In gergo lo chiamano game. Eppure fuggire dal proprio Paese è tutt’altro che un gioco. Specialmente se il Paese è l’Iran e a lasciarlo è una donna con due figli. Dopo aver visto naufragare nell’umiliazione e nella violenza i suoi due matrimoni, Goli abbandona Isfahan, la città dove ha sempre vissuto, e intraprende un viaggio di centinaia di chilometri lungo la « rotta balcanica », traiettoria generalmente seguita dai migranti che dalle regioni asiatiche intendono raggiungere l’Europa. Ispirato a fatti realmente accaduti, questo racconto è un excursus nella società iraniana, dove la parola di una donna, in tribunale, vale la metà di quella di un uomo; è una testimonianza dei soprusi cui va incontro chi si trova nella posizione « debole » di migrante; è la rivelazione del coraggio e della perseveranza di una donna che non ha mai smesso di difendere la propria dignità.
Laura Cappellazzo
LE TRE VITE DI GOLI
گلی Romanzo Ispirato a una storia vera
PAOLINE Editoriale Libri © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2023 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it • www.paolinestore.it edlibri.mi@paoline.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI) ISBN 978-88-315-5680-4
A Goli (TK): in qualsiasi luogo del mondo tu ti trovi ora, ti auguro piedi riposati e un cuore in pace.
“
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, art. 1)
”
I
La Nuova
E
ccola lì. La nuova professoressa di italiano delle terze. Se ne sta un poco in disparte, nella grande mensa di questo istituto alberghiero in cui lavoro da poco più di un anno. Non conosce quasi nessuno ancora e perciò si trova a passare la pausa pranzo in solitudine. La capisco. Quante volte mi sono sentita così anch’io: quella appena arrivata, che non sa come funzionano le cose, che se ne sta in un angolo per conto suo. Ma non sembra essere un problema per lei, come lo è stato invece per me. Lei mangia il suo pasto in velocità; un occhio al cellulare e un altro alla vetrata enorme che dà sull’ampio giardino alle spalle della scuola. Finisce in fretta, ma in realtà non prende mai molto: un primo, uno yogurt, la frutta. Mette tutto in ordine sopra il vassoio di melamina marrone, raccoglie le poche briciole che ha lasciato sul tavolo e si mette a leggere le notizie sullo schermo dello smartphone. Prende qualche appunto su
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un quadernetto con l’elastico. Risponde ai messaggi. Guarda fuori, il giardino che in questo mese di dicembre non è proprio al massimo del suo splendore. La osservo con curiosità da dietro il mio bancone, dal quale lavoro come aiutante nella mensa dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi di Enogastronomia e Ospitalità Alberghiera. Un nome lunghissimo. Composto da parole altrettanto lunghe e inizialmente sconosciute. Un nome difficile per me, che solo ora comincio a masticare l’italiano come ho imparato a masticare la pasta. Un nome che mi sono sforzata di imparare fin da quando, al termine del mio percorso di accoglienza presso la Casa dell’Ospitalità, mi hanno proposto un tirocinio con una cooperativa di servizi per la ristorazione e l’igiene. Me lo ripetevo continuamente sottovoce e dentro la testa, durante i primi giorni di lavoro, quel nome lunghissimo. Come se pronunciarlo tutto di fila e senza esitazioni fosse garanzia di rinnovo del contratto. E in effetti così è stato: dopo i tre mesi di stage mi hanno assunta a tempo determinato per un anno. Ma la caposquadra mi ha già detto che il contratto verrà rinnovato perché « una come te non si trova facilmente». Ha detto proprio così. Ora, per scaramanzia, ogni volta che trovo un termine nuovo e difficile, me lo ripeto fino a che non mi risulta facile pronunciarlo. Fino a che non mi pare di averlo sempre detto. Di averlo sempre masticato.
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Come « ristorazione», un altro vocabolo che inizialmente mi faceva paura e che invece ora mi dà il necessario per vivere. Insomma, con le parole italiane ci battaglio molto, questo si è capito. Sono parole con suoni così distanti dal mio linguaggio d’origine. Così diverse… Eppure, fin da subito, le ho volute imparare. Ho addomesticato la mia lingua alla loro articolazione. Le mie orecchie al loro suono. A volte le ho trovate ridicole, a volte meravigliose. Alcune mi commuovono per il loro significato e la loro sonorità, altre invece mi fanno inciampare. E sento le guance arrossarsi per l’imbarazzo di non saper dire quello che vorrei. Altre ancora mi hanno spaventato fin dalla prima volta che le ho udite. E ancora oggi, dopo un anno e mezzo dal principio della mia terza vita, tremo al solo pensarle. Sarà per questo che sono così incuriosita da questa nuova professoressa di italiano? Perché lei con le parole ci lavora ed è loro amica? Può darsi. È arrivata a inizio mese. Ha preso il posto di quella che l’anno scorso è andata in pensione. La professoressa Dal Monte. Una signora che definire antipatica è regalarle una gentilezza. La Nuova non è così e sono contenta per i ragazzi che se la sono vista arrivare in classe al posto della vecchia acida di prima. Questa qui ha lo sguardo curioso, eppure dolce. I capelli, lisci e neri, li porta corti a caschetto. Un poco più lunghi sul davanti che sulla nuca. Un taglio nuovo per me. Come non ne avevo mai visti al mio Paese.
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Adesso che comincia il freddo, la Nuova arriva a scuola con un cappotto grigio chiaro con la cinta sempre snodata che sembra sul punto di cadere a terra, una larga sciarpona beige morbida e un berretto di lana bianca in testa. Indossa pantaloni, sempre. E scarpe comode. Cammina svelta svelta. A volte corre. Specie quando arriva tardi « per colpa del traffico» o « perché non si trovava proprio parcheggio questa mattina, ragazzi!». Una volta l’ho sentita dire ad alta voce che il piccolo non l’aveva fatta dormire « per via della gastroenterite». Quando Angelica mi ha spiegato cosa fosse questa gastroenterite, ho capito perché la Nuova avesse quella faccia bianca e due marcati segni blu sotto gli occhi. E ho anche capito che è mamma. E forse questo è l’altro motivo per cui mi incuriosisce tanto. Non è solo perché insegna italiano, perché maneggia le parole con disinvoltura e le spiega ai suoi ragazzi. Forse è anche perché a occhio e croce abbiamo la stessa età, ed entrambe siamo madri. Da quando sono qui in Italia non avevo ancora trovato una persona in cui riflettermi. Voglio dire una persona in cui rivedere alcune mie caratteristiche e immaginare come sarei io nella sua vita. O come sarebbe lei nella mia. Se faremmo le stesse scelte. Se commetteremmo gli stessi errori. Se avremmo lo stesso coraggio o la stessa paura. In Italia ho trovato poliziotti, tanti, ufficiali dello Stato. E in loro no, non sono mai riuscita a riflettermi perché sono maschi e io con i maschi ho qualche conto in sospeso.
