millenovecentodiciotto di Anselmo Bucci31, molte opere dell’epoca mostrano tuttavia, in maniera più o meno conscia e scoperta, come fosse impossibile cancellare dall’immaginario collettivo il ricordo drammatico dell’evento bellico. E se la realizzazione del progetto per il Monumento al fante sul Monte San Michele al Carso di Eugenio Baroni fu stroncata, per la sua carica antiretorica, simboleggiata dal cristallizzato gesto di dolore della madre di fronte alla perdita del figlio32, dal severo giudizio critico di Margherita Sarfatti e dal pronunciamento ufficiale di Mussolini nel 1923, anche nell’opera di un artista allineato al regime, come Domenico Rambelli, autore del Monumento ai caduti di Viareggio di Domenico Rambelli, inaugurato il 3 luglio 1927, la celebrazione dell’eroismo finì tuttavia per fondersi con quella del sacrificio, come esemplificato dal sintetico ed essenziale realismo dell’immagine del Fante morente, colto nell’estremo attimo della sua agonia. L’angoscia luttuosa per la carneficina della guerra aveva già peraltro ispirato, negli anni del conflitto, l’aulico corteo de Le vedove di Galileo Chini che, oltre a varie reminiscenze di matrice simbolista, sembra rimandare a La benedizione dei morti del mare di Lorenzo Viani (1914-1916). Il dolore per la scomparsa dei propri cari continuò a persistere nel cuore della nazione, avendo colpito indistintamente tutte le famiglie, come documentato dal sofisticato ambiente borghese de La canzone del Piave di Ettore Beraldini (1929) o dall’ovattata atmosfera del modesto interno rurale de La cena dei rimasti di Carlo Potente (1924). In entrambi i casi il dolore dei rimasti appare amplificato dalla perturbante carica negativa dell’assenza. E altrettanto angoscianti appaiono alcune realistiche immagini dedicate al ritorno dal fronte: come nel caso della desolazione dei mutilati raffigurati nel dipinto Ritorno alla vita di Giovanni Battista Costantini (parte di un ciclo dal significativo titolo Lacrime della guerra, che valse accuse di disfattismo al suo autore) o delle amare rappresentazioni dei reduci: stralunato, con le vesti stracciate, accompagnato dalla madre come un bambino, quello ritratto nell’opera di Lorenzo Viani; curvo, scalzo, stanco e rassegnato in quella di Ardengo Soffici.

Metropoli. Disagio Violenza Solitudine Nel caos del dopoguerra l’odio prese il posto della paura che aveva attanagliato la gente durante il conflitto. Nonostante appaia più celata, rispetto alle esplicite raffigurazioni delle coeve esperienze artistiche tedesche, una diffusa sensazione di violenza, presentata come male necessario, percorre molte espressioni artistiche dell’epoca. E d’altronde lo stesso Mussolini affermò a tal proposito: «[…] dobbiamo tornare a dichiarare che per i fascisti la violenza non è un capriccio o un deliberato proposito. Non è l’arte per l’arte. È una necessità chirurgica. Una dolorosa necessità»33. Una voglia di menare le mani condivisa anche da Marinetti, come già espresso nel discorso Bellezza e necessità della violenza, pronunciato a Napoli il 10 giugno 1910, e successivamente ribadito in diversi passi del suo testo Democrazia futurista del 191934. La silenziosa e melanconica reazione alla violenza cieca e indiscriminata del decennio appare simboleggiata dalla commovente ma dignitosa maschera mortuaria della Madre Ravera di Adolfo Wildt. La figura ritratta, Benvenuta Ravera, era morta insieme ai due figli e a un nipotino nell’attentato dinamitardo al re d'Italia Vittorio Emanuele, avvenuto il 12 aprile 1928 in piazza Giulio Cesare a Milano, durante la cerimonia di inaugurazione della IX edizione della Fiera Campionaria dedicata al decennale della vittoria35. Per onorare la loro memoria la Federazione Fascista dei Commercianti finanziò la costruzione di un mausoleo al Monumentale di Milano che, inaugurato nel 1929, suscitò diverse perplessità, per la sua assenza di realismo e di attinenza con l’evento che commemorava. La semplificazione formale dell’opera annullava infatti ogni suggestione realistica e l’aurea di classicismo, in cui si ravvisarono all’epoca rimandi al Laurana36, contribuì a stemperare il senso tragico dell’evento commemorato e a cloroformizzare la tragedia in un sonno metafisico. Se la semplificazione del fascismo si proponeva come soluzione collettiva alle ansie del dopoguerra, il futuro appariva tuttavia misterioso e indecifrabile, nel contesto di una società e di un mondo sempre più complessi ed enigmatici. E queste sensazioni si acuivano in particolare nel clima di alienazione sociale delle grandi città, come esemplificato dalle visioni metropolitane di Mario Sironi: anche nelle loro declinazioni più metafisiche, come nel caso della sintesi compositiva e dell’immoto monumentalismo, soverchiante l’individuo, del bozzetto Il tempio (1925 circa)37.

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Il disagio esistenziale della metropoli rendeva infatti aridi gli individui, come riconosciuto con amarezza da Camillo Sbarbaro in Trucioli - «Così l’anima ha messo radice nella pietra della città […] Forse mi vado mineralizzando. Già il mio occhio è di vetro, da tanto non piango; e il cuore, un ciottolo pesante»38 - o come documentato con una pittura fredda, analitica e spietata da Leonardo Dudreville nel dipinto Un caduto del 1919. In questa opera che, ispirata da un episodio cui l’artista aveva assistito39, precorre, per il sintetico taglio fotografico, l’immobilità iperreale dei dipinti della Neue Sachlichkeit, si assiste a una scena di disagio quotidiano: un anziano colpito da un malore per strada è soccorso dai passanti, ma appare circondato da un clima di distacco e di indifferenza che si riflette nella durezza delle loro espressioni e nel metallico grigiore dell’ambiente metropolitano. Un «minuzioso e caricaturale realismo», come notò Margherita Sarfatti40, impronta dunque il dipinto che, nel suo radicale mimetismo figurativo, rappresentò l’apice del percorso di conversione al vero di Dudreville. Altrettanto grottesca si presenta l’atmosfera del dipinto di Aroldo Bonzagni Rifiuti della società (1917-1918), in cui la raffigurazione dei derelitti del sottoproletariato urbano, sullo sfondo di squallidi palazzi periferici, risulta tratteggiata attraverso un incisivo segno espressionista, ugualmente percorso da suggestioni di matrice tedesca. Il senso di alienazione metropolitano diede inoltre vita a suggestive e inquietanti visioni distopiche, qui esemplificate da La metropoli del futuro di Domingo Motta, in cui tensioni di matrice simbolista si intrecciano con evidenti rimandi alla poetica futurista, e dal dipinto La folla del genovese Sexto Canegallo, nel quale l’identificazione delle «oscillazioni dello stato d’animo della collettività (calma, piacere, dolore, odio, calma)»41 sembra strettamente connettersi con le liriche visionarie del suo concittadino Sbarbaro: «[…] ciascuno di loro porta seco / la condanna d’esistere: ma vanno / dimentichi di ciò e di tutto, ognuno / occupato dall’attimo che passa, / distratto dal suo vizio prediletto»42. La condizione di disagio e alienazione alimentava d’altronde comportamenti al di fuori della morale corrente e un senso di abbruttimento e perdizione impronta i Ritratti bizzarri dello stesso Canegallo, i cui tipi umani sono rappresentati, attraverso una deformazione espressionistica, come apparizioni ectoplasmatiche che rimandavano alle foto di spiriti allora in voga o alle fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia.

