Conferenza tenuta da Enrico Gurioli, giornalista di mare e inguaribile campaniano
“Dino Campana: dai silenzi della Verna al canto di Genova”.
sabato 24 settembre - Biblioteca Zanbeccari Liceo Ginnasio “Luigi Galvani” di Bologna
“ “Dino Caampana: dai d silenzzi della Verna V al canto di Genova””. Conferenzaa di Enrico Gurioli, tennuta sabatoo 24 settemb bre nella Bibblioteca Zannbeccari deel Liceo Ginnasio “Luigi “ Galvvani” di Bollogna.
Siggnori, so bene b che traacciare un percorso p su un poeta controverso come Dinoo Campana in i un Liceoo prestigiosoo come il Galvani rapppresenta per p me, gio ornalista dii mare chee apparteng go a quellaa categoria di d ricercatorri formati da d studi irreegolari al di d fuori dellla cultura gginnasiale italiana i unoo stimolo e una u sfida. Am mmetto lealm mente che a volte rim mpiango di non aver frequentatoo il Liceo Torricelli T a Faenza, noon perché inn questo perriodo si sta sostenendo o l’importannza fondam mentale di qu uell’Istitutoo nella form mazione del giovane pooeta Dino Campana, C beensì per un mio desideerio di colm mare lacunee intellettivee e di metoddo che si sviiluppano sopprattutto nel periodo deella giovineezza. Nonn è certo per p giustificcare fin da ora l’incom mpletezza ill mio lavorro su Camp pana ma hoo ritenuto oppportuno circoscriveree l’argomennto su queesto grandee poeta dell Novecento o letterarioo italiano in “Dino Cam mpana: dai silenzi dellla Verna al canto c di Geenova” rapppresenta unaa parte pocoo approfondiita della suua vita e deella sua poesia, una parte p sulla quale q fra ppoco mi perrmetterò dii richiamaree la vostra attenzionee in un conntesto che è perlomeeno inconsuueto alla mia m attivitàà professionaale o meglioo ancora al mio mestiere. 1
Ne sono pienamente consapevole; tuttavia, mi preme assicurarvi in partenza che in questa mie esposizione, non ci vogliono essere conclusioni definite, semmai spunti di riflessione, di discussione, di condivisione, su una parte non rilevata a sufficienza dell’impegno di un poeta, anzi un genio della poesia, che appartiene totalmente alla letteratura mondiale. C’è da chiedersi nel caso di Campana se questi luoghi sono diventati il teatro di un paesaggio interiore che ha formato il proprio immaginario dando poi origine fin dall’infanzia, oppure, come spesso si sostiene, sono gli scenari della giovinezza quelli che condizionano la nostra vita assieme a una sorta di estraneità a un mondo che ci porta alla maturità. Per un poeta in generale il discorso si fa più complesso, spesso considerate figure marginali nel Novecento e si può dire emarginate come nel caso di Dino Campana il quale viene considerato tuttora “per l'eccentricità della vita l'ultimo dei poeti "maledetti", ha tentato uno sperimentalismo originalissimo che risente di numerose componenti culturali, in primo luogo del simbolismo francese.” Cito dall’Enciclopedia Dea È bene a questo punto continuare a spendere due parole sulla biografia condivisa di Dino Campana e sempre dalla Dea apprendiamo che egli è Nato a Marradi, il 20 Agosto 1885 presso Firenze, studiò chimica a Bologna e Firenze; già nel 1905 venne ricoverato per qualche mese nel manicomio di Imola. Vagabondò in seguito per l'Italia e all'estero. Nel 1913 entrò in contatto a Firenze con A. Soffici e G. Papini. Nel 1914 pubblicò a proprie spese la sua prima opera, Canti orfici. Nel 1918 fu internato nel manicomio di Castel Pulci, presso Firenze, e lì visse fino alla morte. Che avverrà il 2 marzo 1932- La maggior parte della produzione artistica (Inediti, 1942; Taccuino, 1949; Lettere, 1958; Taccuinetto fiorentino, 1960) fu pubblicata postuma. In questo lavoro mi sono rigorosamente attenuto ai suoi scritti, ai manoscritti fotografati, ai testi delle sue lettere pubblicate in vari libri scartando a priori tutto ciò che è stato a lui attribuito durante e dopo la sua travagliata esistenza. Cercherò di non annoiarvi questa mattina ma l’impegno affidatomi dal corpo docente del Liceo, che ringrazio per il suo ardire nell’aver chiamato me, un Campanista di recupero, al Galvani di Bologna a ragionare su come sono stati interpretati i silenzi della Verna e i rumori del mare da parte di Dino Campana non sapendo forse di correre il rischio della devianza letteraria - per cosi dire - poiché racconto un poeta da giornalista, fuori dal coro dei campanisti di professione – e solo Dio sa quanti ce ne sono in giro, ma cercherò di affrontare un Dino Campana che conosce il panteismo dei marinai, di un uomo che e secondo lo scrittore e incisore Luigi Bartolini che vive con lui un breve periodo a Firenze, Dino “Andava vestito simile ad uno di quei garzoni o viaggiatori che, discesi dal piroscafo, passano per la città offrendo panni, stoffe da vendere.” e poi ancora“….Fatto è che l´uomo che camminava di fianco a me, sembrava un frate sfraiato, un viaggiatore disceso da un lontano bastimento. Di leggermente strano, portava i sandali ed una casacca da marinaio. Non c´è bisogno di creder matto un uomo perché egli indossa una camicia alla marinara e calza dei sandali”.