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Poi c’erano le operatrici della Casa dell’Ospitalità, è vero. Ma loro si dividevano in due categorie: o erano giovani, del tipo che si erano appena laureate e avevano iniziato da poco a lavorare, convinte di « fare la differenza » in questo mondo, o erano signore cinquantenni con i figli già grandi, lo sguardo di chi è soddisfatto della mezza vita passata e dell’esperienza accumulata. Lo sguardo di chi si sente al sicuro, insomma. E io, quando sono arrivata alla Casa dell’Ospitalità, non ero né illusa e sognatrice come le giovani, né mi sentivo al sicuro e soddisfatta della mia vita passata come le più anziane. Ero impaurita, arrabbiata, delusa, sconfortata, ferita, spaventata, sfinita, terrorizzata, sfibrata, debilitata, stanca, logorata, povera, depressa, demoralizzata, nevrotica, ansiosa, affamata, malata, sconvolta, angosciata, martoriata, addolorata, infreddolita fin dentro l’anima. Piena di sensi di colpa nei confronti di Laleh e Arash. Senza forze, senza speranza, senza più lacrime. E queste non sono parole a caso… Sono parole che ho scritto nel mio quadernetto degli appunti. Quello che mi sono portata addosso per tutto il viaggio. Parole che ho scritto in farsi, la mia lingua, la prima notte che ho passato in un letto vero, nella Casa dell’Ospitalità. Parole che ho via via tradotto, dopo aver iniziato il corso di italiano, tenuto da due volontarie che aiutavano le operatrici della Casa. Parole che ho imparato a memoria. E che piano piano voglio cambiare nel loro contrario. Con alcune ci sono già riuscita, con altre mi ci
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vorrà una vita. Ma questa è un’altra storia e forse la dirò più avanti. Intanto ho trovato un terzo motivo per cui in questa nuova professoressa riesco a riflettermi. Maneggia le parole italiane con la cura e l’attenzione che vorrei avere anch’io (primo motivo), ha la mia stessa età ed è madre (secondo motivo), scrive gli appunti in un quadernetto con l’elastico come faccio io (terzo motivo). Il mio quadernetto è stato il mio compagno in tutte e tre le vite che ho avuto. Mi è stato regalato nella mia prima vita (e, no, non era un regalo di affetto), mi ha aiutato a non disperare durante la mia seconda vita, e ora mi aiuta ad affrontare la mia terza vita, iniziata ad aprile del 2020 in questo paesino italiano tra le colline del Nord. Perché se, qui in Italia, avere trentotto anni significa essere giovani, per me questi trentotto anni sono stati un macigno che mi ha stritolato lo spirito, segnato il volto, rovinato il corpo. Anche la Nuova, dicevo, ha un quadernetto simile al mio. Mentre la osservo di nascosto scrivere frettolosamente, mi chiedo con sincera curiosità che cosa mai si annoti. Io ci segnavo come mi sentivo, per non disperdermi tra un luogo e l’altro dove sono stata. Lei invece ci scrive altro, ne sono sicura. Succede così di solito: apre la schermata dello smartphone, inizia a leggere qualcosa e poi improvvisamente si ferma, cerca nervosamente il blocco dentro l’enorme borsa che si porta dietro e ci scrive qualcosa. Sempre velocemen-
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te, sempre con urgenza. Come se dipendesse la vita o la morte di qualcuno, da quello che lei si appunta. Ecco una differenza marcata tra me e lei: io mi avvicino al mio quadernetto con lentezza. Ne sento tutta la pesantezza, perché dentro ci ho messo tre vite amare, e sfogliare le pagine scritte fino a trovare il nuovo spazio vuoto da poter usare è una fatica enorme. Scelgo con attenzione le parole, perché mi devono rappresentare. Devono segnare in maniera precisa la situazione in cui mi trovo in quel momento. Lei invece sembra presa da una smania di non lasciarsi sfuggire qualcosa di essenziale per qualcuno. Per lei? Per i suoi ragazzi? Per suo figlio? Non so. E dopo che tutti se ne sono andati dalla mensa e rimaniamo io e Angelica a raccogliere e svuotare i vassoi da portare in cucina ai ragazzi di turno per il lavaggio, io mi sorprendo a pensare alla Nuova e al suo block-notes arancione con l’elastico verde. Il mio quadernetto, al contrario, ha la copertina rigida nera. L’elastico ce l’ho aggiunto io per non far volare via i fogli che, durante il viaggio che ho fatto nella seconda vita, rischiavo altrimenti di perdere. Solo a guardarlo si capisce che dentro ci sono pensieri pesanti, tristi, disperati a volte. O troppo pieni di speranza. Che alla fine è quasi la stessa cosa. Guardando la copertina arancione e morbida del quadernetto della Nuova, invece, viene da immaginare che dentro ci siano pensieri leggeri, dinamici, vitali.