Irrazionalità. Angoscia Incubo Mistero Se la perdita di coscienza e di attaccamento alla realtà che contraddistinse gli anni venti ispirò in genere la nostalgia per un passato mitico e ideale, spesso tale tensione culturale indusse a sconfinare nell’irrazionale, contribuendo ad aprire spiragli inaspettati e non desiderati verso la dimensione dell’incubo e dell’angoscia o verso l’ossessiva reiterazione di esperienze traumatiche, direttamente vissute (o semplicemente intuite) durante la recente esperienza bellica. Spiritismo, trance ed evocazioni medianiche improntarono forme espressive ermetiche e allucinate, come nel caso della pittura “ectoplastica” di Alberto Martini, caratterizzata da una visionaria ricerca dell’oltre, intrapresa attraverso una peculiare veggenza in grado di penetrare oltre il tangibile e l’apparente: una capacità divinatoria che nelle sue opere - intrise di motivi desunti dai principali pensieri mistici e in parte tangenti alla cultura surrealista43 - designava le cavità orbitali come luogo simbolico della comprensione del mondo esterno e di quello interiore. La dimensione esoterica e alchemica di Martini – caratterizzata stilisticamente da tinte fredde e da contrasti chiaroscurali e, dal punto di vista iconografico, dai ricorrenti motivi della finestra aperta sulla notte, dalla figura dell’artista-demiurgo e dagli aloni dei fenomeni mediatici – ebbe senza dubbio una influenza determinante sull’attività incisoria di Dario Wolf44. Suggestioni teosofiche ed esoteriche, in cui si combinavano anche rimandi alle ricerche di Raoul Dal Molin Ferenzona e di Julius Evola, con il quale era entrato in contatto a Roma nei primi anni venti, trovarono nell’artista trentino un originale riscontro – tra maledettismo e spirituale preveggenza – nella raffigurazione di temi di montagna45. Mentre le più avanzate e sperimentali ricerche artistiche cercavano nelle nuove frontiere scientifiche della fisica e della psicoanalisi una risposta alle inquietudini del tempo, le suggestioni dell’irrazionale, già sperimentate a cavallo del secolo nell’ambito della cultura simbolista, assunsero dunque un sempre crescente risalto nel contesto di ricerca dell’epoca. E una diffusa connotazione spirituale e magica sembrò pervadere tutta l’arte del periodo, improntando in particolare quelle esperienze che facevano allora riferimento alla dimensione culturale del Realismo Magico. Massimo Bontempelli, il principale teorico di tale tendenza, auspicò infatti un superamento della realtà attraverso una differente e inedita forma di decifrazione della quotidianità: «Quando si dànno interpretazioni magiche delle cose comuni, occorre farlo con un piglio che lasci continuamente in dubbio se l’autore le dà come interpretazioni pienamente credute da lui e autentiche in senso stretto, o come simboli di una interpretazione non già magica, ma puramente spirituale. Soltanto con questa ambiguità si ottiene quella mezza atmosfera che più di qualunque sorta di spiegazione vale a dare il senso del mistero delle cose quotidiane […]»46.

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In realtà, oltre la cortina delle apparenze, emergeva sempre più la percezione di un angoscioso senso di tragedia: «[…] il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me» inaspettatamente intravisto da Eugenio Montale47. Un senso di metafisica sospensione che nell’algida atmosfera de L’incendio di Luigi Gigiotti Zanini (1924) si strutturava, con distorta prospettiva, attraverso una drammaticità teatrale ispirata al neoclassicismo dell’architettura del Novecento, o che prendeva ispirazione, nell’inquietante e deformata malinconia del Macbeth e le streghe (1922) di Primo Conti, dai colori freddi e acidi di El Greco, cui guardava anche Scipione per le sue misteriose e oscure fantasie di cattolico della Controriforma48. L’amore per la vita, il senso di una fine imminente, il richiamo delle tentazioni carnali e il terrore di morire nel peccato sono d’altronde tutti temi che – significativamente simboleggiati nel paesaggio Profeta in vista di Gerusalemme (1930) – s’intrecciarono nella sua pittura e nel suo breve percorso esistenziale, segnato da una tremenda profezia che amaramente si avverò49. E tuttavia gli incubi individuali ben presto si trasformarono nel sogno angoscioso di una nazione intera, come profeticamente predetto dall’anarchico Giandante X attraverso la deformazione grottesca della sua Testa di Benito Mussolini (1922-1923)50.

