Perché Dio permette la guerra, di M. Lloyd Jones, p. 1 di 42
Perché Dio permette la guerra? Una giustificazione generale delle vie di Dio Una serie di predicazioni del dott. D. Martyn Lloyd-Jones
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L'uomo alla presenza di Dio
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Affrontare l'imprevisto
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Il mistero delle vie di Dio
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Perché Dio permette la guerra?
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La risposta finale a tutte le nostre questioni
Traduzione di Paolo Castellina, maggio 2006. Tutte le citazioni bibliche (salvo diversamente indicato) sono tratte dalla versione “Nuova Riveduta” della Società Biblica di Ginevra, 1994.
A mia moglie
Indice Prefazione Prefazione alla seconda edizione 1. L'uomo alla presenza di Dio. 2. Affrontare l'imprevisto. 3. Il mistero delle vie di Dio. 4. Perché Dio permette la guerra? 5. La risposta finale a tutte le nostre questioni.
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Prefazione Questi sermoni [non si tratta, infatti, di saggi] sono stati pronunziati sostanzialmente come appaiono qui, e nello stesso ordine, in cinque domeniche mattina dell'ottobre di quest'anno, nella Westminster Chapel. Sono pubblicati su richiesta di molti amici che li hanno ascoltati. Il tema che li unisce in un'unica serie è un approccio ad una generale teodicea, o giustificazione di come la bontà e la giustizia divina si concilino con l’esistenza del male nel mondo. Ogni sermone considera un diverso aspetto di questo tema generale, in modo tale che, in un certo senso, ognuno costituisca un discorso completo e, al tempo stesso, contribuisca all'idea generale. L'intera serie non vuole essere altro che un approccio a questo vasto e grande argomento. Il trattamento è molto inadeguato e temo che siano evidenti i segno di una preparazione frettolosa. Non mi sono proposto di scrivere una tesi e nemmeno un certo numero di saggi. Ho predicato questi messaggi nella speranza che potessero aiutare la gente e rafforzare la loro fede nei giorni di crisi che oggi stiamo vivendo. E' con la stessa speranza che ora li offro ad un pubblico più vasto, pregando che Dio si compiaccia di utilizzarli per benedirli. D. M. LL.-J. Westminster Chapel Novembre 1939
Prefazione alla seconda edizione Quando questi sermoni erano stati pubblicati per la prima volta, la Seconda Guerra Mondiale non era che alle sue prime fasi. E' lo stesso mio padre che dice perché egli avesse predicato su questo argomento e poi raccolti questi sermoni in questa forma, cioè per "aiutare [i credenti] e rafforzare la loro fede". I lettori ora si potrebbero chiedere perché la Evangelical Press del Galles abbia deciso di ripubblicarli addirittura quarantasei anni dopo, quando la Gran Bretagna non è più in guerra e quando il mondo sembra ormai un mondo molto diverso da allora. Davvero è così differente? Nel rileggere questo libretto siamo stati stupefatti nel vedere quanto, invece, sia rilevante per la società in cui ci troviamo. Certo, i dettagli delle circostanze sono diversi, ma i problemi fondamentali rimangono inalterati, così come lo sono i grandi principi biblici che siamo esortati ad applicare a questi problemi. Anche noi dobbiamo affrontare "i giorni critici che stiamo attraversando". Sopra ogni altra cosa questo libro è "una teodicea, o giustificazione delle vie di Dio verso gli uomini". Nel terzo sermone leggiamo: "...uno dei problemi che rendono perplesse molte menti oggi ... è la difficoltà di riconciliare il mondo in cui viviamo, e particolarmente ciò che vi accade, con la nostra fede in Dio, e specialmente con certi tratti fondamentali di quella fede". Questo è il problema affrontato da questi sermoni e in un tempo come il nostro, dove c'è incertezza e confusione da ogni parte, nel mondo e nella chiesa, è la nostra speranza e la nostra preghiera che questo libro sia ancora una volta usato per rivolgere la nostra attenzione alla "profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio" (Ro. 11:33). Elizabeth Catherwood Giugno 1985
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1. L'uomo alla presenza di Dio "Io voglio dunque che gli uomini preghino in ogni luogo, alzando mani pure, senza ira e senza dispute" (1 Ti. 2:8).
Fra tutte le attività nelle quali un cristiano s’impegna e che fanno parte della vita cristiana, non ce n'è altra che causi maggiore perplessità e sollevi tanti problemi quanto l'attività che noi chiamiamo preghiera. Questo è sempre vero, ma lo è particolarmente durante il tempo difficile e critico di una guerra. E' stato vero durante la guerra 1914-18, ed è certo che diventerà uno dei problemi più pressanti ed urgenti nel procedere dell'attuale guerra. Senza dubbio è già uno dei problemi che turbano molte menti, e che le spinge a chiedersi perché mai Dio non risponda alle preghiere che sono state elevate a Dio sin dalla crisi del settembre 1938 e perché Egli non impedisca lo scoppio dell'attuale guerra. Si tratta, quindi, di una delle prime questioni sulle quali dobbiamo concentrare la nostra attenzione. E' del tutto naturale volgersi alla preghiera in tempo di stress e di difficoltà. Allora si è particolarmente consapevoli del fatto che il nostro destino, ed il destino dei nostri cari, si trova nelle mani di potenze più grandi di noi. Sentiamo di non poter controllare gli avvenimenti e le circostanze come crediamo di poter fare in tempi normali. Ecco così che ci rivolgiamo a Dio. La maggior parte delle persone pensa a Dio e si rammentano delle possibilità della preghiera, quando si sentono in qualche bisogno disperato, per quanto poco od infrequentemente possano volgersi in quella direzione altre volte. Hanno bisogno di qualcosa, e con urgenza, così si rivolgono a Dio e Lo implorano di concedere loro ciò di cui hanno bisogno. Si aspettano che Dio risponda, e così attendono. Non sono mai stati tanto impegnati religiosamente che in quelle circostanze. Magari prima erano più o meno formalmente religiosi e può anche darsi che normalmente si aspettassero poco dalla religione. Ora, però, investono in questo tutta la loro fede e si aspettano grandi cose, e tutto in termini di preghiera. Ecco, così, come, in tempo di crisi, ci sia sempre un gran parlare ed un grande scrivere di queste questioni. Questo solo fatto dovrebbe renderci molto attenti a questo fenomeno. Vi sono, però, due successive questioni pratiche che ci spingono a farlo. Penso talora che non vi sia aspetto della vita cristiana riguardo al quale maggiormente si pensi, si parli e si scriva in modo così scriteriato. Questo è dovuto in gran parte al fatto che coloro che affrontano questo argomento lo fanno nel modo che abbiamo indicato. Si buttano nella preghiera spinti dal bisogno, senza avere mai veramente riflettuto a fondo o studiato al riguardo della natura stessa della preghiera. Spesso, inoltre, sono incoraggiati a farlo da chi sembra suggerire loro che tutto quello che debbano fare sia semplicemente cominciare a pregare e tutto andrà loro bene. E' così che sono suscitate grandi speranze e sono incoraggiate grandi attese, e viene del tutto ignorata la questione che per pregare vi sono delle condizioni da rispettare. E' inevitabile, quindi, che da tutto questo ne conseguano solo ulteriori problemi. La preghiera non trova la risposta che l'orante si attendeva ed è ben probabile che gli avvenimenti assumano un corso interamente diverso. Ecco così che la persona in questione non solo si ritrova in uno stato di dubbio e di perplessità, ma spesso nella condizione d’aperta critica verso Dio. Questo lo condurrà alla fine a perdere la sua fede. È quanto accadde ad un gran numero di persone durante la guerra 1914-18. Avevano pregato per la sicurezza dei loro figli o per qualche soggetto particolare. La richiesta non era stata loro accordata, così pensavano, ed il risultato era la perdita della loro fede. Nutrendo questo risentimento verso Dio, essi hanno cessato del tutto di interessarsi poi alla religione. Si tratta probabilmente dell'esperienza che ha avuto la maggior parte dei pastori, quando si sono trovati a dover trattare questioni riguardanti la natura della preghiera ed i
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problemi che sorgono dal senso di delusione di chi non ha avuto dalla preghiera il risultato che si aspettava. In circostanze come quelle che stiamo trattando, di fatto, questo è il problema pastorale più frequente. Vi sono altre questioni che sono sollevate in connessione alla calamità di una guerra, ma speriamo di poterle pure trattare in seguito. Il problema della preghiera, però, deve avere la priorità, perché frequentemente esso è la questione pratica che produce poi molte altre problemi collegati. Il tempo per noi di cominciare a riflettere e a prepararci ad affrontare questioni come queste, è proprio ora, all'inizio dell'attuale crisi, mentre abbiamo ancora una certa libertà ed agio per farlo. Quando i sentimenti sono colpiti e le suscettibilità ferite, sarà difficile per noi fare alcunché. Prima di iniziare ad esporre il contenuto del nostro testo, è bene considerare quelli che potremmo definire gli errori più comuni che riguardano la questione della preghiera. Una delle cause di difficoltà e di delusione più comuni, è che troppo frequentemente ci accostiamo alla questione solo nei termini di risposta alla preghiera. La preghiera è considerata solo come un meccanismo atto a produrre certi risultati. Abbiamo bisogno di qualcosa, e crediamo, perciò, che basti sottoporre a Dio la nostra richiesta, ed Egli l’accorderà. Non ci fermiamo nemmeno a pensare in che modo dobbiamo accostarci a Dio e se abbiamo o no il diritto di farlo. L'idea di rendere a Dio il culto che Gli è dovuto e della necessità di adorarlo, non ci passa neppure per la testa. Non consideriamo le nostre rispettive posizioni, né ci rammentiamo che Egli "l'Alto, l'eccelso, che abita l'eternità" (Isaia 57:15) e che noi non siamo altro che peccatori, essendo, di fronte a Lui, la nostra stessa bontà e giustizia soltanto "come un abito sporco" (Isaia 64:6). Il pensiero di stare all'ascolto di Dio e di attendere alla Sua presenza nemmeno ci sfiora. Dio, per noi, non è altro che una sorta di distributore automatico di grazie al quale ricorrere solo quando riteniamo di doverlo fare, e la cui funzione principale è quella di accordarci ciò che desideriamo. Quando confrontiamo le nostre preghiere con quelle che troviamo riportate nella Bibbia e che provengono dalle labbra di Mosè, Daniele, Isaia e gli apostoli, e soprattutto quando consideriamo l'ordine e il luogo dato di fatto a richieste specifiche nella preghiera modello insegnata dal nostro Signore ai Suoi discepoli, non è forse chiaro come noi si tenda a tralasciare ciò che è della massima importanza nella preghiera per concentrarci solo su delle richieste e sulla gratificazione dei nostri desideri personali ed egoistici? Ecco il motivo per il quale, naturalmente, la vita di preghiera di tanti è così saltuaria e spasmodica in tempi normali e diventa urgente e regolare solo in tempi di necessità urgenti. Strettamente connesso a questo è un'altra tendenza, vale a dire quella di pensare troppo nei termini di ciò che, secondo noi, Dio dovrebbe fare. Già abbiamo visto come noi non consideriamo di solito la natura di Dio nella questione del nostro accesso a Lui. Allo stesso modo, prima di stabilire noi stessi ciò che Dio dovrebbe fare, noi manchiamo di considerare la Sua natura e la Sua infinita sapienza. Non esitiamo a presumere che ciò che pensiamo sia giusto, e che quindi Dio dovrebbe accordarci ciò che chiediamo nella forma precisa in cui glielo presentiamo. Ahimè, quanto poco ci fermiamo a considerare quella che potrebbe essere la volontà di Dio nella nostra particolare situazione! Quanto spesso cerchiamo, con la preghiera, di scoprire e di conoscere quale sia la volontà di Dio? Invece di chiedergli che la Sua volontà sia fatta, invece di volgerci a Lui e dirgli: La tua via, non la mia, o Signore, per quanto oscura possa essere, noi semplicemente Gli chiediamo di fare la nostra volontà e di acconsentire ai nostri desideri. Invece di inchinarci umilmente di fronte a Lui e di chiedergli quale sia per noi la Sua volontà, spesso giungiamo quasi a comandare Dio di fare ciò che noi vogliamo, dandogli precise istruzioni su cosa dovrebbe fare... E' allora proprio perché abbiamo già fisso in mente quel che dovrebbe secondo noi avvenire, che ci coglie poi la delusione e giungiamo a mettere in dubbio la bontà stessa di Dio. Questo è vero non solo per le preghiere che facciamo sulla nostra situazione personale, ma anche per quelle che facciamo per il nostro paese e per il nostro mondo in generale.
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Un'altra fonte molto comune di problemi si trova nel modo in cui tendiamo a trarre conclusioni generali ed assolute da quanto la Bibbia o altra letteratura cristiana riporta a proposito delle preghiere esaudite. Il guaio è che noi concentriamo la nostra attenzione solo su un aspetto della questione, ignorando del tutto gli altri aspetti, quelli che mettono in rilievo le condizioni preliminari che devono essere osservate in quei casi. Leggiamo, per esempio, di un uomo come George Muller o di qualche altro santo cristiano. Osserviamo come, in apparenza, per essere esaudito, questi non dovesse far altro che sottoporre a Dio le sue richieste. Egli prega, fa determinate richieste a Dio, ed ecco che viene esaudito. Sembra che non ci sia limite a ciò che sia possibile chiedere a Dio e che Egli sia disposto a darci. Dice la sua preghiera, ed ecco che essa viene esaudita. Noi saltiamo quindi alla conclusione che tutto ciò che noi si deve fare sia semplicemente pregare, sottoporre la richiesta a Dio. Quando, poi, non riceviamo esattamente ciò che abbiamo chiesto, ecco che ne rimaniamo contrariati ed infastiditi e cominciamo a dubitare di Dio. Il problema, ovviamente, è interamente dovuto al fatto che non abbiamo considerato le condizioni che sono poste alla preghiera. Non abbiamo notato quanta differenza vi sia fra la vita che viveva il Muller e la nostra. Abbiamo totalmente mancato di vedere come lui fosse stato chiamato da Dio ad esercitare questo particolare ministero di preghiera e di fede, e come egli sapesse che la sua principale missione nella vita era quella di proclamare la gloria e la grazia di Dio in questo particolare modo. Non abbiamo notato che il modo in cui Dio lo esaudiva e le risposte specifiche che egli otteneva alle sue preghiere, per Muller erano questioni secondarie, e che il suo interesse principale, come in ogni cosa e sempre, per lui era la gloria di Dio. E' inoltre pure vero che noi non ci siamo neppure dati la pena di notare quanto siano state dure le lotte che lui aveva dovuto affrontare, e la rigida disciplina che egli imponeva alla propria vita. Ciò che valeva per il Muller, è vero anche per molti altri che hanno ricevuto sorprendenti risposte alle loro preghiere. Noi desideriamo ricevere le benedizioni che i santi hanno ricevuto, ma dimentichiamo che essi erano dei santi! Ci chiediamo perché Dio non risponda alle nostre preghiere nello stesso modo in cui Egli rispondeva alle loro? Dovremmo invece chiederci: Perché io non vivo la vita che quell'uomo ha vissuto? Oltre a tutto, come già ho accennato, esiste qualcosa che potremmo ben definire un ministero di intercessione. Fra le "diversità dei doni" che sono dispensati dallo Spirito Santo, l'apostolo Paolo menziona: "il carisma della fede" (1 Corinzi 12:4-9). Si tratta certamente di una fede speciale che si manifesta attraverso lo strumento della preghiera. Se ci rendessimo conto di tutte queste cose, temo che scopriremmo come siamo stati spesso colpevoli di presunzione. Un'altra questione alla quale dobbiamo fare riferimento è il non essere in grado di discernere fra vero esaudimento della preghiera e circostanze in cui potremmo simulare l'esaudimento della preghiera. Si tratta di un argomento complesso e dobbiamo trattarlo con cautela. Non possiamo, però, esimerci dal trattarlo, se non fosse altro per la ragione che coloro che se ne rendono colpevoli, a questo punto, sono fra persone religiose più spirituali che vi siano, e quelle più disposte a proclamare agli altri le meraviglie della grazia di Dio. Si tratta di un fenomeno naturale. Desiderano offrire agli altri prove viventi e concrete dell'intervento diretto di Dio negli affari umani, essi anelano mostrare agli altri segni inequivocabili del Suo amore. Essi cercano sempre di trovarne casi ed esempi. Quant'è facile, quindi, che essi non riescano a discriminare come dovrebbero! Eppure, l'insegnamento del Nuovo Testamento c’esorta e ci sollecita a farlo. Ci dice di "esaminare ogni cosa" e di "ritenere il bene" (1 Tessalonicesi 5:21). Esso ci rende attenti al fatto che in questo mondo vi siano forze e poteri malvagi che sono così astuti, malvagi e sottili nei loro tentativi di imitare le opere di Dio "da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti" (Matteo 24:24). I segni ed i prodigi devono essere esaminati attentamente, passati al setaccio, altrimenti, con tutto il nostro zelo, potremmo attribuire a Dio ciò che in realtà è opera del diavolo! Per trattare di questa questione, però, ad un livello più pratico, non c'è forse il pericolo, talvolta, di confondere fra semplici coincidenze e la risposta ad una preghiera? Non possiamo nemmeno negare che vi sia anche lo strano fenomeno della telepatia e del transfer mentale e tutta quella sfera della realtà che solo oggi cominciamo un po' ad esplorare. Si potrebbe certo sostenere che sia Dio a guidare i pensieri di
