Marco D’Agostino BELLA E... POSSIBILE
La partita educativa adulti-adolescenti
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PAOLINE Editoriale Libri
© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2023
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ISBN 978-88-315-5565-4
Introduzione
Durante la pandemia, a causa del Covid-19, molti hanno perso il gusto e l’olfatto. È stata una sensazione, a detta di chi l’ha provata, molto strana e particolare.
Non sentire gli aromi, i profumi, non rendersi conto dello sbocciare della primavera o del lindore della casa, così come non sentire, sotto il palato, il gusto, la fragranza e la bontà di ciò che veniva preparato in cucina con amore, ha consegnato una situazione di annientamento davanti alla quale si doveva solamente attendere.
Abbiamo fatto l’abitudine a una situazione sconveniente, divenuta normale.
Mangiare si deve (e lo si faceva anche senza gusto). Gustare è un dono. Come, credo, educare i preadolescenti e gli adolescenti in genere.
Un dono che, come d’incanto, può ritrovarsi senza gusto. Perché quei piccoli che abbiamo coc-
colato e avuto in braccio fino a ieri sono cresciuti – forse troppo rapidamente – e in questo momento ci sembrano «altri» rispetto a come li abbiamo visti finora.
Un dono che, da regalo, può trasformarsi in sopportazione e rischia di far perdere quel treno che corre a una velocità differente dalla nostra. Ma corre.
E rischiamo di perderlo, paradossalmente, nel momento in cui la loro vita sboccia e s’irrobustisce, e germogliano da loro i «perché» della vita, spesso nemmeno gentilmente, ma con violenza e rabbia.
Il papà, come d’incanto, diventa semplicemente «Aldo» o «Dino», che – a detta loro – è anche «un nome da vecchio» e «non capisco come abbiano fatto a dartelo quando sei nato!».
Fino a ieri c’era il bigliettino che diceva: «Sei forte, papà, come te non ce n’è un altro», si erano fatti i disegni alla scuola dell’infanzia e il papà e la mamma erano stati adorati nei lavoretti della scuola primaria. Da oggi, anche sotto tortura, negherebbero di aver scritto quel biglietto o inviato quell’sms o, se proprio l’hanno scritto, è stata una debolezza che va smentita. E anche velocemente.
La mamma perde la sua dolcezza e diventa «madre», nello slang usato dai figli adolescenti con il quale la bombardano, senza che lei capisca agganci e riferimenti. Rimpiange i baci, gli abbracci, le coccole di un tempo, ma si deve rassegnare al fatto che, attorno a sé, i figli adolescenti hanno messo chilometri di filo spinato per difendersi da ogni effusione d’affetto. In più, spesso, ridacchiano, prendono le distanze, mostrando di non aver bisogno di lei e di volersi staccare in fretta dalla radice che li ha generati. Anche lo Spirito Santo, disceso nella cresima, qualche anno prima, si ritrova come «disoccupato» negli adolescenti, che non comprendono più il funzionamento della vita. E cerca alleati nei genitori, negli educatori e negli insegnanti, negli allenatori sportivi, negli adulti in genere, perché tutti e sette i suoi doni, imparati con più o meno cura dai ragazzi, ai tempi delle medie, possano attivare il principio di funzionamento in coloro che li hanno ricevuti. E si ha ragione di dire, da parte di genitori, educatori e insegnanti: «Che fatica!», oppure «Mi si è stravolta la vita!».
L’educazione si gioca tutta qua. In questa partita tra adulti e adolescenti. Nel presente dei ragazzi, in questo campo di vita, con un tempo che è partito e non si ferma, nel quale giocare e disputare la gara.
La partita è bella, comunque. Anche se non sembra. E ci invita a camminare, non a fermarci, stanchi e senza provare gusto, come i due di Emmaus. La partita è bella e invita a riaccendere la miccia, dentro il cuore, nostro e loro, riattivando il desiderio di portarli a meta, facendoli crescere e camminare con le loro gambe.
Ce lo chiedono, anche se costa fatica. Chiedono di vivere. Cosa non scontata. Oggi, in mezzo a tanta morte, è profetico che gli adulti siano sentinelle di luce, di speranza e di nuove possibilità. Aprano strade creative e innovative nelle quali gli adolescenti si rendano conto della grazia e della possibilità che hanno a disposizione. Dicano, più con gli atteggiamenti che con le parole, che la partita educativa è possibile. Ancora. Adesso.
I ragazzi chiedono di vivere felici, cercando di comprendere e intuire dove possa essere quella fe-
licità, e chiedono a modo loro di fare un tratto di strada insieme, senza paure e timori, con coloro che, almeno in parte, l’hanno trovata e scelta.
Chiedono di vivere, felici e contenti. La felicità è la condizione per vivere. La gioia un risultato che fa presagire una pienezza. In questa logica, adolescenti e adulti possono camminare per essere doni, gli uni per gli altri, spalle su cui appoggiarsi, occhi per leggere il tempo, forza per riprendere il cammino.