Evasioni. Nostalgia Sogno Magia Suggestioni mistiche, magiche e misteriose, che agli occhi di un’umanità incerta e inquieta apparivano come gli unici approdi cui aggrapparsi, sovente si combinarono, nell’arte degli anni venti, con una persistente nostalgia per il passato. L’eterno presente, cui rimandavano le atmosfere sospese di molte opere dell’epoca, scaturiva, come si è detto, da un’idea circolare del tempo che, nel clima del “ritorno all’ordine”, si contrappose al moto progressivo e lineare imposto in precedenza dalle avanguardie. Il classicismo fu assunto come una forma di difesa rispetto alla totale deriva dell’irrazionalità, ma la magia e il mistero continuavano ad affiorare, come in un fiume carsico, anche nelle rappresentazioni più arcaiche: come per le opere di Ferruccio Ferrazzi, nelle quali il presente rivive nell’antico attraverso la mediazione di simbologie e rimandi iniziatici. Ed è questo il caso delle sue Figure nella notte (1925), in cui la nitida e rigorosa saldezza dell’impianto compositivo, strutturato attraverso una costruzione architettonica di matrice classica, appariva percorsa da diagonali e prospettive che, riprendendo la sua visione prismatica della realtà, contribuivano ad animare di arcaiche figure questo misterioso paesaggio. Un segno primitivo e popolare, impregnato dalla magia e dal mistero di antichi riti iniziatici, connota anche La Sibilla di Terlago (1930) di Tullio Garbari che verso i primi anni venti – attraverso la lettura di Jacques Maritain e di Antonio Rosmini e le visite al Santuario della Madonna di Pinè – cominciò a elaborare un linguaggio sempre più semplificato ed essenziale. Un’analoga riduzione compositiva, quasi al limite del naïf, caratterizzò pure, nella raffigurazione di bucoliche e primordiali scene campestri, la pittura di Gisberto Ceracchini. Eppure anche nel suo caso l’arcaismo appare attinto dalla lezione degli antichi maestri - si veda ad esempio la costruzione piramidale delle figure di tradizione quattrocentesca del suo dipinto Estate (1928) – a conferma di un diffuso richiamo, nel clima del “ritorno all’ordine”, a classiche nozioni stilistiche e iconografiche51. Esplicito ad esempio fu il rimando alle vanitas seicentesche nelle nature morte (genere peraltro meno frequentato nel corso del decennio) di Dudreville, che a tal proposito ebbe a dichiarare: «I miei maestri io ho tentato di seguire non nella tecnica e nell’aspetto ma nello spirito più profondo che li ha animati. E senza risalire ai Fiamminghi – forse rischiando di mettere un piede in fallo – io li ho cercati in qualunque epoca che non fosse la nostra: quando, anche ai vari geni, era permesso non vergognarsi di essere probi»52. E ancora ascendenze classiche – Pollaiolo, Bronzino, Leonardo, Velasquez, ma soprattutto il Tiziano della Fanciulla con vassoio di frutta (Lavinia) degli Staatliche Museen di Berlino – appaiono palesi ne La terra (1921) di Achille Funi; ma come scrisse la Sarfatti, recensendo la sua partecipazione alla XIII Biennale di Venezia del 1922, «La maternità e la fanciulla recante frutta intitolata La terra sono pitture tutta saldezza senza groppi, studio dell’antico per assimilazione senza imitazione, costruzione senza enfasi di retorica»53. In quest’opera, che lo stesso Funi considerò una tappa fondamentale della sua ricerca pittorica54, l’allegoria novecentesca della terra, incarnata dal ritratto della sorella Margherita nelle vesti di una Pomona contemporanea, declinava infatti, in sintonia con la “moderna classicità” teorizzata dalla Sarfatti, un impianto compositivo di matrice rinascimentale con un’algida rappresentazione, costruita con solide volumetrie compositive, dell’interno di un’abitazione moderna. In essa la finestra aperta riproponeva un collegamento e un’assimilazione tra uomo e natura, che si ripresenta anche nell’aspro e selvaggio paesaggio di Mario Sironi La fata della montagna del 1929, ma che soprattutto è possibile riscontrare nell’immobile atmosfera del dipinto Gli apostoli (1926) di Felice Carena, il quale nel 1924 era stato chiamato a tenere la cattedra di pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze, di cui divenne in seguito direttore. Oppressi dalle chiome incombenti degli alberi, i discepoli addormentati, quasi pietrificati nel sonno, sembrano assimilarsi alla terra e alla vegetazione, accentuando il senso di sospensione e di attesa che precede il tragico arresto di Cristo. E, anche in questo caso, la realistica rappresentazione dei tipi umani, delle pose e dei dettagli naturalistici

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presentava, all’interno di un monumentale impianto compositivo, il diretto riferimento a un’opera del passato: il Cristo nell’orto degli ulivi di Caravaggio, già al Friedrich Museum di Berlino ed esposto a Firenze nel 1922, poi andato distrutto. Il tema del sonno – come fuga dalla realtà, come torpida evasione dalle angosce del presente e dalla consapevolezza della propria incapacità a incidere sul reale – trova peraltro una serie di emblematiche rappresentazioni nella cultura letteraria e figurativa del tempo. Non solo il desiderio di chiudere gli occhi, di «un sonno vuoto, nero come la pece»55, colpisce in maniera ricorrente i protagonisti de Gli indifferenti, ma un persistente assopimento rappresenta anche l’unico rifugio per Pietro, il protagonista di Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi, di fronte alla sua paralizzante incapacità ad affrontare la realtà: «Una specie di struggimento a lui noto assalì il suo cervello come una polle diaccia, che non gli permetteva mai di fare qualche cosa»56. Questo romanzo che, nonostante l’ambientazione vernacolare, sembra anticipare istanze di matrice esistenzialista e temi propri dell’analisi psicanalitica, rappresenta un'altra versione, propria della letteratura del tempo, della figura dell’inetto: un personaggio incapace di opporre resistenza agli ostacoli quotidiani che vive una condizione di incoscienza, di sostituzione del sogno con la realtà e di delirante visione onirica. Un sonno senza serenità e pace si ritrova infine – attraverso un’ampia gamma cromatica pastosa e materica ma, allo stesso tempo, luminosa nei contrasti tonali – nel disfacimento carnale della Siesta rustica (19241926) di Fausto Pirandello. Anche in questo dipinto - influenzato da Carena, ma attento pure alla lezione di Casorati (come reso evidente dalla similitudine con l’impianto compositivo di Meriggio del 1923) – il sonno delle due figure femminili appare percorso da un’interna tensione nervosa, accentuata da una fisicità carnale che si estende agli oggetti e da un’oppressiva sensazione di schiacciamento che riduce lo spazio visivo.