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una persona verso un'altra. Che lo faccia oppure meno, questo non è ciò che la Bibbia intende con preghiera esaudita. Neanche lo è ciò che è stato sempre accettato come la visione corretta della questione, che insegna come Dio intervenga direttamente, e non soltanto che diriga le nostre attività. Poi c'è l'intera questione dei fenomeni psichici ed il problema dello spiritismo o dello spiritualismo. Non possiamo negare che esistano fenomeni, per altro ben provati, ma è d'importanza vitale rendersi conto della natura delle forze che producono certi fenomeni, e che noi si sia in grado di distinguere fra le manifestazioni di spiriti maligni e le operazioni misericordiose dello Spirito Santo. Non ho neanche ancora menzionato il potere della suggestione, come pure l'importanza di un'accurata diagnosi medica quando siamo di fronte a guarigioni che si considerano risposta a delle preghiere. Tutta questa problematica è intricata e complessa e, per molti, "puzza" d’incredulità il fatto stesso che si vogliono soltanto sollevare queste questioni. Eppure, alla luce dell'insegnamento del Nuovo Testamento, si tratta di questioni di vitale importanza. Anche gli esorcisti israeliti e chi praticava la magia nera poteva fare cose straordinarie. Iannè e Iambrè potevano fare concorrenza a Mosè, anche se solo fino ad un certo punto (2 Timoteo 3:8). Non c'è nulla che maggiormente possa far discreditare l'Evangelo che affermazioni stravaganti, oppure pretese che possano essere giustificate sulla base di fattori naturali o di altra origine. Non esito a sostenere che dobbiamo fare molta attenzione nell'attribuire ad interventi diretti di Dio ciò che non riusciamo a spiegare altrimenti con altre ipotesi. La mancanza di discernimento inevitabilmente conduce a ragionamenti pasticciati che, a loro volta, condurranno a delusioni e dolori. Sono queste, dunque, le fonti più comune di errore e di problemi. Li abbiamo considerati in modo esteso proprio perché spesso prenderne coscienza risulta essere più del 50% della loro soluzione. Non bastano da sole istruzioni positive. Dopo aver considerato, però, la causa di molti problemi, vediamo chiaramente come da tutto questo emerge un solo gran principio, vale a dire, che nulla è più importante al riguardo dell'intera questione della preghiera che un giusto approccio. Se sbagliamo a questo punto, sbaglieremo su tutti i punti. Se noi per qualcosa che non è avvenuto come noi avremmo voluto diamo la colpa a Dio, siamo solo noi a tirarci addosso tutti i problemi che ne conseguiranno. Ora il nostro testo tratta della questione stessa del come noi ci accostiamo alla preghiera. Ecco perché è così importante, in un tempo come il nostro, studiarlo attentamente ed osservare il suo insegnamento. Una volta scoperto come pregare, come accostarci all'intera questione della preghiera, la questione del "per che cosa pregare" si prenderà cura più o meno di sé stessa, ed il fastidioso problema dell'esaudimento della preghiera sarà già risolto. Ciò che dirò a Dio è del tutto subordinato al modo in cui io mi accosto a Dio. Ciò che io sono e ciò che io ho fatto prima ancora di cominciare a parlare con Dio, è d’importanza ancora maggiore delle stesse mie parole. Devo concentrarmi non tanto sulla preghiera o sulle risposte che desidero dalla preghiera, come prima e principale cosa, ma su me stesso e sullo stesso mio diritto di pregare. Come dobbiamo pregare? Che diritto abbiamo di pregare? La risposta che Paolo dà a queste domande è: "Io voglio dunque che gli uomini preghino in ogni luogo, alzando mani pure, senza ira e senza dispute". E' proprio qui che troviamo le condizioni che governano l'attività che chiamiamo preghiera, e questo considereremo per quanto brevemente. 1. La prima condizione è la necessità che noi si alzi verso Dio "mani pure". Questo non ha a che fare con la posizione fisica che assumiamo nel pregare, né si riferisce al fatto che gli Ebrei generalmente pregassero stando in piedi e tendendo le mani verso l'alto come rivolte a Dio. Né ci attarderemo sul fatto che fosse usanza degli israeliti lavarsi bene le mani prima di partecipare ad un atto di culto. Quelli erano semplicemente dei simboli esteriori per fare notare il principio che l'apostolo riteneva urgente far comprendere. Mani pulite, o "mani sante" indicano e rappresentano il carattere che deve avere chi prega, in pratica, santo. Si tratta della prima domanda da farci ogni qual volta ci apprestiamo a pregare Dio. "Impegnatevi a cercare ... la santificazione senza la quale nessuno vedrà il Signore" (Ebrei 12:14). Il profeta afferma al riguardo di Dio: "Tu, ... hai gli occhi
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troppo puri per sopportare la vista del male, e ... non puoi tollerare lo spettacolo dell'iniquità" (Abacuc 1:13). Non c'è nulla più di questo che sia maggiormente contrario all'intero insegnamento della Bibbia: presumere, cioè, che chiunque possa accostarsi a Dio in preghiera ogni qual volta lo desideri e senza alcuna condizione preliminare. E' fuor di dubbio che il primo effetto del peccato, ed il principale risultato della Caduta, fosse quello di infrangere la comunione che esisteva fra Dio e uomo. L'uomo, con il peccato, si è pregiudicato il diritto di accostarsi a Dio e, senza dubbio, lasciato a se stesso, non si accosterebbe mai a Dio. Dio, però, nella Sua stupefacente misericordia, ha provveduto all'uomo un modo per accostarsi a Lui. Questa è la spiegazione di tutto l'insegnamento dell'Antico Testamento sulle offerte e sui sacrifici, come pure è la spiegazione di tutto il cerimoniale del Tabernacolo e del Tempio e del sacerdozio aaronico. Senza queste cose nessuno poteva avvicinarsi a Dio. Possiamo avere comunione con Lui solo su questa base, secondo, cioè, quanto Egli ha stabilito. Non esiste la possibilità d’alcun altro accesso a Dio se non su questa base. Oltre e sopra tutto ciò che troviamo nell'Antico Testamento, però, è l'intero significato della venuta, e della vita, morte, risurrezione ed ascensione del benedetto nostro Signore, che può fornirci: "quella via nuova e vivente che egli ha inaugurata per noi attraverso la cortina, vale a dire la sua carne" (Ebreo 10:20), la via, cioè che porta alla presenza stessa di Dio. Gesù disse: "Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (Giovanni 14:6). E' ovvio, quindi, che la prima questione da considerare quando ci accostiamo a Dio in preghiera è il nostro peccato. La prima domanda da farci, quindi, deve essere: In che modo posso accostarmi a Dio? Che diritto ho di farlo? Per un cristiano la risposta viene subito dal fatto che "il sangue di Gesù Cristo" è l'espiazione del nostro peccato, ciò che ci purifica da esso e ci mette in grado di accostarci a Lui. Questo, però, non significa che, proprio perché abbiamo creduto in Cristo, noi si possa vivere come ci pare ed ancora vederci aperto l'accesso a Dio. Proprio perché noi ancora pecchiamo e siamo peccatori, dobbiamo sempre ravvederci e chiedergli perdono. Il ravvedimento non è semplicemente dispiacersi del peccato, e nemmeno si tratta di un semplice rimorso. E' la "tristezza secondo Dio" quella che "produce un ravvedimento che porta alla salvezza". Essa include l'odio per il peccato e la determinazione di abbandonarlo per vivere una vita santa. In altre parole, il rendersi conto d'aver bisogno d'essere purificati, e la determinazione di conservare "mani pulite" è essenziale per accostarci a Dio. Questo, ovviamente, assume la priorità su ogni altra questione relativa all'esaudimento della preghiera. Questo concetto è frequentemente messo in rilievo dalla Bibbia. Rammentate come lo mette il Salmista? "Se nel mio cuore avessi tramato il male, il Signore non m'avrebbe ascoltato" (Salmo 66:18). Egli intende ricordare che se lui avesse coltivato il male nel suo cuore, e non avesse avuto la determinazione a liberarsene, egli non avrebbe potuto aspettarsi che Dio esaudisse la sua preghiera. Se il suo stesso cuore lo condanna, Colui che investiga i cuori e prova gli spiriti certamente lo farà. Prendiamo, però, un'altra illustrazione. Ricordate quella parola efficace che Dio rivolge a Geremia? "Anche se Mosè e Samuele si presentassero davanti a me, io non mi piegherei verso questo popolo; caccialo via dalla mia presenza, e che egli se ne vada!" (15:1). Perché Mosè e Samuele? Perché essi erano uomini santi. E' come se Dio avesse detto a Geremia: "Anche se i vostri migliori uomini intercedessero per questo popolo, io non potrei esaudire quanto mi chiedono". Vi è qualcosa di simile in Ezechiele 14:14, dove leggiamo: "Se in mezzo a esso si trovassero questi tre uomini: Noè, Daniele e Giobbe, questi non salverebbero che sé stessi, per la loro giustizia, dice DIO, il Signore". Qui ancora la spiegazione è la stessa. Vi è una bell’illustrazione dello stesso punto nel racconto della guarigione del cieco, nel capitolo 9 del vangelo secondo Giovanni. I Farisei esaminano l'uomo che è stato guarito e cercano di fargli dire che non era possibile che Gesù l'avesse guarito perché Gesù è "un peccatore". L'uomo replica: "Si sa che Dio non esaudisce i peccatori; ma se uno è pio e fa la volontà di Dio, egli lo esaudisce" (Giovanni 9:31). Ecco qui dunque la stessa sottolineatura, lo stesso accento sull'importanza vitale di avere "mani pulite" se vogliamo aspettarci che Dio presti ascolto alla nostra preghiera. Rammentiamoci poi delle ben note parole di Giacomo: "La preghiera del giusto ha una grande efficacia" (5.16). Uno spirito
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fervente ed un profondo desiderio non sono abbastanza. E' "l'uomo giusto" che ha il diritto di aspettarsi i risultati che desidera. Le promesse di Dio non sono mai incondizionate. Dio non ci ha mai promesso di esaudire incondizionatamente a tutte le nostre richieste, e la prima condizione che Egli pone è che le nostre mani siano "pure". E' solo quando cerchiamo di conformare la nostra vita a questo modello, ed abbiamo la determinazione di vivere secondo la Sua santa volontà, che abbiamo veramente titolo di pregare Dio e di portare le nostre richieste di fronte al Suo trono. Dopo tutto questo, sareste ancora tentati di mettere in questione Dio perché non ha risposto alla vostra preghiera? 2. La seconda condizione è "senza ira". E' molto importante per noi qui comprendere esattamente il significato esatto dell'espressione: "senza ira". Non significa ciò che normalmente s’intende con l'uso comune di questa parola. E non significa neppure "rabbia" o la manifestazione dell'ira, in altre parole, di una disposizione non amorevole verso qualcuno, oppure di un'esplosione violenta di furore. Si tratta piuttosto di "una condizione consolidata di cattiva volontà o di risentimento". Qui l'accento non è posto tanto sul modo in cui un uomo consideri Dio e si accosta a Lui, ma del modo in cui egli considera e si accosta ai propri simili, al suo prossimo. Congiunto forse a questo è l'intera questione dello spirito umano - non solo le sue azioni, ma il suo atteggiamento verso gli altri e verso la vita stessa. Quanto è d'importanza davvero vitale! A quant'è tragico vedere come noi si fallisca spesso su questo punto! Spesso nel nostro cuore coviamo un atteggiamento di risentimento verso Dio proprio quando di fatto lo stiamo pregando. Nel nostro cuore "ce l'abbiamo con Lui" e vorremmo tanto esprimergli piuttosto le nostre lamentele! Crediamo che Egli ci abbia fatto dei torti. Sentiamo, però, di dipendere da Lui e Gli chiediamo dei favori. Crediamo che Egli ci sia avverso, che non sia stato giusto con noi, eppure, in questo stato e condizione, Gli chiediamo di benedirci, e ci aspettiamo che Egli lo faccia. Dio dice dei figli di Israele: "Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me" (Marco 7:6). Questo stesso spirito si manifesta nel nostro atteggiamento verso gli altri. Potrà essere un sentimento d'amarezza, o d'invidia, o di malizia, quel che abbiamo in cuore, oppure il rifiuto di perdonarli per qualche torto, vero o immaginario, che ci hanno fatto. Eppure, nonostante sia questo l'atteggiamento che abbiamo nei loro confronti, ci aspettiamo che Dio ci perdoni e che ci conceda quanto Gli abbiamo chiesto! Qui ancora noi siamo del tutto ed interamente condannati dall'insegnamento del Nuovo Testamento. Ricordate le parole di Gesù nel Sermone sul Monte? "Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all'altare, e va' prima a riconciliarti con tuo fratello; poi vieni a offrire la tua offerta" (Matteo 5:23,24). Nello stesso Padre nostro Gesù c’insegna a pregare in questo modo: "Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe" (Matteo 6:14,15). E poi c'è la parabola riportata nel vangelo secondo Matteo (18:23-35), dove il nostro Signore, descrivendo il servo malvagio che, dopo aver ricevuto egli stesso il perdono, rifiuta di rimettere ad un suo conservo quanto quest'ultimo gli deve. Gesù riassume così questa lezione: "Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello" (35). E' un pensiero terrificante, ma sembra perfettamente chiaro ed evidente che tutti coloro che presumono che Dio risponda alle loro preghiere, e si arrabbiano se non lo fa, non saranno mai nella condizione di pregare Dio, se coltivano nel proprio cuore un sentimento di risentimento verso Dio e verso il mondo intero quando le cose per loro vanno male o vivono in condizione di avversità. Essi si rifiutano persino di perdonare Dio (un pensiero, questo, terribile e blasfemo!), eppure essi sono i primi a lamentarsi se le loro preghiere non sono esaudite! "Senza ira". L'unico spirito che solo ci dia titolo di aspettarci che Dio ascolti le nostre preghiere è quello che c’è descritto così perfettamente ed in dettaglio nel tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi. Se siamo schiavi, non dobbiamo nutrire un sentimento d'ira verso i re e verso tutti quelli che sono in autorità; e se abbiamo
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nemici, non dobbiamo odiarli, ma amarli, La regola è: "Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi maltrattano e che vi perseguitano" (Matteo 5:44). "Senza ira". 3. La terza condizione è descritta come: "senza dispute", che si può anche tradurre: "senza dubitare". Qui ci si riferisce non tanto a dispute con altri, ma a dispute con sé stessi! Denota uno stato di fluttuante incertezza, o persino di uno stato di ribellione intellettuale. Il dubbio può esprimersi in molti modi diversi. Può essere un dubbio sull'essere stesso di Dio, del dubbio, per usare le parole stesse dell'autore dell'Epistola agli Ebrei, "che egli è" (Ebrei 11:6). E' incredibile notare come quanti si mettano a pregare senza neanche avere risolto il primo e fondamentale requisito della preghiera e delle sue possibilità. Altri, sebbene su questo siano in chiaro, si trovano in stato di dubbio al riguardo della bontà di Dio, o sulla stessa disponibilità di Dio a rispondere alle nostre preghiere. Questa è una questione che noi speriamo di poter trattare in seguito con maggiore ampiezza, considerando la questione generale del modo in cui Dio tratta con gli uomini. Qui, però, dobbiamo indicare che la cosa è sicuramente ovvia, se solo ci pensiamo un attimo, che un tale stato e condizione da parte nostra è tale da rendere la nostra preghiera del tutto inutile. Spesso vi è pure il dubbio su quello che potremmo chiamare la potenza o la possibilità della preghiera, il fatto stesso che qualcosa possa di fatto avvenire dopo aver pregato, in breve, se pregare ne valga veramente la pena! Questi dubbi, o solo uno fra di essi, ha spesso il risultato di rendere la preghiera che noi intraprendiamo un'avventura disperata o un esperimento dubbioso. Ci troviamo così in una difficile posizione, oppure a faccia a faccia con un bisogno spaventoso. Non sappiamo più che fare o a chi rivolgerci. Allora ci rammentiamo di avere udito che qualcuno ha pregato Dio ed ha ottenuto una qualche meravigliosa risposta. Decidiamo così di pregare, di provare l'esperimento, al fine di vedere se mai anche noi ne riportassimo un qualche risultato. Non abbiamo considerato a fondo la questione, non ci siamo fermati a considerare tutte le condizioni preliminari alle quali abbiamo fatto riferimento; più o meno noi "gridiamo nel buio" che magari qualcuno ci risponderà... se siamo fortunati "funzionerà" e saremo liberati. In questo stato di dubbio e di scetticismo e a volte, di fatto, di pura e semplice incredulità, spesso molti rivolgono a Dio le loro preghiere, e quando esse non ricevono risposta alcuna, ed i loro desideri non sono soddisfatti, essi borbottano e si lamentano e proclamano inutile la religione, ed esprimono tutto il loro risentimento verso Dio! Fintanto che non osserveremo la terza condizione, la nostra preghiera sarà del tutto inutile. Dobbiamo adempiere ciò che ci dice la Scrittura: "Chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano" (Ebrei 11:6). La preghiera non è intesa essere il dubbio esperimento che può condurre alla fede, ma l'espressione, il risultato di una fede che non solo crede in Dio, ma che pure è disposta ad affidarsi completamente a Lui ed alla Sua santa volontà. Pregare Dio per scoprire se la preghiera funzioni oppure meno, è un insulto verso Dio. Questo esperimento non può che avere un unico risultato. Gli uomini le cui preghiere sono state esaudite sono sempre stati quelli che conoscevano Dio, che avevano di Lui la fiducia più incondizionata, coloro che sono stati del tutto pronti a dire in ogni tempo e circostanza: "Sia fatta la Tua volontà" certi com'erano dei Suoi santi ed amorevoli propositi. Non ci può essere dubbio alcuno, nessuna disputa, nessun esperimento disperato, ma un trovare la nostra pace, con calma e senza fretta, in Dio e nella Sua perfetta volontà. Queste, così, sono le condizioni. Non siete forse d'accordo, dopo averle considerate, che la cosa più sorprendente non è che Dio a volte non risponda alle nostre preghiere come desideriamo che Egli faccia, ma piuttosto che Egli talvolta, di fatto, si compiaccia di concederci qualcuna delle nostre richieste? Facciamo così il proponimento di mettere in pratica tutti questi principi fintanto che c'è tempo. Una crisi acuta potrà sopraggiungere quando meno ce lo aspettiamo, e potremmo sentire il bisogno di pregare. Purifichiamo le nostre mani, purifichiamo il nostro spirito, consolidiamoci nella fede. Allora, quando sopraggiungerà una grave crisi, non ci troveremo a fare un esperimento dubbioso, ma ci volgeremo a Colui del quale potremo dire con San Paolo: "È anche per questo motivo che
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soffro queste cose; ma non me ne vergogno, perché so in chi ho creduto, e sono convinto che egli ha il potere di custodire il mio deposito fino a quel giorno" (2 Timoteo 1:12). La risposta potrà anche non essere quella che avevamo sperato, ma saremmo in grado di vedere come essa, alla fin fine, era certamente la migliore per la nostra anima. In ogni caso, avremo imparato ad essere più interessati alla gloria di Dio che alla gratificazione dei nostri propri desideri.
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2. Affrontare l'imprevisto "E Manoà disse a sua moglie: «Noi moriremo sicuramente, perché abbiamo visto Dio». Ma sua moglie gli disse: «Se il SIGNORE avesse voluto farci morire, non avrebbe accettato dalle nostre mani l'olocausto e l'oblazione; non ci avrebbe fatto vedere tutte queste cose e non ci avrebbe fatto udire proprio ora delle cose come queste»" (Giudici 13:22,23).
