Madri e maree - Estratto

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“Saprò accoglierlo? Saprò capirlo? Starà bene?”. Quando una nuova vita sta per venire al mondo sono tanti gli interrogativi che si affollano nella mente della futura mamma. Specialmente se è un dono inatteso, a volte l’onda lunga del dubbio rischia di avere il sopravvento e un grande timore può farsi strada: “Questo mondo è così brutto… Saprò difendere il mio bambino?”. Sentirsi inadeguate all’inizio è quasi inevitabile, ma ben presto ci si rende conto che, se si ha il coraggio di essere « imperfette », si scoprono dentro di sé risorse che neanche si pensava di avere. Le storie di alcune donne raccontate in queste pagine mostrano che « nessuna di loro pensava di esserne capace, prima di averci provato ». L’invito è quindi a non lasciarsi sommergere dalla marea, ma a raccogliere con fiducia la sfida che una nuova vita sempre rappresenta.


Libri Liberi 10



Laura Cappellazzo

MADRI E MAREE


Le foto dell’interno sono di Laura Cappellazzo.

PAOLINE Editoriale Libri © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2022 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it • www.paolinestore.it edlibri.mi@paoline.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)


Alla mamma afgana, morta di freddo al confine tra Turchia e Iran per aver dato le sue calze ai due figli perché si scaldassero le manine. Ad A., una madre che ha tentato di raggiungere la costa spagnola a nuoto, legandosi il piccolo figlio sulla schiena, dopo che il loro barcone era affondato. A tutte le madri che, pur non avendo nulla, hanno dato tutto.



La telefonata

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i hai telefonato ieri, mentre preparavo le valigie. Era dopo pranzo, e io in estate, dopo pranzo, sono sempre abbastanza intontita. Sarà il caldo, sarà l’età, sarà che mi ero rilassata al pensiero che oggi saremmo partiti per le vacanze... ma, ecco, ci ho messo un po’ a capire che cosa mi stavi dicendo. « Ciao». «Ehi, ciao! Che sorpresa! » «Ehm, sì... Disturbo? » «Ma no, figurati. Sono qua che lotto contro la voglia di dormire e la non voglia di fare le valigie». «Ah, già, è vero... domani partite... Vabbè, dài, ti chiamo quando torni». «Macché! Guarda che ti conosco e so che poi non mi chiami più! Davvero, non disturbi». « Ok...» Silenzio. Non parli più per qualche secondo. Sento il tuo respiro che attraversa il telefono.

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«Ehi, ci sei? » « Sì, sì...» «Dài, dimmi! Ci sono novità? » « Sono incinta ». Silenzio. Questa volta sono io a respirare attraverso il telefono. Mi ci vogliono alcuni secondi per comprendere la frase. Che intanto aleggia ignara di tutto, tra le onde elettromagnetiche dei nostri cellulari e la roba sparsa sul pavimento di camera mia. « Oh...», rispondo, « non me l’aspettavo», e intanto mi siedo sul letto sopra le magliette che dovevano entrare in una delle valigie aperte. «Neanch’io», aggiungi tu. Ti vedo tenere stretto il telefono con una mano, mentre con l’altra giochi nervosamente con il pacchetto di sigarette. «Dovrai smettere di fumare...» Che idiota! Ma cosa ti sto dicendo! È che davvero non so cosa dirti. Ci conosciamo da anni. So che non era nei tuoi piani. Non ora almeno. « O forse mai», dicevi tu ogni tanto, quando veniva fuori l’argomento. Ma so anche che tu sei come quei ricci piccolini che, se sbagli a prenderli, si rinchiudono e non si fanno più vedere. Stretti stretti in mezzo agli aculei. Sembrano diffidenti e invece sono solo impauriti. Per questo mi immagino anche quanta fatica devi aver fatto a decidere di chiamarmi. Ti vedo cercare il mio nome

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in rubrica e poi posare il telefono perché pensi di disturbare. L’ansia ti riparte dallo stomaco, e non sai se è il terrore o sono già i primi sintomi della gravidanza. Allora sì, di scatto, premi la cornetta verde dello schermo e parte la chiamata. A me. Che non so cosa dire. Sento che continui a respirare, come in attesa. “Buon segno”, penso. Quindi tento di rimediare. « Scusa, Nora... Ho detto una scemenza. Adesso riaccendo il cervello e ti dico qualcosa di intelligente». «Non ti preoccupare. Io mi sono detta scemenze peggiori di questa. Però sì, da ieri non fumo più». «Ma da quando lo sai? » «Da ieri...» «Ah... E lui lo sa? » «Non ancora ». «Ah...» « Già ». Pausa. « Senti, Nora...» Provo a riprendere il controllo della situazione, del mio respiro e di me. «Vorrei chiederti un sacco di cose, ma non so se è il caso adesso. Così per telefono, senza poterti vedere, mentre faccio le valigie». «Ma sì, infatti, ti avevo detto che ti disturbavo...» «No, non intendevo questo. Intendevo che sarebbe il caso di parlarne con calma, e non voglio sembrare indelicata solo perché ho molto da fare».