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Non è certo il Campana vestito da uomo dei boschi – o e matt del paese di Marradi - come è stato descritto a posteriori durante i suoi soggiorni fiorentini. Francamente ho trovato fastidiosa quella immagine ricorrente e postuma di un Campana in preda a deliri perenni, che girovaga come un ossesso a piedi fra i monti dell’Appennino come se fosse un povero e incolto montanaro mugellano e non un raffinato “letterato” capace di rivoluzionare sapientemente la storia della poesia italiana. È stato sicuramente uno dei grandi poeti europei, intensamente italiano ma con una cultura cosmopolita. Nel 1906, Campana decide di iniziare la sua prima grande fuga verso il Nord Europa: viaggi vissuti in famiglia senza alcuna plausibile giustificazione, che lo terranno lontano da casa per parecchi mesi. Dopo l’arresto a Bardonecchia – forse era stato attratto in Ascona dai teosofi di Monte Verità- spingeranno il padre, imbarazzato direttore didattico di paese, a scegliere per lui un temporaneo internamento nel manicomio di Imola – successivamente a Firenze – giustificati solamente sulla base di un carattere instabile e di una condotta di vita irregolare. Le inopportune scelte paterne contribuiranno a fare di Campana il poeta italiano matto per eccellenza, aprendo in seguito la via ad oziose discussioni circa il rapporto fra ispirazione e follia, come se queste due istanze fossero state determinanti per la sua poesia. Di fatto quelle scelte del padre interpretavano la psichiatria esercitata nei nuovissimi manicomi come una pratica prevaricatrice e prepotente di acchiappa matti destinata al mantenimento dell’ordine pubblico e del conformismo sociale. Nasce così il mito del poeta “vagabondo”, in rivolta contro la società borghese, associato a Rimbaud, pronto per improvvise partenze e misteriosi ritorni a Marradi. Certo si può anche condividere l’affermazione di Pasolini che la preparazione letteraria di Campana era “rozzamente colta” avendo egli abbandonato gli studi universitari. Fa parte della sua biografia ormai condivisa da tutti gli studiosi di Campana la sofisticata ricerca di una conoscenza di autori estranei o stranieri alla cultura dominante e classica d’inizio del Novecento: cita con naturalezza Walt Whitman e Julia Word Howe, legge in lingua originale Nietsche e Goethe, cerca in Freud e Otto Weininger una possibile risposta alla profonda natura dell’uomo, dialoga a Firenze in tedesco con Däubler cercando di inserirsi in progetto culturale di ben più vasta portata nato a Berlino dal giornalista pacifista Pfemfertm, tradotto in Italia da Däubler, il quale con la pubblicazione di numeri speciali dedicati alla letteratura francese, ceca e italiana, intendeva attirare l'attenzione sul cosmopolitismo intellettualmente libero proprio in un periodo caratterizzato dal militarismo e dal nazionalismo. Significativo lo stupore di Soffici: «Si parlava di letteratura? e Campana citava nomi di poeti tedeschi, francesi, inglesi, spagnoli e brani delle loro opere nella lingua originale». Quello che appare un disordine intellettuale in realtà è per Campana il suo modo di uscire dagli angusti confini della Valle del Lamone, dall’ingombrante accademia della cultura liceale faentina, della specializzazione per rifugiarsi nella poesia come forma ultima di dare attraverso la parola, voce al proprio sentire. C’è in Campana il peso della Chimera e la perdita della corona di alloro del poeta citati nello Spleen de Paris di Baudelaire. Ma chi è Dino Campana? Comincerei subito con una poco percepita condizione sociale : Dino Carlo Giuseppe Campana è il rampollo primogenito di una famiglia benestante marradese. Il nonno, Raffaele è un maestro elementare e un benestante locale, possiede terreni e fabbricati, è sposato con Francesca Ceroni discendente dei Ceroni di Marradi grandi proprietari 3
terrieri e commercianti di carbonella, legna, granaglie e sale. Erano arrivati in paese nel Quattrocento. Dal loro matrimonio nascono quattro figli: Francesco, Giovanni, Mario Torquato, il primo dei quali è Procuratore del Re a Firenze Pisa e più volte dovrà intervenire per aiutare il nipote Dino a togliersi dai guai. Giovanni, il padre di Dino e lo zio Torquato sono entrambi maestri elementari: erano fra i più noti del paese, comunque eredi di una famiglia di insegnanti. Lo zio Mario Campana invece muore, a 31 anni di età, nel manicomio di San Salvi a Firenze. Nella modula informativa di ammissione al Manicomio di Firenze c’era scritto che è ricoverato, per "monomania religiosa e dubbiosa"Dino Campana nasce il 20 agosto del 1885: la madre, Francesca Luti, detta Fanny, è di Comeana in provincia di Pistoia, la famiglia proviene dalla Sicilia. Il 2 settembre 1887 nasce il fratello Manlio; con Dino sono gli unici discendenti diretti della famiglia Campana. Nell’autunno del 1897 Dino risulta iscritto alla terza Ginnasiale del Convitto Salesiano, a Faenza e 3 anni dopo Sostiene gli esami di quinta ginnasio al liceo Torricelli di Faenza. Fin qui la documentazione inoppugnabile sull’infanzia di Dino Campana, ciò che verrà pubblicato su di lui dal 1900 in poi attingerà sovente al mondo dell’oralità per passare al mondo della parola scritta. Anche se spesso il pettegolezzo di paese viene assume il ruolo nobile dell’oralità tribale. Mi sono chiesto in questi giorni cosa sarebbe la storia di Campana senza i Canti Orfici e più in generale cosa sarebbe la storia della letteratura senza