Queste parole sono il semplice ma profondo resoconto di come il padre e la madre di Sansone avevano reagito a circostanze critiche e difficili in cui si erano improvvisamente trovati. Non si tratta, però, solo di un resoconto, ma anche di un giudizio. Il resoconto di ciò che essi avevano fatto e detto ci dice tutto di loro e del giudizio di cui erano stati sottoposti. Il vero significato della parola crisi, infatti, è giudizio, e quindi accade che ogni tempo di crisi in cui noi si possa essere, diventi pure il tempo in cui noi siamo messi alla prova. Come vediamo molto chiaramente in questo antico racconto, la crisi, fra le molte cose che produce, mette in evidenza due cose che per noi sono di importanza vitale. In primo luogo, esso rivela con esattezza e precisione il tipo di persone che noi realmente siamo. Potreste leggere l'intero capitolo che precede questo nostro testo ed ancora non sapere chi fossero in realtà Manoà e sua moglie. Fintanto che, infatti, non arriviamo a questi versetti, ci è praticamente impossibile valutare queste due persone e dire chi delle due sia la più forte od abbia il carattere migliore. Ecco, però, improvvisamente, in questi due versetti, come in un flash, le vediamo com'erano, giungiamo a conoscerle a fondo, ci facciamo un'opinione di loro e valutarle diventa molto facile. La moglie di Manoà non solo risalta rispetto a suo marito, ma, fra tutte le donne che la Bibbia ci presenta, essa risalta fra le più grandi. Questo ci rammenta un principio valido universalmente. In tempi normali, quando la vita procede in modo del tutto ordinario, noi tutti riusciamo a dare di noi stessi un'immagine sufficientemente accettabile. Adottiamo un certo standard ed un certo atteggiamento verso la vita, ed abbiamo sufficiente tempo ed agio per interpretare questa parte. Osserviamo le regole e ci conformiamo ai diversi standard riconosciuti accettabili. Esprimiamo le nostre persuasioni al riguardo di ciò che pensiamo e crediamo e le contrapponiamo ad altre, come pure affermiamo ciò che ci proponiamo di fare quando dovremo affrontare particolari situazioni ipotetiche. Diamo così agli altri determinate impressioni su noi stessi del tipo di persone che siamo. Non intendo dire che l'intera vita sia soltanto portare una maschera e così solo un grande inganno, ma intendo seriamente rilevare come tutti, inconsciamente, tendiamo nella vita ad interpretare una parte e quindi non solo ad ingannare gli altri, ma anche noi stessi. E' così facile vivere una vita artificiale e superficiale e convincerci d’essere quello che vorremmo essere! Siamo tutti dei bravi attori e, in tempi come questi, quando la tirannia delle convenzioni e delle forme sociali è così forte, una delle cose più difficili della vita per noi è mettere in pratica il consiglio dell'antico filosofo che dice: "Conosci te stesso". Ora, se noi troviamo questo compito difficile, lo farà sicuramente un tempo di prova e di crisi. Giunge, infatti, improvvisamente e ci trova impreparati. Non ci sarà tempo allora per rammentarci le convenzioni e le usanze, non avremo l'opportunità di indossare la nostra maschera come facciamo di solito istintivamente. Allora verrà fuori in modo naturale il nostro vero volto. Una crisi, però, ci mette anche alla prova in modo più profondo ancora, specialmente in ciò che noi professiamo di essere in confronto ad altri. La sapienza del mondo ci rammenta che "un vero amico si vede nel momento del bisogno". È ciò che uno fa in un momento di bisogno, infatti, che veramente rivela ciò che è. Le sue promesse ed i sentimenti espressi generosamente durante un periodo di tranquillità verranno messi alla prova. Il nostro Signore ci ammonisce ripetutamente contro questo pericolo, ad esempio: "Non
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chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli" (Matteo 7:21). Il nostro comportamento in tempi di necessità, di difficoltà e di crisi, è quello che proclama chi realmente siamo. Ecco perché tempi come quelli sono spesso pieni di tristi delusioni e di strane sorprese. Allora, coloro che prima avevano parlato a gran voce improvvisamente ora tacciono, e quelli che si erano proposti di farlo scompaiono altrettanto quietamente. Ancora più importante, però, dal nostro punto di vista, e per i nostri scopi immediati, è renderci conto che il tempo di crisi e di difficoltà pure mette alla prova e dimostra molto chiaramente ciò in cui veramente crediamo e la natura della nostra fede. Perché, dopo tutto, vedere semplicemente la grandezza della madre di Sansone come una donna dal carattere forte, significa mancare di vedere ciò che, in questo racconto, è veramente significativo. La cosa che qui più impressiona e che rende questa donna notevole, è la sua fede, la sua capacità introspettiva, la sua comprensione dei fatti e quanto la sua fede avesse fatto forte presa nella sua vita. E' questo che la mette in grado di svergognare suo marito e di rimproverarlo per la sua debolezza e per le sue paure. La Bibbia non è tanto interessata alla grandezza naturale di un carattere: la sua grandezza è il risultato della grazia, e questo è ciò che è evidenziato in molti altri casi. La situazione di prova in cui Manoà e sua moglie si trovano, rivela subito la natura e quindi, il preciso valore della loro professione di fede. Ecco qui ancora all'opera un altro principio universale che si manifesta in modi diversi. Può essere che siamo stati educati in un'atmosfera religiosa e che sin dalla nostra nascita siamo stati circondati dall'insegnamento religioso. Essere stati educati in questo modo significa avere udito certe cose ed essere abituati ad udire verità religiose. Chiunque intorno a noi sembrava credervi e, a suo tempo, ci siamo trovati a ripeterle ed a considerarci veri credenti. Non abbiamo mai pensato ad esaminare a fondo queste credenze e, ancor meno, a dubitarle. Accettavamo tutto questo così, semplicemente, senza mai approfondirlo. Abbiamo presupposto che tutto andasse bene così e che anche noi eravamo a posto. Non ci siamo mai veramente presi la briga di cercare di comprendere a fondo tutte queste affermazioni sulla religione. Non ci siamo veramente mai preoccupati d’interiorizzare quest’insegnamento. Una volta ho udito uno che descriveva molto bene questa situazione dicendo che spesso si prende la nostra religione allo stesso modo in cui ogni mattina si prende dalla tavola pane e burro. E mentre tutto, così, andava bene, siamo andati avanti con la nostra religione ed i suoi doveri, presupponendo di avere e di fare la cosa giusta senza sospettare minimamente che in noi forse mancasse qualcosa. Improvvisamente, poi, dovendo affrontare una difficoltà, un problema, ci siamo ritrovati a comportarci ed a reagire precisamente allo stesso modo di tanti altri che non possono vantare d'avere alcuna religione. Eravamo impotenti e disperati tanto quanto loro. La nostra religione non sembrava fare differenza alcuna nella nostra vita in quelle critiche circostanze. Non c'è niente di più triste e di più tragico nella vita e nell'esperienza di un pastore evangelico che trovare persone di questo tipo, persone la cui religione non sembra dare loro nulla o non essere d’alcun conforto di fronte a bisogni gravi ed a crisi della vita come malattia, lutti, afflizioni, disastri, minacce di calamità o una guerra. Sembravano essere esempi così eccellenti di persone religiose! Non si erano mai rese colpevoli d'alcuna affermazione eretica o di grosse violazioni del codice morale. In tempi normali sembravano il tipo ideale della persona religiosa. Eppure, quando la loro religione è messa alla prova ed è loro più necessaria che mai, ecco che improvvisamente per loro non significa più nulla e diventa del tutto inutile. Non avete mai conosciuto persone così? In questo gruppo, però, vi sono anche altri, per quanto non precisamente per lo stesso motivo. Mi riferisco a coloro il cui interesse per la religione è stato principalmente, se non esclusivamente, intellettuale. Di loro non si può dire, come di quelli che abbiamo or ora considerato, che non abbiano riflettuto sulla loro religione, perché lo hanno fatto. La religione è stata praticamente il loro hobby intellettuale. Su di essa hanno letto, ragionato, dibattuto, polemizzato... Sono interessati ad essa come modo di vivere, interessati nelle sue varie proposizioni e posizioni. Per tutto il tempo, però, il loro interesse è stato pura-
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mente oggettivo. La religione, per loro, era qualcosa di cui parlare, qualcosa che un uomo può prendere e poi lasciare. Non è mai stata parte della loro esperienza soggettiva, interiore. Non è mai diventata parte di loro stessi e della loro vita. Nella loro esistenza la religione non ha mai giocato, nella pratica, una ruolo vitale. Sembrava che sapessero tutto su di essa. Ecco però che, nel momento della crisi, tutta la loro conoscenza ed interesse sembra inutile e priva di valore. L'esempio classico di questo, naturalmente, è John Wesley prima della sua conversione. In un certo senso, egli sapeva tutto della religione. Una volta, però, mentre attraversava l'Atlantico, la sua nave viene colta da una terribile burrasca che li avrebbe condotti a sicura morte. Aveva paura di morire e sentiva di non avere nulla. Quello che lo aveva colpito, però, era il contrasto rappresentato dai Fratelli moravi che erano nella stessa nave. A confronto con il Wesley, essi erano uomini ignoranti, ma la loro religione sembrava significare qualcosa di reale e di vitale per loro. Essa li sosteneva nella burrasca, e dava loro pace e calma, anzi gioia, persino a faccia a faccia con la morte. La religione di Wesley appariva eccellente. Aveva dato tutti i suoi beni ai poveri, aveva predicato nelle prigioni, e stava attraversando l'Atlantico per andare a predicare ai pagani nella Georgia. Era un uomo d'immensa conoscenza nelle cose della religione. Eppure il momento della prova aveva rivelato a lui ed agli altri la vera natura della sua religione, vale a dire si era dimostrata priva di valore. Il tempo della crisi, quindi, mette alla prova la nostra religione, proprio come era avvenuto a Manoà ed a sua moglie. Ora la tragedia è che molti fra noi assomigliano a Manoà, e non a sua moglie. Desideriamo intensamente di essere benedetti, e guardiamo alla religione come una fonte per noi di doni e di benedizioni. Come Manoà possiamo essere ferventi nelle nostre preghiere e, giudicati dalle azioni e dal nostro comportamento esteriore, possiamo apparire, e di fatto lo siamo, persone molto devote. Mentre tutto va bene, e mentre le nostre preghiere sono esaudite ed i nostri desideri sembrano essere gratificati, siamo pieni di lodi e di riconoscenza, proprio com'era Manoà quando quel che aveva chiesto in preghiera gli era stato accordato. Poi, però, improvvisamente, accade qualcosa che non comprendiamo appieno. Accade qualcosa d’inaspettato. Si accumulano le nuvole, il cielo si scurisce, tutto sembra improvvisamente ora andare storto. La situazione è imbarazzante e sconvolgente, il contrario di quello che ci aspettavamo ed avevamo previsto. Ora, troppo spesso, a faccia a faccia con tutto questo, ci comportiamo come Manoà. Sembriamo collassare del tutto e perdere ogni speranza. Saltiamo così a delle conclusioni, quasi invariabilmente, alla peggiore delle conclusioni nelle circostanze date. Ancora peggio, questa "peggiore conclusione" a cui saltiamo così in fretta e troppo frequentemente, è basata sugli stessi presupposti che avevano fatto sì che Manoà giungesse alla sua peggiore conclusione, vale a dire che, in un modo o in un altro, Dio sia contro di noi, e che tutto ciò che avevamo immaginato così bene come espressione della bontà e della generosità di Dio non fosse altro che un'illusione. Dico tutto questo sulla base delle affermazioni fatte da uomini e da donne quando sono a faccia a faccia con tali crisi. Come sono pronti, allora, a farsi delle domande che non bisognerebbe mai farsi, domande che implicano l'affermazione che in qualche modo Dio non sia stato giusto con loro, o che Dio non mantenga le sue promesse. Questo è certo il nemico più persistente della razza umana e senza dubbio il nemico più persistente del cristiano in generale. E' il suggerimento che il nemico della nostra anima è sempre pronto ad insinuare nella nostra mente e nel nostro cuore, cioè che Dio sia contro di noi o almeno che Dio non sia veramente interessato a noi ed al nostro bene. Le vecchie concezioni pagane, le vecchie idee superstiziose sembrano starci attaccate nel modo più tenace, sempre pronte ad offrirsi come spiegazione quando siamo messi a confronto con situazioni che ci confondono e ci lasciano perplessi. Se noi semplicemente brontolassimo per la situazione in cui ci troviamo, il caso non sarebbe così grave: sarebbe in ogni modo un'indicazione di un tipo di cristianesimo ben povero e debole. Tendiamo, però, ad andare oltre. Borbottiamo e brontoliamo non semplicemente di ciò che ci sta avvenendo, ma di Dio stesso. Ci facciamo delle domande. Facciamo affermazioni che, sebbene molto guardinghe, suggeriscono fortemente che stiamo dubitando di Lui e della Sua bontà nei nostri riguardi.
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E' quasi superfluo rilevare ciò che implichi una tale condizione, eppure siamo in dovere di indicare quanto questo stato sia terribilmente disonorante per Dio. Si tratta della causa centrale d'ogni male; questa è la madre di tutti i peccati, il peccato d’incredulità. Non spetta a noi fare una classifica dei peccati, ma è certo che la Bibbia mostri molto chiaramente che fallire nella nostra condotta, o persino una caduta morale, non è nulla in confronto con il peccato d’incredulità. Esso, infatti, manifesta un atteggiamento fondamentalmente ostile e avverso a Dio, laddove gli altri non sono che una manifestazione di debolezza e di fragilità. Dubitare Dio e la Sua bontà è un peccato molto più odioso e nefando del mancare di ubbidirgli o di osservare i Suoi comandamenti. Non è necessario dire di più. Questa condizione, però, è pure interamente ingiustificabile, soprattutto in rapporto ad altri. Manoà avrebbe dovuto essere lui ad aiutare e a rafforzare sua moglie. Per lei la cosa più naturale sarebbe stata guardare a lui. Fortunatamente per lei, però, quella donna non dipendeva dal marito, altrimenti il collasso della fede di lui avrebbe portato lei ad un collasso ancora più grande. I fatti, però, non sono sempre così. Nella vita cristiana e nella vita della Chiesa ci sono sempre persone che guardano a noi come ad un esempio, che dipendono da noi. Questo è al tempo stesso il nostro privilegio e la nostra responsabilità. Quando falliamo, quindi, anche altri saranno coinvolti nel nostro fallimento. Quando ci rendiamo conto che vi sono sempre altri, fuori del cristianesimo, che osservano come ci comportiamo noi cristiani, e specialmente in tempo di difficoltà e di stress, il nostro fallimento diventa ancora più reprensibile. Anche però dal nostro punto di vista strettamente personale, questo comportamento simile a Manoà è del tutto negativo. Esso ci porta ad una condizione disgraziata e disperata. Significa che siamo infelici e miserevoli, agitati e preoccupati, pieni di paure e di presagi negativi, con tutti quei sentimenti a cui inevitabilmente conducono. Ancora più grave di questo è che, in questo stato e condizione, come Manoà, siamo passibili di dire cose per le quali più tardi avremo da pentirci per tutta la vita d’aver detto. Per queste sole ragioni dovremmo fare sempre molta attenzione. Tutto questo, però, è negativo e possiamo ora procedere a qualcosa di positivo. Non è necessario che ci comportiamo come Manoà. Sua moglie ci mostra chiaramente come tutto questo possa essere evitato. Dio ci conceda che noi si possa imparare ora questa lezione, cosicché qualunque cosa ci aspetti nel futuro, noi si possa essere pronti e ben preparati, ben armati e forniti delle risorse necessarie per affrontare con successo il nemico, che certamente verrà con il suo odioso suggerimento che Dio ci abbia abbandonato o che sia definitivamente a noi avverso. Questo insegnamento può essere diviso, in modo naturale, in due suddivisioni principali. 1. Dobbiamo prima di tutto considerare che cosa fa questa donna. La risposta è piuttosto sorprendente, vale a dire, che essa pensa e ragiona. E' semplice, non è vero? Eppure quante volte manchiamo proprio su questo punto! Le ragioni per cui manchiamo sono molte. Ne noterò due, quelle che ho notato più frequentemente. La prima la potremmo chiamare in generale uno spirito anti-intellettuale al riguardo della religione. Non lo riconosciamo spesso come tale, ma vi sono stati negli ultimi anni molti atteggiamenti di questo tipo. L'importanza di un pensiero preciso e rigoroso, avere dogmi e definizioni precise, è stata molto sottovalutata. Si è dato molto peso alla religione come a qualcosa che può fare molto per noi e renderci felici. Vi è stata certamente una sovraesposizione dell'aspetto emotivo e sentimentale della religione a spese di quello intellettuale. Possiamo dire senza dubbio che l'aspetto miracolistico e l'elemento miracoloso della fede cristiana abbia ricevuto troppa indebita preminenza. Troppo spesso si è considerato il cristianesimo come qualcosa che può dare una serie costante di liberazioni miracolose da ogni sorta di mali. Gli slogan che troppo spesso abbiamo sentito recentemente ne è palese testimonianza. Le frasi che sono state usate più frequentemente, sono state del tipo: "Prova la religione", o "Prova la preghiera", ed è stata spesso data l'impressione che fosse possibile chiedere a Dio qualunque cosa che ci capiti d'aver bisogno, e Lui l’accorda. Si è messo l'accento su quest'aspetto pratico della religione, senza dire nulla sulle condizioni da a-
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dempiere, sull'intero schema della salvezza e sulla rivelazione della natura e propositi di Dio come ci sono rivelati nella Bibbia. Il tipo di religione che si è dimostrato più popolare, è stato quello che si presenta come "molto facile" e "molto semplice" e che sembra fare tutto per noi senza chiederci nulla. Durante gli ultimi venti anni è stata così confusa ed oscurata più che mai la differenza che intercorre fra la religione cristiana e i diversi gruppi settari e di psicologia applicata che cercano di aiutare la gente. Non sono stati evidenziati i grandi principi, il forte entroterra, il contenuto teologico ed intellettuale della nostra fede, anzi, tutto questo è stato spesso definito come non essenziale. Ci siamo tanto concentrati su noi stessi, sui nostri umori, sentimenti e stati interiori che, quando siamo messi a confronto con un problema esterno che, ciononostante, influisce profondamente su di noi, che noi non sappiamo più come pensare o dove cominciare a trattarlo. L'altra ragione che spiega il perché noi spesso manchiamo semplicemente di pensare come aveva fatto questa donna, è che in una qualche nostra crisi improvvisa noi tendiamo ad esserne stupefatti che tutto questo, di fatto, ci accada, e cerchiamo di fuggirne precipitosamente. Posso anche ammettere che questa sia una reazione in parte fisica o nervosa. Non è, però, del tutto così. In tali condizioni noi tendiamo a "lasciar andare" e a "lasciarci andare", Noi abbandoniamo noi stessi, cessiamo di lottare e di fare sforzi positivi per venirne fuori.. Non solo noi perdiamo la presa su noi stessi, nel senso che deliberatamente ci rilassiamo e ci lasciamo andare. Non si tratta solo di pigrizia, ma della manifestazione dell'effetto intossicante che ha sempre su di noi una calamità, uno shock, o una crisi. Quant'è facile gridare, urlare o lasciarsi andare ad altri simili impulsi che certamente sorgono in tali occasioni! Quant'è facile perdere l'autocontrollo e la padronanza che abbiamo su noi stessi! Ora, questa donna, la madre di Sansone, brilla come un glorioso esempio proprio dell'opposto. Si comporta come dovremmo comportarci noi tutti. Fa quello che noi tutti dovremmo fare in simili circostanze. Vedendo ed osservando il tracollo di suo marito, le sue paure e il suo piagnucolare, ascoltandolo esprimere i suoi neri presagi ed oscure profezie, il suo dubitare della bontà di Dio, lei non grida né urla, non cade nell'isteria e nemmeno cade priva di sensi. Non si pone domande irriverenti né esprime lamentele verso Dio: lei riflette sull'intera faccenda e, con magnifica logica, lei arriva alla sola e valida conclusione alla quale avrebbe potuto giungere. Può sembrarvi strano o curioso che, proprio nel mezzo di un disastro o di difficoltà che ci mettono duramente alla prova, la fede cristiana, invece di agire come un incantesimo o una droga, e fare tutto per noi, ci chieda, anzi, ci comandi di pensare e di far uso della logica. Questo insegnamento non lo troviamo solo qui, ma pervade tutta la Bibbia. Potrei riassumere le sue istruzioni in questo modo: a) Non parlate fintanto che non abbiate considerato a fondo la questione. Assumete un fermo controllo su voi stessi e soprattutto sulle vostre labbra. Non dite nulla fintanto che non abbiate pensato e riflettuto a fondo. Potremmo dire con Giacomo: "Siate lenti a parlare" (Giacomo 1:19). b) Fate poi uno sforzo positivo e pensate attivamente. Non contemplate semplicemente i fatti, non lasciate che pensieri ossessivi si affollino nella vostra mente. Pensate attivamente. Consideratelo un dovere quello di riflettere come mai avete fatto in precedenza, come se il carattere di Dio e la Sua giustificazione di fronte agli uomini dipendesse da voi. Il nemico vi ha attaccato, e specialmente nella sfera della vostra mente. Resistetegli e mettetelo in fuga! c) Partite dal presupposto che qualunque altra cosa possa essere vera e per quanto poco voi la comprendiate, una sola cosa è certa ed assoluta - il suggerimento che vi propone il nemico su ciò che è Dio, deve essere per forza sbagliato. d) Poi fate la determinazione in voi stessi di considerare tutti i fatti, non solo un fatto o certi aspetti di un fatto. In un certo senso Manoà era molto logico. Egli sapeva che chiunque avesse visto Dio certamente sarebbe morto. Il suo guaio era che, considerando quest'unico fatto senza mettervi accanto agli altri fatti a disposizione, era giunto ad una falsa conclusione. Quanto spesso noi abbiamo fatto proprio questo! Ecco quindi, come ci sia
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mostrato, dalla reazione della moglie di Manoà ciò che pure noi dovremmo fare in simili circostanze. Dobbiamo pensare, riflettere, ragionare. Fortunatamente per noi, la lezione va ancora oltre a questo. Infatti, non ci è semplicemente detto che dovremmo pensare, riflettere: ci viene dato il risultato dei suoi ragionamenti e della sua logica. 2. Possiamo dunque considerare, in secondo luogo, ciò che dice questa donna. Le conclusioni alle quali giunge sono altrettanto valide oggi come quando lei le aveva espresse. Questa donna semplicemente afferma, nel suo modo, con le parole che sa usare e nell’ambito degli avvenimenti che si propongono a lei ed a suo marito, ciò che pure dice e sostiene costantemente San Paolo nelle sue varie epistole. Senza dubbio noi qui troviamo un riassunto meraviglioso e molto pittoresco, la quintessenza, dell'intero insegnamento consolante del Nuovo Testamento. Riassumerò quel che dice nella forma di un certo numero di proposizioni. a) Il primo principio da considerare è che Dio non è mai capriccioso. La donna dice: "Se il SIGNORE avesse voluto farci morire, non avrebbe accettato dalle nostre mani l'olocausto e l'oblazione". Sembrava proprio sul momento come se Dio stesso volesse improvvisamente capovolgere tutto ciò che aveva appena cominciato a fare. Dopo aver sorriso a queste persone, sembrava che, per nessuna causa apparente o ragione, Egli ora si dimostrasse corrucciato e minaccioso, fino al punto da volerli uccidere. Tutto improvvisamente sembrava ora andare male, anzi, in direzione totalmente opposta, tanto da suggerirci che, di fatto, Dio non s’interessi a noi, che non gli importiamo nulla. La Sua stessa passata misericordia e tutte le sue benedizioni sembrano essere solo un brutto scherzo. La tentazione, quindi, è quella di pensare che Dio sia come certi potentati della terra e tiranni, che godono a giocare con le loro vittime per aumentare il loro terrore e le loro torture, facendo prima finta di essere con loro condiscendenti. Non c'è nulla che sia più umiliante e che dia più sui nervi di essere alla mercé di una persona o in obbligo verso di essa quando di questa proprio non ci si possa fidare, una persona dall'umore sempre mutevole e che cambi costantemente idea ed i cui propositi ed azioni siano, in corrispondenza a questo, del tutto variabili. Non ci si sente allora al sicuro neppure per un momento. In qualsiasi momento possiamo aspettarci un completo ribaltamento di tutto ciò che prima è avvenuto. Non c'è alcun senso di sicurezza o di pace. Guardando al futuro non vi può essere speranza. Ora, una delle cose delle quali possiamo essere sempre, assolutamente e definitivamente certi, è che Dio non è così, Egli non si comporterà mai in quel modo. Qualunque cosa possa sembrarci, quella non è la spiegazione. Per la Sua stessa natura ed Essere non c'è nulla di più glorioso in Dio che la Sua eterna costanza. Egli è eterno, ed i Suoi decreti sono eterni. La Sua bontà e la Sua misericordia sono eterne. Il modo in cui tratta con i figli degli uomini è caratterizzato da questo e ne è il risultato. I Suoi piani sono stati fatti "prima della creazione del mondo" (Efesini 1:4). Egli ama di un amore eterno (Geremia 31:3). Egli è il: "Padre degli astri luminosi presso il quale non c'è variazione né ombra di mutamento" (Giacomo 1:17). Egli non dice una cosa per poi farne tutta un'altra. Egli non gioca con noi e non ci prende in giro. Sì, "Se il SIGNORE avesse voluto farci morire, non avrebbe accettato dalle nostre mani l'olocausto e l'oblazione". Egli non è mai capriccioso! b) Il secondo principio è che Dio non è mai ingiusto nei Suoi rapporti con noi. La madre di Sansone ha del tutto ragione nell'affermare che se Dio avesse condotto lei e suo marito a fare certe cose soltanto per punirli e per distruggerli, questo sarebbe stato un atto di palese ingiustizia. Lei sa che una cosa del genere è del tutto impensabile con Dio. Non che lei capisca con esattezza e precisione ciò che sta loro capitando, o che conosca l'esatto significato degli avvenimenti di cui essi sono testimoni. Qualunque possa esserne, però, il significato, di una cosa lei è certa, che Dio non è mai ingiusto, non retto. Guardando un certo problema o una certa situazione da una sola angolatura - come spesso noi facciamo - spesso manchiamo di vedere quanto quell'avvenimento corrisponda comunque a giustizia. Questo dipende solo dal nostro campo ristretto di visione. Inoltre, la nostra mente ragiona in modo distorto perché essa è offuscata e distorta dal peccato. Le nostre stesse idee su ciò che è giusto non sono vere. Il nostro egoismo oscura la nostra
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visione e avvelena la nostra comprensione delle cose. Noi non sappiamo nemmeno che cosa alla fine sia il meglio per noi: vi è così tanta oscurità mista alla nostra luce. E' così che, nella nostra follia, siamo disposti ad accusare Dio d’essere ingiusto. La moglie di Manoà vede molto bene la totale follia, errore e peccato di tutto questo, e a suo modo lei proclama: "Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre" (1 Giovanni 1:5), e si pone la domanda che pure si era posta Abraamo: "Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?" (Ge. 18:25 CEI). Fate molta attenzione a non giudicare Dio con i vostri deboli sentimenti, decidete piuttosto con questa donna e con un vecchio compositore di inni: Tutto ciò che dispone il mio Dio è giusto: La Sua volontà rimarrà sempre giusta; Io tacerò, qualunque cosa Egli faccia, E Lo seguirò dovunque mi condurrà. Egli è il mio Dio. Per quanto la mia via sia oscura, Egli mi sostiene e non cadrò. Per questo mi affido completamente a Lui. Tutto ciò che dispone il mio Dio è giusto: Egli non mi ingannerà mai. Egli mi guida sul giusto sentiero. Io so che Egli non mi lascerà mai. Ricevo, contento, ciò che Egli mi manda. La Sua mano può scacciare tutte le mie preoccupazioni E con pazienza io attendo il Suo giorno. (Samuel Rodigast, 1649-1708) c) Il terzo principio è che Dio mai contraddice se stesso ed i Suoi propositi di grazia. Ascoltate la logica ineccepibile di questa donna: "«Se il SIGNORE avesse voluto farci morire, (...) non ci avrebbe fatto udire proprio ora delle cose come queste». Di fatto lei si era volta verso suo marito e gli aveva detto: "E' forse concepibile che Dio, che già ci ha dato tali sorprendenti segni della Sua presenza e bontà, ora voglia distruggerci? Anzi, è forse concepibile che Chi tanto è intervenuto nella nostra vita e che ora è venuto a dirci che ha in serbo per noi certi piani e certi propositi che Egli intende realizzare in noi ed attraverso di noi - è forse concepibile che, dopo aver iniziato tutto questo, ora improvvisamente vi voglia mettere fine? Non presumo di comprendere, ma per me è impensabile che Dio metta in moto un tale processo e che poi improvvisamente lo voglia rovesciare e distruggere!". Qui abbiamo di nuovo nelle sue parole ciò che San Paolo afferma così frequentemente e eloquentemente. Ascoltatelo: "Sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù" (Filippesi 1:6). L'argomentazione è persino più forte: "Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?" (Romani 8:32). Forse che Dio, che già ha fatto la cosa più grande immaginabile ora per noi ora ci deluderebbe non facendo una piccola cosa? Forse che l'amore di Dio che si è spinto al punto da mandare il Suo unico Figlio a morire così crudelmente sul Calvario, potrebbe verosimilmente abbandonarci, dopo aver fatto quello? Magari non comprendete il senso di ciò che vi sta accadendo. Vi potrà sembrare tutto sbagliato, ma abbiate fiducia in Lui. Credete anche quando non potete provare. Confidate nella Sua costanza, nella Sua giustizia, nei Suoi eterni propositi per voi in Cristo. Considerate questi come degli assoluti che non potranno mai essere scossi, costruite su di essi logicamente il vostro caso, rimanete perseveranti e incrollabili, fiduciosi che alla fine tutto sarà reso chiaro e tutto andrà bene.