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«Anch’io vorrei tanto parlarne con calma... con te...» La voce ti si incrina un poco. Mi viene il magone. Vorrei correre da te per darti un abbraccio. Ma devo partire con tutta la truppa. Senza contare che in questo periodo gli abbracci sono ancora vietati (ma cosa mi viene in mente... che razza di pensieri...). Ho come il sospetto che lo abbia fatto apposta, a chiamarmi adesso. Così mi buttavi lì la notizia e potevi tornare a nasconderti, sapendo che io non sarei potuta venire a scovarti e a farti tirare fuori quel marasma che ti sta scuotendo l’anima in questo momento. « Senti, mi è venuta un’idea », azzardo. «Dimmi». Sei curiosa. Lo percepisco dal tono di voce. Il che mi fa capire che davvero hai un disperato bisogno di parlare con qualcuno. « Ci sentiamo mentre sono via. Mi chiami quando vuoi o mi messaggi. Poi quando torno ci vediamo. Ti va? » «Non ti voglio disturbare...», riprovi a nasconderti, «e poi non saprei cosa dire... Ho un casino in testa. Mille pensieri. Lui lo voleva, lo sai. Ma io... io non lo so ancora. Non lo so ancora se lo voglio, ma intanto... è già qua. E io mi sento uno schifo. Ad avercelo qua e non volerlo. Come un regalo che non hai chiesto, e non sai se scartarlo e tenerlo oppure ritornarlo al mittente dicendogli che si è sbagliato, che non lo meriti, che non sai come usarlo...» Vomiti tutto in pochi secondi. Anche questa è una cosa

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che ho imparato di te: fai fatica ad aprirti, a parlare di te stessa, e quando ci riesci butti fuori tutto in pochissimo tempo. E io devo essere pronta a raccogliere tutto, perché tu non ripeti, non approfondisci. Butti là e te ne vai. Perché hai paura. Che cosa ti faccia tanta paura non l’ho mai capito bene. Ma la nostra amicizia si basa proprio sulla libertà che ci concediamo di andare e venire quando ci pare. Come il vento fa con il prato. A volte tu sei il vento, a volte sei il prato. « Se non sai cosa dire, va bene. Lasciamo i discorsi lunghi a quando torno. Però sono sicura che sai cosa chiedere. Che hai anche un sacco di domande in testa ». Ti ho preso! Me lo dice quel sussulto che hai avuto nel respiro. «Allora facciamo una specie di gioco, se ti va. Tu mi fai una domanda e io ti rispondo con una foto. E un vocale. E non serve che tu risponda, che commenti nulla. Vedrai la foto, saprai che mi sto godendo le vacanze e che quindi non stai disturbando per nulla. Se vuoi, ascolti il vocale, se no fa niente. È tutto semplicemente rimandato a dopo, al mio ritorno. Ci stai? » Ci pensi. Perché tu non fai nulla senza prima pensarci per bene. «Va bene... Se non altro mi distraggo un poco, con le foto, intendo. Distolgo il pensiero che va sempre lì, a quel punto che è dentro di me e a cui io non ho ancora dato nessun permesso...» «Lui è a casa? »

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«No, è in trasferta. Tornerà il prossimo fine settimana ». «Meglio, così hai più tempo per pensare, per decidere...» «Ma io non voglio decidere! È questo il punto! Io non voglio decidere proprio niente! Non so decidere per la mia vita, come posso pretendere di essere capace di decidere per gli altri? Per la vita di qualcun altro addirittura! » Sei proprio tesa. La tua voce è nervosa. Sembra che da un momento all’altro possa metterti a piangere. Ma tu non piangi mai. O almeno io non ti ho mai visto piangere. «Nora, respira! Sei solo frastornata e impaurita. Ed è normale». «Non è affatto normale! Se fai un figlio, devi essere felice di averlo, e invece io mi sento una merda. Tu! Tu non ti sarai mai sentita così! » Tenti di colpirmi. «Ah ah ah, sapessi...». Incasso il colpo e me lo tengo. « Cosa? » «Eh, no. Non te lo dico. Sarà una delle domande che mi farai nei prossimi giorni». « Sei fetente...» «È per questo che siamo amiche». « Sì. È vero». Ci lasciamo con questa promessa. Di sentirci attraverso questo gioco di domande, foto e messaggi vocali. Che chissà da dove mi è venuto. Dal torpore delle due di un pomeriggio di agosto, forse. Ma intanto tu hai accettato e io non ti ho perso.