quel piccolo libro stampato a Marradi. Anzi cosa sarebbe la storia senza qualsiasi libro, senza la parola scritta e divulgata sarebbe non sarebbe comunque un ritorno al mondo dell’oralità anche se noi continueremmo ad appartenere al mondo della scrittura. Ma se guardiamo bene qual è il ruolo del poeta nella società della oralità non possiamo non essere d’accordo nel sostenere che attraverso il ritmo della poesia si trasmette la verità della parola. Se ognuno di noi fosse capace per un istante a rientrare con la memoria alla propria infanzia ci accorgiamo che fatichiamo moltissimo a ricostruire la storia di questa valle senza il mito di un racconto, o senza un sistema di scrittura, o meglio ancora attraverso il ritmo della parola affidata alla poesia che non va vista come fatto letterario ma fondamentalmente come fatto civile, la narrazione della vita di questa terra, ma più in generale di qualsiasi territorio, sarebbe senza storia, anzi senza spessore senza memoria. Questo passaggio che meriterebbe di essere ulteriormente approfondito, serve per far capire per quale ragione profonda Dino Campana ripete in modo ossessivo, “io sono un uomo ancora inedito” e usando il verbo stampare in prima persona al transitivo (da una lettera a Prezzolini del 6 genn. 1914: "Io sono un povero diavolo che scrive come sente: Lei forse vorrà ascoltare. Io sono quel tipo che le fui presentato dal signor Soffici all'esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive delle cose buone. Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato; per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che oggi è poco comune da noi". Con la stampa e la pubblicazione dei Canti Orfici si compie una azione di passaggio storico della narrazione culturale nella Valle del Lamone; il superamento della oralità.
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Questo non significa assolutamente che tutto ciò che si pubblica o si è pubblicato su Dino Campana nelle Valli del Mugello sul racconto orale derivante dal racconto di chi ha conosciuto Campana in vita risponda ai requisiti del superamento dell’oralità e si avvicini alla verità. Per quanto mi compete nella interpretazione generale che posso dare al suo lavoro di poeta marino, lo sforzo di ricomporre i dati e i frammenti di un puzzle campaniano, mi porta necessariamente a cercare arbitrariamente degli indizi fra le sue composizioni poetiche – non componimenti – e nelle sue lettere (pubblicate post mortem) talvolta furenti talvolta dolci e remissive oppure in testimonianze scritte negli anni della sua esistenza e vissuto come poeta. Fino alla presentazione dei testi dattiloscritti dei Canti Orfici tutti sono pronti a convincersi che la storia e la vita di Dino Campana fosse accaduta solo sulla terra ferma. Che avesse messo il piede sul ponte di coperta di in una imbarcazione o di una nave, con le relative conseguenze sul suo modo di pensare era totalmente sconosciuto e in fin dei conti irrilevante. Restava, per la critica letteraria un quanto mai enigmatico viaggio da emigrante in America Latina, con un soggiorno misterioso in Argentina presso un parente farmacista e un ritorno in Italia per lo meno oscuro. Nulla di importante, o meglio nulla di apparentemente significativo nella vita dell’indicibile letterato. Nel giro di qualche giorno, mentre i Canti Orfici erano appena freschi di stampa a Marradi, si apriva il primo vero conflitto mondiale con l'invasione austro-ungarica della Serbia, e parallelamente, con una fulminea avanzata tedesca in Belgio, Lussemburgo e nel nord della Francia, le truppe germaniche giungevano a venticinque chilometri da Parigi. Gli scalpori della guerra ormai entravano di prepotenza nel dibattito culturale europeo, mentre a Firenze si consumava attorno alla Lacerba l’esperimento di rendere in grafica la poesia; l’immagine aggiungeva forza dinamismo e pregnanza alla parola, sottolineandone il significato, mentre la redazione stava assumendo una posizione sempre più filo interventista. La veste tipografica data ai Canti Orfici era totalmente estranea alla forma grafica del periodico fiorentino Lacerba, dove la forma dei componimenti creavano un ulteriore piano di lettura talvolta estraneo alla volontà stessa dell’autore. L’ineffabile estensore dei Canti Orfici mise come sottotitolo in lingua tedesca "Die Tragödie des letzten Germanen in Italien" come per dimostrare una sua estraneità al conformismo della cultura italiana contemporanea e ambire a una dimensione artistica più vasta, mitteleuropea o nordeuropea certamente estranea alla valle del Lamone e alla passatista Romagna. Il Lamone è il fiume di Dino Campana. Sgorga dai monti della Colla di Casaglia, nell’Appennino dell’Alto Mugello in provincia di Firenze; attraversa Marradi, per arrivare a Faenza dove a fine ottocento il fiume offriva le sue acque al Nuovo Naviglio, un canale navigabile che arrivava al Po per poi raggiungere e confondersi con le acque dell’Adriatico. Il fiume invece superata Faenza continua il corso nel suo alveo, passa poi nelle campagne tra Russi e Bagnacavallo per terminare in una cassa di colmata presso Ravenna; è messo in comunicazione col mare presso Porto Corsini. Il tema di questa mattina Dino Campana dal silenzio della Verna a canto di Genova o al rumore del mare rischia di essere spiazzante se andiamo alla ricerca delle voci che all’ombra dei campanili o delle torri di Marradi, e di Faenza hanno contribuito a creare il mito campaniano.