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Mentre siete di quell'umore, ma non fintanto che vi sarete arrivati, parlate a voi stessi ed agli altri, dicendo: L'opera che ha cominciato a fare la Sua bontà, sarà portata a compimrento dal braccio della Sua forza. Le Sue promesse sono Sì ed Amen e non potranno mai essere pregiudicate. Nè le cose future, né le cose presenti, né le cose quaggiù, né le cose lassù, potranno mai fargli abbandonare i Suoi propositi, o separare la mia anima dal Suo amore. (A. M. Toplady, 1740-78).
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3. Il mistero delle vie di Dio "In verità tu sei un Dio che ti nascondi, o Dio d'Israele, o Salvatore!" (Isaia 45:15)
Questa magnifica esclamazione, quest’esplosione di devota adorazione, irrompe dalle labbra del profeta dopo che Dio gli ha rivelato i Suoi piani ed i Suoi propositi. Non intende esprimere un reclamo o una lagnanza. Al contrario, esprime un senso di stupore e di sorpresa per le meravigliose vie di Dio. Non siamo in grado di dire se il profeta stesso condividesse il pensiero del popolo in generale e se fosse così colpevole della stessa mancanza di discernimento e di fede. La risposta che Dio dà ai pensieri ed ai mormorii del popolo, però, persino lo imbarazza per la sua magnificenza e grandezza. La condizione spirituale del popolo è rappresentata con vivi ed incisivi accenti nella prima parte del capitolo. Erano perplessi e sconcertati, anzi, di più, erano pieni di dubbi e di domande. Tutto questo, naturalmente, era il risultato della situazione in cui si erano trovati e degli avvenimenti che erano appena accaduti. Oltre a tutto ciò c'era poi l'annuncio della liberazione che Dio si era proposto di portare a termine e dei mezzi che, per farlo, Egli avrebbe usato. I fatti erano questi. I figli d'Israele, come nazione e popolo, stavano facendo esperienza di una costante serie di disfatte e d’umiliazioni. Essi sapevano d'essere il popolo eletto di Dio, un popolo del tutto speciale, eppure stavano diventando sempre più deboli, ed i loro nemici - pagani ed estranei alla nazione d'Israele, stavano costantemente guadagnando forza. La terra d'Israele subiva attacchi dopo attacchi, e il loro esercito era sconfitto. Il nemico aveva loro portato via alcuni fra i tesori più preziosi, e di fatto deportato un gran numero di persone. In quel momento era solo questione di tempo prima che Gerusalemme sarebbe stata conquistata e distrutta, ed il resto della popolazione deportato in Babilonia. Tutto stava andando di male in peggio ed il nemico era sempre più potente. Nel frattempo Dio sembrava non fare nulla per impedire tutto questo. Non aveva fatto nulla per ostacolare o trattenere l'arrogante nemico. Sembrava proprio che a Dio questo nulla importasse. Certamente non era intervenuto per liberare il Suo popolo e per distruggere il nemico. Questo li lasciava sconcertati e confusi e cominciavano a farsi delle domande. Perché Dio si stava comportando in questa maniera? Perché Dio permetteva che il nemico fiorisse e prosperasse? Si facevano pure altre domande, ben più oscure. Forse che Dio era incapace di opporsi a tutto questo? Davvero aveva il potere di farlo, "le mani" per farlo? Tutto questo era stato ancor di più accentuato, quando era giunto l'annuncio, attraverso il profeta, che alla fine la liberazione sarebbe venuta attraverso Ciro. Questo sembrava essere davvero troppo. La liberazione attraversi un Gentile e non attraverso un Israelita, uno che apparteneva alla discendenza di Davide? Era certo impossibile. Che intendeva Dio? Era giusto da parte Sua fare così? Com'è possibile che una cosa così fosse proprio Dio a farla? In che modo questo poteva conciliarsi con ciò che Dio aveva fatto nel passato, e con tutte le sue promesse e piani? Questa, così, era la condizione spirituale e mentale del popolo, e tali erano le domande che si poneva, o meglio, le affermazioni che faceva. In questo testo molto forte Dio risponde al popolo rammentandogli della Sua natura e della Sua potenza, della Sua conoscenza e dei Suoi propositi. Egli li riprende e, attraverso il profeta, permette loro di guardare al loro futuro come da uno spiraglio, il futuro verso il quale Egli voleva condurli. Il profeta non riesce più a contenersi. Dimenticandosi del popolo e volgendosi da loro, è a Dio direttamente che Egli dirige le sue parole di meraviglia e di lode: "In verità tu sei un Dio che ti nascondi, o Dio d'Israele, o Salvatore!" (Isaia 45:15).
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Sarebbe bene e sommamente didattico considerare questa questione nel suo preciso contesto e mostrare come tutto questo si sarebbe sviluppato nella storia dei figli di Israele. Lo faremo, in qualche modo, ma dobbiamo concentrare la nostra attenzione a come questo si applichi a noi, come questo parli a noi che dobbiamo affrontare la situazione che oggi stiamo vivendo. Sarebbe persino superfluo rilevare come qui abbiamo esattamente uno dei problemi che oggi pure rendono perplesse molti, un problema che ha pure preoccupato molti nel passato. In breve, il problema è la difficoltà di conciliare il mondo in cui viviamo, e soprattutto quello che vi sta accadendo, con la nostra fede in Dio, e specialmente con certi tratti fondamentali di questa fede. In primo luogo, la perplessità che è causata da questo problema, si esprime con un'affermazione generale circa come la seguente. Per anni è stato evidente come le forze del male e dell'errore siano state in forte aumento. L'intero fondamento religioso su cui si fondava la nostra nazione nel passato, non solo è stato messo in questione, ma anche ridicolizzato. La Chiesa, che prima era ritenuta importante, ora è messa del tutto da parte. Lungi dall'essere perseguitata, semplicemente essa è stata ignorata e dimenticata, e la sua storia, anno dopo anno, non è stata che un continuo declino e difficoltà. Più arroganti sono diventati i figli di questo mondo, maggiore è stato il successo della loro vita. Tutto sembra stare dalla parte del male e dell'errore; tutto ciò che è maggiormente ostile a Dio ed alla Sua chiesa, come pure ad una concezione del mondo ritenuta cristiana, sembra stia fiorendo e prolificando incontrastato. Il declino della religione e della morale, come pure di tutto ciò che nella vita è bello e nobile, sta crescendo ad un livello preoccupante. Il mondo sta andando di male in peggio: "...gli uomini malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, ingannando gli altri ed essendo ingannati" (2 Timoteo 3:13). L'intera vita sembra essere diretta inesorabilmente verso l'abisso. Il mondo è diventato sempre di più l'esatto opposto di tutto ciò che Dio ha desiderato che fosse, ed ora che l'inarrestabile scivolamento verso la guerra ha avuto la meglio, ci troviamo di fatto in una guerra e tutto sembra ormai perduto. La situazione è divenuta gradualmente priva di speranza. Ora, mentre accadeva tutto questo e mentre accade oggi, Dio sembra essere stato stranamente silenzioso e inattivo. Sembra che non abbia fatto nulla per impedire tutto questo, e senza intervenire in alcun modo per fermare questo processo. Non solo non pare in evidenza, ma neanche sembra più esistere! L'unica attività in questo mondo sembra essere quella del male. Dio sembra essere assente, oppure di là della Sua capacità d’incidere su questi avvenimenti. Non ha fatto nulla, ed il nemico ha avuto la meglio. Questa è l'affermazione ed essa conduce inevitabilmente alla questione che ci si pone sempre più frequentemente - Perché Dio permette a tutte queste cose di avvenire? Perché non interviene? Perché non mette un freno ai malvagi ed ai malfattori? Perché non ravviva la Sua opera e non salva la Chiesa dalla sua impotenza e dalla vergogna? Perché Dio non esaudisce le preghiere del Suo popolo e non distrugge i malfattori in tutte le loro vie, ristabilendo il mondo ad un modo di vivere giusto e buono? Com'è possibile che Egli stia solo a guardare e non faccia nulla, permettendo che sia distrutto e dissacrato tutto ciò che è degno e nobile? Queste sono le forme che prende oggi la questione generale sul perché Dio si comporti in questa maniera ed apparentemente permetta che tutto ciò che Egli odia si sviluppi e fiorisca? Le domande, però, non si fermano a quel punto. Arrivate fin qui, sembrano ora procedere ad altre domande ancora più serie e malaugurate. Queste nuove domande sono, di fatto, trattate nel nostro testo. Dobbiamo considerarle individualmente e separatamente, rammentandoci che, mentre le affrontiamo, non lo stiamo facendo come se studiassimo una questione accademica o facessimo un'analisi psicologica di persone vissute quasi tremila anni fa. Stiamo piuttosto studiando noi stessi e gli errori nei quali anche noi cadiamo come cadevano allora i figli d’Israele. a) La prima domanda può essere messa in questi termini: Dio è forse indifferente a quanto succede? E' vero che non Gli importa nulla di quanto sta accadendo a noi ed al mondo? Questa sicuramente è l'intera questione che sta sotto a tutto ciò che stiamo ora considerando in questo testo. I figli d’Israele sentivano che Dio li stava trascurando, che
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non li andava più a cercare, che non si prendeva più cura di loro come un tempo. Essi avevano la sensazione che Dio era diventato indifferente e che non Gli importasse più di loro, che Egli avesse loro definitivamente voltate le spalle, permettendo agli avvenimenti di fare il loro corso. Questa sembrava loro la spiegazione più ovvia ed immediata di quanto stava loro avvenendo e dello strano silenzio ed inattività di Dio. Quanto spesso gli uomini sono giunti a questa conclusione! Quanta gente sta tendendo proprio a questo nel momento attuale! Non è che improvvisamente abbiano adottato la concezione degli antichi deisti? Essi insegnavano che Dio, dopo aver creato il mondo, avesse cessato di esserne coinvolto. Dio, essi dicevano, dopo aver creato il mondo come un orologiaio con il suo orologio, lo avrebbe caricato per lasciarlo poi andare avanti da solo con le sue risorse soltanto. Dio aveva, per loro, “chiuso” con il mondo, nel senso di cessare di esserne attivamente coinvolto o di operarsi una qualche interferenza. Io non so se oggi questa concezione sia diffusa. L'idea è che, per una ragione o per un'altra, si pensa che Dio abbia cessato di essere attivamente interessato a questo mondo. Essi sanno che Dio v’interveniva nel passato, attraverso le Sue opere, come lo sapevano gli israeliti. Il Suo silenzio e la Sua inattività, essi sostengono, deve denotare una fondamentale indifferenza come se Dio avesse perso la pazienza con il mondo e, abbandonandolo al suo destino, gli avesse poi voltato le spalle. Il fedele prega, si impegna, opera, eppure sembra non esservi risposta alcuna da parte di Dio. Quant'è facile dedurne che Dio sia indifferente. Non è forse questo che viene presupposto quando ci si chiede il perché Dio permetta che certe cose accadono? Spesso quest'implicazione si manifesta più nel tono della voce che nella domanda stessa. Il sentimento è che se Dio fosse veramente un Dio d'amore, non permetterebbe che il giusto soffrisse come avviene talvolta e che l'ingiusto prosperi ed abbia successo, come Egli permetta calamità e guerre, afflizioni e tribolazioni, tutte quelle che vengono a metterci alla prova. Perché Dio lo permette? Essi si chiedono. Sì, come può Dio permettere tutto questo? E come se le tutte le sofferenze e le preghiere del Suo popolo nulla più contassero. Sì, come lo stesso Salmista pone la questione: "Il Signore ci respinge forse per sempre? Non mostrerà più la sua bontà? La sua misericordia è venuta a mancare per sempre? La sua parola ha cessato per ogni generazione? Dio ha forse dimenticato di aver pietà? Ha egli soffocato nell'ira il suo amore?" (Salmo 77:7-9). L'accusa che si fa a Dio nella prima domanda, è che Dio sia indifferente. b) C'è però anche un'altra questione che s’insinua, e che, in parte, potrebbe essere già una risposta alla prima domanda. E' questa: Forse che Dio è impotente? Può davvero farci qualcosa? Questa è la domanda che è menzionata nell'ultima frase d’Isaia 45:9. Dopo aver chiesto: "L'argilla dirà forse a colui che la forma: Che fai?" e poi continua e si chiede: "L'opera tua potrà forse dire: Egli non ha mani?", che Moffatt traduce così: "Quel che Egli fa suggerisce forse che Egli sia impotente?". …come se l'argilla potesse dire al proprio vasaio che egli manca della capacità e della forza per modellarla e per farne un vaso, così gli uomini sollevano le loro domande e mettono in questione la fattiva capacità di Dio di controllare gli eventi del mondo e di esaudire le loro preghiere. Per loro questa conclusione è inevitabile. Non dubitano minimamente che se Dio potesse far cessare il male ed arginare la marea dell'iniquità, Egli lo farebbe. Essi sostengono che il Suo amore lo spingerebbe a farlo e che sarebbe inconcepibile una qualsiasi altra scelta. Non ci può essere quindi che una sola conclusione. Dev'essere per forza il fatto che Dio non ha la capacità di farlo, che il male è più grande della potenza di Dio. Dev'essere per forza che il mondo gli sia sfuggito di mano, e che ora sia al di là della possibilità che ha di controllarlo e di salvarlo. Le tenebre ed il male sono forse fuori ed oltre le capacità di Dio. Questa è la seconda questione. c) C'è però anche una terza questione che sorge a proposito di ciò che Dio si propone di fare ed annuncia come Sua futura azione. L'uso che vuol fare di Ciro come liberatore non sottende forse che Dio sia incoerente? In che modo potrebbe conciliarsi questo con quanto aveva fatto in passato? Un Gentile che libera Israele? Proprio uno che non fa parte della discendenza di Davide diventa il salvatore del popolo? Un estraneo? E' impensabile! Sarebbe come aggiungere il danno alla beffa! Sarebbe insultante da parte di Dio. Dio non deve farlo, perché sarebbe proprio incoerente con tutto ciò che ha detto, fatto e promesso nel passato. Essi sentivano che utilizzare il pagano Ciro era qualcosa che non