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Pensieri, maree, valigie e foto da spedire

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rmai è sera e il primo giorno di ferie è quasi terminato. I bambini sono andati con The Rock (come ben sai, è così che mi diverto a chiamare il loro papà) a far conoscenza con le piscine del campeggio.

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Fortunatamente ci è capitata una casetta proprio vicino all’area delle piscine, così loro possono andarci tutto il tempo che vogliono perché io dal terrazzino posso vederli a colpo d’occhio. Guardalo! Quello è Sampei, gambe magrissime, costumino azzurro e ciuffo biondo che brilla luccicante. Sta provando lo scivolo con le curve. Dietro di lui c’è Di, un concentrato di energia pura e allegria, sempre appresso al fratello maggiore di poco. Mi bastano un paio di secondi e vedo Atti, la sirena (Atti è il diminutivo di Attivista, ma te lo spiegherò in un altro momento). Sta già nuotando felice nella piscina più grande. Skywalker, il maggiore, sta girando come un moscone impazzito per tutta l’area della piscina. Lui è fatto così: prima di scegliere dove installarsi, deve fare il giro di tutto l’esistente e, nel più breve tempo possibile, avere una mappa mentale chiara e precisa di tutto ciò che potrebbe sperimentare. Per decidere finalmente dove posarsi felice. Non vedo The Rock. Però presumo che quell’enorme ombra scura a mollo nelle basse acque bianche della piscina chiamata «Laguna » non sia un’installazione artistica ma sia proprio lui: sdraiato e beatamente incredulo del fatto che sia lunedì, ore sei e dieci di pomeriggio, e non stia lavorando come uno schiavo egizio ai tempi delle piramidi. Insomma, per noi sono iniziate le tanto sognate, attese e, quest’anno come non mai, agognate vacanze. Ti racconterò dove siamo capitati, perché è un posto semplicemen-

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te meraviglioso. Semplicemente nel senso che è semplice, come piace a noi. Meraviglioso perché non ci immaginavamo proprio che in questa zona del Veneto ci fosse un luogo così: immerso nella natura, selvaggio, isolato e bello. Bello. Bello. Io mi sto godendo il silenzio del bungalow. Il silenzio è ciò che cerco in queste vacanze. Ti vedo sghignazzare. Non credi sia possibile trovare silenzio al mare, a fine agosto, in un camping che conta millecinquecento posti letto? Passa un anno chiusa in casa con quattro figli, di età e bisogni diversi, a causa di una pandemia e poi vedremo se un campeggio al mare non ti sembrerà l’isola sperduta dei Pirati dei Caraibi! Sono arrivata stremata a queste vacanze. È stato un periodo duro, impegnativo e intenso. Noi famiglie italiane abbiamo dato prova di essere davvero le fondamenta di questo Paese. E non c’è niente di romantico in questa affermazione. C’è invece tanta stanchezza e rassegnazione. Hanno chiuso le scuole: noi genitori siamo diventati, dall’oggi al domani, professori e insegnanti, educatori, direttori scolastici, personale ATA esperto di sanificazione e animatori digitali competenti in piattaforme didattiche online. Hanno chiuso le attività sportive: siamo diventati allenatori, campioni di basket in salotto, di lotta libera sul divano, esperti di regolamenti di qualsiasi tipo di gioco di carte del pianeta terrestre, e abbiamo iniziato a praticare

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yoga online per rimanere sani di mente. Tanto, tanto yoga. Credimi. Hanno chiuso i cinema e tutte le altre tipologie di svago per bambini e ragazzi: siamo diventati critici cinematografici di alto calibro, riuscendo a trovare per ogni serata un film diverso capace di mettere d’accordo un quattordicenne affamato di supereroi che se le danno di santa ragione, una dodicenne in astinenza da storie d’amore e due piccole pesti che vogliono colpi di scena e risate a volontà. Hanno chiuso il lavoro. Troppo a lungo per qualcuno, per niente per altri. Ma ci siamo inventati lo smart working sulla luna, dal terrazzo, dal bagno o appesi a un lampadario, ché si prende meglio. Abbiamo organizzato i turni perché almeno un genitore stia a casa con i minori da noi prodotti, altrimenti si rischia una denuncia per abbandono e negligenza. Ma, soprattutto, e questa è stata davvero un’impresa da eroi, ci siamo inventati uno stipendio. Cioè il modo di fare la spesa lo stesso, in poche parole. Senza poter lavorare se avevi un’attività con il codice Ateco non congruente alle disposizioni ministeriali. Senza lavoro pur avendo il codice giusto. Senza paga se sei partita Iva con il codice giusto e hai pure lavorato, ma alla fine il cliente ti risponde: «Eh, sai com’è, ti pago più avanti, sì? Ché adesso c’è il Covid». Io e The Rock cadiamo in quest’ultima categoria. Siamo stati bravissimi, veri campioni, noi genitori. Ce lo dobbiamo dire. Abbiamo assunto tutto il carico e lo ab-