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Nel mio quaderno nero, le parole più frequenti probabilmente hanno a che fare con la morte e il morire. Ci scommetto quel che si vuole che in quello lì arancione e di marca tutto quanto ha a che fare con il vivere e il vivere meglio. Ma io voglio bene al mio quaderno scuro. Perché è l’unico compagno che non mi ha mai lasciata. L’unico a cui ho detto davvero chi sono. L’unico che sa tutto di me, che non mi ha mai giudicata né usata, né mi ha mai fatto del male. È austero, certo, e anche dentro non contiene null’altro che ricordi pesanti. Alcune pagine persino si sono rovinate con la pioggia e con il fango, altre mi sono state strappate malamente. Ma il quaderno resiste e, se dovessi riflettermi in un oggetto, direi che il mio quadernetto è ciò che su questa terra mi somiglia di più. Perché sto pensando a tutto questo? Perché sto parlando tra me e me come una pazza, mentre raccolgo cartine di merendine lasciate sotto i tavoli della mensa? Perché penso che sia per colpa di quel quaderno che da qualche notte non riesco a dormire. Mi ricordo che quando ero alla Casa dell’Ospitalità ho fatto un paio di incontri (forse tre) con una psicologa. Era messa lì dall’associazione che gestiva la Casa come aiuto a noi ospiti e, siccome io sono arrivata in uno stato davvero pietoso, hanno pensato di fissarmi dei colloqui di loro iniziativa. Uno l’ho fatto appena arrivata, uno più o meno dopo sei mesi, l’ultimo il giorno prima di andarmene.
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La psicologa era anche gentile, paziente, senza dubbio. Ma io non avevo niente da dirle. O almeno sentivo di non poterle dire nulla perché quello che ho vissuto non riuscivo a crederlo nemmeno io, figurarsi raccontarlo a qualcuno. O forse era proprio quello il punto: raccontarlo, metterlo in parole, esprimerlo, lo avrebbe reso ancora più reale. Più doloroso. Più orribile. E io non me lo potevo permettere. Io volevo dimenticare quello che era successo. Cancellarlo. Pensare che non fosse mai accaduto. Che fosse stato una parentesi irreale, una sorta di incubo durato anni che finalmente non c’era più, e che l’unica, vera realtà era quella che stavo vivendo dall’aprile del 2020, in una cittadina italiana di qualche migliaio di persone. Di certo non volevo mettermi là a raccontare della mia prima vita, quella vissuta in Iran fino a quando sono scappata. O della mia seconda vita, quella durata meno di tutte, in cui ho continuato a scappare e a scappare. Da tutto e da tutti. La più breve, ma forse la più tremenda. Quella che mi ha svuotata. Quella che mi ha reso un legno secco e corroso dalle tarme, come ne ho visti tanti quando il bosco è stata la mia dimora. Stavo per iniziare la mia terza vita. Volevo concentrarmi su quella. Volevo canalizzare su di essa le mie poche forze rimaste. Su di essa e su Laleh e Arash, le due ruote che hanno continuato a spingermi in avanti anche quando io volevo solo sfasciarmi e rimanere a terra.
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Invece quella psicologa di cui non ricordo nemmeno il nome, ma solo le labbra rosse pitturate che si muovevano e le mani svelte che toccavano spesso i capelli o prendevano appunti o spegnevano la suoneria del telefono quando qualcuno provava a interrompere i nostri colloqui, ecco, la psicologa mi ha messa in guardia. Al primo colloquio mi ha spiegato come funzionava la Casa, le regole, i servizi proposti, tra cui il supporto psicologico. Mi ha parlato del trauma, una parola che mi è piaciuta nel suono ma non nel significato. Trauma significa « una ferita provocata da un avvenimento improvviso e molto carico emotivamente». Può anche portare a una grave alterazione del normale funzionamento psichico di un individuo, proprio a causa delle esperienze o di fatti tristi e dolorosi, che turbano e disorientano la persona. Mi ha detto che un trauma può farsi sentire anche a distanza di molto tempo. C’è chi lo sfoga subito, magari con l’insonnia, o piangendo continuamente o dubitando di tutti o con mal di testa e mal di pancia. C’è chi invece lo tiene chiuso a doppia mandata in un qualche baule della mente, cercando di dimenticarlo lì. Però il trauma non scompare per davvero, sta lì a lievitare: e monta e monta, fino a che succede qualcosa di apparentemente stupido e il chiavistello si rompe, e il baule si apre all’improvviso e quello che c’era dentro esce fuori come un’onda di fango puzzolente e rovina tutto.
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Non mi ricordo se la psicologa abbia usato proprio l’immagine del fango: può anche aver detto un vomito marrone o una nube tossica. Io però l’ho visualizzato e memorizzato come un fango che scorre e ricopre tutto. Forse perché per quasi tutta la mia seconda vita ho avuto a che fare con il fango e l’avevo messo tra i primi posti delle cose che più odiavo al mondo. Insomma, dopo avermi spiegato tutto questo la dottoressa si è interrotta e mi ha chiesto se mi andava di parlare. Di raccontarle qualcosa di me. Le ho risposto di no. Secca. Mi sono alzata e sono uscita. Al secondo incontro lei era gentile come sempre. Erano passati mesi dal nostro primo colloquio. Mi accolse con calore, mi fece i complimenti per il mio aspetto fisico: mi vedeva più in forze, più sicura di me. Le avrei voluto rispondere che era facile apparire più sicuri di sé quando ci si lavava regolarmente e si prendevano almeno tre pasti fissi ogni giorno. Ma non dissi nulla, mi limitai a sorriderle e a dire «grazie» in italiano. Quindi mi sedetti in attesa della sua nuova lezione sul trauma. Invece lei cominciò a parlarmi di futuro, di cosa avrei fatto dopo, alla fine del tempo di accoglienza, mi chiese se ci stessi già pensando, se per caso avessi desiderio di iscrivermi a un qualche corso professionalizzante per adulti, visto che l’insegnante di italiano aveva detto alle operatrici che stavo procedendo spedita nell’apprendimento di questa lingua.
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Fui di nuovo spiazzata. Nessuno mi aveva mai chiesto cosa volessi fare. Cosa avrei voluto imparare per me, di scegliere qualcosa che mi piacesse perché mi sentivo capace di farlo. In tutte e due le mie vite precedenti avevo sempre e solo ricevuto ordini. Ordini severi, a volte cattivi. A volte detti, a volte urlati, a volte imposti con un solo sguardo crudele. Comandi che mi avevano costretta dentro una vita che non volevo in quelle forme, dentro azioni che odiavo, in sentieri pericolosi in cui ho rischiato di perdere ciò che ho di più caro. Anche in quell’inizio di terza vita mi ero mossa come meglio sapevo fare: ubbidendo senza obiettare. Assecondando regole che, per quanto razionali e studiate da un gruppo di persone che volevano il meglio per noi ospiti di una struttura di accoglienza, erano comunque non decise da me. E quindi si mangiava a determinati orari, si svolgevano attività in giorni predefiniti, si dormiva in stanze che non avevo scelto e usavo vestiti non miei. Prestati, regalati, ma che non avevo comunque scelto io. Me ne resi conto all’improvviso e fu come uno schiaffo. Mi fece male. E arrossii tutt’a un tratto. La stessa psicologa se ne accorse e mi chiese se stessi bene. Se ci fosse qualcosa che non andava. Risposi sbrigativamente di no, facendole capire che non volevo assolutamente affrontare l’argomento. Lei rimase qualche secondo a fissarmi, poi appoggiò la penna sulla pila di moduli davanti a sé e unì le mani tra loro, con le braccia appoggiate alla scrivania.