Giocare insieme nel campo della vita.
Lasciamo che queste pagine scorrano nel nostro cuore.
Non sono consigli per gli acquisti. Sono parole che chiedono ospitalità.
E poi traduzione nella vita.
Come ognuno sarà capace di fare nel difficile, esaltante compito di educare.
E se il gusto è stato perso, piano piano verrà riacquistato.
Anche nella fatica di cambiare, noi adulti per primi, marcia e movimenti, parole e atteggiamenti. La partita non la giochiamo da soli. È al plu-
rale. E gli adolescenti non sono i nostri avversari, ma i nostri atleti.
A loro chiediamo, con amore e pazienza, di giocare. Tutta quanta la partita.
È la loro. Ma in campo ci siamo anche noi.
Giocare insieme Un cuore che funziona
Il palazzetto dello sport si ferma. Quasi d’incanto.
Le grida, i cori, i battimani, il tifo è come, d’un tratto, smorzato.
Le persone sugli spalti si «spengono», come per accogliere un evento, nella partita stessa, che ha bisogno di silenzio, di raccoglimento. Quasi di preghiera.
La partita che si sta svolgendo non è una partita «ordinaria». Lo è, perché fa parte di un campionato regolare, ma, al contempo, è anche una partita speciale perché, nel campo, ci sono ragazzi e ragazze speciali. Che hanno bisogno di essere visti con occhi differenti, non pietosi ma diversi sì. Con occhi di fede, che sappiano vedere, al di là di
ciò che si vede, anche ciò che si può vedere solo con un occhio da professionista. E da credente.
È vero, in campo c’è chi non vede, chi non sente correttamente, chi è immerso in un suo mondo, chi non corre, chi sta fermo, chi è da anni sulla sedia a rotelle. Ma tutti giocano, e da titolari. Con maglia e numero regolarmente registrato dal direttore di gara.
Tutti partecipano da giocatori convocati. Insieme ad altri appassionati di basket, che frequentano anche altri campi, altri campionati, altre strutture.
Si sta giocando una partita di baskin, sport straordinario, inventato a Cremona nel 2003, con l’obiettivo di permettere a tutti i partecipanti, maschi e femmine, ragazzi «cosiddetti normodotati» e ragazzi con disabilità fisica e intellettiva, di giocare insieme e di esprimere il massimo delle proprie capacità.
Una partita bella e... possibile. Grazie alla quale le persone non sono in campo «per caso», ma con un ruolo specifico e preciso.
Una partita che dura nel tempo e invita ciascuno a pensare come la vita sia da affrontare e
davanti alle difficoltà di qualsiasi genere – educative, fisiche, di rapporto, d’integrazione e inclusione – non ci si debba arrendere. Mai e per nessun motivo.
Certamente il campo non può essere come quello del basket. Ognuno ha le proprie esigenze e le proprie specificità. Serve una palla da basket, più canestri, non tutti alla stessa altezza, qualche area in più sul campo regolare. E soprattutto serve tanto cuore.
Sì, per vivere la partita educativa, bella e possibile, è necessario un cuore che funzioni. Dell’adulto che educa. E dell’adolescente che riceve e partecipa al lavoro educativo.
Ha dichiarato Fausto Capellini, già insegnante di scienze motorie e inventore, con Antonio Bodini, del baskin a Cremona: «Penso al processo di socializzazione tra i ragazzi. Nessuno di noi è nato per stare da solo. Il piacere di migliorare se stessi, sotto tutti gli aspetti, porta alla sana competizione che si basa sull’etica sportiva. Tutto questo è indirizzato verso la fiducia nell’altro».
Possiamo aiutarci a migliorare?
Ce la facciamo ancora a credere che la partita educativa, bella e possibile, possa giocarsi sul campo, non per compassione, ma per amore?
Riusciamo a darci tempo e a trovare qualche strategia per educare, processo lungo e inclusivo, perché ragazzi, adolescenti e giovani entrino nel mondo adulto, facendo parte di una comunità scolastica, civile, religiosa, sportiva?
Il baskin, con le sue regole sportive, chiama a giocare, a vivere un campionato vero e proprio, a giocare il tutto per tutto sul campo per vincere. Per alzare la coppa.
La palestra del seminario vescovile di Cremona, dedicata ad Andrea Micheli, sportivo e appassionato di sport, morto per Covid-19 nel 2020 a soli trentasette anni, è da qualche anno il campo nel quale si giocano molte partite educative: le bocce paraolimpiche, il calcetto per persone con deficit visivi, la pallavolo integrata, il baskin, tutti progetti educativi sportivi di integrazione tra ragazzi del liceo Vida e ragazzi affidati alla neuropsichiatria infantile.
Queste partite sono sudate, si dà il massimo
per vincere, nella correttezza e nel fair play, caratteristiche di ogni competizione. Anche dell’educazione.
