L’età dell’incertezza. Un racconto in undici capitoli Matteo Fochessati e Gianni Franzone Rispetto alle numerose esposizioni dedicate, anche in tempi recenti, alle tendenze artistiche degli anni venti1 o, in riferimento alla stessa epoca, al variegato fenomeno déco2, la mostra Anni venti in Italia. L’età dell’incertezza intende focalizzarsi sulla complessità storica, politica, sociale e culturale del decennio e sull’impatto che i suoi precipui caratteri esercitarono sulle ricerche estetiche del tempo, in particolare sulla produzione pittorica e plastica. Gli anni venti rappresentarono infatti una cruciale fase di passaggio tra la carneficina della Grande Guerra (con il conseguente crollo delle certezze e dell’ottimismo che avevano pervaso il periodo della Belle Époque) e la crisi mondiale del decennio successivo che, annunciata dal crollo di Wall Street del 1929 e seguita dalla progressiva affermazione sullo scacchiere internazionale di regimi dittatoriali, ispirati da ideologie nazionalistiche e antidemocratiche, si concluse con un nuovo ancor più tragico conflitto. Come sintetizzato da Anna Kuliscioff in una lettera a Filippo Turati dell’8 febbraio 1922, il turbolento clima del dopoguerra in Italia – caratterizzato dall’incapacità delle élites di governare le tensioni sociali entro il fragile alveo democratico e dalle divisioni tra le forze popolari socialiste e cattoliche, che favorirono l’affermazione e l’ascesa al potere dell’aggressivo e ultranazionalista movimento fascista – presentava «[…] una situazione terribile, il Paese di giorno in giorno si avvicina al precipizio»3. Chiamato al governo dalla Corona con la promessa di restaurare l’ordine, il fascismo a metà decennio – in un clima di violenza culminato con l’omicidio del socialista riformista Giacomo Matteotti – imboccò una deriva dittatoriale col sostegno di una vasta alleanza politica e istituzionale di forze conservatrici e con l’appoggio dei centri finanziari e imprenditoriali. La lunga ombra della guerra e delle sue brutalità; la travagliata transizione a un’economia di pace in un quadro internazionale di persistente arduo assestamento; il passaggio da una febbrile stagione di rivendicazioni sociali e di primi esperimenti di partecipazione politica di massa a una svolta autoritaria; le spinte ai cambiamenti culturali e nei rapporti di genere ereditate dalla Belle Époque: tutto contribuì al diffondersi di un forte senso di incertezza individuale e collettiva. In un fase in cui l’immagine del Parlamento e dei suoi membri divenne sempre più impopolare, si venne affermando una nuova maniera di intendere la politica, che non si identificava più con i modelli di interpretazione della realtà e della storia della tradizione liberale. Il fascismo assurse così a emblema della nuova corrente antipolitica: il disprezzo che manifestava verso i partiti e i princìpi politici tradizionali non appariva infatti vincolato a nessuna specifica dottrina ideologica, non proiettava la propria azione verso nessun futuro, ma si esplicitava piuttosto verso una presa diretta sulla realtà, fomentando odi e risentimenti. L’antiparlamentarismo, condiviso da molte altre forze politiche radicali dell’epoca, appariva peraltro fortemente radicato nei futuristi, poiché tale istituzione rappresentava ai loro occhi l’emblema di un antiquato sistema di governo4. E lo stesso antisocialismo del futurismo è spiegabile, d’altra parte, con il fatto che tale movimento politico veniva inquadrato all’interno delle dinamiche parlamentari, a cui erano invece estranee quelle forze sovversive di sinistra verso le quali Marinetti e molti futuristi continuarono a lungo ad avere simpatia. Significativa, per la sua variegata composizione politica e culturale e per le sue non trascurabili ricadute sulla società italiana del tempo, risultò la breve ma intensa avventura fiumana. L’esperienza di autogoverno della città dalmata esercitò infatti, con i suoi rituali civili, un’influenza fondamentale sull’estetica politica del fascismo, ma contribuì pure a elaborare – grazie a un gioioso approccio libertario, sintetizzato dalla rivoluzionaria Carta del Carnaro redatta nel 1920 dal sindacalista Alceste De Ambris – un utopico ideale di modernità da contrapporre ai tradizionali retaggi nazionali. Inedito prototipo di rivoluzione politica e di costume, la Fiume di Gabriele d’Annunzio rappresentò infine un perfetto modello di applicazione di quella convergenza tra arte e vita, già auspicata dal movimento futurista. Se Fiume – laboratorio di tutte le ribellioni politiche, morali e sessuali – rappresentò la festa della rivoluzione5, la piazza acclamante sperimentata da d’Annunzio fu ben presto perfezionata da Mussolini che, in un discorso di poco precedente la Marcia su Roma, dichiarò: «Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani “indifferenti” che rimarranno nelle loro case ad attendere; i “simpatizzanti”, che potranno circolare; e finalmente gli italiani “nemici”, e questi non circoleranno»6. Con i dovuti distinguo storiografici, si possono ravvisare alcune corrispondenze tra gli anni venti e l’epoca odierna: in particolare nel dominante clima di incertezza e di transizione, nella latente violenza che caratterizza la quotidianità e nello scontro sociale che, fortemente segnato allora dalla lotta di classe, si ripropone oggi a livello planetario nelle problematiche legate alle migrazioni dei popoli. La mostra intende quindi offrire alcuni angoli visuali per interpretare il nostro presente attraverso la lettura del passato. A questa drammatica e convulsa complessità di eventi corrispose infine, nel campo delle arti figurative, un’ampia varietà di declinazioni linguistiche che - spesso integrate nel processo di estetizzazione politica con cui il regime impostò la sua azione di controllo sociale e di creazione di un consenso popolare sempre più totalizzante - rappresentarono il termometro di un’epoca inquieta e tormentata.
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