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avrebbe mai potuto conciliarsi con la santità di Dio. Per loro sembrava come se ci si potesse aspettare del bene dal male, che chiunque al di fuori dell'ambito d’Israele, potesse essere utilizzato da Dio per realizzare i Suoi propositi. A tutto questo essi non vedevano una possibile spiegazione. A loro sembrava del tutto ed interamente sbagliata. Non è forse vero che anche noi abbiamo avuto, una volta o l'altra, sentimenti simili? Ci siamo chiesti: Come potrebbe questa cosa che sta succedendo risolversi per il nostro bene e per la gloria di Dio? Quale possibile giustificazione Dio potrebbe mai avere per permetterci di soffrire? Come potrebbero mai prove e tribolazioni essere parte dei piani e dei disegni di Dio? Come potrebbe ciò che è chiaramente sbagliato e male essere in qualche modo ricondotto nell'ambito dell'amore di Dio e dei sovrani propositi di Dio al riguardo nostro e dell'umanità? Sono queste le questioni che il nostro testo considera, ed esse rimangono le stesse questioni che si pongono gli uomini oggi. Ve le siete mai poste? Che si può dire a loro riguardo? Che cosa si può rispondere ad esse? Consideriamo così la forte risposta che fornisce questa parola di Isaia. Tutta la questione è possibile suddividerla in modo naturale in due affermazioni principali. 1. L'arroganza manifestata in quest’atteggiamento verso Dio. E' questo che è messo in evidenza quando la Scrittura, per parlare dei rapporti fra l'uomo e Dio, si avvale dei paragoni dell'argilla e del vasaio, come pure di un bambino neonato. Se si considera la questione oggettivamente, essa è quasi incredibile, eppure quanto spesso assumiamo questo atteggiamento nei confronti di Dio! Non esitiamo a presupporre ed a prendere per scontato, di poter noi essere in grado di comprendere tutto ciò che fa Dio. Abbiamo una tale fiducia in noi stessi, nella nostra mente, capacità d'intendere e d'opinioni, che mettiamo in questione l'agire di Dio precisamente nello stesso modo che facciamo con i nostri simili. Noi sentiamo, e crediamo, di essere in grado di discernere ciò che è giusto e ciò che è meglio. La fiducia che abbiamo in noi stessi è senza fine e senza limiti. Ci rifiutiamo di credere che qualcosa possa essere di là della capacità di comprensione della nostra mente ed intelletto. Certo, questa è l'insolente implicazione che sottostà a tutte le nostre domande ed in tutte le nostre espressioni di dubbio. E' Dio che deve conformarsi alle nostre idee, ed Egli deve fare ciò che noi riteniamo che Egli debba fare. La nostra arroganza, però, non si ferma a questo punto. Come abbiamo visto, essa non esita a condannare le azioni di Dio e a dire che esse sono sbagliate e ingiustificabili. In altre parole, noi, con le nostre idee, siamo quelli che stabiliscono i criteri secondo i quali una qualsiasi cosa deve essere giudicata. Siamo noi la finale corte d’appello, e le nostre idee su ciò che è giusto e sbagliato, giusto ed ingiusto, sono l'ultima parola. Non esitiamo ad esprimere la nostra opinione su Dio e a giudicare le Sue azioni. Questo è ciò di cui si erano resi colpevoli spesso i figli di Israele. Quando vediamo questo loro atteggiamento nel leggere l'Antico Testamento, a volte ne rimaniamo del tutto stupefatti. Quanto è difficile, però, renderci conto che noi stessi siamo colpevoli esattamente della stessa cosa! Potremmo non esprimerlo con la stessa rudezza, potremmo essere più guardinghi e circospetti, ed esprimerlo in forma di domanda piuttosto che come affermazione diretta. In questioni come queste, avere in noi questo pensiero ci rende altrettanto reprensibili di chi esprime apertamente quest'idea. Non voglio dire che in questioni di religione noi non si debba pensare o ragionare, o peggio che la fede cristiana sia irrazionale. Per cogliere la verità noi dobbiamo pensare e ragionare. Questo, però, non significa che la nostra mente possa mettersi sullo stesso livello di quella di Dio, o che noi si possa pretendere di essere uguali a Lui e presumere di comprendere tutto! Ancora meno significa che, moralmente e spiritualmente, noi siamo nella posizione di mettere in questione le motivazioni di Dio e giudicare il Suo carattere com’è espresso dalle Sue azioni. Eppure è proprio questo che gli uomini fanno. Non comprendendo le azioni, procedono ad attaccare ed a mettere in questione il carattere stesso di Dio. Il nostro orgoglio d'intelletto e di comprensione ci conduce, in realtà a considerarci dei piccoli dei! Ecco perché ho scelto il termine "arroganza" per descrivere quest’atteggiamento. Oh, che enormità! Che impertinenza! Che insolenza! C'è solo una sola spiega-
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zione che si può dare a tutto questo, vale a dire l'incomprensione di chi e che cosa sia Dio, accompagnata dalla totale incapacità di apprezzare la verità su noi stessi. Se solo ci rendessimo conto di chi sia Colui che mettiamo in questione! Se solo avessimo la benché minima idea della potenza, grandezza e santità di Dio! E se solo ci rendessimo conto di quanto noi stessi siamo nulla, insignificanti e deboli! Provate a considerare questo ed a vederlo alla luce del nostro testo. Il rapporto che intercorre fra Dio e noi stessi è quello che passa fra il Creatore e la Sua creatura. E' Lui che ci ha fatti e ci ha dato l'essere. In questo non abbiamo contribuito in nulla. Siamo l'opera delle Sue mani. Siamo senza dubbio come l'argilla nelle mani del vasaio. Lo dubitate? Beh, lasciate che vi ponga qualche domanda. Che controllo pensate realmente di avere sulla vostra vita? Non avevate controllo alcuno su di essa al suo nascere e non l'avrete neanche sul suo morire. Non abbiamo alcun’idea su quanto a lungo saremo qui. Non sappiamo neppure che cosa ci riserverà il prossimo mattino. Chi di noi avrebbe potuto prevedere l'attuale stato delle cose? Gli uomini non sono stati in grado di prevenirlo. Siamo creature del tempo ed interamente soggetti a forze sulle quali noi non abbiamo controllo alcuno. Siamo veramente deboli. Come lo diceva il nostro Signore: "Chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un'ora sola alla durata della sua vita?" (Matteo 6:27). Ciononostante, pretendiamo di poter misurare Dio! Non è mostruoso questo? Sì, totalmente folle! Questo vuol sostenere che l'intero nostro atteggiamento è falso e sbagliato. Continueremo a pensare così fintanto che non ci renderemo conto di ciò che Dio intende dire quando dice: "I miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie (...). Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri" (Isaia 55:8,9). E' quindi inevitabile che ci siano cose che non possiamo comprendere e neanche immaginare. E' la gloria stessa della via che Dio ha stabilito portare alla salvezza: ecco perché per noi essa rappresenta una vera speranza. Non riuscite a comprenderla? Siete tentati a metterla in questione, a discuterla, a contestarla? La risposta è, con le parole stesse dell'Apostolo: "O uomo, chi sei tu che replichi a Dio? La cosa plasmata dirà forse a colui che la plasmò: Perché mi hai fatta così?"(Romani 9:20). Potresti però replicare: "Questa non è un'argomentazione legittima. E' piuttosto una proibizione dell'argomentazione, l'esercizio di un'autorità ingiusta!". Al che io rispondo che non era stato mai inteso che avessimo potuto discutere con Dio e che non avremmo mai neanche dovuto partire dal presupposto che si tratti della discussione fra due parti che si pongono allo stesso livello. Dio è in cielo, e noi siamo sulla terra. Dio è santo e noi siamo peccatori. Dio conosce ogni cosa e vede la fine fin dall'inizio. Noi siamo ignoranti e ciechi a causa del peccato, e siamo i miserabili schiavi del tempo! Alla fin fine, questa è l'unica teodicea che sia necessaria. Un uomo che non crede in Dio come potrebbe mai credere o comprendere le azioni di Dio? Però, più crediamo veramente in Dio, più ci rendiamo conto quanto la Sua natura ed il Suo carattere siano santi, meglio comprenderemo le Sue vie. Ed anche quando non riusciamo a comprenderle, saremo sempre più disposti a dire con il nostro Signore benedetto: "Però non la mia volontà, ma la tua sia fatta" (Luca 22:42). Vi è un senso per il quale un qualsiasi tentativo di giustificare Dio e le Sue vie mi pare quasi peccaminoso, e sono tentato di dire a chiunque venga con le sue questioni e le sue critiche, che il suo primo dovere non è quello di comprendere Dio, ma di comprendere sé stesso e la vita che sta facendo. Detto questo, gli direi pure che farebbe meglio a considerare la natura volatile della sua esistenza qui sulla terra, e del fatto che egli dipenda totalmente da Dio, che non solo è il suo Creatore, ma che sarà pure il suo Giudice. Dio non ha bisogno di essere difeso, perché Egli siede sul Suo trono. Egli è il Giudice di tutta la terra. Il Suo regno è senza fine. Smettete di metterlo in questione e di pretendere di discutere ciò che Egli fa! Buttatevi faccia a terra davanti a Lui! Adoratelo! Mettetevi prima nel giusto atteggiamento davanti a Lui, ed allora comincerete a comprendere le Sue azioni. Oh, quanta arroganza vi è nel peccato! 2. Questo, però, è lo stupefacente amore di Dio: Egli non lascia le cose a quel punto. Nonostante il nostro peccato e la sua enormità, Egli accondiscende a ragionare con noi ed a spiegarsi! Nient'altro che un amore eterno potrebbe avere una tale pazienza con crea-
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ture tanto perverse ed ostinate! Abbiamo qui l'esempio di un tale ragionamento. Prende la forma della manifestazione dell'ignoranza implicita in un tale atteggiamento verso Dio. Come abbiamo già visto, questo tipo di reazione è dovuta fondamentalmente alla mancanza di comprensione della natura di Dio e del vero rapporto che abbiamo con Lui. Vi sono però anche altri modi in cui la nostra ignoranza può condurci su strade sbagliate. Possiamo illustrarli mostrando come questo testo risponda alle varie questioni che sono state sollevate ed impartisca quella conoscenza che ci permetterà di risolvere i vari problemi che tendono a rendere perplessa la mente umana. a) I figli di Israele mettevano in questione la potenza di Dio e si domandavano se Egli veramente avesse potuto salvare loro e la loro situazione. E' lo stesso modo in cui oggi molti tendono a mettere in questione la potenza di Dio. Quale indicibile ignoranza! Ascoltate! "Io ho fatto la terra e ho creato l'uomo su di essa; io, con le mie mani, ho spiegato i cieli e comando tutto il loro esercito" (Is. 45:12). Quella è la misura della Sua potenza. Il Dio al quale rendiamo culto, il Dio che è Padre del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, è pure il nostro Creatore. Egli ha creato ogni cosa con una semplice parola. Leggete le gesta di Dio nell'Antico Testamento, leggete delle Sue opere potenti e meravigliose! Il Suo stesso nome, El significa "il Forte", o "il Potente". Avete forse dei dubbi sulla Sua capacità di essere in controllo degli umani destini? Isaia vi ha già fornito la risposta: "Ecco, le nazioni sono come una goccia che cade da un secchio, come la polvere minuta delle bilance; ecco, le isole sono come pulviscolo che vola. (...) Tutte le nazioni sono come nulla davanti a lui; egli le valuta meno che nulla, una vanità" (Isaia 40:15,17). Queste non sono semplicemente delle parole, non sono semplicemente il risultato di un volo d'immaginazione poetica. Se desiderate essere certi della loro verità, leggete i normali libri di storia che confermano la storia e gli insegnamenti dell'Antico Testamento. Quando Isaia pronunciava queste parole, la situazione d’Israele appariva priva di speranza. Erano stati conquistati e deportati dalla più gran potenza politica che il mondo avesse mai conosciuto. Sembrava impossibile che essi dovessero mai ritornare. Eppure sono tornati. Non l'hanno fatto di propria iniziativa e capacità, perché da soli non avrebbero potuto far nulla. Era stata semplicemente una manifestazione dell'onnipotenza di Dio. Vi potreste però chiedere: "Forse che però il male non è un principio ancora più potente?". La risposta è: "Io formo la luce, creo le tenebre, do il benessere, creo l'avversità; io, il SIGNORE, sono colui che fa tutte queste cose" (Isaia 45:7). "Creare l'avversità", o "creare il male" non significa creare il peccato. Significa che Egli ha fatto il modo che afflizione, miseria e desolazione fossero conseguenza e risultato del peccato. Ben oltre a questo, la Bibbia insegna che il peccato e Satana stesso non si pongono oltre ed al di fuori del controllo di Dio. Egli li permette, ma mette un limite alla loro attività e, alla fine, li distruggerà. "Perché Egli li permette ora?" vi potreste chiedere? Per questo la risposta è: "O uomo, chi sei tu che replichi a Dio? La cosa plasmata dirà forse a colui che la plasmò: Perché mi hai fatta così?"(Romani 9:20). Non possiamo saperlo, ma sappiamo questo: che quando la morte, l'inferno ed il male si saranno manifestati in tutta la loro forza contro il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, essi saranno completamente sbandati e sconfitti, e questo attraverso la più potente manifestazione di forza che il mondo abbia mai conosciuto: la Sua risurrezione trionfale dai morti. "A Dio ogni cosa è possibile" (Matteo 19:26). Egli è l'Onnipotente. Non c'è limite alla Sua potenza. b) Che dire, però, del Suo amore, della cura che Egli ha promesso di avere per noi? Più facciamo notare la Sua potenza, in modo ancor maggiore sorge questa seconda questione. Ci ama Egli veramente? S’interessa di noi? Perché allora non fa qualcosa? Queste erano le domande che si poneva Israele, e uomini e donne oggi si fanno le stesse domande. Dio risponde a queste domande rivelando al profeta ciò che Egli stava facendo, che cosa Egli si proponeva di fare. Egli corregge la terribile ignoranza che il popolo ha del Suo amore e del Suo interesse verso di esso. Mostra loro in che modo Egli di fatto fosse quietamente all'opera senza dare nell'occhio. "Io ho suscitato Ciro, nella giustizia, e appianerò tutte le sue vie; egli ricostruirà la mia città e rimanderà liberi i miei esuli senza prezzo di riscatto e senza doni, dice il SIGNORE degli eserciti" (Isaia 45:13). Essi pensa-
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vano che Dio se ne stesse senza fare nulla. Per tutto il tempo, però, Egli aveva continuato ad operare portando così a compimento i Suoi propositi. Forse che aveva dimenticato Israele? Forse che non s’interessava più a loro? No, Egli per loro aveva in serbo un grande e glorioso futuro, ed a quel fine stava facendo in modo che gli eventi vi convergessero. Nonostante la loro disubbidienza ed il loro peccato, nonostante tutto quello che era stato vero per loro ed il loro atteggiamento verso di Lui, Dio ancora amava Israele. Isaia non riesce più a controllarsi. Così Egli grida: "In verità tu sei un Dio che ti nascondi, o Dio d'Israele, o Salvatore!" (Isaia 45:15). Egli vede che Iddio è ancora il Dio di Israele, lo stesso che li aveva salvati dall'Egitto e dal Mar Rosso, dal deserto e dai loro nemici. Egli li avrebbe ancora salvati da tutte le loro calamità. E se voi avete creduto in Lui per Gesù Cristo, se vi siete ravveduti dai vostri peccati ed avete accolto la Sua grande salvezza, io vi assicuro che qualunque cosa possa accadervi, per quanto oscura e difficile possa essere - e per quanto difficile da comprendere - vi assicuro che Egli è ancora il vostro Dio, che Egli ancora vi ama ed ha cura di voi, e che le Sue promesse sono ancora valide: "Io non ti lascerò e non ti abbandonerò" (Ebrei 13;5). Sì, come lo dice Pietro così perfettamente rivolgendosi a chi stava soffrendo tribolazioni che non comprendevano molto bene: "Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché egli v’innalzi a suo tempo; gettando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi" (1 Pietro 5:6,7). Non dubitate mai che Egli abbia cura di voi. c) La nostra ignoranza è forse maggiore quando dobbiamo trattare delle "vie di Dio". In Isaia questo tema si presenta in gran rilievo, come abbiamo già rilevato nelle citazioni che abbiamo riportato e come vediamo in modo così impressionante nel nostro testo. "Le Sue vie" non sono "le nostre vie". E' proprio perché non le comprendiamo che tendiamo a dubitare ed a mettere in questione. Questo è proprio una follia da parte nostra. "Dio si muove in modo misterioso, quando attua le Sue meraviglie" (William Cowper). Egli sembra fare l'esatto opposto di ciò che noi ci aspetteremmo. Egli si avvale di Ciro, un pagano, per salvare il Suo popolo eletto. A volte sembra che Egli non faccia nulla. Passano anni, anzi, lunghi periodi in cui Dio sembra inattivo e nella nostra impazienza cominciamo a gridare: "Fino a quando, o Signore?". Dio sembra aver perduto il controllo e tutto sembra andare storto. Che follia sono simili pensieri! Egli sembra aver dimenticato il Suo popolo in Egitto. Iddio, però, nel Suo modo e nei tempi che Egli ha stabilito, ve li fa uscire. Egli permette loro di rimanere 70 anni in Babilonia, ma aveva già pianificato il loro ritorno a Gerusalemme prima ancora che fossero fatti prigionieri. Per quattrocento anni non si era più sentita la voce di un profeta. Neanche più una sola parola dopo Malachia. "...ma quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, affinché noi ricevessimo l'adozione" (Galati 4:4,5). Così ha continuato a fare attraverso i secoli. "Ma voi, carissimi, non dimenticate quest'unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno" (2 Pietro 3:8). A suo tempo e nel modo che Egli decide, Iddio opera. Ogni cosa, tutte le cose, sono state programmate "prima della creazione del mondo" (Efesini 1:4). Il disegno è perfetto, il piano è completo. Nulla andrà diversamente da come è stato programmato. Leggete la storia del passato, e vedete come essa adempia alle profezie. Leggete poi le profezie al riguardo del futuro. Se farete così, riderete delle vostre paure e delle vostre preoccupazioni, dei vostri presagi negativi e delle vostre domande. Allora esclamerete con Isaia: "In verità tu sei un Dio che ti nascondi, o Dio d'Israele, o Salvatore!" (Isaia 45:15). Che altro potreste dire? Che altro potremmo dire? Quale altro commento potrebbe essere più adeguato a questa situazione? C'e un solo commento da fare, il più grande, l'incisiva affermazione che fa San Paolo mentre contempla il piano che Dio ha previsto per Israele e per il mondo: "Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie! Infatti, «chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì da riceverne il contraccambio?». Perché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen" (Romani 11:33-36). Al che anche noi aggiungiamo: Amen e amen!