Poi, talvolta, ci si ferma a cena. Insieme. La squadra di San Michele e Sant’Ilario di Cremona, dopo la vittoria del campionato e prima di partire per i nazionali di baskin, in Veneto, dove ha conquistato lo scudetto del 2022, si è ritrovata per condividere una cena in seminario.
A parte l’entusiasmo e la bellezza dello stare insieme in semplicità e gioia, ciò che mi ha colpito di più sono stati l’amore e la comunione tra tutti i partecipanti: dirigenti, allenatori, giocatori e genitori. E costatare come la condizione di disabilità, anche se grave e faticosa, non sia un impedimento ma una risorsa. Non un ostacolo ma un incoraggiamento.
Nessuno si lamentava della fatica. Tutti cercavano nell’altro come crescere, fare dei passi avanti, provare ad aiutarsi vicendevolmente.
La partita educativa può essere giocata così.
Come persone, di differente età ed esperienza, che vivono insieme e offrono il tutto per tutto per giocare insieme.
L’educazione, soprattutto dopo anni di pandemia, potrebbe – perché no? – essere una carezza silenziosa, un «fare la strada insieme», un mettersi «in rete» tra adulti, agenzie educative e ragazzi stessi, che diventano, anno dopo anno, protagonisti della loro stessa crescita.
La vita non va impostata come un «contro» qualcuno, ma come un «per».
Solamente in questa dimensione ciascun ragazzo è invitato a estrarre da sé il buono. Lo vedrà, avrà elementi di giudizio per valutarlo e coraggio per spenderlo e farlo circolare.
Vivere la partita, in campo, insieme. Non gli uni contro gli altri, come una specie di «tiro alla fune». Diversamente ci troveremo sempre, come educatori e genitori, dall’altra parte della fune. A tirare e basta. A strattonare fino alla perdita inutile delle forze. Sperando che gli adolescenti, figli oa lunni che siano, cadano sfiniti perché la nostra forza nel tirare è maggiore.
Ma potrebbe anche verificarsi il caso che i ragazzi mollino la corda, e così la scuola, la casa, l’oratorio, lo sport cadrebbero a terra, perché, dall’altra parte, è stata lasciata la presa.
La fatica dell’educazione, soprattutto dopo questi anni di chiusura, sta proprio nel riprendere discorsi e fili che si sono ingarbugliati, senza moralizzare, senza calcare la mano, senza rinfacciare ciò che non si è fatto. Nel risentire insieme il fischio d’inizio della partita. Mettendoci, insieme con gli adolescenti, tirando dalla stessa parte, allenandoci, con discorsi, esperienze, confronti, affinché nel campo, tutti, possiamo dare il massimo, gli uni per gli altri.
Lo scopo di questi appunti è solamente questo. Non di insegnare dalla cattedra a chi ha le mani in pasta, ma di far intravedere che si può vivere felici, la vita può essere buona, secondo il Vangelo, insieme si possono costruire cose belle. E tante. Basta crederci.
Ricordando che la vita va abbracciata insieme, ragazzi e giovani, adulti e anziani, senza tentennare. Provando e riprovando. Con un po’ di frizzante attesa e di agitazione per il fischio d’inizio.
In campo, in partita, nella vita sperimentiamo che le cose fatte insieme, con forza, consapevolmente, sono quelle sulle quali si fatica e si soffre
maggiormente, ma sono anche quelle che nutrono. E durano, lungamente. Premiano, con soddisfazione.
Perché le abbiamo vissute insieme.
Da esse possiamo ripartire, ogni volta.
Nei rapporti interpersonali c’è spesso molta aggressività anche a scuola. La tentazione degli insegnanti, se provocati, sarebbe di rispondere a tono, ma come cristiani abbiamo come modello di comportamento Gesù, «mite e umile di cuore».
A partire da alcuni episodi biblici, queste pagine offrono spunti per riflettere sull’educazione alla mitezza, fondamento della vera forza interiore, in tempi in cui il principio di autorità e la fiducia verso chi educa sono messi in discussione.
Perché fai così?
Di chi è la colpa?
Adesso basta!
Sei un disastro!
Non c’è genitore, educatore, insegnante o allenatore che non abbia mai «sparato» sui ragazzi una di queste frasi. Ma servono a qualcosa? Sono quelle giuste?
Spesso il rapporto con gli adolescenti si trasforma in una prova di forza.
L’educazione invece è una partita da giocare insieme. Adulti e ragazzi.
Una partita bella, perché può entusiasmare.
Una partita possibile, perché bisogna crederci.
Alleniamoci allora a ripensare contenuti e modalità di interazione con i ragazzi. Per mettere in campo schemi di gioco nuovi e vincenti.
Marco D’Agostino, cremonese, prete dal 1995, nel seminario diocesano cammina a fianco dei giovani nel discernimento vocazionale e insegna Lettere al liceo Vida della sua città. Con Paoline ha pubblicato tra gli altri: Miti e forti (2013), Credere… chi me lo fa fare?! (2015), Un caffè con tanti baci (2018), Il presbiterio (2021).
ISBN 978-88-315-5565-4