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biamo portato fino a qui. Fino a questi ultimi giorni di agosto. E ora, prima di farci prendere dall’ansia della ripartenza di settembre (inizierà di nuovo la scuola, non inizierà? Mah... ormai ci aspettiamo qualsiasi cosa), abbiamo tutta l’intenzione di sfruttare al massimo questi sette giorni di vacanza. Sette giorni di nulla. Niente compiti estivi, niente clienti pretenziosi, niente richieste di nessuno, né digitali né in presenza. Il telefono: spento. Ciao, mondo. Ma. Ma ci sei tu e la tua gravidanza. E la mia mente corre a voi ogni secondo. Tu lo sai che io adoro la montagna. La montagna mi ricarica il fisico, mi dà un’energia pazzesca. La natura, le altezze, la roccia, il vento, la fatica delle escursioni: tutti elementi che mi riempiono di vigore. In montagna il mio corpo si rafforza felice e la mia testa tace. Al mare mi succede il contrario. Ci veniamo perché fa bene ai piccoli. The Rock e io non eravamo mai stati al mare tanto a lungo fino a che non siamo diventati genitori. E così ho scoperto che il mare ha su di me l’effetto opposto della montagna: mi spegne il corpo e mi accende i pensieri. Al mare riposo, mi installo sulla sabbia e non faccio nulla. Beh... a parte correre di qua e di là per mettere la crema solare, portare la merenda, distribuire i fazzoletti, togliere sabbia dagli occhi, riportare la merenda. E l’acqua? È già finita? «Ma io ho sete! ». E alla fine « mi scappa la pipì»

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e si parte per la caccia al tesoro. Dove il tesoro è trovare una toilette pulita nelle cabine di bianco dipinte. Comunque, dicevo, al mare il mio corpo va in stand by. Mi viene una pacatezza addosso, una tranquillità fisica che persino la mia tribù se ne accorge e mi chiede sognante se anche a casa rimarrò così calma e serena. Al contrario, la testa si accende. Si accendono i ricordi, i pensieri, le riflessioni. Vanno e vengono seguendo il movimento delle onde. Arrivano, frullano in testa, lasciano un po’ di schiuma e poi se ne vanno, così come sono venuti. E io li accolgo. Perché al mare i miei pensieri non mi disturbano. Non sono come quelli di casa, della vita vera: pensieri pesanti, problemi da risolvere, piani da organizzare. I pensieri del mare sono leggeri, sono maree che mi portano lo sguardo all’orizzonte. E ancora più in là, verso il futuro, il domani. Oppure mi portano indietro, come la risacca, che trattiene per rilasciare ricordi che non si ricordavano più. Ecco. Al mare il corpo riposa e la mente si lascia cullare da ondate calme. Quest’anno i pensieri mi portano a te e alla vita che ti è arrivata addosso. E dopo tornano a me. Ma non a me adesso. A me quando ero mamma da poco. A me quando ero mamma da un po’, ma mi sentivo tale ancora da poco. Alle cose che ho imparato. Alle domande che ho. Alle domande nuove che hai tu.

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Hai bisogno di qualcuno che ti distragga, che chiacchieri senza che tu gli abbia dato un motivo e che, così facendo, ti riporti a te stessa. Che risponda a domande che non hai posto. Che racconti storie che non hai chiesto. Hai bisogno di qualcuno che con la sua presenza futile ti riempia l’appartamento in cui vivi, così che non ci stia più nessun altro pensiero lì dentro con te. Perché, se mi ci infilo io, a riempirti le orecchie di parole, ecco che non ti accorgi se il tempo è passato. Se sto lì a farti compagnia, siamo già in tre, e per la paura non c’è più spazio. Ti va? Sì, ti va. Lo vedo da come sorridi nella mia testa. Sto aspettando che mi invii la tua prima domanda. Ci eravamo dette che me l’avresti mandata verso le diciotto di ogni giorno, quando rientri dal lavoro. E che io avrei avuto tempo fino alle diciotto del giorno successivo per risponderti. E tu, poi, avresti avuto la notte per ascoltare. Perché la notte, quando si è sole con un puntino in pancia, può fare molta paura. Mentre attendo, quindi, ti racconto che cosa significa per noi partire per le vacanze. Così intanto passa il tempo. Il titolo di questa chiacchierata tra me e te potrebbe essere: Valigie. Comincio a pensare alle valigie almeno una settimana prima. Inizio a stendere liste... Fisicamente però le valigie le faccio la sera prima, se partiamo al mattino. O al mattino, se partiamo di pomeriggio. In ogni caso, poche ore