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4. Perché Dio permette la guerra? "Da dove vengono le guerre e le contese tra voi? Non derivano forse dalle passioni che si agitano nelle vostre membra?" (Giacomo 4:1). E' interessante e pure strano notare, in ciò che potrebbe essere definito l'atteggiamento religioso verso la guerra, o meglio, l'atteggiamento della gente religiosa verso la guerra, due tendenze che quasi invariabilmente si manifestano. Il primo è la tendenza a discutere l'intera questione della guerra, quasi del tutto senza fare riferimento a Dio, o, almeno in modo tale che il problema della guerra si rapporti a Dio in modo molto indiretto. Considerando la guerra solo ed esclusivamente dal punto di vista umano, coloro che assumono quest'atteggiamento si preoccupano molto dei vari problemi di condotta umana che sono sollevati dalla guerra. Sono molto interessati alla questione di quale dovrebbe essere l'atteggiamento cristiano, vale a dire, come la guerra dovrebbe influire sull'uomo. Cercano di scoprire in generale le cause della guerra e, in particolare, di una qualsiasi guerra che possa avvenire. S'immergono in teorie politiche, economiche, psicologiche e filosofiche che sembrano avere la chiave per risolvere il mistero, e poi cercano di applicare questa conoscenza a situazioni concrete. Dopo aver fatto questo, e credendo appassionatamente che la vocazione della religione sia quella di produrre una pace giusta e durevole, essi procedono poi a discutere le varie misure che dovrebbero essere adottare al fine di realizzarla. In questo gruppo si trovano coloro che si definiscono pacifisti, come pure coloro che tali non si definirebbero. L'interesse, qui, è quasi interamente nella guerra, in quanto influisce sull'uomo e specialmente su chi porta il nome di cristiano. Dovremmo prendervi parte? Che tipo di pace noi dovremmo promuovere ecc. ecc. Questi sono i problemi che dominano le menti; ed anche se essi possano evidenziare l'aspetto spirituale o cristiano, come loro lo vedono, rimane vero il fatto che la questione del rapporto diretto fra Dio e guerra, non sia, in sostanza, mai considerato. Essi assumono come postulato fondamentale che la stessa idea di guerra sia del tutto ripugnante per Dio e che essa non abbia necessariamente nulla a che fare con Dio, perché è risultato del peccato e della follia umana. L'atteggiamento di Dio sulla guerra è preso per scontato, e quindi non è neppure preso in considerazione e discusso: la guerra è considerata un problema che si pone del tutto sul piano e livello umano - una questione ed un problema semplicemente umano. La seconda tendenza è esattamente l'opposto. Qui l'interesse principale è la questione del rapporto diretto fra Dio e guerra. Coloro che appartengono a questo gruppo potrebbero certo, in linea sussidiaria, essere interessati ai problemi che abbiamo accennato. Il loro gran problema e vera difficoltà, non è "Come la guerra influisce sull'uomo?", ma piuttosto: "In che modo si può conciliare la guerra con il governo che Dio ha sul mondo?". In breve, ciò che rende maggiormente perplesse queste persone, non è la spiegazione dell'origine della guerra o il loro immediato dovere al riguardo. Ciò che essi vorrebbero sapere è: "Perché Dio permette le guerre"?. Per loro questa è la madre di tutte le questioni, perché sulla risposta che ad essa si dà, dipende l'intera loro fede in Dio. Ovviamente, poi, se questo è in dubbio, tutte le altre questioni diventano, in qualche modo, irrilevanti e non necessarie. In questo studio, c'interessa particolarmente questo secondo atteggiamento. Nei capitoli precedenti abbiamo insieme considerato vari problemi riguardanti la difficoltà in generale di comprendere le vie di Dio. In tutti questi casi ci siamo particolarmente interessati del problema soggettivo di come Dio si rapporti direttamente con noi. A questo punto, però, veniamo ad un problema più oggettivo. Può ben essere che dietro ad esso giaccia la questione soggettiva del perché Dio permetta la guerra in vista di ciò che questa
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significhi per noi, ma la questione in primo piano è certamente quella strettamente oggettiva sul modo in cui si possa conciliare la fede in Dio con il fatto che Dio permetta le guerre. Suppongo che questa fosse la questione che era più frequentemente posta durante la guerra 1914-18. Ho l'impressione, però, non so se giusta o sbagliata, che questa domanda non sia posta molto spesso durante l'attuale guerra. Se è così, temo che questo sia dovuto al fatto che è andata crescendo grandemente, nel nostro tempo, l'irreligiosità, come pure al fatto che, preoccupandoci così tanto per noi stessi e per le nostre azioni, gran parte della nostra religione abbia perduto Dio per strada e sia degenerata ad una semplice questione di atteggiamenti, opinioni, idee ed azioni. Vi sono, però, molti che oggi si fanno questa domanda, ed è quindi nostro dovere affrontarla. Perché, dunque, Dio permette le guerre? Coloro che si fanno questa domanda, possono, io credo, essere classificati in tre gruppi principali. In primo luogo abbiamo chi si pone questa domanda con arroganza e spirito di sfida, quasi che le guerre fossero la prova finale o che Dio proprio non esiste o che, se c'è un Dio, chiaramente Egli non sia un Dio d'amore. Ciò che sottopongono, non è una domanda, ma un'affermazione. Come abbiamo già indicato in precedenti occasioni, la vera difficoltà, qui è la fede stessa nell'esistenza di Dio. L'intero atteggiamento è sbagliato; ciò che qui è necessario da parte nostra non è tanto giustificare l'esistenza di Dio (la teodicea) in rapporto alla particolare questione della guerra, ma affermare ciò che possa condurre al ravvedimento e ad accettare per fede la salvezza che Dio ha provveduto in Gesù Cristo. Non serve a nulla discutere di questioni particolari e sussidiarie con una persona che chiaramente non ha risolto il suo fondamentale problema. Se uno non crede in Dio, a che serve discutere con lui di come Dio agisca o non agisca? Noi cerchiamo di spiegare le vie di Dio solo a chi crede in Lui, e che si trovano in condizione d'essere autenticamente ed onestamente perplessi. Questo ci porta al secondo tipo di persona che pone questa questione. Qui abbiamo ciò che potremmo chiamare il tipo pietistico di cristiano. Quest'uomo è molto diverso da quello che abbiamo menzionato prima. Non possiamo dire di lui che la sua fede in Dio sia così debole e vacillante che il semplice sospetto di un vento contrario, possa infrangerla e distruggerla. E' stato ortodosso, ed ha creduto tutto ciò che un cristiano dovrebbe credere. Oltre a questo, egli ha trovato piena soddisfazione nella sua fede ed essa è diventata l'interesse principale della sua vita. L'interesse, però, è stato quasi interamente personale, nel senso che oggetto principale di considerazione ed interesse sono stato per lui solo i risultati e gli effetti sperimentali ed esperienziali del cristianesimo, vale a dire l'esperienza diretta di una salvezza personale. Questo è stato vero pure per quanto riguarda la lettura che egli fa della Bibbia. Egli vi ha solo e sempre cercato cibo per la sua anima in senso personale, ed il tipo di commentario che maggiormente lo ha attratto è stato soprattutto quello che può essere definito "devozionale". La teologia non l'ha interessato, anzi, l'ha considerato un pericolo. La fede cristiana come "concezione del mondo" è letteralmente qualcosa che non gli è mai passata per la testa. La sua tendenza è stata quella di isolarsi dal mondo, sia intellettualmente che in pratica. Inoltre, ancora più importante, ha avuto la tendenza a dissociare Dio da qualsiasi interesse mondano che non sia quello di salvare anime. Fintanto che c'era pace, così, per lui tutto andava bene, ma lo scoppio della guerra forza questo tipo di persona a considerare il problema più vasto. Per la prima volta egli può essersi chiesto se lo schema in cui crede possa includere questo tipo di cose. Non avendo mai prima affrontato la questione, spesso una persona così si trova in gravi difficoltà, specialmente, quando discute la questione con l'altro tipo di persona di cui abbiamo parlato. Egli può comprendere dio per quanto riguarda la salvezza personale, ma un Dio che permette la guerra? Un terzo tipo di persona è quella che rimane perplessa della questione perché ha della natura di Dio solo idee vaghe e confuse. Del carattere e degli attributi di Dio, egli rileva solo l'amore, e evidenzia questo a scapito degli altri. L'idea che ha dell'amore di Dio, inoltre, è debole e sentimentale. In tempi normali, questo si mostra su ciò che crede a proposito del perdono, la rappresentazione che ha di Dio come di un Dio d'amore che perdo-
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na senza porre condizioni di sorta, come se la Sua giustizia e la Sua santità fossero del tutto estranee alla sua prospettiva. L'idea che Dio possa ben punire è del tutto estranea alla sua prospettiva. L'unica attività che riconosce in Dio è il Suo perdono ed il Suo atteggiamento benevolente verso l'umanità. Sostenendo quest'idea di Dio, e credendo che l'unica idea di Dio sia che uomini e donne siano felici ad ogni costo, egli non può comprendere in che modo Iddio possa mai permettere le guerre con tutte le crudeltà e sofferenze che esse implicano. Per lui questo pare incompatibile con tutto ciò che aveva sempre creduto. Ora, queste due ultime posizioni meritano la nostra considerazione. Si tratta di difficoltà genuine che non solo causano loro perplessità intellettuale, ma anche dolore. Che cosa possiamo dire loro? Ovviamente, nell'ambito molto limitato di questo studio, non possiamo trattare la questione in modo esauriente. Possiamo semplicemente delineare i principi generali che sono insegnati chiaramente nella Bibbia, confrontando scrittura con scrittura. E' interessante pure osservare che la questione stessa "Perché Dio permette le guerre?" non sia mai sollevata come tale dalla Bibbia. Il testo che abbiamo indicato all'inizio, è quello che più gli si avvicina perché solleva la questione sull'origine della guerra, sebbene tratti la questione dalla prospettiva di noi stessi, piuttosto che nell'angolatura che oggi ci riguarda. Nostro obiettivo, quindi, non sarà tanto esporre un testo particolare, ma trattare ciò che in generale la Scrittura dice sull'argomento. Divideremo, quindi, la nostra argomentazione in due sezioni: in negativo ed in positivo. 1. Per "risposta negativa" non intendiamo dire che Dio non permetta la guerra, come se dicessimo che Egli non possa farlo o che essa sia qualcosa fuori dal suo controllo. Intendiamo che, quando trattiamo dell'insegnamento della Bibbia sulla guerra, è importante che noi esaminiamo la lamentela che è fatta, e mostriamo come essa sia basata su presupposti falsi. Ne considereremo solo due. a) Non c'è alcun dubbio che la maggior parte delle difficoltà sorga dal fatto che per molti, invece che prendere l'insegnamento biblico così come sta, anzi, peggio, non prendendosi neppure la briga di leggere la Bibbia al fine di scoprirne l'insegnamento, assorbano certe idee che oggi sono proclamate a tutta voce e liberamente insegnate. Come abbiamo indicato, questa è forse la ragione per la quale questa questione è sollevata oggi più frequentemente di quanto si facesse un tempo. Prima, la teologia e la vita pratica del cristiano era fondata direttamente sulla Bibbia e sul suo insegnamento. Oggi, però, ci si fonda sempre di più su considerazioni filosofiche e gli uomini, rappresentandosi un'idea falsata di Dio, sono sorpresi e disturbati quando i fatti sembrano dimostrare come le loro concezioni non siano tanto giuste come loro parevano. Chi leggeva e conosceva la Bibbia e che viveva secondo i suoi insegnamenti, non era in alcun modo preoccupato e perplesso dal problema della guerra in rapporto con Dio. Non sentiva che la sua fede fosse messa in questione dalle sue stesse radici. Perché? Perché vedevano chiaramente che la Bibbia, in nessun luogo e mai, promette che non vi saranno guerre, in ogni caso, da questa parte del millennio. Al contrario, essi vedevano come le guerre fossero un inevitabile destino! Essi vedevano come il Signore stesso aveva profetizzato che fino al termine di quest'era, e soprattutto all'approssimarsi del suo termine, vi sarebbero state guerre e rumori di guerre. Di fatto le Sue parole sono: "Voi udrete parlare di guerre e di rumori di guerre; guardate di non turbarvi, infatti bisogna che questo avvenga, ma non sarà ancora la fine. Perché insorgerà nazione contro nazione e regno contro regno; ci saranno carestie e terremoti in vari luoghi" (Mt. 24:6,7). Essi rammentavano pure le oscure e misteriose profezie dell'Apocalisse, tutte che puntano nella stessa direzione. Essi pensavano a quelle parole dell'apostolo Paolo dove si dice che il male sarebbe stato sempre peggio e che il mistero dell'iniquità che già stava operando, sarebbe stato scatenato senza più alcun freno.
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L'idea che il mondo, in parte come risultato della predicazione dell'Evangelo ed in accordo con il piano generale e desiderio di Dio, evolva gradualmente in un mondo sempre migliore, è interamente falso e contrario all'insegnamento della Scrittura. Eppure, questo è stato un insegnamento popolare per molto tempo, un insegnamento che ha impregnato non solo la maggior parte delle menti al di fuori della Chiesa, ma che altresì caratterizza oggi gran parte di ciò che si ascolta predicare dai pulpiti. Ci dicono in tutti i modi che, quando gli stanno comprendendo sempre meglio i propositi di Dio, come ci sono offerti ed insegnati dalle varie agenzie educative e culturali, e che quindi verrà presto il tempo in cui non vi saranno più guerre e tutti vivranno in condizione di pace, di abbondanza e d'universale felicità. Si sostiene che se l'uomo, con la sua intelligenza e illuminazione, giunge a vedere la follia e l'orrore della guerra, e fa di tutto per prevenirla, allora Dio deve necessariamente odiarla in grado infinitamente maggiore, ed ovviamente, deve porle un freno e prevenirla. Se noi stiamo facendo tutto questo sforzo per produrre un mondo perfetto, libero dalla guerra, Dio deve certamente farlo ad un grado ancora maggiore. Il ragionamento è circa quello che abbiamo delineato, ed oggi è molto diffuso. Alcuni lo credono attivamente; altri, inconsapevolmente senza pensarci su tanto, e senza verificarlo, permettono a sé stessi di crederlo. Il dogma era che Dio deve operare con tutte le Sue forze per prevenire le guerre: era componente essenziale della loro idea di Dio. La risposta è, come già abbiamo visto, che si tratta di un'idea del tutto immaginaria. Dio non ci ha promesso un tale mondo. Di fatto Egli ci insegna ad attenderci proprio il mondo che stiamo oggi vivendo. Le parole di Gesù rimangono: "Guardate di non turbarvi". Essendo noi stati ammoniti, dovevamo essere pure premuniti nella nostra mente e spirito. Se prendiamo la Bibbia e quanto essa riporta, come suprema rivelazione di Dio, il fatto della guerra non dovrebbe turbarci, nel senso che esso non deve scuotere la nostra fede in Dio. La "concezione del mondo" biblica è del tutto pessimistica. Non c'è nulla d'altrettanto importante di studiare la Bibbia stessa per scoprirvi che cosa Dio intenda fare con questo mondo, invece che proiettare le nostre speranze e desideri sui propositi di Dio, e poi essere sorpresi, delusi e amareggiati quando scopriamo che essi non sono portati avanti come pensavamo. La nostra prima risposta, quindi, alla domanda: "Perché Dio permette le guerre?" è farci un'altra domanda: Forse che Dio ha mai promesso di prevenire o di impedire la guerra? b) La nostra seconda risposta può anch'essa essere posta in forma di domanda: Perché ci aspettiamo che Dio impedisca le guerre? Perché Dio dovrebbe impedire le guerre? Indipendentemente dalla ragione teoretica che Dio dovrebbe impedire le guerre, perché sono peccaminose, del che parleremo nella prossima sezione, non vi può essere dubbio che la ragione vera perché la gente si aspetti che Dio prevenga la guerra, è che essa desidera una condizione di pace, e sente d'aver diritto a vivere in condizione di pace. Questo, però, fa immediatamente sorgere un'altra domanda che, in un certo senso, è la questione fondamentale al riguardo dell'intera faccenda: Che diritto abbiamo noi alla pace? Perché desideriamo la pace? Quanto spesso ci siamo noi posta questa domanda? Non c'è stata forse la tendenza a prendere per scontato d'avere diritto ad uno stato e condizione di pace? Ci fermiamo per chiederci quale sia il vero valore, proposito, e funzione della pace? Certamente questa domanda impegnare la nostra attenzione. Vi sono almeno due testi biblici che mostrano molto chiaramente perché noi dovremmo desiderare la pace. Il primo è in Atti 9:31: "Così la chiesa, per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria, aveva pace, ed era edificata; e, camminando nel timore del Signore e nella consolazione dello Spirito Santo, cresceva costantemente di numero". Quella è una descrizione di ciò che accadde nelle chiese dopo un terribile periodo di persecuzione e d'agitazione. Noi dovremmo desiderare la pace affinché ciò che qui è descritto possa avvenire anche fra noi.
Perché Dio permette la guerra, di M. Lloyd Jones, p. 30 di 42
L'altro brano è in 1 Ti. 2:1,2: "Esorto dunque, prima di ogni altra cosa, che si facciano suppliche, preghiere, intercessioni, ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che sono costituiti in autorità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in tutta pietà e dignità". Qui troviamo lo stesso accento. Non è abbastanza desiderare la pace solo per evitare l'orrore e le sofferenze della guerra, come pure tutti gli indesiderabili cambiamenti, difficoltà ed interferenze che ne sono conseguenza. Il nostro vero desiderio di pace dovrebbe fondarsi sull'ulteriore desiderio d'avere la massima opportunità di vivere una vita santa e quieta in armonia con Dio, come pure per avere la massima quantità di tempo per edificare noi stessi nella fede. Lo scopo principale della vita umana è quello di servire e di glorificare Dio. Ecco perché le è stato dati il dono della vita; questo è il motivo per cui siamo stati posti quaggiù; tutte le altre cose devono esserne subordinate - tutti i doni ed i piaceri che Dio ci dà così generosamente. Questo è il fine e l'obiettivo principale della vita umana. Di conseguenza, noi dovremmo desiderare la pace perché ci pone in grado di fare più liberamente e pienamente ciò che non sarebbe possibile in stato di guerra. E' questa, però, la ragione per cui noi desideriamo la pace? E' questo il vero motivo che sta sotto alle nostre preghiere d'aver pace? Non spetta a me giudicare, ma non si può essere ciechi sui fatti. Troppo spesso, temo, il motivo è stato semplicemente egoistico - semplicemente per evitare le conseguenze della guerra. Di fatto raramente si è sollevato anche solo a quel livello, e si ha la netta impressione che molti desiderino la pace solo per evitare di vedersi impediti dal vivere quel tipo di vita che essi vivevano e godevano di tutto cuore. Che tipo di vita era? In una parola: quasi l'esatto opposto di quello descritto nei precedenti testi biblici. Sotto le benedizioni della pace dal 1914 al 1918, uomini e donne, in numero sempre maggiore, dimenticano Dio e la religione, e si adagiano in una vita essenzialmente materialistica e peccaminosa. Ritenendo che la guerra 1914-18 fosse indubbiamente "la guerra che avrebbe messo fine alle guerre", con un falso senso di sicurezza, promosso anche da sistemi assicurativi e varie altre provvigioni finalizzate alla salvaguardia contro i possibili pericoli che ancora rimanevano, uomini e donne in questo come in altri paesi si sono dati ad una vita finalizzata alla ricerca del piacere, accompagnata da indolenza mentale e spirituale. Questo è diventato evidente non solo nel declino della religiosità, ma, in modo ancor più marcato al declino della morale e alla corruzione politica e sociale. Era una vita fatta semplicemente di egoismo e di godimento carnale, con la sempre maggiore liberalizzazione dei costumi che una tale vita sempre produce. Ha condotto alla decadenza sulla quale poi i governanti della Germania hanno capitalizzato e sulla quale hanno basato i loro calcoli. Essi non credevano che non avremmo combattuto perché eravamo altamente spirituali ma, al contrario, perché sentivano che avevamo perso le nostre energie e non avremmo permesso a nulla di interferire con la nostra indolente vita. Poi è venuta la crisi del settembre del 1938. Uomini e donne hanno cominciato ad affollare le chiese per pregare per la pace, e poi ringraziano Dio, quando, dopo di queste, ritorna la pace? Era però perché avevano deciso di usare la pace per il solo, vero ed unico proposito di "Condurre una vita tranquilla e quieta in tutta pietà e dignità"? Era forse perché si potesse camminare "Nel timore del Signore e nella consolazione dello Spirito Santo"? I fatti parlano da soli. Pongo, così, le seguenti domande: Abbiamo diritto, noi, alla pace? Meritiamo noi la pace? Siamo giustificati nel chiedere a Dio di concederci la pace e di preservarci la pace? Non potrebbe essere che è venuta, invece, la guerra, perché non eravamo degni della pace, perché non meritavamo la pace, perché noi, con la nostra disobbedienza, empietà e peccaminosità, abbiamo così abusato delle benedizioni della pace? Abbiamo diritto d'aspettarci che Dio ci conservi in uno stato di pace solo per permettere a uomini e donne di continuare una vita che solo è un insulto al Suo santo Nome?
