Joan Chittister
UN TEMPO PER OGNI COSA‌ o ogni cosa a suo tempo?
Titolo originale dell’opera: For Everything a Season © 1995, 2013 by Joan Chittister Published by Orbis Books, Maryknoll, NY 10545-0302. Traduzione dall’inglese di Paolo Pellizzari
Le citazioni bibliche sono tratte da La Sacra Bibbia nella versione ufficiale a cura della Conferenza Episcopale italiana © 2008, Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena
PAOLINE Editoriale Libri © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2015 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it edlibri.mi@paoline.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)
Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato. Un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via. Un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace. Qo 3,1-8
I
LE STAGIONI DELLA VITA
C
ome la maggior parte delle persone, penso, cresciute a stretto contatto con la Scrittura o in familiarità con la letteratura, ho sentito ripetere queste parole fino a esaurimento: « C’è un tempo per piantare e un tempo per raccogliere quel che si è piantato; un tempo per la guerra e un tempo per la pace; un tem po per curare e un tempo per uccidere ». Certo! E allora? Ma con il passare degli anni, ho iniziato a rendermi conto che a ogni anno nuovo le parole assumevano un timbro nuovo, che le idee acquistavano un significato nuovo, una nuova forma. La vita con tutta la sua complessità lo metteva bene in evidenza: la vita non è un’opera teatrale fatta di scene isolate, ognuna delle quali destinata a concludersi da sola e per sempre. Invece, ho finito per rendermi conto che la vita è una successione di esperienze, ognuna delle quali è importante, ognuna delle quali va scandagliata, spremuta e assorbita completamente, non nel loro interesse, ma in modo tale che possiamo conoscere noi stessi. La vita non è ciò che vedia13
mo succedere al di fuori. La vita è quello che succede all’interno, nelle tranquille e oscure acque delle nostre anime. E la vita è guidata da energie troppo tumultuose, perché le possiamo ignorare, troppo profonde per noi per poterle nascondere. La vita è il lasso di tempo nel quale ci troviamo e che modelliamo noi stessi. L’introspezione presenta una terribile verità: siamo noi i carcerieri di noi stessi. Qualunque cosa tu stia facendo ora è un miraggio. Non è affatto quello che stai facendo. Gli assomiglia, e basta. Al di sotto del lavoro, del matrimonio, dell’insegnamento, delle responsabilità che consumano il momento presente si trova il magnete che ci fa muovere veramente. Se prestiamo l’orecchio, al di sotto delle facciate della vita, nel centro senza fondo di noi stessi, ognuno di noi può sentire il richiamo delle sirene. Esse ci incantano, ci seducono, ci tentano, ci promettono nella vita ben più di quanto abbiamo ora. Ma, soprattutto, ci dicono e ci ripetono: il bello deve ancora venire ed è alla nostra portata. E allora, ognuno di noi vive battendosi per un traguardo invisibile, una cima baciata dal sole, un eldorado nel corso della nostra esistenza che, una volta raggiunto, sicuramente porterà con sé non solo appagamento ma anche pace perpetua. Viviamo volendo raggiungerlo. Andiamo avanti cercando di carpire il segreto per averlo. Vogliamo la medaglia o il trofeo, il lavoro o la casa, il denaro o il riconoscimento, la persona o 14
la promozione. Qualunque cosa vogliamo, la vogliamo malamente, e la vogliamo interamente. La vogliamo adesso, e la vogliamo per sempre. Ci adoperiamo fino all’esaurimento per ottenerla, oppure poltriamo svogliatamente per tutta la vita sicuri della sua esistenza, ma incerti sul segreto per catturarla. Misuriamo noi stessi in base alla sua esistenza, o la invidiamo in qualche altro. Assaporiamo la sua mancanza giorno e notte, e ci esauriamo nel letale esercizio di misurare continuamente noi stessi sugli altri. Essa ci ricorda la nostra inadeguatezza, oppure ci culla in un sentimento di superiorità scivolosa. Noi cerchiamo la vita. Il problema della vita è che scorre e non è afferrabile. La bellezza della vita è che essa corre e non si ferma. Le conseguenze di una situazione del genere sono comunque variegate. In un mondo fatto di flussi e riflussi e di cambiamenti continui, non raggiungiamo mai veramente l’obiettivo, ma solo proviamo un assaggio. Nello stesso tempo, se questo è il caso, è altrettanto vero che nulla ci può mai intrappolare. Perché nulla è permanente, nulla è letale. La vita diventa una serie di sbandamenti e giravolte che cerchiamo di affrontare reindirizzandoci da un vicolo cieco a un altro, finché, alla fine, riusciamo a vedere i legami tra di essi. Alla fine il disegno emerge, alla fine l’edificio davvero privato, davvero personale delle nostre vite davvero singolari prende forma; finalmente si fa strada la verità che la 15