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«Ti ricordi quando al nostro primo incontro ti ho parlato del trauma?» “Lo sapevo che sarebbe tornato fuori!”, pensai tra me, rimanendo però zitta. «Ti avevo anche detto che se non ci lavori su, su quello che ti è successo, intendo, può sembrarti che se ne stia lì tranquillo e ti lasci in pace, ma al primo momento utile esploderà e ti farà molto male. Quindi, sei sicura di non voler parlare di nulla? Di non volermi dire nulla?» Me lo chiese da amica, lo so, lo sentii. La sua delicatezza e il suo sincero interesse mi arrivarono dritti al cuore come un bisturi affilato e preciso. E infatti avvertii la fitta. Ma io non potevo, non ne avevo le forze, non ci sarei riuscita. Lasciai sanguinare il taglio e risposi con distacco: «Ho solo una cosa da dire. Voglio fare il corso di cucina ». La psicologa sprofondò nella sedia. Se non mi ricordo male, sospirò anche. Poi si rimise con la schiena dritta e, dicendo un « va bene» a mezza voce, iniziò a compilare una serie di domande e a barrare caselle. Alla fine mi fece firmare a fondo pagina e con quello mi trovai iscritta al « Corso base di cucina industriale, con Attestato HACCP di 3° livello ed elaborazione del curriculum vitae. Possibilità di stage in aziende associate». Ovviamente il nome del corso lo imparai a memoria. Mi ci volle un intero pomeriggio per riuscire a dirlo tutto di fila. Anche perché mi misi a cercare in Internet il significato di tutte le parole che non capivo, e di quella sigla
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HACCP. Per questo ci misi così tanto. Ma ci riuscii. Come riuscii a svolgere tutto il corso dall’inizio alla fine: la parte teorica e la parte di tirocinio, che mi portò a conoscere la ditta per cui lavoro ora. Concludere il corso con un contratto di stage significò anche concludere il periodo come ospite della Casa. Le operatrici mi aiutarono a trovare un appartamentino per me e i miei figli. L’associazione si propose di garantire i primi mesi di affitto. Mi dissero che ero molto fortunata. Solitamente i ragazzi single e scuri di pelle non trovavano così facilmente un posto per vivere, mi dissero. La gente ha paura di loro, non si fida, teme che rovinino le cose. Probabilmente il fatto che fossi donna e con la carnagione chiara mi aveva agevolato. Mi misi a ridere. Era la prima volta che essere donna mi portava un vantaggio, ammisi con le operatrici. Loro mi guardarono in modo strano. Mi resi conto che per la prima volta avevo detto qualcosa di me e del mio passato. E lo avevo fatto senza accorgermene, senza soffrire, ma, al contrario, scherzandoci su. E capii il motivo di quegli sguardi. Il giorno prima di lasciare la Casa dell’Ospitalità per sempre, tra valigie da preparare e scatoloni da riempire, mi infilarono un ultimo colloquio con la psicologa. Non sapevo che cosa attendermi da lei. Ogni volta i suoi inizi erano spiazzanti: arrivavo al suo stanzino con l’idea che avremmo affrontato un tal argomento e lei puntualmente cominciava da tutt’altra angolazione. Fu così anche
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in quell’ultimo terzo appuntamento. Credevo mi parlasse dell’occasione mancata di non aver voluto rielaborare il mio passato con lei, di non aver voluto partecipare al laboratorio di teatro, o di quella volta che mi ero rifiutata di farmi intervistare da una giornalista radiofonica venuta in visita alla Casa nella Giornata Internazionale del Migrante. Mi spiace di aver messo in difficoltà quella povera giornalista piena di buone intenzioni, ma io non avevo nessunissima voglia di offrire l’immagine della povera donna buona che tanto ha sofferto e che cerca in Italia un rifugio di pace per rifarsi una vita. Prima di tutto, non sono buona: povera e donna, senz’altro, ma buona non credo proprio. Secondo, non vedo perché raccontare a lei le cose mie. Terzo, e forse questo è il punto più difficile da spiegare, io non ho scelto l’Italia. Ci sono capitata. Io non ho scelto di migrare, io sono scappata. Io non speravo di trovare un rifugio di pace, io volevo solo che non mi ammazzassero e non ammazzassero i miei figli. La vita mi bastava, la pace è un lusso che ho sempre pensato di non potermi permettere. E invece niente. La psicologa non toccò nemmeno un punto di tutto ciò. Al contrario, si mise a dirmi quanto brava fossi stata a integrarmi nella Casa, ad apprendere una nuova lingua, a partecipare al corso di cucina, a inserire i miei figli a scuola. Avevo fatto tutto presto e bene, e ora mi meritavo l’indipendenza. Di camminare con le mie gambe e prendere in mano il mio futuro.
