Ribellarsi alla notte - Estratto

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RIBELLARSI ALLA NOTTE

Una storia di Natale

Romanzo

PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2024

Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it • www.paolinestore.it edlibri.mi@paoline.it

Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)

ISBN 978-88-315-5760-3

Argomento della mia narrazione è l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo.

Flannery O’Connor

Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà; perché diventa sempre più povero.

È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza.

Martin Heidegger

Notturno in Fa minore

La notte porta consiglio, dicono. E tante altre cose insieme. Paura e rabbia. Pensieri e affanni. Inquietudine, stanchezza. E l’infelicità. Come un velo soffocante. Come una gelatina che si spalma ovunque. E ognuno la vive a modo suo. Perché la notte cambia il nome alle cose. E anche ai sentimenti. Ma non cambia la sostanza.

Afflizione. Per don Eugenio si chiama afflizione. Da quando si è accorto del rapimento di Gesù Bambino la sua vita ha cambiato segno. Non che prima fosse felice. Ma al riparo sì. Grazie alla routine che è diventata la sua corazza. Quanto gli sembrano lontani i tempi del seminario, le speranze, i progetti, le prime esperienze e l’entusiasmo dell’altro se stesso, giovane sacerdote. Da tempo ha ripiegato su una vita senza slanci e senza particolari problemi. Ma la notte, questa fredda notte di dicembre, è impietosa con lui. Don Eugenio sa che il sonno non verrà. Si è perso nei meandri di quel labirinto che è diventata la sua mente. Pensa e ripensa. Alla sua esistenza, ad Antonio, a Gesù Bambino. A que-

sto inatteso intreccio di eventi. All’identikit del colpevole. Le domande non gli danno tregua. E alla fine torna sempre daccapo a passare in rassegna l’elenco dei possibili autori di un gesto così incredibile.

Giovanni Prosperi del Gruppo « San Lorenzo »? È stato il primo a dare battaglia. È anche il primo della lista. Il movente ce l’ha. Ha dichiarato guerra al presepe. Perché non andare fino in fondo, facendo un bel dispetto a chi di quel presepe è l’ideatore e il promotore? Don Eugenio sta per cedere al sospetto. Ma poi si dice che no, non è possibile. Prosperi è deciso, determinato, tetragono. Non cambierebbe idea neanche davanti al plotone d’esecuzione. Ma non è fantasioso. E ci vuole una bella fantasia a pensare di rapire Gesù Bambino. Non può essere stato lui.

L’attenzione si sposta su Compagno Lenin e sui giovani del Centro sociale « Gaetano Bresci ». Loro sì che potrebbero averla fatta una cosa del genere. Don Eugenio ricorda bene le continue provocazioni di quella specie di orso dalla barba lunga e dei suoi amici. Venire a fumarsi gli spinelli sugli scalini della porta della chiesa, fargli trovare bandiere arcobaleno attaccate al cancello delle aule di catechismo, fischiargli dietro ogni volta che passa davanti alla loro sede. Ideologici, alternativi, anticlericali. Potrebbero aver alzato il tiro. Perché no? Ma a un tratto si ricorda di quel giorno in cui, al termine di un alterco, Compagno Lenin gli aveva detto: « Io non credo in Dio e neanche che questo Gesù fosse Dio. Ma magari voi preti foste tutti come lui ». E allora a che scopo fare un dispetto all’effigie di uno che in fondo si ammira?

E gli intellettuali teocon? “ Sii serio, Eugenio ”, si dice il prete. “ Te li vedi quegli snob, tutti apericena, teatro e convegni, uscire di notte, al freddo, per impadronirsi di una statuetta? ”. Assolti per insufficienza di prove. Per i neofascisti invece il sacerdote non metterebbe la mano sul fuoco. Potrebbero aver architettato lo scherzetto per far aumentare la tensione e scaricare la colpa sui comunisti del Centro sociale. Ma sono solo degli zucconi capaci di menare le mani, non certo di ideare una strategia del genere.

Don Eugenio pensa e veglia. Veglia e pensa. Ma non arriva a niente e la sua afflizione si espande come un incendio alimentato dal vento. O come il suo mal di gola sempre più forte. Mentre depenna a uno a uno nella testa tutti i nomi dell’elenco.