vita è semplicemente una questione di vivere da una stagione all’altra e, se siamo fortunati, imparando cammin facendo. Il proverbio dice: « Nessuno è più infelice di chi non si trova mai nell’avversità; l’afflizione più grande nella vita è di non essere mai afflitto ». Certo, l’interrogativo è: « È vero questo? ». « Che sia vero? ». « La consolazione perpetua è non solo irraggiungibile, ma anche da non desiderare? E se è così, perché? ». La risposta non si trova facilmente. Paradossalmente, gli imprevisti della vita ci fanno crescere sicuramente quanto i suoi momenti benedetti, e talvolta anche più. La morte, inattesa e paralizzante o attesa e svuotante, ci chiede di trovare accessi nuovi alla vita. Il fallimento, accolto eroicamente o guadagnato con ostinata stupidità, ci chiede di ri-cominciare. La sconfitta, subita in circostanze che non dipendono da noi o imposta da quella inadeguatezza presente dentro di noi che è stata messa alla prova al di là delle sue possibilità, ci spinge a ri-cominciare. La vita non procede in linea retta. La vita viene fuori dal nulla, o quantomeno da dove preferiremmo non essere, in continuazione, e poi ancora. La tensione sta nell’essere in grado di lasciar perdere il passato. Tuttavia, in una società di lottatori, abbastanza non è mai abbastanza. In una società tutta tesa al risultato, la vita non è una cosa di stagioni: la vita è un prodotto da 16
perfezionare e preservare. Per una mentalità del genere, non è mai possibile andare avanti semplicemente, oltre le cose del passato, verso le realtà del presente. No! Coloro che vivono secondo i « righelli » anziché secondo il senso del momento presente sono tesi a guadagnare e conservare. Per loro, lasciar andare non è una virtù. Lasciar andare è una perdita. Essi tengono stretto. E perché no? Spesso, dopo una morte, è più comodo chiudere con assi le finestre dell’anima di quanto lo sia avventurarsi nella luce nuovamente da solo. Talvolta, dopo un fallimento è più comodo trascinarsi in un angolo e rifiutarsi di provare a ripartire di quanto lo sia sopportare gli sguardi di coloro che hanno visto il primo « essere male in arnese ». È certamente meno doloroso, meno dirompente, arrendersi alle attese limitate di coloro che ci stanno attorno di quanto lo sia il modellare per noi stessi un mondo più grande, più vasto. Ad esempio, è sicuramente più facile conservare la definizione altrui di moglie perfetta, di quanto lo sia chiedere di essere considerata dello stesso grado e professionalità; è più facile essere il « lacchè » aziendale che un inventore; è più facile indossare l’uniforme della persona socialmente accettabile che mangiare locuste e miele selvatico. Tuttavia, c’è un’altra sorta di tensione ben oltre l’avversità. L’avversità, quanto meno, attira la nostra attenzione. Ma la gioia la diamo per scontata. La gioia la consideriamo connaturale 17
e ci aspettiamo di ereditarla in proporzioni esorbitanti. Eppure, troppo spesso, ignoriamo anche la gioia. E di conseguenza, la gioia trascurata e le benedizioni non riconosciute hanno un serio valore psicologico e spirituale personale per noi. Lo sapeva bene Henry Ward Beecher quando ha scritto: « Ci sono gioie che desiderano fortemente di essere nostre. Dio invia diecimila verità, che vengono su di noi come uccelli alla ricerca di un luogo dove fermarsi, ma noi chiudiamo loro gli accessi e così non ci portano nulla, ma si posano, cantano un po’ sul tetto e poi volano via ». Ma la gioia è lo spirito di Dio nel tempo. È l’unica anticipazione di eternità che venga data gratuitamente. In altre parole, abbiamo coltivato la nostra capacità di vita leggera. La gioia è l’energia che ci permette di andare avanti nei giorni grigi, sapendo che i miracoli possono accadere nel futuro perché li abbiamo visti nel passato. In definitiva, la tensione sta anche nell’essere disponibili a coinvolgere il presente. Essere dove siamo – immersi in esso, coscienti di esso, attenti a esso – potrebbe davvero essere il segreto per vivere bene e vivere in pienezza. È una lezione da imparare. In una cultura basata sul movimento, non è cosa da poco permettere a noi stessi di essere presenti al presente, di vedere quello che ci sta di fronte. Ci limitiamo a pensare di essere qui. Il problema è uno di quelli sempiterni, presente in ogni tempo, in ogni tradizione, reso famoso in forma di racconto da molti: 18