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La guardai stupita. In quel momento capii quanto fosse difficile comprendere appieno una situazione come la mia, anche per una professionista sicuramente preparata e sicuramente ben predisposta come quella psicologa. Avrei voluto ribattere punto per punto a quella serie di complimenti inutili che mi aveva appena servito. In particolare la frase «è ora che cammini con le tue gambe» mi aveva quasi fatto piangere. Solo il cielo sapeva quanto avessi già camminato! Solo il cielo sapeva la quantità di dolore, di piaghe, di vesciche, di infezioni ai piedi, di ferite che le mie gambe avevano dovuto sopportare… Allora l’ho guardata dritto negli occhi e in un italiano quasi perfetto le ho detto solo l’ultima cosa che ho pensato: «Il mio futuro l’ho preso in mano il 5 maggio 2019, giorno d’inizio del Ramadan. E da quel giorno non l’ho mai lasciato nelle mani di nessuno». La psicologa mi ha ricambiato lo sguardo. Il suo era un misto di rassegnazione e curiosità. Come se fosse indecisa se lasciar perdere o provarci per l’ultima volta. « Ok, Goli, ti parlerò sinceramente. Niente discorsi di addio impostati e niente frasi fatte, hai ragione. Ti dirò apertamente ciò che penso. Tu mi hai fatto la guerra. Non so perché, ma con me hai tirato su un muro invalicabile, come se io fossi un nemico che ti voleva rubare chissà quali tesori. Lo capisco, sai, che tu non voglia parlare di te, della tua storia, di ciò che hai sopportato. Sono qui per dare un aiuto a chi lo vuole, non per obbligare qualcuno a
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confidarsi con me. Quindi a me sta bene se non hai voluto usare i nostri incontri come un’occasione per buttare fuori i brutti ricordi e alleggerirti un po’ lo spirito. Solo che mi dispiace. Mi dispiace per te, perché, come ti ho già detto altre volte, il buio che hai dentro prima o poi si farà sentire. E io spero… ti auguro che tu sia abbastanza forte per non lasciarti annientare. Quindi, ecco, buona vita da qui in avanti…» Si alzò dalla sedia e mi porse la mano. Non ero ancora abituata a quel gesto, che qui in Italia significa salutare una persona a cui si riconosce valore. Le diedi la mano, e percepii la sua stretta calorosa e onesta. In quel momento provai quasi il rammarico di non averle raccontato nulla. Non fu colpa sua. Non ero pronta. Non potevo. Se la incontrassi oggi, probabilmente, mi comporterei in modo diverso. Perché in questi giorni ho la sensazione che quel baule pieno di fango, nascosto nella mia mente, si stia per aprire. Ed è tutta colpa del quadernetto arancione della Nuova. Quando l’ho vista prenderlo distrattamente dalla borsa, frugando con una mano mentre con l’altra reggeva lo smartphone, mi è venuta una fitta allo stomaco. So che il mio sguardo si è piantato su di lei, tanto che Angelica mi ha dato una gomitata per farmi capire che c’era uno studente davanti a me che aspettava il purè. Ma io ero ipnotizzata da quei gesti: la Nuova curva sul tavolo, con gli occhi fissi sullo schermo del cellulare, il braccio alzato che rimesta il contenuto di una borsa gigante.
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Poi ecco, spazientita per non aver trovato ciò che cerca, molla il telefono, guarda il borsone, lo afferra, lo appoggia sulle ginocchia e inizia a cercarci dentro con entrambe le mani. Finalmente trova il quaderno. Lo solleva, lo guarda per qualche secondo con aria soddisfatta, per poi appoggiarlo a fianco del telefono, agguanta la penna già pronta vicino al vassoio e inizia a scrivere. In quel momento ho dovuto servire il purè al ragazzino biondo davanti a me. Quando se ne è andato, contento della porzione che gli avevo concesso, il tavolo della Nuova era vuoto. Lei aveva fatto in tempo a scrivere, prendere i resti del pranzo e uscire. Mentre io rimasi per tutta la giornata con l’immagine della Nuova che fissava per quei pochi secondi il suo quaderno con l’aria di aver trovato un vecchio amico. Perché so cosa significa riporre tutte le proprie forze in un blocco di fogli di carta. Sentirlo come l’unica cosa capace di tenerti unita, di stringere tra loro tutti i pezzi del tuo corpo, prima che la colla ceda, prima che i legamenti si spezzino, prima che la follia o la disperazione ti porti via per sempre. So cosa significa non avere più forze per rimanere razionali e, nel timore di perdere il controllo su se stessi, delegare a un quaderno la propria razionalità: sai che non la perderai, anche se senti di aver già perduto il senso di ogni cosa, perché l’hai trasferita con l’inchiostro in una manciata di fogli di carta. Lo so, lo so. Forse per la Nuova il suo quaderno non significa così tanto. Ma ho rivisto qualcosa in quello sguardo,
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nella tenacia con cui lei lo teneva stretto tra le mani, nell’energia con cui ha preso la penna e le ha tolto il cappuccio per usarla. C’era un bisogno, un’urgenza che ho riconosciuto; una necessità che ha fatto scricchiolare la serratura del mio baule pieno di fango. Quella notte ebbi un incubo. Mi vedevo dormire, nel mio letto. Era come se stessi guardando me stessa dal lampadario. Ero distesa, tranquilla, le coperte in ordine, ogni cosa della stanza come è nella realtà. Poi sento dell’acqua scorrere. Guardo meglio. C’è dell’acqua che entra e piano piano copre il pavimento. Continua a filtrare lenta e a riempire la camera. Il livello si alza e io proseguo a dormire e a osservarmi senza fare nulla. L’acqua raggiunge il letto, i primi cassetti, alcune cose iniziano a galleggiare: le mie pantofole, una camicia lasciata a terra, il cestino della carta straccia. La me che dorme continua a dormire; la me che guarda continua a guardare. L’acqua arriva al materasso e bagna le coperte. Sento freddo. La me che guarda vorrebbe avvisare la me che dorme, ma non esce suono dalla sua bocca e non può scendere da dove si trova. La me che dorme vorrebbe alzarsi ma non ci riesce; ci sono delle mani che la stringono: alle caviglie, alle braccia, alle mani, sul collo, sul viso, sulla bocca. Mani spuntate dalla penombra, che stringono e mi premono verso il basso. Apro gli occhi di scatto, sono sveglia ma non riesco a muovermi nemmeno nella realtà. Per questo dubito di star ancora sognando, ma no: riesco a girare gli occhi e vedo
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che nella stanza è tutto in ordine. Sono sudata, la maglietta da notte è appiccicata alla schiena, sento le gocce di sudore scendermi giù dal collo, i capelli incollati alla fronte. Non riesco ancora a muovere nulla di me, ma so per certo di essere sveglia. Cerco di non agitarmi per non svegliare mia figlia che dorme con me. Respiro, è l’unica cosa che posso fare. Ragiono, cerco di capire se mi fa male da qualche parte, ma non sento alcun dolore. Sono solo paralizzata. Continuo a respirare e attendo. Piano piano sento che riesco a muovere le dita dei piedi, a ruotare i piedi. E continuo lentamente a sentire che gli arti si stanno liberando: le mani, i polsi. Giro il collo. Infine riesco a piegare le gambe, provo ad alzarmi e ce la faccio. Sono istupidita da tutte queste sensazioni improvvise. Mi guardo per l’ultima volta attorno: è tutto ok. Laleh continua a dormire ignara. Finalmente mi alzo. Qualche giorno dopo quell’incubo strano, incappai in una vignetta su Internet. Un disegno di una giovane artista di nome Elliana Esquivel che mi ha impressionato. Si intitolava Sleep Paralysis e rappresentava esattamente ciò che io avevo provato… Ero io in quell’immagine! Da una parte quella scoperta mi spaventò tantissimo, mi pareva di essere stata spiata o derubata di qualcosa di molto personale, dall’altra un po’ mi sentii rincuorata al sapere che quanto mi era successo aveva un nome, una motivazione e soprattutto era un’esperienza condivisa da altri.