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prima della partenza, altrimenti è tutto lavoro sprecato. Perché, se provo a infilare anche solo una maglietta in una valigia a caso, stai sicura che a un figlio, se non addirittura a me, servirà proprio quella lì. Non è da molto che The Rock e io facciamo vacanze. Non ho intenzione di star qua a raccontarti esattamente il perché. Sappi che le vacanze classiche, quelle che il dizionario definisce come «sospensione di un’attività, di lavoro o di studio, spesso in corrispondenza di particolari ricorrenze o festività », le facciamo da quattro anni, forse cinque. Da giovani abbiamo viaggiato per studio, lavoro, volontariato, ma per svago mai! Perché non avevamo un soldo, sostanzialmente. Poi è arrivato il prestito per la casa, poi sono arrivati i quattro figli, e i viaggi sono rimasti un bel sogno messo in soffitta. Tra gli album pieni di foto di noi sorridenti, felici e magri. Però siamo esperti di valigie. Perché appunto, fin da ragazzi, nei fine settimana partivamo per questo o quel raduno, per quell’esperienza, per un incontro di formazione. Eravamo bravi ragazzi impegnati. Ora invece nel tempo libero abbiamo solo voglia di riposare. Penso che per dei ventenni sia molto formativa l’esperienza di fare le valigie. Devi essere furbo: portare l’essenziale, ma essere pronto a tutto. Diventi ingegnere degli spazi, incastratore perfetto di elementi vari. E impari a capire quali sono le cose fondamentali nella vita. Ho scoperto da poco che gli scout hanno un motto: «Non esiste buono o

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cattivo tempo, ma un buono o un cattivo equipaggiamento». Ecco, sintesi perfetta di quello che intendevo. Quando hai quattro figli, le cose cambiano. Cioè, l’idea rimane di essere essenziali ma pronti a tutto, però il numero di cose da ricordare e portarsi via aumenta esponenzialmente. Quindi ho adottato la tecnica delle liste. Ogni volta mi siedo a tavolino e faccio tre o quattro liste divise per: indumenti, bagno e igiene, cucina e cibo, giochi e svago. Quattro foglietti fitti fitti, dove si leggono cose del tipo: lenzuola x 6 asciugamani x 6 mutande x 6 x n. di giorni ciabatte x 6 magliette x 6 x n. giorni

e via così. Poi, siccome ho imparato che i miei figli sono sanissimi quando stiamo a casa e si ammalano quando usciamo, porto sempre paracetamolo, cerotti e disinfettante a litri, goccette naturali per le orecchie, creme per il sole, creme per le botte, creme per le botte prese al sole eccetera. Il tutto si riduce a una borsetta che mi fa sentire come se avessi in mano « un grande potere cosmico in un minuscolo spazio vitale». Questa è una citazione per pochi, ma anche tu, cara mia, tra un paio d’anni (forse) verrai introdotta nel vasto mondo culturale dei cartoni animati! Fatta la lista, mi metto a correre su e giù per la casa in cerca delle cose annotate. E poiché ho l’adrenalina a mil-

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le, ogni tanto urlo ordini a caso ai figli. Perché, se io sgobbo per loro, anche loro devono fare qualcosa. Mi sembra logico! E quindi: « Sampei! Sistema i giochi! ». «Ma sto giocando! » « Smetti di giocare, sistema i giochi e poi rimettiti a giocare! » Oppure: « Skywalker! Fai i compiti! ». «Ma non ne ho! » «Inventateli! » E via discorrendo. Giusto così, per tenere alta la tensione e far impazzire tutti prima della partenza, in buona sostanza. Alla fine riesco a mettere tutto l’occorrente sopra il lettone. Arriva sera e The Rock comincia a sistemare tutto dentro le valigie. Ché lui ha fatto il militare e ti sa mettere l’intero guardaroba dentro un trolley misura standard. Mentre noi adulti chiudiamo e carichiamo le valigie, anche i figli preparano i loro zainetti. Ognuno di loro può preparare un piccolo zaino personale con le cose essenziali che gli serviranno durante il soggiorno. E qui arriva lo spasso. Nel suo zaino l’ultima volta Di ha messo: una serie completa di animali della savana in plastica, le carte da Uno senza la confezione (che tenero, questo è per giocare con

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tutti noi, lo so), la sua automobilina preferita e Winnie the Pooh, ché senza di lui non si dorme. Sampei invece nel suo zaino aveva: L’Enciclopedia dei Pokémon, che pesa sì e no sette chili e mezzo, tutti i suoi album Pokémon con tutte le relative carte da collezione ben ordinate (altri sette chili e mezzo) e la Pokéball di plastica. Metti mai che trovi uno di quei mostrini per strada e non gli riesca di acchiapparlo! Atti è uno spettacolo di organizzazione. Anche lei fa la sua lista (ma da chi avrà preso?). Nel suo zaino si trovano: il quadernetto per gli appunti di viaggio, l’mp3 con le canzoni di Álvaro Soler, un pacchetto di fazzoletti, il burrocacao, un profumo, una torcia, il portafoglio con le monetine della Fatina dei dentini, così può prendersi qualcosa, uno specchietto e il suo orsetto di peluche per dormire. E poi c’è Skywalker, con tutta la sua flemma di adolescente quattordicenne. « Skywalker! » « Che c’è? » «Hai preparato lo zaino? » « Che zaino? » « Skywalker! Lo zaino per le vacanze! » «Ah, già, le vacanze... Ehm, sì, tra un attimo. Finisco la partita e lo preparo...» « Skywalker! Io ti... Metti giù il telefono e fai immediatamente lo zaino! » « Ok, ok... Fatto! »