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2. Questo ci conduce ad una considerazione che abbiamo chiamato "la risposta positiva" a questa gran questione. Che Dio permetta le guerre è un fatto. Perché le permette? Che cosa dice in positivo, al riguardo, la Bibbia? Qui non si tratta tanto di trovare affermazioni specifiche della Bibbia, ma d'applicare certi principi fondamentali, chiaramente insegnati, a questo caso particolare. a) Dobbiamo considerare, dapprima, quella che potremmo chiamare la concezione biblica della guerra. Non è che, come tale, la guerra sia peccato, ma che la guerra sia conseguenza del peccato, oppure, se preferite, che la guerra sua una delle conseguenze del peccato. Di fatto, dal punto di vista d'una teodicea, questa distinzione non importa, l'argomentazione rimane la stessa. La Bibbia fa risalire la guerra alla sua causa finale ed ultima. E' vero che essa non ignora che vi siano per essa, cause politiche, economiche e sociali, come pure fattori psicologici: di questo si è molto parlato. Secondo il suo insegnamento, però, queste cose non sono che la sua causa immediata, gli agenti che l'impiegano. La cosa è molto più profonda. Come ci rammenta l'apostolo Giacomo, la causa ultima della guerra è la concupiscenza ed il desiderio smodato ed egoistico; quell'irrequietezza che è parte di noi e risultato del peccato; questo desiderio passionale per ciò che è illecito e che non possiamo ottenere. Esso si manifesta in svariati modi, sia nella vita personale che in quella delle nazioni. E' la radice base del furto e della rapina, della gelosia e dell'invidia, dell'orgoglio e dell'odio, dell'infedeltà e del divorzio. Precisamente allo stesso modo, esso conduce a litigi e lotte, come pure alla guerra fra nazioni. La Bibbia non isola la guerra, come se fosse qualcosa di separato e d'unico, qualcosa di speciale, come tendiamo a fare nel nostro pensiero. Non è che una delle manifestazioni del peccato, una delle conseguenze del peccato. Su scala più vasta, forse, ed in forma più terribile per quella ragione stessa, ma ancora, nella sua essenza, precisamente la stessa come tutti gli altri effetti e conseguenze del peccato. Qualcuno, però, potrebbe contestare che vi sia una differenza essenziale perché nella guerra si perdono così tante vite. La risposta è che, sebbene la Bibbia consideri sacra la vita, e proibisca la soppressione della vita solo per gratificare l'avidità o la vendetta, essa insegna, allo stesso tempo, che, dal punto di vista di Dio, l'anima è di valore infinitamente superiore della vita del corpo. Dio non si preoccupa che la nostra vita sia perpetuata e prolungata sulla terra per un certo numero di anni supplementari, ma che noi si giunga ad un giusto rapporto con Lui, e che si viva glorificando il Suo santo nome. Noi diamo al tempo così tanta importanza, la lunghezza degli anni, che tendiamo a dimenticare ciò che, alla fin fine, maggiormente importa, cioè la qualità della vita. La guerra, quindi, è una conseguenza ed un effetto del peccato, e questo precisamente come ogni altro effetto e conseguenza del peccato. Il peccato conduce sempre alla sofferenza, alla miseria, ed alla vergogna, sia in maniera quieta sia spettacolare. Ci preoccupiamo maggiormente quando questo principio su manifesta su vasta scala. Noi ignoriamo o non vediamo, nella sua essenza, ciò che veramente importa. Chiedere a Dio di impedire la guerra o di prevenire la guerra, quindi, significa chiedergli di proibire una delle particolari conseguenze del peccato. Ancora una volta vediamo qui l'egoismo di questa richiesta e pure l'insulto che facciamo a Dio. Proprio perché questa forma particolare di peccato, o conseguenza del peccato è particolarmente dolorosa e difficile per noi, chiediamo a Dio di impedirla. Non c'importa però nulla della santità di Dio, o del peccato come tale. Se davvero fossimo amareggiati per le conseguenze del peccato, Gli chiederemmo di impedire ogni peccato e di porre un freno ad ogni iniquità. Gli chiederemmo di impedire l'ubriachezza, il gioco d'azzardo, l'immoralità ed il vizio, la dissacrazione del giorno del Signore, e tutti gli altri peccati nei quali gli uomini si sollazzano. Se qualcuno, però, osasse fare una dimostrazione pubblica, con tanto di bandiere, cartelli e scioperi contro l'immoralità o qualche peccato di cui la società si compiace, sarebbe immediatamente contestato, deriso ed osteggiato come un inaccettabile attentato alla libertà. Ci vantiamo del nostro libero arbitrio e ci opponiamo all'idea stessa che Dio possa interferire
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con essa in qualche modo. Eppure quando, come risultato di quella stessa libertà, ci troviamo faccia a faccia con gli orrori, gli enormi problemi, e le sofferenze di una guerra, eccoci come ragazzini piagnoni a protestare ed a lamentarci amaramente contro Dio perché Egli non avrebbe usato la Sua onnipotenza per impedirla a tutta forza! Dio, nella Sua infinita ed eterna sapienza, ha deciso di non impedire il peccato e di non trattenere del tutto le conseguenze del peccato. La guerra non è un problema spirituale e religioso isolato e separato, ma solo un elemento ed un'espressione del grande ed unico problema centrale del peccato. b) L'insegnamento biblico, però, va ben oltre questo punto, e fornisce ragioni che sono ancora più positive nello spiegare il fatto che Dio permetta la guerra. Possiamo qui solo elencarle sommariamente. i. E' chiaro che Dio permette la guerra affinché gli uomini possano portare le conseguenze del loro peccato come castigo. Si tratta di una legge fondamentale che si esprima con le parole: "Quello che l'uomo avrà seminato, quello pure mieterà" (Ga. 6:7). Il castigo non è necessariamente sempre posticipato all'aldilà. Qui, in questo mondo, dobbiamo sopportare parte del castigo per i nostri peccati. Questo è visibile chiaramente nelle vicende dei figli di Israele! Disubbidivano a Dio e infangavano le Sue sante leggi. Per un poco tutto andava bene, poi, però, cominciavano a soffrire. Dio ritirava da loro la Sua cura protettiva ed essi rimanevano alla mercé dei loro nemici, che li attaccavano e li derubavano. Non c'è dubbio che all'inizio stesso e come risultato del primo peccato e trasgressione, troviamo Dio che ordina e decreta il castigo. Dio disse: "Il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita" (Ge. 3:17). Ogni dolorosa conseguenza del peccato è parte del castigo che il peccato comporta. Qualcuno, però, potrebbe sollevare la domanda e chiedere: "Perché, però, devono soffrire gli innocenti?". Qui non possiamo rispondere pienamente a questa domanda. Essenzialmente, però, la risposta è duplice. In primo luogo, non esiste alcuno che possa dirsi innocente, come abbiamo già visto. Siamo tutti peccatori. Inoltre, noi dobbiamo tutti raccogliere le conseguenze non solo del nostro peccato personale, ma anche quello dell'intera razza umana e, su scala più ridotta, i peccati del nostro particolare gruppo o paese. Siamo, al tempo stesso, individui e membri dello stato e dell'intera umanità. Condividiamo lo stesso sole e la stessa pioggia degli altri, e siamo esposti alle stesse malattie. Siamo soggetti alle stesse prove, come la depressione economica e ad altre cause d'infelicità, inclusa la guerra. Accade così che l'innocente possa dover sopportare parte del castigo per i peccati di cui non è direttamente responsabile. ii. Oltre a questo, sembra chiaro che Dio permetta la guerra affinché tutti possano vedere più chiaramente, attraverso di essa, e più di quanto abbiano fatto prima, ciò che sia realmente il peccato. In tempo di pace tendiamo a considerare il peccato una cosa trascurabile, e a coltivare concezioni ottimiste sulla natura umana. La guerra rivela l'uomo e le possibilità della natura umana. Le passate guerre mondiali infransero la concezione ottimista dell'uomo allora prevalente. La guerra ci forza a esaminare le fondamenta stessa della vita, ci porta faccia a faccia con le questioni di fondo che riguardano la natura umana. La spiegazione della guerra non può essere trovata solo nelle azioni di certi uomini. E' qualcosa che raggiunge l'intimo umano, nel cuore d'ogni uomo. E' l'egoismo, l'odio, la gelosia, l'invidia, l'amarezza e la malizia che dimorano nel cuore umano e che si manifestano nei rapporti personali e sociali della vita, manifestandosi su scala nazionale ed internazionale. Nella sfera personale noi tendiamo a giustificarli, ma su scala più vasta, essi diventano più evidenti. L'uomo, nel suo orgoglio e follia, rifiuta di rendere a Dio il culto che Gli è dovuto e rifiuta le istruzioni della Parola di Dio. Respinge l'amorevole offerta di grazia dell'Evangelo. Crede di conoscere se stesso e pensa d'essere capace a costruirsi un mondo perfetto senza Dio. Ciò che egli rifiuta di riconoscere e di imparare dalla predicazione dell'Evange-
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lo nel tempo e nello spazio, Dio glielo rivela permettendo la guerra; gli mostra così la sua vera natura ed i risultati del suo peccato. Ciò che l'uomo rifiuta e respinge quando una mano amorevole gliel'offre, egli spesso prende quando gli è portato attraverso il mezzo dell'afflizione. iii. Tutto questo, a sua volta, conduce al proposito finale, cioè di ricondurci a Dio. Come il figlio prodigo, quand'abbiamo perduto tutto, e sofferto grandemente miseria e desolazione, guardando la nostra follia e la nostra stupidità, pensiamo a Dio, com'egli pensava a suo padre ed alla sua casa. Non c'è parola che maggiormente ricorra nell'Antico Testamento, come descrizione dei figli di Israele, che questa: "Ma nella loro angoscia gridarono al SIGNORE" (Sl. 107:6). Erano ciechi verso la bontà ed alla misericordia di Dio; si erano resi sordi agli appelli della Sua grazia e del Suo amore, ma nella loro angoscia si ricordano di Lui e ritornano a Lui. Noi siamo nella stessa situazione. E' solo quando soffriamo e vediamo la nostra follia, come pure la totale bancarotta de impotenza dell'uomo, che torniamo a Dio e Gli confessiamo di dipendere da Lui. Quando io contemplo la natura umana e la vita umana, ciò che mi sorprende di più non è che Dio permetta e non impedisca la guerra, ma la pazienza e la longanimità di Dio.. "Egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti" (Mt. 5:45). Egli sopportò per secoli la malvagità e l'ingratitudine dei figli di Israele, ed ora Egli, per duemila anni, ha pazientemente sopportato un mondo in cui la più gran parte dell'umanità respinge e rifiuta la Sua amorevole offerta, persino la Persona del Suo unigenito Figlio.. La questione, così, non è tanto "Perché Dio permette le guerre?", ma "Perché Dio non permette che il mondo si distrugga da solo nella sua iniquità e nel suo peccato? Perché Egli, nella Sua grazia, pone un limite al male ed al peccato, mettendo un limite che non può valicare? Quant'è stupefacente la pazienza di Dio con questo mondo peccatore! Com'è meraviglioso il Suo amore! Egli ha inviato il Figlio Suo tanto amato nel nostro mondo, a morire per noi ed a salvarci, e proprio perché gli uomini non possono e non vogliono vederlo, Egli permette cose come la guerra per castigarci e punirci; per insegnarci e per convincerci di peccato; e, soprattutto, per chiamarci a ravvedimento e ad accogliere la Sua offerta di grazia. La questione vitale per noi, quindi, non è chiederci: "Perché Dio permette la guerra?". La questione, per noi, è di accertarci che stiamo imparando la lezione, e ravvederci di fronte a Dio per il peccato che c'è nel nostro cuore, e nell'intero genere umano, che conduce a tali risultati. Possa Iddio concederci di comprendere ed il vero spirito del ravvedimento, per amore del Suo Nome.
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5. La risposta finale a tutte le nostre questioni "Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno" (Romani 8:28).
Probabilmente si trova proprio qui la risposta finale, la più esauriente, a tutte le varie domande e lamentele che tendono a sorgere nella nostra mente e nel nostro cuore quando attraversiamo un periodo di prova e di difficoltà. L'Apostolo stava qui scrivendo a uomini e donne che stavano passando un momento molto duro, fatto di sofferenze, prove e tribolazioni. Queste cose stavano mettendo a dura prova la loro fede. Si chiedevano perché mai dovevano patirle e, soprattutto, erano sconcertati chiedendosi in che modo queste cose potessero mai conciliarsi con le promesse che erano state loro date nell'Evangelo. L'intera questione, così, viene affrontata da San Paolo in questo possente brano. Nella prima parte del capitolo otto, egli aveva ragionato sui risultati ed i frutti dell'Evangelo nella vita personale del credente. Aveva mostrato come, grazie all'opera dello Spirito Santo, il credente sia messo in grado di essere più che vincitore sugli attacchi sferrati contro di lui dalla carne e dal peccato. Procede poi a mostrare come lo Spirito Santo, oltre a ciò, pure conceda assieme al nostro spirito, la certa testimonianza di essere stati adottati da Dio come Suoi figli, e quindi del titolo che abbiamo ad essere eredi con Cristo dei Suoi beni. Improvvisamente, poi, al versetto 18, egli introduce l'affermazione: "Infatti io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo". Perché dice questo? La risposta probabilmente è perché egli s’immagina che qualcuno a Roma gli faccia la seguente contestazione: "E bello che tu metta così in evidenza davanti a noi una tale gloriosa visione e tu ci dica che siamo eredi di Dio e coeredi con Cristo. Guarda però alla situazione in cui ci troviamo, guarda che cosa ci sta succedendo e tutte le cose che minacciano di farci nel futuro! Indicano forse che Dio si stia prendendo particolare cura di noi? Preludono forse ad un luminoso futuro pieno di promesse? Tutto sembra andare contro di noi. Lungi dall'occupare la posizione che è comune ad un erede, ogni giorno dobbiamo affrontare tribolazione, distretta, persecuzione, fame, nudità, pericolo e la spada. Come potrebbero mai queste cose conciliarsi con le grandi e preziose promesse di cui tu scrivi e parli? Possiamo avere una garanzia qualsiasi che, nonostante tutto ciò che ci sta accadendo, ciò che dici, di fatto, accadrà?". Con questa contestazione in mente, vera od immaginata, sottopostagli dai cristiani di Roma, San Paolo procede ad affrontare questo problema ed a fornirne una soluzione. Questo è certamente uno dei brani più belli che troviamo nei suoi scritti, un grandissimo pezzo di letteratura. Applicato com'è ad un caso concreto, è davvero un capolavoro d’apologetica, di eloquenza e di logica. Esso respira, soprattutto, di devota adorazione verso Dio. Non si tratta di un discorso accademico o teologico. Lo scrittore stesso ha dovuto patire indicibili difficoltà e prove. E' stato spesso sono stato in pericolo di morte. Dai Giudei cinque volte ha ricevuto quaranta colpi meno uno; tre volte è stato battuto con le verghe; una volta è stato lapidato; tre volte ha fatto naufragio; ha passato un giorno e una notte negli abissi marini. Spesso in viaggio, in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti, in pericolo da parte dei suoi connazionali, in pericolo da parte degli stranieri, in pericolo nelle città, in pericolo nei deserti, in pericolo sul mare, in pericolo tra falsi fratelli; in fatiche e in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità (vedi 2 Corinzi 11:23-27). Quella era la sua esperienza ed ora scrive a uomini e donne che, sebbene non abbiano sofferto altrettanto, stanno passando, ciononostante, un periodo molto difficile.
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Dovremmo considerare l'intero brano nel suo insieme, ma il testo che abbiamo davanti a noi concentra la sua attenzione su principi centrali che non sono insegnati solo qui, ma che troviamo dappertutto nel Nuovo Testamento. Questo brano è tipico nel Nuovo Testamento, prefiggendosi come fa di confortare e consolare i credenti. E' per noi d’importanza vitale osservare attentamente e con precisione ciò che dice, ma anche quello che non dice. Dobbiamo, infatti, fare attenzione a non permettere all'eloquenza dello scrittore di trasportarci e di accontentarci semplicemente di qualche sentimento generale. Dobbiamo analizzare questa affermazione e vedere esattamente ciò che ha da dire. Prima di fare questo, però, c'è qualcos'altro che dovremmo fare e che, in un certo qual senso, è altrettanto importante. Dobbiamo osservare non solo quest’affermazione in sé, ma anche il modo in cui essa è formulata. Potremmo dire, se preferite, anche così: il metodo usato per esprimere questa teodicea, è altrettanto importante dei suoi dettagli. Oppure, per usare un'altra forma d'espressione, dobbiamo prima cogliere i principi sui quali si fonda quest'affermazione tanto quanto dobbiamo farlo per i dettagli. Se non facciamo questo, rischiamo di mancare del tutto di comprendere ciò che l'Apostolo avesse in mente e le nostre conclusioni sarebbero falsate, qualunque sia l'effetto che queste parole abbiano su di noi. Vi sono due o tre principi di base che sono d'assoluta importanza vitale per cogliere l'insegnamento del Nuovo Testamento al riguardo dell'intera questione della consolazione e del conforto. Il primo è che il conforto che impartisce è sempre di carattere teologico. Questa affermazione potrebbe far sorgere in voi una certa qual sorpresa e probabilmente anche un sentimento di fastidio. Essa, infatti, non è esattamente quello che naturalmente ci aspetteremmo, ed è certamente l'estremo opposto di ciò che è stato per un certo tempo l'atteggiamento comune e popolare verso la religione. Ci siamo già riferiti diverse volte, durante le nostre considerazioni sul tema generale della teodicea, all'opposizione che vi è fra teologia e l'insegnamento ed il pensiero sistematico. Sono stati indebitamente esaltati l'esperienza ed i risultati, e vi è stata molta resistenza al tentativo di sottolineare l'importanza vitale che ha di un vero fondamento. Tutto questo è stato scartato con disdegno, come se fosse indicatore di un approccio razionalista o legalistico. Oltre però all'opposizione alla teologia in generale, vi sono molti che, io dico, sono sorpresi e disturbati all'idea stessa che la teologia debba avere un ruolo vitale in questa questione sul conforto e sulla consolazione. Essi possono accettare l'idea che la vita debba avere una base e che sia necessario avere la teologia e definizioni precise. Essi dicono: "Queste cose possono senz'altro occupare il nostro tempo e la nostra attenzione durante periodi di pace e di tranquillità. Durante periodi di prova e di afflizione, però, tempi di crisi e di distretta," essi procedono a dire, "ciò di cui uno ha maggior bisogno non è una tesi teologica o delle affermazioni ben ragionate, ma, piuttosto, di conforto e di consolazione. Quando i nervi sono fragili e la mente è stanca, quando i propri sentimenti sono stati feriti ed il cuore è giunto quasi al punto di rottura, è certamente crudele presentare a uomini ed a donne una sorta di compendio di teologia. Essi hanno bisogno di essere resi più chiari e felici; hanno bisogno di aiuto per dimenticare i loro problemi ed i loro guai. Hanno bisogno di essere calmati e facilitati. In quei momenti i termini della teologia sono un'impertinenza, per quanto possano essere giusti in tempi normali". Questo è un sentimento diffuso. Esso, però, è terribilmente e tragicamente sbagliato e del tutto incongruente con il Nuovo Testamento, come dimostra chiaramente il nostro testo. Di fronte a noi abbiamo forse il testo di più alta teologia dell'intera Bibbia. Ascoltate quali termini qui vengono usati: "preconoscenza", "predestinazione", "giustificazione", "glorificazione", "gli eletti"! Queste sono le grandi e caratteristiche parole della teologia, parole che sono state odiate ed abominate di tutto cuore da tutti coloro che insistono a voler avere "una religione che produca qualcosa". Eppure, queste sono parole che sono usate come parte integrante del messaggio di quest’amorevole apostolo, che egli stesso aveva molto sofferto e che scrive a uomini e donne che stanno patendo tali sofferenze e prove che a malapena possiamo immaginarci. Egli comunica loro il suo conforto e la sua consolazione in un testo che contiene pura teologia e che forse ha condotto a contestazioni, discussioni e dispute più di ogni altro singolo testo dell'intera Bibbia. Perché Paolo fa questo? E che cosa significa? La risposta è duplice.
Perché Dio permette la guerra, di M. Lloyd Jones, p. 36 di 42
Significa che il Nuovo Testamento non isola mai il problema della felicità, non lo tratta come se fosse qualcosa di separato e di speciale che potrebbe essere affrontato da solo. Noi, che tanto desideriamo la felicità, tendiamo invece a fare proprio l'opposto. Ci accostiamo alla felicità in modo diretto ed immediato. Non ci rendiamo pero conto che, secondo il Nuovo Testamento, la felicità è sempre il risultato di qualcos'altro. Ciò che quindi determina se è vera oppure falsa, è la natura dell'agente che la produce. Secondo il Nuovo Testamento non vi è che una sola e vera felicità o gioia, vale a dire quella felicità che è basata su un rapporto autentico con Dio, la felicità che è risultato della giustizia che Dio ci dona attraverso Gesù Cristo, Suo Figlio. E' proprio perché abbiamo una falsa nozione di felicità, e la basiamo su fondamenti falsi ed insicuri, che noi facciamo alternate esperienze di entusiasmo e di depressione, gioia e disperazione. L'unica gioia che non potrà mai fallire è quella che ci viene data dal Signore stesso secondo le Sue promesse. Il modo per ottenerla e per conservarla, quindi, è quello di comprendere, di cogliere le condizioni in base alle quali Egli la dona. Questo implica una certa misura di pensiero e di teologia. L'altra ragione per la quale San Paolo offre la sua consolazione in questo modo, è che egli non vede l'ora che essi colgano il modo per il quale egli stesso era stato consolato e confortato affinché egli potesse applicarla a loro ogni qual volta se ne presentasse l'occasione per il futuro. Non doveva essere tanto lui la fonte della loro consolazione o le lettere che egli scriveva loro. Non doveva essere tanto l'influenza della sua personalità a confortarli. Questo avrebbe significato dover loro scrivere ad intervalli regolari. Egli non poteva garantire che sarebbe stato disponibile sempre per farlo, o persino sempre in vita. Essi avrebbero potuto essere dispersi e messi in prigione ed impediti dal ricevere le sue lettere. Egli desidera, quindi, introdurli al metodo, applicabile sempre e dovunque, qualunque fossero le circostanze e condizioni, per poter avere tale consolazione. Egli desidera che essi vedano come la felicità del cristiano non è qualcosa che possa essere prodotto artificialmente e che dipenda dalle circostanze e dal contesto, perché esse possono cambiare continuamente. La felicità è il risultato della comprensione di determinate verità, e dell'elaborazione di un'argomentazione ragionata e logica in conformità a queste verità. Non è qualcosa di vago, generale ed intangibile, che possa variare con l'umore ed i sentimenti, o con la situazione precisa in cui uno si trova. Non dipende nemmeno dalla regolare frequentazione della casa di Dio, dall'effetto prodotto dalla sua atmosfera, o dalla predicazione dei suoi predicatori. Essa deve essere il risultato di un'argomentazione, la fine e la conclusione di una serie logica di punti che qualsiasi credente può e deve elaborare per sé stesso. Se dipendiamo da una qualsiasi cosa che non sia la comprensione della verità, siamo destinati alla fine alla delusione ed all'infelicità. Se, però, noi accettiamo la verità e comprendiamo il suo insegnamento, saremo in grado di applicarla alle nostre necessità in ogni tempo ed in ogni luogo. Il compito principale della Chiesa, rispetto ai credenti, è quello di insegnare loro le dottrine della fede, e non semplicemente cercare di entusiasmarli o di confortarli in generale. Il secondo principio che troviamo sempre in evidenza nei brani di conforto e di consolazione del Nuovo Testamento, è la concezione che sottende della vita. Questa concezione si definisce di solito "ultramondana" o spirituale. Non comprendere che essa ha queste caratteristiche è in gran parte causa di infelicità per molti cristiani, come pure del senso di delusione che sentono quando devono vivere certe esperienze spiacevoli. Eppure non c'è nulla che sia più caratteristico di questo nella concezione che la Bibbia ha della vita. Lo si vede chiaramente nei brani che stiamo trattando. I cristiani, secondo San Paolo, sono "eredi" (v. 17). Essi non hanno ancora ereditato completamente, ma aspettano, attendono. Vi è una gloria che ancora deve essere rivelata (v. 18), e non vedono l'ora che giunga. Essi aspettano "l'adozione, la redenzione del nostro corpo" (v. 18). Essi non hanno ancora affastellato tutto il loro raccolto, ma ne hanno ricevuto solo "le primizie". Essi non hanno ancora veduto pienamente la loro grossa eredità, ma l'hanno vista abbastanza da infondere loro speranza che un giorno ne riceveranno il resto e, sperando per esso, essi "l'aspettano con pazienza" (25). E' per questo che San Paolo può dire con tale fiducia: "io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev'essere manifestata a nostro riguardo" (v. 18). Sebbene egli viva nel presente, è chiaro che i cristiani, secondo San Paolo, sono chiamati a vivere per il futuro. Ecco perché
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in un altro luogo, dice loro: "Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra" (Colossesi 3:2) e perché esorta gli Efesini in questo modo: "che Egli egli illumini gli occhi del vostro cuore, affinché sappiate a quale speranza vi ha chiamati, qual è la ricchezza della gloria della sua eredità che vi riserva tra i santi" (1:18). Questa è pure la concezione che troviamo nell'epistola agli Ebrei, specialmente nei capitoli 11 e 12. Rammentiamo allo stesso modo come an Pietro dica: "Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere a una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti" (1 Pietro 1:3). Questa è, senza dubbio, la concezione della vita che si trova ovunque nel Nuovo Testamento, ma anche nell'Antico. I veri credenti in Israele si consideravano "stranieri e pellegrini" sulla terra, semplici avventizi della terra del tempo (vedasi Ebrei 11:13). Essi guardano in avanti, si protendono in avanti: sono pellegrini che stanno camminando sulla via che porta a Dio ed all'eternità. Questa è la concezione della vita che troviamo dovunque nella Bibbia, ed essa è d'importanza vitale nel suo insegnamento di consolazione e di conforto. Senza di questo nemmeno si potrebbe parlare d'autentico conforto. Il Nuovo Testamento si interessa soprattutto della salute della nostra anima, non del nostro corpo. Esso si interessa del nostro benessere spirituale, e non tanto della nostra condizione materiale. Al di là e sopra di ogni cosa prima di considerare il nostro rapporto con gli uomini ed a ciò che ci potrebbero fare, sottolinea l'importanza capitale di un giusto rapporto con Dio. Ne risulta che sembra avere un rapporto molto sciolto con la vita presente e con questo attuale mondo. Ecco così che di fronte alle peggiori condizioni possibili in cui uno possa vivere, può dire arditamente: "Il Signore è il mio aiuto; non temerò. Che cosa potrà farmi l'uomo?" (Ebrei 13:6), come pure: "Perché la nostra momentanea, leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria, mentre abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne" (2 Corinzi 4:17,18). Questo è il suo atteggiamento verso la vita. E' quasi superfluo osservare come questa concezione della vita sia totalmente differente da quella moderna, pressoché del tutto "intramondana". Uomini e donne cercano soddisfazione solo nelle cose di questa vita e di questo mondo, e ne rimangono regolarmente delusi, salvo poi darne la colpa a Dio ed all'Evangelo. Quando poi si rammenta loro che è la loro concezione del mondo e della vita a fare difetto, ad essere falsa e non corrispondente a quanto insegna la Bibbia, essi replicano che la concezione ultramondana del mondo non sia altro che un'evasione dalla realtà che si renderebbe, per altro, colpevole di trascurare la condizione ed i problemi di questo mondo. La risposta a questa accusa non può essere data con una veloce battuta, ma dobbiamo dimostrare come si tratti di un'accusa totalmente infondata. Lo possiamo fare rammentandoci prima di alcuni fatti storici. Come potrebbero essere accusati di evitare i problemi della vita quegli uomini e quelle donne che descrive l'Antico Testamento - ad esempio, Abraamo, Giacobbe, Mosè, Davide e tutti gli altri? Si potrebbe forse dire degli apostoli, e specialmente di san Paolo che sostenendo questa concezione ultramondana essi fuggissero e evitassero i problemi e le responsabilità della vita in questo mondo? Si potrebbe forse accusare di questo i Puritani, che forse, più di chiunque altro, esemplificavano questo stile di vita? I cristiani che sostengono la concezione ultramondana e che rifiutano di entusiasmarsi e di operare per idee e progetti che siano fondati esattamente su principi antitetici, non vuole per niente dire che non siano interessati alla vita ed a ciò che vi accade. La loro posizione è che essi hanno imparato che la più grande di tutte le trappole è quella d'essere legati a questo mondo, e di vivere solo in funzione di questa vita. Essi hanno una visione che si estende alle: "Cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell'uomo, ... quelle che Dio ha preparate per coloro che lo amano" (1 Corinzi 2:9). Sono queste le cose per le quali vivono e che essi vogliono raggiungere. Queste sono le cose che riscuotono il loro entusiasmo. Certo, queste sono le cose in funzione delle quali vivono. Questo, però, non significa totale indifferenza verso questo mondo. Questa concezione è, di fatto, realistica, perché fondamentalmente negativa sulla bontà di questo mondo e che li spinge a renderlo il più tollerabile possibile.