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Insomma quella narrazione orale raccolta da vari biografi, o presunti tali, quando il poeta era vivo e vegeto in questa valle del Lamone, o peggio ancora quando era segregato in manicomio in attesa che di terminare la propria esistenza terrena. Il paese di Marradi negli anni della pubblicazione de Canti Orfici non ha certamente la notorietà derivante dalla presenza inquieta di Dino Campana, il matto del villaggio è un certo Paolino Nati, mentre il giovane poeta resta una figura indefinita, riconsiderata mentalmente sana dalla buona borghesia locale avendo essa promosso la stampa e la pubblicazione del suo primo libro di poesie. Con il senno di poi si può affermare che la sua esistenza è fortemente condizionata dagli umori del Lamone – ma tutta la biografia di Campana è stata costruita spesso senza senno di poi. Al Liceo Torricelli di Faenza si comincia a sostenere l’importanza di quel liceo nella formazione poetica di Campana: la tesi trova credito al punto tale che interi percorsi cittadini vengono indicati come fonte d’ispirazione e il corpo docente come artefice fondamentale della poesia del giovane studente marradese, che accompagnato dalla madre vive solo due anni a Faenza entrando nel “Palazzo rosso” del Torricelli appena tredicenne. È facilmente intuibile che il programma scolastico non è difforme ne dissimile a quello del Galvani o di altri licei italiani. Ma ciò serve a rafforzare il mito dell’uomo che arriva dalla montagna. Vediamo come ha origine il mito Campaniano "Per gustare certi passi di questo poeta bisogna conoscere il paesaggio romagnolo: i suoi rivi, i suoi tramonti, i caseggiati rustici e fieri, le sue bettole sparse sulle strade maestre, il rosa del suo cielo nell'albe e nei tramonti, i suoi monti aspri e rocciosi, i torrenti fronzuti all'intorno. Bisogna conoscere la sensibilità della donna che qua è molto diversa dalla donna toscana, tipo razionale e borghese, con pochi sogni e pochissime follie. C'è nella pagine di questo poeta disgraziato e quasi del tutto sconosciuto, un sapore di cielo, di sole, di aria, di solitudine: una freschezza autunnale di paesaggio montanino, con sfondi di montagne severe. La sua prosa, piena di ombre e di chiaroscuri, è ricca di immagini e di figure, e vi è in queste pitture di cose umili, di casupole, di tramonti, di visioni notturne, di crepuscoli mistici, qualcosa di misterioso, di umanissimo, di trasfigurato. Mi rammenta qualcosa di Baudelaire, ma vi è qualcosa di più. Si sente l'ansia di chi si cerca, tremando in tutto l'essere per il turbamento che gli danno le cose che l'occhio ha toccate, seguendo il suo sogno nostalgico - desiderio di vivere liricamente e di superarsi. Oltre al fresco sapore delle cose, l'aspirazione commossa resa meno tormentosa dalla vaga dolcezza del paesaggio. Vi è qualcosa insomma in questo poeta maledetto che voialtri, uomini delle pianure, difficilmente giungerete a comprendere. Qualcosa della robustezza e della forza romagnola e la delicatezza di un francese "decadente", ma niente delicatezze affettate e moinose. Egli aveva pensato più che a fare poesia a viverla; più che a passare per illustre a fabbricarsi la nomèa di poeta, ad esserlo. E lo era.