« Dove devo cercare l’illuminazione? », chiese il discepolo. « Qui », disse l’anziano. « Quando accadrà? », chiese il discepolo. « Sta succedendo proprio ora », rispose l’anziano. « E allora, perché non lo sento? », insistette il discepolo. « Perché non cerchi », disse l’anziano. « Ma cosa dovrei cercare? », continuò il discepolo. « Nulla, solo cercare », rispose l’anziano. « Ma cosa? », chiese ancora il discepolo. « Qualunque cosa su cui i tuoi occhi si posano », rispose l’anziano. « Ma devo cercare in un modo particolare? », insistette il discepolo. « No. Il modo ordinario basterà », disse l’anziano. « Ma io non cerco già nel modo ordinario? », chiese il discepolo. « No, non è così », rispose l’anziano. « Ma perché mai non è così? », chiese il discepolo. « Perché per cercare, tu devi essere qui. E invece tu sei quasi sempre altrove », disse l’anziano. In troppe occasioni, noi siamo davvero più facilmente in movimento verso qualche altro luogo che essere presenti al presente. Passiamo la vita guardando l’orologio. Lasciamo presto un party per poter andare a un altro, e alla fine del19
la notte non ci siamo divertiti né da una parte né dall’altra. Viviamo con un piede costantemente nel domani. Facciamo progetti per domani, ci prepariamo per domani, temiamo il domani e aspettiamo il domani con incostanza dispersiva. Qui non va mai abbastanza bene. Quello che sta per venire è sempre quello che conta veramente. Quello che si deve ancora avere, che si deve ancora vedere, che si deve ancora fare, che si deve ancora compiere diventa l’essenza della vita. Ma la vita è un granello di sabbia nella clessidra, che scende. E una volta sceso, è sceso per sempre. Troppo spesso noi aspettiamo la vita, ed essa ci supera, lasciando insoddisfatti i nostri cuori e le nostre teste. Viviamo sopraffatti dalle perdite e dissolti in una rovina spirituale o sprecati da una carenza di spirito, da una diminuzione di entusiasmo, dalla dissipazione della speranza. E così costantemente il momento presente giace dentro di noi riccamente addormentato. Il libro di Qoèlet, uno dei libri sapienziali delle Scritture ebraico-cristiane, è un antidoto al problema dell’assenza di meta e del disorientamento, della frammentazione personale e della disperazione opprimente. Qoèlet ci chiama a vedere la vita come un mosaico fatto di piccole tessere di esperienza umana comune a tutti noi, ma vissuta in modo singolare da ciascuno di noi. Qoèlet ci invita all’essenziale della vita in modo che la pos20
siamo comprendere prima di perderla, goderla prima di restarne privo. Il problema fondamentale della vita, ovviamente, non è la mancanza di opportunità, ma la « mancanza di anima », di quello che i confuciani chiamano « rettitudine », i buddhisti chiamano « consapevolezza », gli ebrei chiamano tzedakah, i cristiani chiamano « coscienza contemplativa ». Lo scopo di questo libro è scandagliare con chiarezza e coscienziosità le parole di Qoèlet, con gli occhi dell’ignorante, per imparare da esse, inscriverle nei nostri cuori, permettendo a noi stessi di essere messi in discussione da esse in modo da poter essere lì con cuore rinnovato e aperto se e quando ci trovassimo nuovamente negli stessi momenti dell’esistenza. I momenti diversi della vita di una persona esse li dispiegano davanti ai nostri occhi con una sorta di abbandono sconsiderato. Esse ci urlano: « Ciò che non comprendi nella tua vita personale, prendilo nuovamente in considerazione. Osservalo nuovamente. Osserva la vita ancora una volta, e dove ti sei mostrato cieco, ora vedi; dove sei diventato insensibile tanto da essere inanimato, la morte del cuore, ora gloriati ».
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INDICE
Ringraziamenti
pag. 9
I.
Le stagioni della vita
»
13
II.
Un tempo per nascere
»
22
III.
Un tempo per perdere
»
33
IV.
Un tempo per amare
»
44
V.
Un tempo per ridere
»
57
VI.
Un tempo per la guerra
»
68
VII.
Un tempo per guarire
»
81
VIII.
Un tempo per seminare
»
92
IX.
Un tempo per morire
» 103
X.
Un tempo per uccidere
» 115
XI.
Un tempo per costruire
» 126
XII.
Un tempo per abbracciare
» 138
XIII.
Un tempo per raccogliere
pag. 149
XIV.
Un tempo per piangere
» 162
XV.
Un tempo per astenersi dagli abbracci
» 175
XVI.
Un tempo per guadagnare
» 186
XVII. Un tempo per la pace
» 197
XVIII. Un tempo per ogni cosa sotto il cielo
» 209