Alienazione. Maschera Marionetta Umo meccanico Nel decennio che si apre con i postumi della più atroce carneficina che la storia dell’umanità avesse mai visto, la rappresentazione del corpo umano – integro, atletico, mutilato, devastato, rabberciato, mascherato, meccanizzato, automatizzato – assunse un ruolo centrale nella produzione artistica, dalla pittura alla plastica, dalla letteratura alla fotografia, dal teatro al cinema. La visione diretta delle mutilazioni e deformazioni con cui i soldati tornarono dal fronte suscitò angoscia e sgomento, ansia e preoccupazione; stimolò iniziative finalizzate a facilitare il reinserimento dei reduci nella vita sociale ed economica della nazione57, ma sollecitò anche riflessioni a livello teorico58. Nella diffusione del tema della maschera nella cultura figurativa europea tra la seconda metà degli anni dieci e quella del decennio successivo59 giocò un ruolo fondamentale l’estro creativo di Picasso: nel 1917 realizzò le scene e i costumi per il balletto Parade60, recuperando la tradizione classica della commedia dell’arte italiana61. Tra gli artisti nostrani fu Severini, ormai da tempo trait-d’union tra Italia e Francia e capofila del rappel à l’ordre con la sua Maternità del 1916, a cimentarsi con il tema delle maschere a partire dal 1921, quando iniziò le decorazioni per il castello di Montegufoni. L’impegno per la dimora del barone inglese George Sitwell coincise con la pubblicazione di Du cubisme au classicisme. Ésthétique du compas et du nombre, un trattato a metà strada tra estetica e matematica in cui l’artista elaborò una nuova visione basata sulle regole armoniche e proporzionali dei numeri e della geometria, dei colori e della musica, che lo condusse a un classicismo basato su calibrati ritmi compositivi, senza rinnegare però le esperienze avanguardiste, mediando quindi tra astrazione e figurazione, tra realtà depurata e cubismo sintetico, e, al contempo, recuperando, come de Chirico, il “mestiere”. Negli affreschi di Montegufoni le sue maschere seguono infatti schemi geometrici rigorosi – varie combinazioni di quadrati e triangoli disposti a rombi – e le regole della sezione aurea, con un’accentuazione dell’effetto bidimensionale, come nel caso de I due arlecchini e dell’Arlecchino musicante, mentre la figura di Pulcinella e l’albero sullo sfondo nella Famiglia di Arlecchino, disegno che poi non venne eseguito, ritornano nel dipinto La famiglia del povero Pulcinella (1923) acquistata dal mercante Léonce Rosenberg, per la cui casa parigina Severini realizzò più tardi alcuni pannelli nei quali le maschere si muovono sullo sfondo di rovine romane, dando vita a un’atmosfera dal forte sapore metafisico. Il tema della maschera si lega quindi strettamente al teatro, e non è un caso che la prima rappresentazione di Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello sia andata in scena al Teatro Valle di Roma proprio nel 1921. Del resto anche nel dipinto Le Maschere (1922) di Emilio Malerba la composizione è decisamente teatrale, con i personaggi collocati in due gruppi distinti, quello illuminato delle donne accosciate e la figura in ombra, legati dalla diagonale della posa di Arlecchino, teatralità accentuata dal taglio da sequenza cinematografica o da soggetti in posa per una fotografia. Non c’è dubbio che nella modernolatria del futurismo delle origini albergassero già i sintomi di un’evoluzione in senso macchinista del corpo umano62: basti pensare al romanzo Mafarka il futurista, il cui protagonista è un automa alato semidivino63. Particolarmente attivi in tale ambito, agli inizi del decennio successivo, furono Balla e Depero, che nel 1915, con la pubblicazione del manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, avevano dato il contributo più significativo e foriero di sviluppi per la vitalità del movimento. L’artista roveretano in particolare nei suoi Balletti plastici (1917) sostituì gli attori con manichini e popolò Anihccam

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del 3000 (1924)64 di uomini-locomotiva, che poi ritornano, come nel caso dei cavalieri meccanici in mostra, negli arazzi eseguiti dalla sua Casa d’Arte. L’anno prima, Enrico Prampolini, Ivo Pannaggi e Vinicio Paladini avevano firmato il manifesto Arte meccanica in cui la macchina diventa fonte di ispirazione spirituale, ancora una volta a dimostrazione di come il futurismo fosse in linea con i risultati più aggiornati della cultura europea dell’epoca: la figura del robot comparve nel 1920 nella «commedia utopista» R.U.R. del ceco Karel Čapek e nel film italiano Uomo meccanico del francese André Deed (alias Cretinetti) uscito nel 1921. L’uomo razionale (1928) di Nicolaj Diulgheroff è in puro stile macchinista con la testa che è una combinazione di molle, ingranaggi e cilindri metallici, quasi fosse appena uscita da una catena di montaggio; il Manichino (1927) di Mino Rosso si apparenta invece alla tradizione metafisica; la «sintesi plastica» Dux (1929) di Ernesto Thayaht, che tanto piacque a Mussolini, è una rivisitazione del tema del robot: la celebrazione dell’uomo-macchina raggiunge così il suo apogeo. Qualche anno prima, però, Ruggero Vasari nella tragedia L’angoscia delle macchine (1923), precedendo di due anni il celeberrimo Metropolis di Fritz Lang, aveva paventato il pericolo di un controllo distopico della tecnologia sull’uomo e, in particolare, di un suo uso distorto da parte del despota. Mai previsione fu più azzeccata: dalla maschera al robot l’evoluzione dell’uomo degli anni venti doveva concludersi nel manichino meccanizzato di tante “liturgie” totalitarie65.