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Perciò ha lavorato poco, pochissimo. ma nella sua poesia frettolosa e malata vi è un sapore "suo", una nota sincera dell'anima. (Considerare il poeta Campana un temperamento originale).Finito a ventisette anni, gigante nell'aspetto - come lo raffigurano coloro che l'hanno conosciuto da vicino - , il suo male era, come in tutti i poeti veri, la sua originalità. La sua passione era la montagna, e della montagna vi è, nella sua poesia, il ritmo, l'aspirazione, la purità. A Marradi, ove è nato nel 1885, da famiglia distinta, lo si vedeva di rado e parlava con pochissimi. Quando era "a casa" si ritirava sulle solitudini della sua Campigno. - La Falterona, la Verna, gli erano egualmente ospitali e sacre. Aiutava i contadini nelle faccende dei campi e ne riceveva la ricompensa.” Siamo nel 1928 e il testo viene pubblicato a firma di Dino Fiorelli sul saggio Il dramma dell' intelligenza dove parla di Dino Campana, poeta allora quasi sconosciuto. Chi fa il mestiere di giornalista fiuta la mistificazione, la reticenza come un poliziotto. C’è da chiedersi per quale ragione Fiorelli compie questa intrusione nella vita di uno sconosciuto poeta? Un testo che sembrerebbe quanto mai attuale e che sta alla base di quello che non esiterei a definire uno dei tanti luoghi comuni su Campana. Non è sufficiente affermare che Fiorelli abbia trascorso dal 1921 in poi le sue vacanze estive in una frazione del Comune di Marradi per dare importanza al testo ma occorre contestualizzare in quello che sarà un movimento di contrasto ben più vasto al modernismo del fascismo che si articola soprattutto in Toscana nelle redazioni di Strabisenzio e di Strapaese diretto da Mino Maccari. Il testo di Fiorelli sembra fatto apposta per promuovere i Canti Orfici, i silenzi del paesaggio cristiano della Verna e il canto di tre fanciulle che si sperdeva nelle “valli immensamente aperte” . Inoltre ci sono tutti i contenuti che si ritroveranno nei movimenti di contestazione giovanili del dopo guerra e degli anni sessanta con il rifiuto delle convenzioni e delle istituzioni borghesi, il pacifismo, la riscoperta della Religione con l'interesse per le filosofie orientali e il ritorno alla natura. Ho svolto nei miei saggi un lavoro d’inchiesta e di ricerca sulla quotidianità del “povero pazzo di Castel Pulci” affidandomi soltanto ai testi e alle affermazioni di Campana stesso, alle cronache del tempo e ai protagonisti di questa vicenda con il rigore del cronista, evitando accuratamente le interpretazioni, i ricordi, le analisi date a posteriori con la consapevolezza di quanto sia scivoloso il patto del cronista con la verità. Per fare questo lavoro di ricerca è bene ricordare che fino agli anni ’60 non esisteva una biografia attendibile su Dino Campana. Mi scrive Franco Scalini, già prezioso segretario del Centro Studi Campaniani “Sappiamo che fino a qualche decennio fa Campana era un autore poco noto alla generalità delle persone. La ragione fondamentale di ciò risiede nel fatto che nelle scuole Campana non veniva studiato. Gia negli anni cinquanta del secolo scorso (erano quindi trascorsi appena venti anni dalla sua morte) diverse antologie per le scuole superiori comprendevano l'opera campaniana, ma quasi tutti gl'insegnanti di lettere dell'epoca non la inserivano nel programma didattico, perché loro non avevano studiato Campana. Accadeva poi che anche quei loro allievi che proseguivano gli studi nel campo letterario arrivavano all'Università senza conoscere Campana e quindi senza alcun interesse per la sua opera, che escludevano dagli approfondimenti dei loro studi universitari.
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Divenuti poi anch'essi insegnanti di lettere nelle scuole secondarie, senza avere studiato Campana, ripetevano nella programmazione didattica il comportamento dei loro predecessori. È a partire dagli anni ’80 – e forse un po’ di responsabilità si trova allora fra i giovani socialisti marradesi, come li definisce Giampiero Mughini - che, moltissimi studiosi hanno lavorato sodo per restituire a Campana e, quel che più conta, alla sua poesia interpretazioni attendibili, finalmente libere dalle incrostazioni leggendarie del mito del poeta pazzo. Soprattutto attraverso l’immenso lavoro di Gabriel Cacho Millet, instancabile cercatore di documenti e testimonianze campaniane, e curatore, fra molte altre cose, dei volumi che raccolgono le lettere e una buona parte dei documenti ufficiali sconosciuti. Tuttavia la narrazione e la creazione del mito Campaniano soffre e molto della per cosi dire verità orale del cicaleggio di provincia che si mescola talvolta ingenuamente, ma sempre più spesso con consapevoli politiche culturali ed editoriali fino a perpetrare nel tempo “l' "industria del cadavere" - così Dino Campana chiamò l' istituzione letteraria in Italia - continua a riproporre con una tenacia, in tutto degna della propensione al peggio che questo Paese mostra anche in altri campi.” C’è un testo non molto conosciuto, si tratta di una intervista fatta a Dino Campana nel 1914 in una osteria di Marradi da Paolo Toschi, pubblicata su Il resto del Carlino nel 1926 Sa, professore, quando ho dei soldi bevo cognac vero, a bottiglie; ma adesso faccio il figlio di famiglia, e mi illudo così bevendo bicchierini su bicchierini, di acqua tinta. Fin che sia in questo paesucolo.