Tristezza. Per il commissario Mariotti l’infelicità si chiama tristezza. Un’immensa invincibile tristezza. Specie quando ripensa a ciò che aveva e non ha più. A come la sua vita sia andata a rotoli. E a come lui non abbia fatto niente per arrestare quell’emorragia di persone, di affetti e di carriera. Era uno dei poliziotti più brillanti, all’inizio. Aveva sposato la figlia di un importante politico, avevano un figlio fantastico e tutto quello che serve per essere felici. Ma a un certo punto, clic, si era spenta la luce. Come per effetto di una maledizione. O forse dei suoi errori.

Sì, dei suoi errori. Deve ammetterlo. Non si può mentire a se stessi. È stata un errore quella relazione con una giovane collega, che ha portato la moglie a cacciarlo di casa e il suocero a togliergli il suo appoggio. È stato un errore non salvaguardare almeno il rapporto con suo figlio. È stato un errore non essere presente per

impedirgli di cominciare a frequentare certe cattive compagnie. È stato un errore buttare a mare una carriera, lasciandosi sfuggire sotto il naso un pericoloso latitante, solo perché stava pensando ai fatti suoi. Ecco, rivede tutto come in un film. Mesi di indagini e di appostamenti. La fatica, l’adrenalina, la delusione. La furia del questore, la rabbia dei colleghi, il senso di colpa. E l’amarezza di fronte ai cocci sparsi della sua vita.

Ogni notte è così. Prima l’assalto dei pensieri e dei ricordi. Poi un gorgo di tristezza che inghiotte passato, presente e futuro e ingigantisce la sofferenza. Non ha più voglia di lavorare, non ha più voglia di niente. E invece deve occuparsi di cose che non gli interessano minimamente. La banda dei topi di appartamento, ora perfino il rapimento di Gesù Bambino. Che solo a pensarla, la parola « rapimento », gli viene da ridere. O da piangere. Dipende dai punti di vista. E come se non bastasse, dopo diversi anni, ecco che rispunta Walter. Per tutti Compagno Lenin. Per lui suo figlio.

Rabbia. Per Compagno Lenin l’infelicità si chiama rabbia. Per tutto quanto, e soprattutto per questa vita che si è scelto come ripicca contro la sua famiglia. Ma la rivoluzione ha perso sapore. La ribellione contro suo padre anche. Vicoli ciechi. Come le parole vuote che ripete e sente ripetere nelle riunioni dei compagni. All’inizio credeva fosse un mondo diverso, egualitario, senza interessi e voglia sfrenata di far soldi. Alla fine ha dovuto ammettere che i soldi contano anche là. E non importa a nessuno come li fai. Lo hanno trasmesso anche a lui il virus. E infatti di soldi se ne è

procurati abbastanza. Ma non la felicità. E ora la rabbia con cui affronta ogni singola giornata, di cui si nutre nelle notti insonni come questa, è solo disperazione che deposita nel suo animo scorie più inquinanti di quelle nucleari.

Stanotte poi c’è un’inquietudine nuova. Compagno Lenin ripensa ai dubbi di Andrea. E ad Antonio, a quel suo sguardo che lo ha trapassato da parte a parte. E soprattutto al suo « per favore, tu e i tuoi amici fate i buoni ». Parole semplici, da bambino. Ma che lo hanno punto sul vivo. Che cos’era? Un invito, un rimprovero, un giudizio? Abituato a un linguaggio di rivendicazioni e pretese, ne è rimasto interdetto, spiazzato. Anche perché nessuna delle definizioni gli sembra quella giusta. C’era qualcosa di diverso nella voce del fratellino di Andrea. Una nota mai sentita prima. O forse semplicemente smarrita nelle pieghe della memoria. Quando anche lui era piccolo così.

L’immagine del padre, che si materializza all’improvviso nei suoi pensieri, lo coglie impreparato. Se ne stava acquattata chissà dove. E ora rispunta fuori proprio come in mattinata era spuntato lui in persona dall’auto civetta della polizia. Erano anni che non lo vedeva. Pensava fosse stato trasferito a casa del diavolo, dopo quello che aveva combinato. E invece eccolo là. Nel posto sbagliato al momento sbagliato. A cercare Gesù Bambino e incasinargli di nuovo la vita. Forse Andrea non ha tutti i torti a dire che bisogna aspettare. Suo padre ha anche messo una volante sulla piazza. E lui d’un tratto si sente stanco, con la rabbia che sfuma in una specie di nostalgia. Potesse tornare indietro, ai Natali di quando era bambino e ancora non odiava la sua fa-

miglia e il mondo intero. Ma poi quella, la rabbia, riprende più forte che mai e diventa voglia di spaccare tutto. Cominciando magari dal muso di quel cretino che si è portato via la statuetta e ha complicato ogni cosa.