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« Come fatto? In uno-virgola-tre secondi netti? E che c’hai messo? » «Il telefono! » Il suo essenziale, ovvio. Nativo digitale del mio cuor. C’è stata una volta, però, in cui preparare le valigie è stata un’esperienza che mi ha commosso profondamente. Ho vissuto un cortocircuito temporale, se così si può dire. Qualche anno fa, Atti doveva partire per il suo primo campo estivo scout con i lupetti, mentre Skywalker doveva partire, nello stesso giorno, sempre per il campo estivo scout, ma questa volta di reparto. Il che significava che per due settimane avrebbe vissuto in una tenda, in mezzo al bosco, lontano da me. Tutto questo proprio nel giorno del compleanno di Di. Tre sfide per il mio sistema emotivo, tutte concentrate in un unico giorno. Parentesi sui compleanni dei miei figli. Quando i miei figli compiono gli anni, io mi sveglio e comincio a ricordarne il parto. Quel preciso parto del festeggiato di turno. È una cosa che mi capita sempre e in modo inconsapevole. Se è il compleanno di Atti, per esempio, mi ricordo ogni frazione di secondo di quella fredda mattina di fine anno, con la neve. Prima contrazione ore sette e trenta del mattino. Nascita ore otto e dieci. Quaranta minuti di adrenalina in cui ho fatto in tempo a svegliare The Rock, chiamare i nonni perché stessero con il fratellino, attenderli, preparare la macchinetta per il caffè (caffè che però non ho fatto in tempo a bere), salire in auto, sfrecciare verso

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l’ospedale, scendere dall’auto lasciando la portiera aperta, arrivare a piedi nell’atrio dall’infermiera che mi guardava esterrefatta, dirle che secondo me la testa della bambina era già fuori e partorire tra la sala d’attesa e la sala monitor perché la sala parto era troppo lontana. Chiaro, qui ti ho fatto il riassunto. Ma a me, per tutta la giornata del compleanno di Atti, vengono in mente i dettagli di quella volta: il colore della divisa dell’infermiera, le piastrelle dell’atrio, le porte grigie e lucide dell’ascensore che non si aprivano. Se penso al parto di Skywalker, mi viene subito in mente che in filodiffusione c’erano i Coldplay. Se penso alla nascita di Sampei, so all’istante che eravamo dall’altra parte del mondo. Se penso a Di, mi sovviene la faccia dell’ostetrico che mi faceva i complimenti: « Signora, con questo ha battuto il suo record precedente! Lei è fatta per spadellare bambini! ». Comunque, scusa, mi sono dilungata troppo... e poi non si fa. Non si parla di parto a una che è appena rimasta incinta e che ha la testa e il cuore incasinati. Scusami, davvero. Ho sbagliato in pieno la prima regola delle «amiche di una incinta ». Regola n. 1: non si parla del parto. Stavo dicendo che quella mattina d’estate sono andata in cortocircuito temporale ed emotivo. Due figli scout in partenza, con relativo super zaino da preparare, e in contemporanea il compleanno di Di. È lì che mi è venuta quella riflessione su « parti e partenze». Ne avevo anche steso

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un racconto, di quelle robe che si pubblicano sui social quando sei stordita dalle emozioni ma che nessuno capisce... e alla fine sì e no ti becchi tre like. Questa mattina mi sono resa conto che la mia vita è fatta di: Parti, partenze e passaggi. Ci pensavo alle cinque e mezza, mentre guardavo fuori dalla finestra il giorno che si svegliava, con la luce che da blu si faceva azzurra, e intanto ascoltavo il caffè che saliva dalla macchinetta. Cinque anni fa esatti, ero sveglia alla stessa ora: mi aveva svegliato una prima potente e improvvisa contrazione. Dopo soli venticinque minuti sarebbe nato Di, senza tanti preamboli, impulsivo com’è tuttora. Oggi sveglia presto per la partenza al campo scout di Skywalker. Cinque anni fa sveglia presto per il parto di Di. Ieri riempivo zaini. Cinque anni fa riempivo la borsa per l’ospedale. Oggi un bambino riempie la sua mano e diventa più grande. Mentre i suoi due fratelli maggiori si riempiranno di esperienze e torneranno più grandi. Noi madri siamo solo dei canali di transito. Li portiamo a questa vita, li accompagniamo nella crescita, guardiamo le loro partenze, prepariamo zaini, celebriamo i passaggi.