(…) Che cosa sa Lei della nostra campagna? Io si la conosco: quasi tutti gli anni io vado a mietere, insieme con le opre e guadagno bene! Mangio, bevo e dormo con quei villanacci puzzolenti e ci sto come un papa: ma ci vuol nerbo e reni forti: io sono forte, sa! (…)lo so tutte le più belle canzoni di tutti i paesi del mondo: l'ho imparate nei miei viaggi. (…)- lo soy Argentino. No soy estranjero...(…) Questa l'ho imparata a Buenos Ayres quando facevo il doganiere laggiù. Mi ero imbarcato ad Amburgo come mozzo in un transatlantico della Amburg America Linie: sbarcato in Argentina, non tornai più a bordo. Là conobbi negri, ebrei, greci, tutte le razze. Ecco una canzone tunisina... e quesťaltra spagnuola e questa... ultima creazione dei Boulevards...(…) lo ho sempre girato il mondo senza spender nulla. Molta parte l"ho fatta a piedi: quando non ci arrivavo più, ricorrevo alla polizia. «Chi siete? Dove abitate?» eccetera: e mi rimpatriavano per corrispondenza. Una volta a Vienna, mentre chiedevo del denaro (ero veramente male in arnese) mi arrestarono. Mi ricordai allora che in quella città abitava un mio stretto patente, un alto prelato conosciutissimo. Dissi loro: Badate,Io sono parente così e così... Non mi credono: io insisto, s'informano e trovano che è vero; mi rilasciano. Anche un'altra volta fui arrestato, quando studiavo chimica a Bologna. Fu un caso buffo. Esco per istrada e ti vedo una serva che teneva al guinzaglio un bulldog tutto ciccia e occhiacci; mi viene un‘idea, un capriccio: strappo alla donna il guinzaglio, e incomincio a far mulinello: il cane rotea per l'aria e guaisce e abbaia e si slancia in una girandola fantastica: la serva stride come se la squartassero: gente accorre da tutte le parti, mi circondano mi afferrano: vengono gli agenti e mi portano dentro: affare di poche ore”. In questa intervista c’è un autoritratto sufficientemente verosimile di Dino Campana anche se, dopo quello che aveva combinato negli anni, per Paolo Toschi il poeta “Aveva gli occhi piccoli e brillanti con uno sguardo da alcoolizzato che a tratti sorrideva, a tratti gettava lampi sinistri: e il volto, gonfio e ispido dalla barba incolta, gli si illuminava via via di beatitudine o di apparente ferocia. 8
L’articolo cominciava così “«Ora è rinchiuso nel manicomio di Castelpucci». Così terminavano le brevi notizie che Papini e Pancrazi hanno scritto di Dino Campana davanti a una giudiziosa scelta delle sue cose, in quell'antologia degli Scrittori ďoggi, di cui i giovani letterati sogliono dir male fin che non sperano di comparirvi anche loro. I cancelli di un manicomio si chiudono dietro a un'esistenza umana più tristi e tremendi di quelli di un cimitero: perché la scomparsa di uno che vive tra i vivi è notata, commentata, rimpianta; ma quando uno s'allontana dal mondo in tal modo, si fa silenzio ed egli passa poi dal regno della follia in quello della morte senza che quasi nessuno se ne accorga.”
È interessante notare che sono passati 12 anni da quell’incontro e c’è da sperare che Paolo Toschi, anch’egli romagnolo, fresco di licenza liceale a Faenza e giovane studente universitario a Firenze, abbia trascritto immediatamente e fedelmente l’intervista a Campana, anche se osservando bene il linguaggio e la sintassi dell’intervista pare che l’intera intervista serva a sostenere la tesi successiva dell’autore che è quella di trovarsi comunque di fronte a un deviante, a un alcolizzato. Ciò che è importante è invece l’anno di pubblicazione il 1926 e su questo ci torneremo sopra. È l’inizio di una serie di operazioni editoriali che servono a costruire un mito di Campana indipendente e parallelo alla sua poesia. Si ricorda di lui Bino Binazzi che pubblica su Il Resto del Carlino "IL RESTO DEL CARLINO" (Bologna), 12-IV-1922 Bino Binazzi E balzato fuori dalle mie valigie di nomade un libercolo, che mi e particolarmente caro. Una curiosità bibliografica ormai rara a trovarsi che assomma in sè le grazie di una brochure francese, e la ingenuità grossa e casalinga del Sesto Caio Baccelli o del Barbanera. Questo libro e un gran libro. Forse la più potente e originale raccolta di liriche, che abbia prodotto il ventiduennio di questo secolo di burrasche e di bestialità. L'autore? Dino Campana, nome ancor quasi sconosciutissimo, come ho dovuto dolorosamente accorgermi, facendo degli assaggi in certi angoli di penombra, ove ancora si raduna qualche pavido gruppo di giovani dediti alle lettere. Egli irruppe improvvisamente come una meteora dalle miriadi di colori sotto i cieli alquanto bigi del futurismo prebellico; poi, quando ancora la ecatombe umana non era compiuta, dileguo nelle tenebre della follia. Ma il suo passaggio aveva lasciato fra lo scialbore elettrico e malato della atmosfera letteraria italiana un odor pirico di sagra e di battaglia: battaglia classica, omerica, serena, senza ferocia e senza cretineria. E ai lirizzatori dei colorini delle "mente glaciali" e dei visi flosci dei bardassa e delle veneri volgivaghe aveva insegnato la lirica degli azzurri alpini e delle vastità oceaniche e la bellezza del corpo sodo e seminudo un mozzo genovese o d’una lavandara dell'Appennino, accordante, fra le nevi e fra le rocce, il ritmo del suo stornello di calandra al fiotto della sorgente che alimenta il bozzo limpido alla sua fatica di purificatrice delle umane sozzure. Ma io non posso e nessuno potrebbe dir della poesia di Campana in modo da farne avere un benché minimo sentore a chi legga. E necessario per farsi un'idea della forza, stranezza, originalita di questa lirica elementare aver sotto gli occhi il libercolo introvabile, ormai; e che nessun editore, tra i tanti editori che vegetano lungo tutto lo stivale, pensa ne penserà mai di ripubblicare. Intanto come il suo grande 9