Identità. Stereotipo Ambiguità Desiderio Nella dissoluzione del «mondo di ieri» seguita alla Grande Guerra, furono le donne a diventare la nuova figura sociale del decennio. Durante gli anni del conflitto, infatti, le donne, strappate al focolare domestico e costrette ad esercitarsi nei mestieri più disparati66, acquistarono un’autonomia e un’indipendenza che mai avevano conosciuto prima. Appena impostosi, il fascismo cercò di ristabilire lo statu quo, assegnando loro il ruolo di fulcro della vita familiare e di madre riproduttrice della stirpe67. Si trattò di un tentativo non privo di contraddizioni. Basti solo pensare a due figure femminili che furono molto vicine a Mussolini e che tale ruolo negarono in maniera diversa: Margherita Sarfatti – critica d’arte, fondatrice e animatrice del movimento del Novecento italiano, donna colta e indipendente che, sua amante per molti anni, contribuì così alla sua formazione, non solo culturale68 - ed Edda, la figlia prediletta, che amava i look maschili e i pantaloni, fumava in pubblico, giocava d’azzardo e tradiva, ricambiata, il marito Galeazzo Ciano. La donna tutta figli e famiglia doveva affiancarsi all’“uomo nuovo” fascista, atletico ed efficiente, entrambi in linea con le mire eugenetiche del regime. La figura maschile, in particolare, fu debitrice dell’esperienza che si consumò nel 1919 nella Fiume di d’Annunzio, caratterizzata da una convergenza pressoché totale tra arte e vita che, non a caso, interessò i futuristi: Marinetti e Mario Carli vi si recarono, affascinati proprio dal modello di una società utopica profondamente estetizzata69. Alcuni tratti della vita nella Fiume dannunziana (i motti spavaldi e il culto del capo, ad esempio) trovarono posto nei rituali civili del regime, contribuendo così a creare la sua estetica politica. Ciò che invece di quell’originale esperimento non passò nel fascismo furono le forme di emancipazione decisamente all’avanguardia: l’edonismo esasperato, di matrice ancora decadente; la grande considerazione per le donne, ammesse tra i Legionari, come nel caso di Rachele Ferrari Del Latte e Elisa Majer Rizzioli; il divorzio; l’uso di sostanze stupefacenti o, al contrario, l’adozione di uno stile di vita sano, a contatto con la natura, quasi un naturismo dalle evidenti implicazioni misticheggianti, come nel caso di Guido Keller e Giovanni Comisso70, e infine l’aperta tolleranza nei confronti dei rapporti omosessuali. Conviene qui notare che, nonostante l’enfasi propagandista dedicata alla creazione dell’uomo e della donna “nuovi”, non furono poche, nel corso degli anni venti, le avvisaglie che denotavano l’emergere di incertezze identitarie e di orientamento sessuale. Già l’Idolo del prisma di Ferruccio Ferrazzi è indicativo in questo senso, proponendo un’immagine femminile decisamente androgina, imparentata con il tema della bambola e del manichino. Si assistette pure a un recupero del motivo simbolista-decadente della donna vampiro, esemplificato nelle Due tigri disegnate da Sandro Vacchetti per la Lenci, come se la misantropia ante-guerra avesse trovato un riscontro nell’ansia misogina del periodo fascista. La figura femminile, ferina e minacciosa, si trasforma in belva: nel rapporto, simbiotico e simbolico, tra donna e tigre, la prima è colta nell’atto di metamorfizzarsi in felino, come dimostrano la forma degli occhi e delle orecchie ma anche la resa dei capelli. Del resto anche il mito di una figura come la marchesa Casati resiste, grazie ai suoi eccessi e alle sue stravaganze, per l’intero decennio, pur restando comunque un personaggio della Belle Époque e, non a caso, un giovane Renato Bertelli la ritrae con le linee sinuose di un liberty attardato. Anche l’insistenza sull’amicizia sororale presenta una buona dose di ambiguità (si pensi alle Amiche di Malerba e di Oppi, ma anche al Grande nudo di Ram), che si svela apertamente nel bacio saffico di Ciampi, in cui solo il linguaggio espressivo di tono accademico-classico sembra contenere la carica provocatoria del soggetto71. Dal punto di vista maschile è il caso di de Pisis a essere eloquente. Sul finire degli anni venti, ma con alcune anticipazioni precedenti, nei suoi quadri ma soprattutto nei suoi disegni compaiono di frequente ritratti maschili e corpi nudi di giovani uomini. È come se ci trovassimo davanti al diario intimo dell’artista: perché quei corpi non sono per lui l’occasione di riflettere su modelli antichi; sono testimonianze vive e sensuali,

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spesso venate di malinconia, delle sue passioni, rese con tratti veloci, espressivi e lirici a un tempo. L’omosessualità venne identificata come un pericolo per la creazione dell’“uomo nuovo”72. Punita ma ancor più negata, diventò, nelle mani del Duce e della polizia segreta, un’arma di ricatto, per tenere in pugno impiegati pubblici, membri del partito, gerarchi. Ancora nel tragico aprile del 1945, Mussolini, mentre tentava di fuggire in Germania, portò con sé il dossier sulla presunta omosessualità dell’erede al trono, il principe Umberto, pensando di poterla usare come arma contro la monarchia colpevole del tradimento dell’8 settembre. Pedinati e spiati per la loro supposta o reale omosessualità furono anche altri membri di casa Savoia: il conte di Pistoia e quello di Bergamo e soprattutto il principe Filippo d’Assia, gerarca nazista e genero di Vittorio Emanuele, di cui aveva sposato la figlia Mafalda73.

Déco. Eleganza Lusso Edonismo Gli “anni ruggenti” rappresentarono l’altra faccia dell’“età dell’incertezza”. Anche nell’Italia uscita stremata dalla guerra si assistette, ad esorcizzare il dolore e l’angoscia di un futuro incerto, a una voglia di lusso ed eleganza, di glamour ed edonismo. Come in ambito internazionale, anche da noi fu il déco, gusto ancor prima che stile, a incarnare visivamente tale desiderio di evasione e appagamento sensoriale. Risposta in chiave decorativa alle nuove sfide della modernità, il déco si espresse al meglio nell’ambito delle arti applicate – dal mobile alla ceramica, dall’illustrazione alla moda – e dell’architettura74 ma, a livello sia tematico sia espressivo, assonanze di tale gusto si trovano anche nelle arti figurative. Sono non a caso due artisti che vissero a lungo a Parigi a darcene prova. Anselmo Bucci, che si era trasferito nella capitale francese nel 1906 restandovi fino allo scoppio della guerra, in L’Odéon (1919-1920) ci porta diretti, con sguardo un po’ voyeuristico, nell’interno affollato di un cinema dell’epoca. A cavallo del nuovo decennio il pittore riprese a studiare con attenzione la pittura del passato, «la virtù degli antichi»75, esercitandosi con impegno nel “mestiere”: e così il disegno diventa più preciso, il colore più sobrio e uniforme, il chiaroscuro più regolare, la prospettiva più corretta. L’Odéon conferma questo sforzo nella vigorosa resa plastica e nella composizione statica e complessa con gli spettatori disposti ad ellissi, in cui il disegno predomina sul colore. Vissuto anche lui a Parigi dal 1906 al 1914, Libero Andreotti, nella Donna che si asciuga (1922), media tra riferimenti all’antico – qui, in particolare, le Veneri cinquecentesche del primo manierismo toscano – e la sintesi plastica di Maillol e Bourdelle. Artista prediletto da Ugo Ojetti e dalla moglie Fernanda, la loro collezione conservava ben ventitré opere plastiche dell’artista toscano. In essa entrò anche Il ritratto della moglie di Ubaldo Oppi (1924), che proprio in quell’anno consumò lo strappo con il gruppo originario del Novecento, poiché, contravvenendo le regole, decise di esporre da solo alla Biennale veneziana. Nella sala a lui dedicata, a poca distanza da quella degli ex colleghi milanesi che per la prima volta si presentavano alla ribalta internazionale sotto l’egida della Sarfatti, Oppi espose venticinque opere tutte realizzate negli ultimi anni, tra cui alcune «figure di giovani donne atteggiate con grazia di statue», come scrisse Ojetti in catalogo76, tra cui, appunto, Il ritratto della moglie. Il soggetto edonistico – la moglie in abito da sera con copricapo a nastro e il raffinato scialle accanto – è presentato con un’oggettività algida e misteriosa – si veda in particolare il gesto delle mani – che isola la figura in un spazio senza tempo e non stupisce certo che i suoi dipinti possano essere stati fonte di ispirazione per i colleghi tedeschi della Neue Sachlichkeit77. La donna di Giacomo Balla, invece, elegante ma scattante nel suo abito da sera, sembra essere stata concepita per illustrare una rivista di moda, come proverebbero l’esecuzione rapida e l’uso di due soli colori. Epilogo La mostra si chiude con due straordinarie opere di Arturo Martini, La Pisana e La lupa ferita. Della prima, il cui gesso risale al 1928, è esposta la versione in pietra del 1928-1929, mentre della seconda il bronzo unico del 1930-1931. Il passaggio tra gli anni venti e il decennio successivo fu per lo scultore trevigiano un momento di particolare felicità creativa, coronato dalla partecipazione, all’inizio del 1931, alla I Quadriennale romana, in cui espose sei opere (il bronzo Il figliol prodigo, già presentato alla seconda rassegna milanese di Novecento due anni prima, il gesso La sposa felice, la Maternità in legno e quattro grandi terrecotte: Ragazzo seduto, Pastore, Madre folle, Donna al sole), aggiudicandosi il primo premio per la scultura. E fu proprio nel 1931 che il conte Arturo Ottolenghi e la moglie Herta von Wedekind – la quale, dopo iniziali prove di scultura a Roma con Hans Stoltenberg Lerche, si era dedicata alla produzione di arazzi, tappeti, ricami, esposti alle principali mostre nazionali e internazionali degli anni venti – decisero di acquistare per propria collezione Il figliol prodigo – collocato nel cortile del ricovero per anziani di Acqui Terme, in quel momento in fase di ristrutturazione ad opera di Marcello Piacentini –, La Pisana e La lupa ferita. Dal punto di vista iconografico queste due ultime sculture, che con Donna al sole (1930) costituiscono una sorta di trittico erotico e vitalistico incentrato sulla figura femminile, concludono idealmente il percorso della mostra.