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Dopo quell’episodio non ne ebbi altri di così intensi. Mi capitava tuttavia di avere degli incubi, molto simili tra loro, e di svegliarmi sudata e con gli arti intorpiditi. Come se, quando sognavo di scappare (perché quello sognavo: cambiavano gli scenari – un deserto, una palude, un bosco, una strada di paese –, ma fondamentalmente c’ero io che correvo terrorizzata e qualcuno che mi rincorreva per farmi del male), avessi corso davvero e le mie gambe fossero stanche a causa della fuga. Le giornate seguenti a una notte agitata erano giornate pesanti: un po’ perché, non avendo riposato bene, mi sentivo fiacca, un po’ perché la mente tornava a quei ricordi, a quelle cose che avevo vissuto nel passato ed erano tuttavia tanto simili agli incubi. Angelica se ne accorse e una mattina mi spiegò che, se avessi avuto bisogno di una pausa, avrei potuto chiedere delle ore di permesso o qualche giornata di ferie. La ringraziai, ma le dissi che mi sentivo bene e che dormivo male per colpa di vicini troppo rumorosi. Lei mi guardò poco convinta, ma non insistette. D’altronde dovevamo scaricare il furgone con le latte di passata di pomodoro da cinque chili: non avevamo di certo tempo per chiacchierare e discutere dei miei problemi condominiali. Quel giorno era martedì, e il martedì la Nuova aveva preso ad attardarsi un po’ in mensa. Non si alzava velocemente come tutti, ma se ne stava un po’ più a lungo a leggere qualche giornale o a picchiettare sul suo telefono. Doveva essere perché aveva un’ora buca e non voleva pas-
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sarla tutta in sala insegnanti. La mensa, incredibile a dirsi, era più tranquilla della stanza dei professori. Avevo appena finito di svuotare i vassoi e di portare i carrelli a ripiani in cucina perché venissero lavati. Mi mancava di passare i tavoli con lo straccio, mentre Angelica spazzava il pavimento. Come al solito mi ci misi con slancio: quella parte del lavoro mi piaceva molto perché, a differenza del servizio dei pasti, consisteva solo in sforzo fisico e velocità. Niente interazioni umane, niente attese di studenti incerti su cosa prendere, niente sguardi puntati addosso. Sfogavo le mie preoccupazioni strofinando le superfici bianche e lisce dei tavoli e scacciavo gli interrogativi come facevo con le briciole che cadevano a terra. Catartico. Angelica mi insegnò che si diceva così. La faceva ridere come mi avventavo sulla sporcizia, l’energia che ci mettevo, e così mi spiegò cosa significava quella parola, che io ora uso per darmi il ritmo nelle pulizie: ca-tar-ti-co, una sillaba per lato e il tavolo è pulito! E insomma stavo andando avanti così anche quel martedì, a sillabe e colpi di spugna, quando raggiunsi il tavolo della Nuova senza rendermi conto che lei era ancora lì. Le urtai la sedia con le gambe e lei trasalì. « Scusi…», le dissi in imbarazzo. «Ma no, mi scusi lei! Non dovrei nemmeno essere qua… Guardi, mi alzo subito e le libero il tavolo». Senza che potessi obiettare nulla, lei era già in piedi e stava raccogliendo le sue cose. E fu in quel momento che
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vidi quella parola, scritta in nero, a grosse lettere in stampatello, sul suo quaderno arancione. Sbiancai. La Nuova non se ne accorse. Se ne andò salutandomi frettolosamente e, prima di uscire dalla sala, lanciò un saluto pure ad Angelica, che ricambiò con sguardo perplesso, alzando per un attimo la testa e appoggiandosi al bastone della scopa. Io rimasi bloccata con lo straccio in mano e il tavolo da pulire, ma senza nessuna forza per muovere un solo muscolo. Perché? Perché la Nuova si interessava di quella parola? Cosa c’entrava lei? Cosa aveva in mente? Forse sapeva? Ma no! Impossibile… Dovevo smetterla con quella paura costante di essere seguita, pedinata, scoperta. Doveva essere un caso, un puro e semplice caso. Ma intanto, intanto… Intanto gli incubi, la paralisi nel sonno, la vignetta, il quadernetto della Nuova, il mio quadernetto nero chiuso a chiave nel cassetto del comodino (non voglio che i miei figli lo leggano: soffrirebbero e non capirebbero), i ricordi che mi colpiscono a caso… tutto questo mi sta dicendo qualcosa. Qualcosa che ho già capito, ma che non volevo capire. Allora stasera, con lo stomaco ancora sottosopra e un senso di nausea che mi fa girare la testa, inizio. Mi sono seduta in camera, con accesa la lucina morbida per non dar fastidio a Laleh. Ho lo specchio di fronte, per guardarmi negli occhi quando non avrò il coraggio di continuare e spronarmi a farlo. Ho una penna nuova in mano e un qua-