E comunque ora siamo qua, in questo campeggio selvaggio, lontano da tutto e immersi nella natura. Il nostro posto ideale, insomma. Ultimamente i miei figli mi prendono molto in giro per questa cosa che adoro starmene per

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conto mio, in mezzo alla natura e lontano dalle persone. Effettivamente penso che i mesi di lockdown abbiano tirato fuori tutta la mia tendenza al cavernicolicesimo. Skywalker l’ha sintetizzata egregiamente in una frase: «Mamma, ho capito, sai? Tu, non è che odi la gente. È che vuoi più bene alla natura ». Devo dire che ci ha preso. Sono quattro anni che facciamo le ferie nei campeggi. Non ci ero mai stata prima. Ma da quando li ho scoperti ho deciso che è il posto ideale per noi. E piacciono molto anche a The Rock. Siamo stati sempre in luoghi diversi, ma in tutti ho riscontrato gli stessi pregi: hai la tua casetta, la tua privacy, puoi gestire il tuo tempo come ti pare, mangiare quando vuoi in costume sul terrazzo (e quello di quest’anno è meraviglioso!) e nel frattempo spiare tutti i tuoi vicini di casetta! Che solitamente sono sempre famiglie extra-large come noi, visto che i bungalow XXL stanno sempre tutti insieme in un angolo preciso del camping. Anche questo mi piace molto dei camping: dividono gli ospiti in base allo stato di vita. Nessuna divisione gerarchica o socioeconomica, ma solo in base alla fase di vita in cui ti trovi. Single e tra amici? Di sicuro vai nelle tende. Coppietta? Anche tu via, nelle tende! Famiglia appena iniziata? Sceglierai l’area dei minibungalow da quattro, che si riempirà di poppanti piagnoni, ma tanto nessuno si lamenterà perché tutti ne hanno in dotazione uno. Anziano? Anche tu verrai messo tra i minibungalow, ché tanto sei sordo e

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vedere tanti bimbetti ti mette allegria. Famiglia enorme? Nei bungalow XXL posizionati sempre vicino ai bidoni dell’immondizia. Perché si sa che riempiamo almeno un sacchetto di umido al giorno. Bello! Mi piace molto questa sensazione di condividere la vita anche senza conoscerci. Inoltre trovo che i campeggi siano altamente educativi per noi mamme. Addirittura terapeutici, se soffri di insicurezza cronica e ansia da prestazione materna. La « madreterapia » inizia subito, appena si arriva. Nel momento esatto in cui si mette piede fuori dall’auto. Avviene per osmosi e senza sforzi: solo osservando stai già imparando. Le famiglie che vanno nei camping, infatti, hanno caratteristiche comuni che facilitano il training. Sono persone che stanno lì per rilassarsi, per poter stare in mutande da mattina a sera senza preoccuparsi dell’outfit. La parola d’ordine è «scialla ». Il che significa che nessuno vuole avere problemi, nessuno ti farà problemi, soprattutto nessuno vorrà sapere i tuoi problemi. Va bene tutto! L’importante è rispettare l’ora del silenzio dopo pranzo e non chiedere in prestito bottiglie dell’acqua. La scorta d’acqua in campeggio è simbolo di benessere e ricchezza. L’acqua non si tocca, l’acqua non si presta. A meno che non si prometta solennemente di restituirla accompagnata da una lattina di birra del luogo per ringraziare. Le mamme del campeggio si guardano e si osservano in silenzio. Ma con una tranquillità e un’assenza di pregiu-

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dizio di fondo che permettono lo scambio di esperienze e la formazione sul campo. Nessuna verrà a farti il pistolotto se ai tuoi figli dai Nutella a colazione, pranzo e cena. Nessuna ti elencherà i benefici della dieta chetogenica se ti vede mangiare hamburger e patatine per un’intera settimana. Nessuna ti spiegherà la dinamica del ciclo circadiano se i tuoi figli non hanno lo stesso ritmo sonno-veglia dei suoi. Va bene come fai. Punto. Tutte le mamme del campeggio sanno che solo tu conosci bene i tuoi figli e sai come gestirli. Tutte sanno che sei lì per riposare, per rallentare, per non far rispettare le regole per qualche giorno. Tutte sanno che almeno in campeggio non devi dimostrare sempre e comunque che sei capace, che sei brava, che sai come si fa. Già solo questa sensazione di trovarti in un gruppo che ti accetta così come sei è terapeutica. E il tuo livello di ansia da prestazione materna si abbassa lentamente. Senza nemmeno accorgertene, inizi tu stessa a pensare che, sì, non sei proprio da buttare. Cominci a ritenere che le regole servono, certamente, ma se qualche volta non si rispettano va benissimo lo stesso. Ti rendi conto che i figli degli altri possono essere sani, belli e felici anche se le loro madri usano metodi diversi dai tuoi. Che non è la colazione mediterranea o nordeuropea che fa di te una brava mamma. Che non è l’aver portato i medicinali in un contenitore di plastica con chiusura ermetica e sistemati in ordine alfabetico, anziché buttati a caso dentro la prima