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La Pisana, rotonda e armoniosa nella sua posa non convenzionale, esprime l’elemento femminile primigenio, fatto di una sensualità totale ma non pericolosa e, non a caso, la figura è addormentata, colta in un sonno profondo, a metà strada tra una distaccata sospensione e una vulnerabile assenza di difese, ricollegandosi così a quell’atteggiamento esistenziale ricorrente nella produzione figurativa del decennio, da Carena a Bacci a Pirandello. Poco importa se all’artista sia stato d’ispirazione un lontanissimo ricordo infantile – una prostituta che condivideva la misera casa paterna colta, da dietro, nell’atto di un’abluzione intima – o piuttosto la famosa creatura letteraria di Ippolito Nievo, protagonista delle Confessioni d’un italiano, una delle letture, peraltro, predilette di Martini. Come La Pisana del romanzo, infatti, quella martiniana è un simbolo a un tempo di libertà e innocenza, di estrema purezza e sensualità. «Un primitivismo di maniera si può ancora scorgere nella testa, ma non più nel corpo. La forma è di un rigore assoluto, d’una semplicità esasperata, eppure vibrante, sensibile, sensuale, mentre la serenità della perfezione eleva la sensualità al piano della vita teorica. Ha voluto Martini delle forme classiche? La Pisana è classica e non neoclassica» scrisse acutamente Leonello Venturi78. La lupa ferita incarna invece l’elemento primordiale femminile inteso come animalità pura, ferinità incontenibile. Un condensato di violenza che esplode, dopo essere stata trafitta dalla freccia, nella bocca aperta nell’urlo che, al pari di quello di Munch, si propaga allo spazio circostante, tanto che i capelli della donna si spostano all’indietro, diventando un grumo di materia parallelo al corpo. Poche opere come questa riuscirebbero a esprimere meglio, alla soglia del nuovo decennio, la violenza che, sotto traccia o palesemente, percorse l’intera parabola degli anni venti. Forse ispirata al personaggio dell’omonima novella di Giovanni Verga, la figura è presentata carponi, posizione primordiale e animalesca per eccellenza, le cui fonti di ispirazione possono essere state molteplici. Nel «sacco poetico» di Martini tutto finisce e tutto si fonde: la sculturetta della lavandaia egizia (in realtà una donna che macina il grano) conservata al museo archeologico di Firenze, la schiena inarcata della Chimera etrusca, la Lupa capitolina allora tanto di moda, come pure la Krichendes Mädchen dello scultore tedesco Georg Kolbe presentata alla mostra del Cinquantenario a Roma nel 1911 o ancora La lupa dello scultore modenese Giuseppe Graziosi presentata alla Biennale di Venezia del 1912, queste ultime, entrambe, debitrici dell’Ugolino di Rodin79. Le fonti si fondono e l’artista le recupera e le interpreta con grande libertà grazie a un linguaggio espressivo ormai maturo e personalissimo. Se La Pisana è Eros allo stato puro, nella Lupa Eros si incontra con Thanatos, in quel pericoloso connubio tra vitalità e distruzione che è una componente degli anni venti e che troverà l’epilogo più tragico alla fine del decennio successivo.