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derno vuoto e grande con i fogli a quadretti, che ho trovato per terra a scuola e che nessuno ha reclamato. La copertina è blu con stampata una foto venuta male di un mare e un surfista visto di spalle che lo affronta. Un’immagine che non c’entra assolutamente con me, che non sono mai stata al mare e tanto meno su una tavola da surf. Per questo il quaderno mi sta simpatico e penso abbia la copertina giusta: una copertina leggera che non ha nulla a che vedere con ciò che ci scriverò dentro. Ora è mio questo quaderno, e questa sera comincerò, insieme a un surfista, il viaggio alla ricerca di me e delle mie tre vite. È giunto il tempo di aprire il baule. Mi sento disarmata e fragile, ma ne ho bisogno. Lo faccio per me. E quindi eccomi: sono Goli Azadi, ho trentotto anni e sono iraniana. Il mio nome, Goli, significa « tu sei un fiore». Per la gente italiana sono una giovane donna; in realtà io ho già vissuto tre vite e mi sento vecchia nel corpo e nello spirito. La mia prima vita è stata un inferno. La seconda un incubo. La terza per il momento è nebbia e non la so definire. Sono nata in Iran: la mia prima vita si è svolta lì, in quel Paese tanto ricco quanto complesso e misero. Colmo di cultura, storia, povertà, crudeltà e miopia. Poi ho attraversato a piedi sei Stati diversi, con sei lingue diverse, sei bandiere e sei uniformi di polizia diverse, ma tutte con lo stesso odio verso i migranti. La mia seconda vita è rimasta appesa al filo spinato che divide la Bosnia
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dalla Croazia. L’ho lasciata a brandelli nel bosco bosniaco, lungo il confine croato. Galleggia distrutta alla dogana di Trieste, tra le navi mercantili e i rifiuti finiti in mare. La terza vita sta cominciando ora. È un debole raggio di sole che tenta di aprire il cielo coperto e plumbeo di queste giornate di inizio dicembre. Scrivo per raccogliere i pezzi di tutte e tre le mie esistenze e rimetterle insieme. Devo raccogliere i pezzi di me che ho lasciato indietro e per farlo devo tornare in luoghi in cui non voglio tornare più. Mi costa uno sforzo enorme, perché io sono una scappata. Sono scappata dal Paese in cui sono nata e ho continuato a scappare in ogni Paese che ho incontrato e che non mi ha voluto. Ora che sono qui, in questa città dal nome difficile da pronunciare per me, ho bisogno di quei pezzi per ricominciare e mettere radici. Perché la verità è questa: come posso ricostruire una terza nuova vita, se mi mancano parti di me stessa? Ho perso la fiducia nell’essere umano. Ho perso la fiducia nel futuro. Ho perso la fiducia nelle leggi. Ho odiato il mio essere donna, all’origine di tutto questo disastro, e allo stesso tempo l’ho amato perché mi ha permesso di aggrapparmi all’esistenza. Ho sentito anche il peso di essere l’unica responsabile della vita dei miei figli. Ho sentito la colpa di averli portati in un viaggio in cui molte volte ho rischiato di perderli. Ho dovuto sopportare da sola i loro sguardi sofferenti puntati su di me che chiedevano: perché?
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Sto reimparando a essere madre in tempi normali. Sto apprendendo come si possa non stare perennemente in attesa del prossimo loro respiro, del prossimo loro passo. A darlo per scontato, a dare per scontato il cibo che mangeranno quando avranno fame. A dare per scontata e naturale la fame, perché tanto poi passerà. Non so più come fare per riuscire a non temere costantemente per loro e per la loro vita. A non allarmarmi se urlano, se saltano per giocare, se fanno rumore come fa ogni bambino su questa terra. Perché c’è stato un periodo in cui ogni respiro, ogni gemito, ogni scricchiolio di piede, ogni sospiro poteva attirare l’attenzione di qualcuno su di noi. Perché qualcuno ci avrebbe potuto sentire, scoprire, trovare. Perché quando attraversi un bosco di notte impari che il silenzio può essere rumoroso, può avere la forza di un uragano, per chi non si deve far vedere, per chi cerca di farsi invisibile e attraversare confini. Quante volte mi sono sentita gridare questa frase: «Non potete stare qua!». La sento continuamente nella mia testa. È scesa nel mio cuore. La mia anima si è convinta che non ci sia posto per noi, in nessun luogo. Anche ora, guardo dormire mia figlia Laleh, di dodici anni, e ho paura che una guardia entri nella stanza urlando di andarcene, perché questa non è casa nostra, perché non è la nostra terra. Quando osservo mio figlio Arash, di diciassette anni, che fa i compiti, dentro la mia testa sento gridare: «Andatevene! Andatevene via!».
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L’unico modo per tranquillizzarmi, per far tacere quelle voci e quei timori, è aprire la borsetta e cercare tra i documenti il mio permesso di soggiorno. Lo accarezzo, percorro con le dita i timbri e i sigilli in rilievo. Guardo la foto, mi convinco di essere io, rileggo i miei dati anagrafici e soprattutto leggo quella scritta: «Protezione internazionale». Ma non posso continuare così: con tutta questa paura, questa sensazione di essere un’abusiva, una clandestina. Per ricominciare a vivere veramente, per recuperare la serenità, ora devo ritrovare i miei pezzi persi nel tragitto: insabbiati nel deserto iraniano, miscelati con i vapori della Turchia, abbandonati nel fango delle strade bulgare, lasciati a marcire con l’immondizia dei bivacchi in Serbia, bruciati con la plastica per riscaldarci nelle lunghe notti bosniache, dati via in Croazia all’ultimo passeur 1 che, alla fine, ci ha portati in Italia. Sento il bisogno di tornare dalla piccola Goli che viveva in Iran, a Isfahan, guardarla negli occhi, prenderle le mani e dirle di resistere perché, anche se in quel momento la disperazione e il disgusto sembrano essersi impossessati della sua vita, lei riuscirà a salvarsi. La sua esistenza non sarà segnata dalla vergogna e dalla violenza per sempre. Vorrei dirle di continuare a credere in se stessa, in ciò