antenato Torquato Tasso, Dino Campana, in una cella di manicomio, scrive e scrive; e gli illustri psichiatri, che capiscono di poesia sempre infinitamente meno di quel che un poeta capisca di psichiatria, vietano a critici e ad artisti di esaminare le carte vergate dal pazzo sublime. Quanto più savi i custodi del manicomio di San’Anna, che permisero almeno liberta e gloria alle liriche del gran recluso, autor della Gerusalemme! Ma chi potrà dire adeguatamente della lirica di Campana "Chi puo dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi, dove ancora in alto barbaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre a l'ombra dei lampioni verdi, nell'arabesco di marmo, un mito si cova, che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea?". Occorre aver letto. E per chi volesse cercare il volumetto raro dirò che esso porta il titolo di Canti Orfici e che fu stampato a Marradi nella tipografia F. Ravagli, l'anno 1914. * Fra gli ultimi bohemiens d’ltalia Dino Campana e il più tipico ed il più grande. Nessun altro ebbe una vita di miseria avventurosa da paragonarsi alla sua. Assillato da un sogno incoercibile di vastità e di libertà, egli ha percorso nel suo trentennio il più lungo e il più doloroso di tutti i calvari. Non ci fu mai città o paese o regione che paresse bastante al respiro gigantesco dei suoi polmoni. A Marradi, sua città natale, lo conoscono per il figlio strambo - un altro e ben diverso nelle sua modestia e mediocrità di impiegato - del signor direttore delle Scuole. Ci sono buoni motivi per l’editore Vallecchi per promuovere la seconda edizione dei Canti Orfici anche se Campana è rinchiuso in manicomio. Anzi.. Ma il vero artefice dello sdoganamento di Dino Campana, mentre si trova relegato al manicomio è un raffinato intellettuale che da Londra dove è uditore presso l’University College ha fondato il Partito Nazionale Fascista. È amico vero di Longanesi quando fonda L’italiano e di Giuseppe Bottai. È Camillo Pellizzi. È autorevole e tollerato dal Partito e da Mussolini nel periodo di massima crisi politica avvenuta dopo il brutale omicidio di Matteotti e capisce immediatamente dopo l’assunzione di responsabilità politica di quanto è successo da parte di Mussolini che occorre creare una classe dirigente diversa e nuova al regime fascista. Occorre prima di tutto ricercare una nuova aristocrazia fascista fra gli intellettuali che si sono divisi attorno alle tesi di Gentile da una parte e di Benedetto Croce. L’operazione di Pellizzi prende il via con la pubblicazione di Gli spiriti della vigilia: dove cita scrittori come precursori del fascismo Carlo Michelstaedter, Giovanni Boine, e Renato Serra. In loro vede, come tutti i veri pessimisti,se non una indicazione a una sicura salvezza e un virile impegno morale con la vita. Scrittori che per dirla con Massimo Cacciari “che per destino riescono postumi a se stessi”.La ricerca di una aristocrazia letteraria che è all’origine stessa del fascismo porta Camillo Pellizzi a scrutare nelle redazioni fiorentine del Leonardo a La Voce e di Lacerba. Carlo Michelstaedter,-- Giovanni Boine, ---- Renato Serra Da Bologna, il romagnolo Paolo Toschi collaboratore de Il Resto del Carlino, estraneo al contesto letterario fiorentino, ricordava dalle pagine del quotidiano felsineo i suoi due incontri con Dino Campana avvenuti “una sera ďestate, a Marradi, in una stanza bassa e soffocante di una piccola trattoria, negli anni sereni in cui s'andava addensando il turbine della guerra…” Per Paolo Toschi Dino Campana era “Un poeta tipo Rimbaud, irrequieto, vagabondo, insofferente ď ogni giogo, amante di avventure, nostalgico di una città sconosciuta, sregolato e 10
geniale, infelice e superbo, che ama la vita dei bassifondi, l'assenzio e la débauche, che non teme la vera miseria e cambia cento mestieri diversi, è un tipo quasi ignorato nella storia della nostra letteratura, dove abbondano invece le figure degli studiosi, degli equilibrati e, in generale, della gente per bene.” 1 Dino Campana con la sua carica di personale eresia era considerato un essere rifiutato dai letterati e dallo stato, tuttavia se nuovamente recuperato dall’area degli esclusi e legittimato dall’industria culturale italiana, poteva rappresentare anche per l’OVRA una risorsa credibile in più da utilizzare come testimone di esperienze culturali e personali condivise, per molti e da celare comunque. Campana poteva anche rappresentare quell’archetipo del fascismo disgustato dalla decadenza e dalla miseria morale della società del suo tempo, spregiatore del borghesismo, il tipico vagabondo viandante fuori e contro la sua epoca, appartenente a un mondo