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Siamo noi interessati alla nostra anima tanto quanto lo siamo per il nostro corpo? Sentiamo dentro di noi angoscia e sofferenza quando contempliamo il terribile conflitto spirituale che perdura nel nostro mondo tanto quanto le sentiamo per le guerre fisiche che scoppiano con intervalli regolari? Possiamo dire di rattristarci profondamente del rapporto sbagliato che gli uomini intrattengono con Dio, tanto quanto di rattristiamo delle divisioni e dei conflitti all'interno dell'umanità? Se la concezione che abbiamo della vita non è quella del Nuovo Testamento, non solo faremo esperienza in questo mondo di gravi delusioni, ma non troveremo neppure nulla, nel suo insegnamento, che possa confortarci e consolarci. Dopo aver considerato quanto sia di vitale importanza il contesto entro il quale si pone il nostro testo, possiamo ora procedere a considerare, lungo le seguenti linee, l'insegnamento specifico e dettagliato che questo brano ci comunica. Di fronte ad ogni tipo di prova, tribolazioni e difficoltà, esso annuncia che: "Tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno". Questa è al tempo stesso un'affermazione ed una promessa. 1. Consideriamo per un momento quanto questa affermazione abbracci ogni cosa. *Tutte le cose cooperano al bene". Si concorda generalmente sul fatto che "tutte le cose" si riferisca in modo particolare alle prove ed alle tribolazioni. Ecco qui una delle affermazioni più stupefacenti della fede cristiana. Certamente qui c'è la più ardita giustificazione delle vie di Dio verso l'uomo. Osserviamo con esattezza ciò che intende dire. Forse comprenderemo meglio il suo significato accostandolo per una via negativa. Vediamo chiaramente, come cristiani, che in questo mondo non ci sia promessa una vita facile. Il nostro Signore stesso, nel Suo insegnamento, diceva ai Suoi discepoli che in questo mondo avrebbero avuto tribolazioni, prove e sofferenze. Allo stesso modo San Paolo insegna: "Vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in Lui, ma anche di soffrire per lui" (Filippesi 1:29). La concezione cristiana del mondo e della vita è realistica, non romantica. Egli non cerca di evitare i guai ed i problemi, e nemmeno cerca di minimizzare la serietà e la grandezza di guai e problemi. Vi è gente che pensa che obiettivo di ogni ministero di conforto e di consolazione sia quello di mostrare come prove ed afflizioni non siano poi così cattive come sembrano. C'è gente bene-intenzionata che cerca sempre di assumere quell'atteggiamento e quella linea quando cercano di aiutare i loro amici. E' vero, naturalmente, che in tutti noi vi sia anche la tendenza ad esagerare le nostre difficoltà e quindi ad aumentare i nostri problemi, ed è certamente giusto cercare di controllare e di correggere questa tendenza. Non è però solo sciocco, ma anche disonesto cercare di far sembrare leggero ciò che, di fatto, è un guaio serio. Dire ad una persona che sta dibattendosi nel dolore che quei dolori non sono poi così gravi come pensa, non solo è insultante, ma anche intollerabile. L'intenzione potrà anche essere buona, ma il risultato sarà non solo che non si aiuterà per nulla quella persona ma la si aggraverà con un altra fonte addizionale di irritazione! Questo non è il metodo dell'Evangelo. L'Evangelo considera i fatti così come sono. Li affronta onestamente. Non cerca di spacciare facili consolazioni di vittoria a portata di mano o il successo minimizzandoli. Allo stesso modo il messaggio che dobbiamo portare non è tanto di dire di "stringere i denti" ed essere coraggiosi. Vi sono molti che confondono la fede con il coraggio e che rappresenterebbero il cristiano come uno che decide e sia determinato a mantenere alta ed eretta la testa procedendo a tutti i costi, sia quel che sia. Il coraggio come virtù è stato molto esaltato durante gli anni passati. Certo, dobbiamo ammettere che vi sia qualcosa di molto nobile nell'immagine che è dipinta. E' un atteggiamento virile, è dignitoso rifiutare di lamentarsi, di mantenere la propria dirittura e la propria calma nonostante tutto, andare avanti fino alla fine senza spezzarsi né piegarsi - in tutto questo c'è veramente qualcosa di nobile e d’eroico. Eppure questa è una virtù essenzialmente pagana che non ha nulla a che fare con la fede cristiana. San Paolo non esorta queste persone semplicemente ad essere coraggiose. Non li esorta tanto a "tenere duro" nonostante tutto. Come vedremo, l'accento che pone in questa sua affermazione non è su quello che essi devono fare, ma su ciò che Dio ha fatto, sta facendo e sta per fare per loro. Devono perseverare non "stringendo i denti" con uno spirito di coraggiosa determinazione, ma "fissando lo
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sguardo sulle cose di sopra". Il coraggio, nella sua vera essenza, e se è l'unica cosa che ci sostiene, è di fatto una confessione di disperazione. E' l'atteggiamento di colui che rifiuta di cedere anche quando non c'è più speranza. Il cristiano, però, è salvato dalla speranza e vive della sua speranza. Il messaggio cristiano non è nemmeno poi una qualche vaga affermazione sul fatto che Dio ci ami e che quindi, in qualche modo, tutto alla fine andrà bene. Questo, però, significa che vi sia una frattura fra l'amore di Dio e la condizione in cui ci troviamo. Questo vuol dire virtualmente evitare del tutto il problema, voltargli le spalle, dimenticarlo, e pensare a qualcos'altro. Certo, essere morbosamente preoccupati con i problemi, è del tutto sbagliato ed è senz'altro bene concentrarsi sull'amore di Dio. La posizione cristiana, però, non è tanto oscillare fra questi due poli, perché non si tratta della vera soluzione. Si tratta di un dualismo che non riesce a connettere l'amore di Dio con la difficoltà e con il problema. Ora, l'intera gloria dell'Evangelo è che esso affronta l'intera situazione senza sottrarsi da nulla, e pure mostra la via per uscirne. Alcune vecchie versioni della Bibbia fanno risaltare questa caratteristica nel nostro testo aggiungendo la parola "Dio" a questa frase, rendendola: "Ora Dio fa cooperare ogni cosa al bene per quelli che lo amano". Indubbiamente questo è ciò che insegna l'Apostolo. Queste prove, sofferenze e tribolazioni non devono essere ignorate, né devono essere lasciate prive di spiegazione. Dio ne fa uso, le utilizza, e le guida in modo tale da promuovere il nostro bene. Non c'è quindi alcuna opposizione inconciliabile fra credere in Dio e le difficoltà e le prove della vita. Dio le utilizza a nostro vantaggio, fa in modo che attraverso di esse si realizzino i Suoi piani. "Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno". Questa, dunque, è la risposta ultima a tutte le nostre domande sul perché Dio permetta che certe cose avvengano. 2. Abbiamo ancora un po' di tempo per dire qualcosa su ciò che potremmo chiamare la "limitazione alla promessa". "Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno". Nell'originale questo è messo in rilievo ponendo "quelli che amano Dio" all'inizio della frase: "Sappiamo che per coloro che amano Dio tutte le cose cooperano al bene". La promessa, così, è limitata in modo chiaro. Essa non riguarda "tutti", non è universale. Come abbiamo avuto l'occasione di ripetere spesso, l'idea che si sente spesso in giro sull'amore di Dio è l'esatta antitesi di questa. Egli viene visto come uno che prometta a tutti di benedirli nello stesso modo. Che Egli lo faccia nella Sua provvidenza verso l'umanità in generale è vero. Detto questo, però, c'è una divisione ed una distinzione fondamentale nella Bibbia fra i salvati ed i non salvati, fra coloro che sono stati inclusi nel rapporto di un'alleanza con Dio attraverso Gesù Cristo, e coloro che non lo sono stati, o, per usare le parole di questo testo, fra coloro che sono chiamati e quelli che non sono stati chiamati. La salvezza è il risultato dell'operazione della grazia speciale, e vi sono promesse speciali che riguardano coloro che hanno ricevuto una tale grazia. L'Evangelo ha solo una parola da dire a coloro che non credono nel Signore Gesù Cristo. E' quella che li esorta a ravvedersi ed a credere. Esso non prevede speciali promesse per coloro che non l'hanno fatto. Anzi, esso li minaccia con un giudizio di condanna. A loro non dice che "tutte le cose cooperano al bene", per la ragione stessa che essi già sono condannati. Come abbiamo già visto nella nostra prima sezione, promesse speciali, conforto e consolazione non sono cose che si ottengano direttamente. Esse sono risultato e conseguenza della salvezza, del credere nell'unigenito Figlio di Dio. Esse sono offerte solo a coloro che "amano Dio". Dobbiamo fare molta attenzione qui alla parola "amore". Non si tratta semplicemente di un assenso generale ad un certo numero di affermazioni su Dio,. né si tratta di qualche sentimento romantico. La parola usata qui per "amore" implica un amore che sia ansioso di fare la volontà di Dio e di servirlo, un amore che è ansioso di glorificare Dio, di compiacergli in ogni cosa proprio perché è Dio. Nel nostro testo vi è qualcosa di terribile ed allarmante. Esso ci mette in questione fin nel profondo. Esso comporta la definita implicazione che per noi mettere in questione e in dubbio Dio anche solo con il più piccolo sospetto di arroganza, significa semplicemente essere esclusi da questa promessa. Coloro che amano Dio sanno che tutte le cose cooperano al bene. Questo non significa che, a volte, non ci possa essere una genuina difficoltà sul come spiegare esattamente ciò che
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sta accadendo. Il loro spirito, però è sempre sano, sebbene che la loro mente possa essere confusa. Essi non cessano di amare Dio. Con le nostre questioni spesso noi proclamiamo ciò che noi siamo e dove ci collochiamo. L'unica questione che per noi è di vitale importanza è: Amiamo Dio? Se non siamo in rapporto con Lui non potremo mai comprendere le Sue vie e ci poniamo al di fuori delle Sue promesse di grazia. Le promesse sono tutte condizionali, e prima ancora persino di sollevare la questione sulla Sua effettiva fedeltà, faremmo bene ad esaminare noi stessi ed accertarci se abbiamo veramente adempiuto a queste condizioni. 3. Dobbiamo ora, però, considerare ciò che ho scelto di chiamare il meccanismo della promessa - il modo in cui essa opera. L'Apostolo dice: "Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno". Egli dice che noi "sappiamo" questo, cioè, si tratta di qualcosa che noi ben conosciamo e riconosciamo, qualcosa che per i cristiani è del tutto evidente. Com'è possibile? La risposta è in parte dottrinale ed in parte una questione di esperienza. La risposta dottrinale è già proposta alla fine del nostro testo; "i quali sono chiamati secondo il suo disegno" e continua fino alla fine del capitolo. Noi sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di coloro che credono, perché la loro posizione dipende da Dio e dalla Sua attività. La nostra salvezza è opera di Dio. Sentite l'argomentazione: "Perché quelli che ha preconosciuti, li ha pure predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli; e quelli che ha predestinati li ha pure chiamati; e quelli che ha chiamati li ha pure giustificati; e quelli che ha giustificati li ha pure glorificati" (vv. 29,30). Non c'è nulla di accidentale o di fortuito o contingente nell'opera di Dio. E' tutto pianificato e elaborato dall'inizio fino alla fine. Nella nostra esperienza la cosa si manifesta gradualmente, ma nella mente e nei propositi di Dio, tutto è già perfetto ed intero. Nulla può frustrarlo, ed ecco perché San Paolo si pone la chiara domanda: "Che diremo dunque riguardo a queste cose? Se Dio è per noi chi sarà contro di noi?" (v. 31). Non è semplicemente una questione di alta dottrina. C'è un fatto che tutto conferma e sostanzia: "Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti, non ci donerà forse anche tutte le cose con lui?" (v. 32). Forse che Dio, che di fatto ha dato il Suo unico Figlio a morire quella crudele morte sulla croce del Calvario per noi e per i nostri peccati, potrebbe mai permettere che qualcosa o qualcuno si ponesse come ostacolo fra noi e l'adempimento dei Suoi propositi ultimi per noi? No, è impossibile. Con tutto il rispetto diciamo che Dio, dopo aver fatto la cosa più impossibile, deve necessariamente fare tutto il resto. Se Dio ha fatto una cosa simile per la nostra salvezza, certamente farà tutto ciò che è necessario. E se la morte di Cristo, con tutto ciò che di essa è vero, è la causa finale della nostra salvezza, certamente tutto quel che ci potrebbe succedere, per quanto amaro e crudele, deve cooperare per lo stesso grande fine. Dio ha fatto sì che l'azione più disperata del peccato si trasformasse nel mezzo stesso della nostra salvezza, ed ora qualunque sofferenza, certamente minore di quella, che noi mai si debba sopportare, come risultato dell'attività del peccato e del male, sarà volta allo stesso glorioso fine. Se noi crediamo d'essere nella volontà di Dio, se noi sappiamo che Egli ci ama, e se noi contraccambiamo il Suo amore, allora possiamo essere certi che ogni cosa, qualunque possa essere, coopera per il nostro bene. Dio sia ringraziato che pure ora noi possiamo rispondere alla questione che concerne il meccanismo di questa gloriosa promessa nella nostra stessa esperienza, dal campo stesso dell'esperienza. Che questo testo sia vero, è la testimonianza universale di tutti i santi la cui vita è narrata nella Bibbia e nella storia susseguente della Chiesa cristiana. I modi in cui opera questa promessa sono quasi illimitati; il principio, però, che li sottende tutti è quello che già abbiamo messo in rilievo, cioè che non c'è un unico fine ultimo - la conoscenza di Dio e la salvezza della nostra anima. Tenendo questo a mente, vediamo come prove e tribolazioni, difficoltà e distretta, cooperano nel modo seguente:
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a) Essi ci risvegliano al fatto della nostra eccessiva dipendenza dalle cose terrene ed umane. Spesso, inconsciamente, ci lasciamo influenzare dall'ambiente e la nostra vita diventa sempre meno dipendente da Dio, ed i nostri interessi diventano sempre più mondani. La negazione del comfort e delle gioie terrene ed umane, spesso ci fa prendere viva coscienza di questo come null'altro potrebbe fare. b) Essi pure ci rammentano della natura fugace della nostra vita qui sulla terra. Quant'è facile "sistemarsi" nella vita di questo mondo, e vivere come se dovessimo vivere qui per sempre! Tutti noi tendiamo a fare questo al punto da dimenticare "la gloria che sarà rivelata" e che, come abbiamo visto, dovrebbe essere il tema frequente delle nostre meditazioni. Tutto ciò che disturbi la nostra indolenza e ci rammenti che quaggiù siamo solo pellegrini, ci stimola quindi a dirigere la nostra attenzione "alle cose lassù". c) Allo stesso modo, le grandi crisi della vita ci mostrano tutta la nostra debolezza, la nostra impotenza e mancanza di forza. San Paolo lo illustra in questo stesso capitolo quando parla della preghiera: "Allo stesso modo ancora, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché non sappiamo pregare come si conviene; ma lo Spirito intercede egli stesso per noi con sospiri ineffabili" (Romani 8:26). In tempo di pace e di tranquillità riteniamo di sapere come pregare. Siamo sicuri e fiduciosi, e sentiamo di vivere la vita di fede proprio come dovremmo viverla. Quando però sopraggiungono le prove, esse ci rivelano quanto siamo deboli e privi di risorse. d) Quello, a sua volta, ci spinge verso Dio e ci fa rendere conto più che mai della nostra totale dipendenza da Lui. Questa è l'esperienza di tutti i cristiani. Nella nostra follia noi immaginiamo di poter vivere con le sole nostre forze e potere, e le nostre preghiere sono spesso formali. I guai, però, ci fanno rivolgere senza ritardo a Dio e fanno sì che ci aspettiamo da Lui l'aiuto che ci è necessario. Iddio dice ad Israele attraverso il profeta Osea: "Io me n'andrò e tornerò al mio luogo, finch'essi non si riconoscano colpevoli, e cerchino la mia faccia; quando saranno nell'angoscia, ricorreranno a me" (Osea 5:15). Quant'è vero questo per noi tutti! Cercare Dio è sempre bene, e le afflizioni ci spingono a farlo. e) Tutto questo, però, lo vediamo soprattutto dalla nostra parte. Guardando la questione da un altro punto di vista, possiamo dire che non vi sia scuola migliore in cui i cristiani abbiano così tanto imparato dell'amorevole cura che Dio riserva per i Suoi, che la scuola dell'afflizione. Quando tutto ci va bene e siamo soddisfatti e contenti di noi stessi, escludiamo Dio dalla nostra vita e non Gli permettiamo di rivelare la Sua sollecitudine per noi persino nei dettagli della nostra vita. E' solo quando siamo così turbati da "non saper più pregare come si conviene" che cominciamo a renderci conto come "lo Spirito interceda egli stesso per noi con sospiri ineffabili" (Romani 8:26). Infatti, è per chi era "negli abissi" che il senso della presenza di Dio è divenuto più reale che mai, e maggiormente evidente la consapevolezza della Sua forza che ci sostiene. La vedova di un vescovo della chiesa tedesca dei Fratelli Moravi una volta mi ha detto alcuni mesi fa che la testimonianza universale di tutti i cristiani in Germania che avevano patito indicibili difficoltà a causa della loro fede, era, nella sua esperienza, che essi non avrebbero sentito la mancanza d'alcune di queste cose per le quali indubbiamente avevano ringraziato Dio. Da queste esperienze essi erano stati risvegliati alla consapevolezza della povertà della loro vita ed esperienze cristiane. Attraverso queste esperienze essi avevano aperto gli occhi sulle "meraviglie della Sua grazia". Questo non è che un modo moderno per esprimere ciò che il Salmista dice in questo modo: "È stata un bene per me l'afflizione subita, perché imparassi i tuoi statuti" (Salmo 119:71). Non è che una nuova eco della reazione di San Paolo al verdetto che gli era stato comunicato: "egli mi ha detto: «La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me. Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte" (2 Corinzi 12:9,10).
PerchĂŠ Dio permette la guerra, di M. Lloyd Jones, p. 42 di 42
E' questa pure la vostra esperienza? Se solo noi "amiamo Dio" e ci sottomettiamo a Lui, certamente lo sarĂ , infatti, ancora vi rammento che: "Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno". [Fine].