1 Termine francese che indica chi trasporta clandestinamente cose o persone da una frontiera all’altra.
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che sente dentro di sé, di aggrapparvisi con tutte le forze, perché saranno proprio la sua forza interiore e l’amore per i due figli che avrà a permetterle di cambiare un futuro già scritto. Ho bisogno di ritrovare la Goli migrante, quella che ha camminato e camminato e ancora camminato. Che si è sostenuta con le mani nude per non cadere dalle montagne, che ha preso su di sé tutta la pioggia, la grandine, il vento, per riparare i figli. Che si è sentita spezzare il cuore quando la sua bambina le chiedeva di poter morire e non soffrire più. Che ha avuto paura, e la paura le è entrata nel sangue come un tumore che ancora adesso non se ne vuole andare. Vorrei dirle di continuare a credere in se stessa, perché riuscirà ad attraversare tutte quelle montagne, tutte quelle violenze, tutto quell’odio, e ad arrivare in un luogo sicuro. Ce la farà, e vorrei andare a dirglielo guardandola negli occhi, abbracciandola forte, assorbendo tutta la tensione che ha in corpo, il suo continuo stare allerta. Per le due Goli che sono venute prima di questa terza che vive in un appartamento piccolo ma pulito, che ha un lavoro, che non si sente a casa e forse mai si sentirà, che è triste, diffidente, chiusa in se stessa ma viva, per loro stasera apro il cuore, la memoria, le mani, e inizio a scrivere. Alla fine non so come starò. Non lo sapevo quando sono partita dall’Iran. Non lo sapevo quando in Italia, in un
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parcheggio anonimo di una stazione di servizio autostradale, una volontaria della Caritas mi ha detto: «Basta, sei arrivata, se lo vuoi», e mi ha offerto un bicchiere di tè caldo molto zuccherato. Quindi farò quello che ho sempre fatto: mi fiderò di Goli.
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Una parola italiana che Goli non sa ancora pronunciare bene è ghiacciolo. Una parola che la spaventa e cerca di non dire mai è ventidue. La parola che Goli ha visto scritta sul quaderno arancione della professoressa nuova è Iran.
Indice
I.
La Nuova
pag.
9
II.
Ma che cosa stanno facendo?
»
41
III.
Piccola Goli
»
67
IV.
Dov’eravate voi?
»
107
V.
Una freccia e un tulipano
»
127
VI.
Agire come non si è abituate
»
161
VII. Prima mossa
»
185
VIII. Consuetudini che non lo sono più
»
205
IX.
Cammina, Goli, cammina
»
235
X.
Cambio d’identità
»
269
XI.
Un’anziana e una bambina
»
299
XII. Pausa dal gioco
»
329
XIII. L’inferno di Velika Kladuša
»
337
XIV. Ventidue volte
»
367
XV. Croazia: u strahu su velike ocˇi ˘ XVI. La terza vita
»
391
Nota dell’autrice e ringraziamenti
»
» 409 415
LIBRI LIBERI Nella collana trovano casa testi di differente genere, forma e confezione che fanno di valori umani e cristiani il loro riferimento e la loro forza. Narrazione, inedito e profondità dicono il tenore dei libri che la collana raccoglie. 1. Nella notte, di Inga Nalbandian, a cura di Letizia Leonardi 2. L’angelo, la mosca e l’anima, di Ferruccio Parazzoli 3. Donne di sabbia, di Laura Cappellazzo 4. Torna da me, di Valentina Barbera 5. Jaap e la collina dei sogni, di Pierpaolo Piangiolino 6. Per un’altra strada. La leggenda del Quarto Magio. Romanzo, di Mimmo Muolo 7. La trattoria del cardinale. Brevi storie di convivialità e fede, di Sabrina Vecchi 8. Nostalgia di casa. Romanzo, di Ernesto Di Fiore 9. La Casa dei Coriandoli. Romanzo, di Giorgio Comini 10. Madri e maree, di Laura Cappellazzo 11. Ho attraversato il fuoco. Ispirato a una storia vera, di Fernando Muraca 12. Un amore di nonna, di Elena Mora 13. La brigata Fiori Selvatici. Romanzo, di Laura Cappellazzo 14. Dove non canta più il cielo. Romanzo, di Luigi Mariani 16. Le tre vite di Goli. Romanzo. Ispirato a una storia vera, di Laura Cappellazzo
Quattro donne, quattro storie. Vere. « Così vere da non poterle credere, da sperare che non siano accadute, perché di vicende come quelle di Soledad, Innocence, Dashuri e Laeticia ce ne sono tante, troppe ». I racconti narrati in queste pagine sono fotografie vivide, dai toni spesso contrastati, come quelli che solo un’esistenza segnata dalla violenza può rivelare. Eppure ogni donna è anche una storia a sé. Diversa la provenienza geografica, diverso il contesto culturale, diversa la possibilità di « rinascita ». A non cambiare sono la rabbia e il dolore che abitano la loro vita, come pure quella di chi le ha aiutate a rimettersi in piedi e a riappropriarsi del diritto di sognare. Per queste donne violate non c’è giudizio, non ci sono considerazioni. Solo rispetto.
Laura CappeLLazzo è nata a Oderzo (TV), dove vive con la sua famiglia. Laureata in Scienze dell’educazione e diplomata in Counselling, ha conseguito il master in Relazioni interculturali e Gestione dei conflitti. Dal 2004 ha lavorato come educatrice con minori maltrattati e vittime di abuso, presso sportelli antiviolenza con una Ong a Lima (Perù) e a progetti antitratta della Provincia di Pordenone per la tutela delle vittime di sfruttamento sessuale e lavorativo. Ora si occupa di sensibilizzazione ai diritti umani parlandone nelle scuole e scrivendo. Con Paoline ha pubblicato Donne di sabbia (2020), Madri e maree (2022) e La brigata Fiori Selvatici (2023), che le hanno valso diversi riconoscimenti.
Immagine di copertina: © Daniil Khailo / Shutterstock
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« Abbiamo camminato, camminato e ancora camminato. Abbiamo anche riso, quella volta che ci siamo lavati in una fontana. Ci siamo pure sentiti al sicuro, una notte in cui il cielo sembrava un tessuto con una quantità incredibile di stelle ricamate sopra: abbiamo sognato storie e cantato canzoni, sdraiati sotto quel firmamento immenso e maestoso. Ma il più delle volte abbiamo avuto paura: che qualcuno ci vedesse, ci denunciasse. Però abbiamo resistito: passo dopo passo, imprevisto dopo imprevisto, silenzio dopo silenzio. Vita dopo vita ».
ISBN 978-88-315-5680-4