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Barilli, Solmi 1980; Bossaglia 1983; Fagiolo dell’Arco 1988a; Rivosecchi 1990; Pontiggia, Quesada 1992; Pirani 1998; Pontiggia, Colombo, Gian Ferrari 2003; Mazzocca 2013; Giubilei, Terraroli 2013; Cogeval, Avanzi 2015; Avanzi, Ferrari 2017; Belli, Terraroli 2017; Celant 2018; Ferrari, Giacon, Montaldo 2018. 2 Bossaglia, Fiz 2003; Benzi 2004; Cagianelli, Matteoni 2009; Terraroli 2017. 3 Lettera di Anna Kuliscioff a Filippo Turati, 8 febbraio 1922; pubblicata in Scurati 2018, p. 464, testo che ha contribuito alle nostre riflessioni sugli anni venti. 4 Nel 1923 Marinetti, Mario Carli e Emilio Settimelli pubblicarono su “Il Futurismo” (6, 1 maggio 1923) L’Impero Italiano, un manifesto indirizzato a Mussolini, in cui affermavano che l’impero italiano avrebbe dovuto essere tenuto in pugno da «l’italiano migliore», autorizzato a governare senza parlamento, ma solo con un consiglio tecnico di giovani. Il foglio conteneva anche il manifesto L’inegualismo, firmato dal solo Marinetti, in cui erano contenuti i seguenti slogan: «Abbasso l’eguaglianza! Abbasso la giustizia! Abbasso la fraternità! Abbasso la democrazia! Abbasso il suffragio universale! Abbasso la politica! Abbasso il parlamento! Abbasso il comunismo!». 5 Cfr. Salaris 2002. 6 B. Mussolini, Discorso al circolo rionale Amatore Sciesa, Milano, 4 ottobre 1922; in Scurati 2018, p. 527. 7 Si veda in proposito Fagiolo dell’Arco 1988b, pp. 11-33; Avanzi 2017, pp. 29-43; Terraroli, pp. 11-30. 8 XVª Esposizione Internazionale d’Arte 1926, n. 2, p. 71. Indicata in catalogo con il titolo Uomo seduto, l’opera fu però pubblicata col titolo La tempesta su Pica 1926, p. 137. Esiste una copia in terracotta patinata in collezione privata, Milano: vd. Perocco 1966, cat. 122, fig 103, e De Micheli, Gian Ferrari 1989, cat. 25, fig. p.133. 9 Moravia 1929; citato da Moravia 2018, p. 227. 10 Moravia 2018, p. 231 11 Molti degli artisti attivi negli anni venti provenivano dalle avanguardie dissolte dalla guerra e la dialettica in quest’epoca tra modernità e classicismo è testimoniata, ad esempio, da due significativi episodi: il secondo numero di “Valori Plastici” del febbraio-marzo 1919, dedicato integralmente al cubismo francese (con riproduzioni di opere di Picasso, Braque, Severini, Léger, Gris, Metzinger, Blanchard, Laurens e Lipchitz e

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testi, tra gli altri, di Cocteau, Max Jacob, Blaise Cendrars, Breton e Soupault), e l’attacco nel manifesto Contro tutti i ritorni in pittura (1920), firmato da Dudreville, Funi, Russolo e Sironi, ai transfughi futuristi Severini e Carrà, colpevoli di un ritorno «alle già troppo note costruzioni plastiche degli antichi». 12 Unico giudizio positivo fu quello di Apollinaire, come testimoniato da Severini nel resoconto di una sua visita nel 1917 alla clinica dove il poeta e critico d’arte era ricoverato. Cfr. Severini 1983, p. 208. 13 Tema da lui ripreso successivamente ne La famiglia del povero Pulcinella (1923). 14 «Prima che andasse a balia, ebbi per fortuna il tempo di fare un quadro, restato allo stato di preparazione, nel quale lui e sua madre che lo allatta sono rappresentati in una forma semplice che rammenta i primitivi toscani», in Severini 1983, p. 184. 15 Rizzo, che nel 1927 aveva organizzato a Palermo la Mostra d’arte futurista nazionale, nel 1929, in occasione del ventennale del movimento, collaborò alla pubblicazione del numero unico “Arte Futurista Italiana”. Dopo l’adesione al Novecento Italiano, partecipa tra il 1930 e il 1932 alle mostre del gruppo a Buenos Aires, Stoccolma e Oslo. 16 Il soggiorno di Marussig a Genova Sturla, dove risiedette per sei mesi, prendendo alloggio vicino allo studio dello scultore, è narrato in Messina 1974, pp. 214-215. 17 Della testa di Marussig di Messina sono noti altri tre esemplari presso la Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, il Kunsthistorisches Museum di Vienna e il Museo Puškin di Mosca. 18 Si ricordano qui i ritratti della gallerista Jeanne Castel, già segretaria e socia del mercante e collezionista Paul Guillaume; del critico d’arte Waldemar George, uno tra i primi a interessarsi al suo lavoro, attraverso la rivista “Formes” che diresse dal 1929 al 1934, e di Jane Morino, sorella di sua moglie Maria. 19 Sarfatti 1924, p. 77. 20 Venturi 1924, p. 89. 21 Abile imprenditore e raffinato collezionista, grazie anche al sostegno di Lionello Venturi, Riccardo Gualino visse un difficile rapporto col regime, più per ragioni di carattere finanziario, che per motivi ideologici, e nel 1931 fu condannato al confino nell’isola di Lipari; lui stesso ha narrato questa vicenda in due scritti autobiografici: Gualino 2001 e Gualino 2007. 22 Riess 1928, p. 72. 23 Come membro dell’Italy-America Society De Bosis organizzò nel marzo 1927 una mostra personale di Donghi alla New Gallery di New York. 24 Sarfatti 1924, p. 76. 25 Giolli 1926. 26 Sgarbi, Benzi, Toniato 1987, n. 77 p. 99, n. 78 p. 100. 27 Una suggestiva ricostruzione romanzata di tali esperienze è contenuta nel racconto Primo, in Wu Ming 2015, pp. 7-42. 28 D’Annunzio 1918. 29 Santagata – detentore dell’esclusiva della sua raffigurazione iconica – oltre alla celebre effigie plastica, destinata a tutte le sedi dell’ANMIG, ritrasse Delcroix in diverse opere grafiche e pittoriche; cfr. Fochessati, Franzone 2019. 30 Carli 1927, p. 3. 31 Bucci che, rientrato in Italia da Parigi, nel 1915 si arruolò come volontario, insieme a Marinetti, nel Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti, documentò la vita di trincea con schizzi, disegni e incisioni: le 50 puntesecche pubblicate a Parigi nel 1918 col titolo Croquis du front italien; le 50 tavole litografiche a colori intitolate Marina a terra (1918) e le 12 litografie a colori edite nel 1919 col titolo Finis Austriae. 32 Sulla vicenda del Monumento al Fante si rimanda a Sborgi 1990, pp. 45-48 e Paglieri 1994, pp. 96-107. 33 Mussolini 1921; in Scurati 2018, pp. 338-339. 34 Così Marinetti esprimeva la sua esaltazione per la violenza: «[…] alla propaganda della vigliaccheria, noi opponiamo la propaganda del coraggio e dell’eroismo quotidiano […] all’attuale estetica di fango monetato noi opponiamo – sia pure, sia pure! – una estetica di violenza e di sangue!», in Marinetti 1919, p. 232. 35 Una bomba piazzata nel basamento in ghisa di un lampione della piazza esplose in mezzo alla folla, uccidendo all'istante quattordici persone e ferendone quaranta. I morti saranno più di venti; tra essi Benvenuta Monti moglie del macellaio Antonio Ravera, i suoi due figli e il nipote di soli tre anni. 36 Si veda Bernardi 1931. 37 Si tratta del bozzetto preparatorio per un’illustrazione fuori testo de “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, III, 10, ottobre 1925. L’illustrazione definitiva Il tempio è in tempera, olio e biacca su cartone ed è pubblicata in Pontiggia 1990, p. 42 ill. n.18, p.75. La stessa forma della cupola si ritrova anche in Apparizione del 1926. 38 Sbarbaro 1920; citato da Sbarbaro 1963, pp. 11-12. 39 «Nella semplicità comune e quasi banale di quell’episodio Leone avvertiva la presenza di quel “tragico” tanto cercato, di quell’aspro sapore di vita al quale la sua arte tendeva d’istinto», in Dudreville 1994, p. 231.