Paura. Per Andrea l’infelicità si chiama paura. Lui che la paura non sapeva manco che cosa fosse. Mai dormito con la luce accesa da piccolo. Mai indietreggiato davanti alle minacce dei compagni di scuola. Anche quelli grandi e grossi. Mai perso il sonno per un’interrogazione o un esame. Fino a quel maledetto incidente che gli ha tolto quasi tutto. Facendolo sentire nudo e senza protezione. Di giorno, al limite, può non pensarci, ma la notte è un incubo. La paura ha preso ad aleggiargli intorno. Paura della morte. Soprattutto di quella di Antonio. Specie ora che non sta bene e il medico, quando è venuto a visitarlo, ha fatto una faccia strana e prescritto una serie di analisi che gli sono sembrate sospette. Così la paura conquista ogni giorno nuovi territori, specie da quando ha perduto anche Gabriella.

Andrea ha paura di restare senza lavoro e senza soldi, ha paura di dover vendere la casa, ha paura di essersi spinto troppo in là con Compagno Lenin e con gli altri. All’inizio sembrava solo un lavoretto innocuo al computer, un gioco da ragazzi per chi come lui studia ingegneria elettronica. Erano spuntati anche due o trecento euro che gli avevano fatto comodo. Poi però Compagno Lenin aveva alzato la posta. Si possono commettere reati anche restando davanti al proprio computer a casa. Questo, Andrea l’aveva capito subito. Ma non aveva saputo dire di no. I soldi

erano stati il suo amo. E lui l’aveva inghiottito consapevolmente, perché nel computo dei rischi e dei benefici aveva ritenuto che fossero maggiori i benefici. Fino a che non gli avevano fatto la proposta di quel colpo. Facile, facilissimo, forse anche troppo. Andrea sa per esperienza che nella vita le cose troppo facili non esistono. Ma il bottino è troppo anch’esso. E gli fa gola. Con la sua parte sistemerebbe tutto. Il resto sono chiacchiere. Tranne la sua paura. Che è vera e reale, anche se nella riunione al Caffè di Gennaro l’ha fatta passare per prudenza. Ora però striscia senza controllo nella notte, come un serpente capace di stritolarlo nelle sue spire.

Inquietudine. Per l’agente Gargiulo l’infelicità si chiama inquietudine. Ogni notte, e questa notte più delle altre, gli reca in dono sempre lo stesso interrogativo: la stai sprecando la tua vita, Rocco? Lui la conosce, la risposta. Anche fin troppo bene. Ma non vuole arrendersi all’evidenza. E allora l’inquietudine è come una corda tesa sul vuoto, l’estremo appiglio per non cadere definitivamente, la speranza di un qualcosa che forse non si verificherà mai, ma che il suo cuore non smette di attendere. Rocco Gargiulo sente l’inquietudine più forte che mai, stanotte. Forse perché grazie a questa cosa di Gesù Bambino, per quanto assurda possa sembrare, è arrivata finalmente la sua volta buona? L’istinto di poliziotto si è messo in moto. Le ipotesi investigative, si è detto dopo aver parlato con un collega che in mattinata aveva accompagnato il commissario, potrebbero essere due: o uno sfregio a don Eugenio (da quanto ha capito c’è un certo numero di persone alle quali il

parroco e il suo presepe stanno sulle balle) oppure la necessità. Forse la disperazione. Una sorta di ultima spiaggia per qualcosa che non ha altre vie d’uscita e che solo l’entità soprannaturale può risolvere. Un miracolo, insomma, tanto per non girarci attorno. Gli pare di vederle quasi disegnate sul soffitto, le due strade. Prova a seguire la prima, quella dello sfregio. Ma deve fermarsi quasi subito davanti all’ostacolo di un dubbio. Chi vuole sfregiare di solito lo fa in grande stile. Ad esempio, gettando vernice sul presepe o danneggiandolo seriamente. Prendere la statuetta di Gesù Bambino sembra rispondere a una logica diversa, ragiona Gargiulo. Di natura sacrale o superstiziosa. Il che è contemporaneamente una buona e una cattiva notizia. Se la sua ipotesi è giusta, non c’è il rischio che chi ha preso la statuina l’abbia buttata via.

Ma è anche più difficile da individuare. Potrebbe essere chiunque nel quartiere o in città. Tre milioni e mezzo di sospettati. Più o meno tutti gli abitanti di Roma. Roba da non dormirci più. E infatti l’agente Gargiulo non ha sonno. Per il momento si limita a soppesare le diverse ipotesi. In attesa di fare i conti con la realtà. E con la sua inquietudine che sale.