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borsa di plastica che hai trovato, a fare di te una mamma premurosa. E la sera, quando tutte le famiglie si ritrovano, ciascuna nella loro casetta, ciascuna attorno al proprio traballante tavolino in plastica del terrazzino, ciascuna a consumare la propria cena italiana, tedesca, austriaca o croata che sia, ne avrai la certezza. Sentirai che sei nel bungalow giusto per te, attorno alla tavola giusta per te, con i figli giusti per te. Sentirai di stare bene come stai. In pace. Almeno fino a quando il più piccolo non si rovescerà addosso la pasta col sugo e allora comincerai a imprecare in tutte le lingue del campeggio che hai appena imparato, e persino il custode notturno ti sentirà dalla sua guardiola. Ma, tanto, saprai di avere ancora la solidarietà di tutti. Mi immagino che rida. Bene! Sarebbe un obiettivo raggiunto! Ne ho ancora una da raccontarti per questo giorno. Sempre in merito a valigie e bagagli. E riguarda noi che raggiungiamo la spiaggia. Oggi ancora non abbiamo fatto la nostra brancaleonica entrata al lido perché al mattino abbiamo viaggiato, nel pomeriggio abbiamo scaricato l’auto e presa la Bastiglia (cioè ci siamo sistemati nella casetta a noi destinata) e poi, per godersi senza stress le ultime ore di sole, la family ha deciso di battezzare le piscine. Che quest’anno, per via della sanificazione anti-Covid, chiudono anche prima, sicché i ragazzi hanno voluto approfittarne.

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Indice

La telefonata

pag.

7

Pensieri, maree, valigie e foto da spedire

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13

Foto n. 1 Conchiglie rotte

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39

Foto n. 2 Immersioni

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65

Foto n. 3 Occhi come il cielo

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85

Foto n. 4 Una tenda nella sabbia

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104

Foto n. 5 Guardare in là

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131

Foto n. 6 Barchette nell’acqua

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161



LIBRI LIBERI Nella collana trovano casa testi di differente genere, forma e confezione che fanno di valori umani e cristiani il loro riferimento e la loro forza. Narrazione, inedito e profondità dicono il tenore dei libri che la collana raccoglie. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

Nella notte, di Inga Nalbandian, a cura di Letizia Leonardi L’angelo, la mosca e l’anima, di Ferruccio Parazzoli Donne di sabbia, di Laura Cappellazzo Torna da me, di Valentina Barbera Jaap e la collina dei sogni, di Pierpaolo Piangiolino Per un’altra strada. La leggenda del Quarto Magio. Romanzo, di Mimmo Muolo La trattoria del cardinale. Brevi storie di convivialità e fede, di Sabrina Vecchi Nostalgia di casa. Romanzo, di Ernesto Di Fiore La Casa dei Coriandoli. Romanzo, di Giorgio Comini Madri e maree, di Laura Cappellazzo



Laura CappeLLazzo è nata a Oderzo (TV), dove vive. Laureata in Scienze dell’Educazione e diplomata in Counselling, ha conseguito il master in Relazioni interculturali e Gestione dei conflitti. Dal 2004 ha lavorato come educatrice con minori maltrattati e vittime di abuso, a sportelli antiviolenza con una Ong a Lima (Perù) e a progetti antitratta per vittime di sfruttamento sessuale e lavorativo della Provincia di Pordenone. Si occupa di sensibilizzazione ai diritti umani, argomento su cui collabora con il magazine online Heraldo. Con Paoline ha pubblicato Donne di sabbia (2020), che le ha valso il premio « Books for Peace », sezione Romanzi Violenza di genere (2021), e il premio « Gian Antonio Cibotto », sezione Opera prima (2021).

Foto di copertina: © locrifa / Shutterstock

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06R 10

Quando ci nasce un figlio è come quando ci mettiamo a solcare mari sconosciuti. A volte placidi, a volte in burrasca. A volte imbarcheremo acqua, altre volte viaggeremo dritti, tagliando sicuri l’orizzonte. A volte si strapperanno le vele, altre volte il vento ci accarezzerà. A volte godremo di una nuova alba, altre volte attenderemo con timore il tramonto. A volte perderemo la direzione o cercheremo disperati una stella polare, altre volte troveremo porti sconosciuti che ci daranno un riparo inaspettato. Ma scegliere di continuare a navigare, di guardare avanti, nonostante le onde, le tempeste e gli imprevisti: è l’unica scelta che abbiamo.

ISBN 978-88-315-5469-5


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