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Sarfatti 1920. Cfr. Catalogo della mostra individuale di opere pittoriche di Sexto Canegallo 1920, s.i.p., e Exposition des peintures et dessins de Sexto Canegallo 1925, p. 7. 42 Sbarbaro 1914; citato da V. Scheiwiller 1979, p. 11. 43 Martini, che nel 1929 esegui un ritratto di André Breton, Sfinge, così definì il suo controverso rapporto con il surrealismo: «È il movimento modernista più vicino al nostro spirito inquieto. Fui e sono spesso surrealista, ma a mio modo», Scritti autobiografici, ora in Lorandi 1985, p. 29. 44 Sull’attività artistica di Wolf si rimanda a Audoli 2004 e Assmann, Audoli 2007. 45 Questa passione per la montagna fu ispirata anche dalla sua amicizia con Pino Prati che, distintosi per l’arditezza delle sue ascensioni, fu interprete di una dimensione ideologica e nazionalistica dell’alpinismo, allora fortemente sentita, e aderente al fondamentalismo dell’austriaco Eugen Guido Lammer, fautore di un alpinismo estremo e senza guide. 46 M. Bontempelli, Limiti della magia, aprile 1928, pubblicato in Bontempelli 1938, p. 48. 47 Montale 1925, citato da Montale 1981, p. 62. 48 Il suo saggio Appunto sulla pittura del Greco sarà pubblicato postumo nel 1941 sulla rivista “Primato”. 49 Si raccontava infatti che un frate spagnolo avesse profetizzato a un giovanissimo Scipione che sarebbe morto prima dei trent'anni e così avvenne. 50 Giandante X non si pose controcorrente solo dal punto di vista politico, ma anche nell’ambito della sua ricerca artistica, come sottolineato da Leonida Repaci: «Una spietata barbarica negazione della Regola e della Tradizione sul terreno del contenuto; una spasimante ricerca di modernità sul terreno della pura forma», Repaci 1928, s.i.p. 51 La condivisione internazionale a tale atteggiamento estetico, nel clima del rappel à l’ordre, è d’altronde confermato dal testo di André Lhote (Lhote 1920), citato in Pontiggia 2005, p. 49: «Finalmente il Louvre ha riaperto i battenti […] Attendevamo con grande impazienza questo momento[…] Ci sembrava indispensabile farci un’idea dei nostri maestri e insieme situare anche noi, naufraghi nell’oceano tormentato della pittura». 52 Dudreville 1936; citato in Pontiggia 2004, p. 162. 53 Sarfatti 1922. 54 Funi 1931, p. 105. 55 Moravia 2018, p. 151. 56 Tozzi 1919; citato da Tozzi 2017, p. 50. 57 Come significativa testimonianza, grazie anche al ricco apparato fotografico, vd. in proposito L’opera di assistenza agli invalidi della guerra 1919. 58 Vd. in proposito il contributo di A. Cortellessa in questa sede. 59 Vd. Cagianelli, Matteoni 2005. 60 Parade, scritto da Jean Cocteau su musiche di Erik Satie, fu realizzato dai Ballets Russes di Sergej Diagilev. 61 Va notato, per inciso, che il tema della maschera, in particolare di derivazione settecentesca, torna con assiduità anche nell’opera, soprattutto illustrativa, di alcuni artisti déco: tra gli italiani si pensi a Umberto Brunelleschi e Gino Carlo Sensani, solo per citare due esempi tra i più conosciuti. Fu caratteristica del déco la spiccata indifferenza nei confronti delle fonti di ispirazione (Egitto antico e arte contemporanea, arte mesoamericana e settecento veneziano, ecc.), il tutto reinterpretato alla luce di una stilizzazione raffinata ed elegante. 62 Si veda in proposito almeno Ragionieri 2017, pp. 381-433 e Spampinato 2018, pp. 430-437 (trad. it. pp. 584-587). 63 Marinetti pubblicò il romanzo in francese, con il sottotitolo Roman africain, nel 1909 (Marinetti 1909); fece seguito l’anno dopo la versione italiana edita a Milano dalle Edizioni Futuriste di “Poesia” (Marinetti 1910). 64 Il titolo del balletto è non a caso ‘macchina’ scritto al contrario. 65 «Il manichino simboleggia l’annientamento dell’individuo in nome di un supposto bene comune, la sua deumanizzazione, la sua riduzione a puro strumento, e in quanto tale è un monito dell’imminente ingresso in una nuova e ancora più feroce guerra». Spampinato 2018, p. 586. 66 Vd. in proposito il testo di T. Bertilotti in questa sede. Si veda anche Scartini 2017, pp. 313-365. 67 L’Opera Nazionale Maternità Infanzia (ONMI) venne istituita nel 1925. La “battaglia” per la crescita demografica venne lanciata da Mussolini con il famoso “discorso dell’Ascensione”, tenuto alla Camera il 26 maggio 1927. 68 Per la figura di Margherita Sarfatti vd. Ferrari, Giacon, Montaldo 2018. 69 Mario Carli ne lasciò testimonianza in Carli 1920. 70 Vd. in proposito Comisso 1924. 71 Nel 1919 Mura (pseudonimo di Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri) pubblicò il romanzo Perfidie che ebbe grande successo e in cui dichiarava che l’amore tra donne era da preferire alla schiavitù del maschio 41

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Mura 1919). Nel 1934 il suo romanzo erotico SambadĂš, l’amore negro (1934) determinò la censura di Mussolini per le troppo esplicite scene di sesso interrazziale (Mura 1934). 72 Si veda in proposito Benadusi 2005. 73 Benadusi 2005, pp. 232-242. 74 Si vedano i riferimenti bibliografici alla nota 2 del presente testo. 75 Pontiggia 1999, p. 20. 76 Ojetti 1924, p. 121. 77 Benzi 1987, p. 40. 78 Venturi 1930, pp. 556-577. 79 Vd. in proposito Orsini 2017 e relativa bibliografia.

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