Niente. Per Antonio, che pure avrebbe tutte le ragioni per essere infelice, l’infelicità non ha nessun nome. Anzi non esiste proprio. La tachipirina che gli ha dato Andrea, quando sono rientrati dalla canonica, ha fatto effetto. La febbre l’ha lasciato. Il fratello gli ha tolto gli indumenti zuppi di sudore, gli ha messo un pigiama pulito e gli ha rimboccato le coperte con un bacio sulla fronte, finalmente tornata alla temperatura normale.

E ora il bimbo sogna. Di essere entrato nel presepe di don Eugenio, anche se non riesce a capire se sia diventato lui piccolo come le statuine o loro grandi come lui. Sogna di arrivare davanti alla mangiatoia, ma di non trovarvi Gesù Bambino. Sogna di sentire una sirena d’allarme, come quella dei film di guerra quando è imminente un bombardamento. E di vedere scene di panico. Qualcuno grida: « Aiuto, siamo perduti! ». E uno tsunami di paura scende dall’alto della roccia di sughero che ora è grande come una montagna, sgretolando case e palazzi. Antonio è l’unico che non si dispera. « Gesù Bambino lo ritroveremo presto », dice. Ma nessuno lo ascolta. Poi a un tratto sente una voce alle sue spalle: « Sono qui, Antonio ». Si volta e si trova davanti Gesù che è un bambino in carne e ossa come lui. E allora il cuore gli esplode nel petto. « Eccolo! », grida. « Eccolo, è tornato! », ma pare che lo veda solo lui. Antonio vorrebbe abbracciarlo, però si trattiene, mettendosi in ginocchio a mani giunte. Gesù Bambino lo rialza, gli tende le braccia, esattamente con lo stesso gesto della statuetta rapita, e lo stringe a sé. “ Com’è bello l’abbraccio di Gesù ”, pensa Antonio, e vorrebbe che durasse all’infinito. « Lo sapevo che non ci avresti abbandonato », gli dice. Ma si guarda intorno e vede che tutti gli altri continuano a urlare, ad azzuffarsi, a correre disperati. Sembra uno scenario di guerra. « Signore, ma non ti vedono? », chiede. Gesù fissa lo sguardo nel suo. « Mi vedranno attraverso i tuoi occhi ».

Occhi. L’infelicità dell’ombra sono gli occhi. Non i suoi, che pure ogni giorno sono costretti a vedere cose che non vorrebbe. Ma

due occhi celesti che ha nascosto in un posto sicuro e che però sono causa di uno sgomento anche più forte di quello che ha provato quando ha rapito Gesù Bambino. È stata una sciocchezza, adesso ne è consapevole. Che cosa sperava di ricavarne? “ Se ti scoprono ”, riflette, “ non solo non ci guadagni niente, ma finirai per perdere anche quel poco che hai ”. E quasi quasi sta per uscire e riportare la statuetta al suo posto. Ma sulla piazza c’è la volante della polizia. “ Che cretino quel commissario a precludere la via indicata dal prete ”, pensa l’ombra.

Occhi. Quegli occhi celesti della statuina se li sente costantemente addosso. Pare che lo seguano in ogni suo spostamento. Che vogliano dirgli qualcosa. E anche il silenzio della casa si fa più assordante ogni minuto che passa. Allora l’ombra esce dal suo letto, prende la statuina e la guarda con aria di sfida. “ Che cosa vuoi da me? Perché mi guardi così? Dicono che tu ami tutti. E me allora? Perché non mi ami e mi togli tutto? Tu lo sai perché ti ho preso. Lo sai perché sei qui. Perché te ne stai muto? Vuoi forse rimproverarmi? Vuoi farmi sentire in colpa? Ma sei tu in colpa, perché non fai niente. Io non ho altri che te a cui chiedere aiuto. Non ho altri che te. Non mi deludere anche tu. Ti prego, esisti ”.

L’ombra cade in ginocchio sotto il carico delle sue parole gridate in silenzio. Sotto il peso della paura, del rimorso, dei dubbi. Piange davanti a quegli occhi sempre spalancati su di lui, a quelle braccia aperte. La notte porta occhi per vedere, ma l’ombra chiude i suoi e si abbandona alle lacrime. Come vorrebbe essere una statuina inanimata. E invece ha ricevuto in sorte la condanna di vivere.

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