interiore fatto di atavismi e contatti con l’assoluto in perfetta sintonia con ciò che Camillo Pellizzi cercava in quella sua ricerca di un aristocrazia fascista. Dopo aver celebrato Ardengo Soffici scrive – sempre su Le lettere italiane del nostro secolo (1929)- “Dove troveremo, a esempio, uno scrittore più anarchico di Dino Campana, che fu riconosciuto e rivelato dal Soffici? Le due personalità sembrano antitetiche; le passioni e le distorsioni dello spirito, nel Soffici, si equilibrano senza eliminarsi; nel Campana, si eliminano senza equilibrarsi; e mentre il primo gode oggi una maturità sicura e forte, il secondo, dopo una vita di vagabondaggio e di miseria, è caduto in preda alla sua follia e più di lui non si ragiona. Ma osserviamo del Campana i “Canti Orfici”. È una disordinata breve raccolta di frammenti e studi di poesia, e, apparentemente, è opera romantica, impressionista, frammentaria; ma il segno cui mira, e che a grandi tratti raggiunge, è quella stessa toscanità paesana e tradizionale cui ha sempre ispirato il Soffici stesso, raggiungendola per la sua via. Si veda questa quartina (FIRENZE) In queste prime affermazioni di Pellizzi c’è materiale sufficiente per legittimare Dino Campana come mito dello Strapaese, diventando con il tempo simbolo di esagerato spirito di campanile. Da quel momento tutti sono pronti a convincersi che la storia e la vita di Campana sia accaduta solo sulla terra ferma, a Marradi, nei manicomi e nelle valli che circondano il Lamone. Spesso camminando fra i monti come per dimostrare che nel suo mondo c’è un totale rifiuto a ciò che sta succedendo in quel periodo storico con l’ avvio di una rivoluzione tecnologica di vasta portata (l’automobile, il treno, l’aereo, la luce elettrica, le onde elettromagnetiche, la radio, la navigazione a elica.). Una improbabile fuga dal modernismo delle città anziché una continua ricerca della contemporaneità culturale.
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P. Toschi,Ricordando. Il Rimbaud della Romagna, da IL RESTO DEL CARLINO, Bologna, 27 novembre 1926.
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Ciò che è accaduto sull’acqua durante i suoi viaggi per mare sembra essere percepita dai “campanisti” come la scena preparatoria di una azione reale che ha luogo quando Dino arriva e sbarca, senza che la vita del mare possa lasciare influenza culturale alcuna nella sua poesia. Ciò che arriva dal mare, non solo come fatto accaduto ma come ulteriore formazione per la comprensione della realtà campaniana assieme al suo linguaggio, in generale pare estraneo a gran parte della letteratura italiana. Almeno così sembra a me. Il primo a ribellarsi a questo modo di interpretare la poesia é Dino Campana stesso quando scrive urlando all’inquieto Papini “ … E se di arte non capite più niente cavatevi da quel focolaio di cancheri, che è la Firenze e venite qua a Genova e se siete un uomo d’azione la vita ve lo dirà e se siete un artista il mare ve lo dirà.” È Genova la città di adozione di Dino Campana. Il porto di Genova, anche la vita dell’angiporto, avevano altresì stregato e suggestionato Dino Campana; un porto pieno di navi rumorose, una città dai carrugi, il vento che arriva dal mare, e “al porto il battello si posa”2. Era la ricerca di un vento che spirava dal mare. Avrebbe scelto Genova, con le sue case squadrate, cubiste, che si affacciavano dall’alto nel rumoroso porto, con il bianco costone del colle di San Benigno che a ponente declina verso la vecchia lanterna; con i nuovi moli d’attracco per i bastimenti pronti a partire per l’America, dalle barche che stavano a riva con le cime all’imbando e i carri ferroviari che si muovevano stridendo fra i mucchi di carbone; Piazza Caricamento con i sacchi, le botti, casse imballate ovunque in perenne movimento come le onde, e soprattutto gente di mare che non ti domandava mai perché stavi là. Se partivi o arrivavi. Siamo nel 1903 . Un amico, studente di medicina dell’Università di Bologna , trovò con meraviglia Dino Campana non ancora maggiorenne a Genova nella zona dell’angiporto. “Tra le venditrici uguali a statue, porgenti / Frutti di mare con rauche grida/ Su la bilancia immota.…”3 Alla sua domanda se sarebbe tornato a Bologna Campana gli aveva risposto: "Bologna! Città di beghine e di ruffiani, mai un omicidio, mai un fatto di sangue!"4 Sono grida, una denuncia, una riflessione, una affermazione di un poeta che è stata spesso sottaciuta oppure non sempre condivisa dalla critica letteraria. Campana sa che il misurarsi con il mare significa possedere una sensibilità artistica. “Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare” scrive lo scrittore argentino Jorge Luis Borges. Per me è come una fiaba che non sempre si lascia comprendere. Non si fa convincere dalla letteratura né dalla memoria storica. Ho scritto molto di mare e mai abbastanza. La lingua per me non è altro che veicolo di comunicazione, mai strumento di lavoro e d’analisi per se stessa. 2
D.Campana, Canti Orfici, op.cit. p. 170
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D.Campana, Canti Orfici , op.cit. p. 168
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Centro Studi Campaniani – Biografia di D.Campana
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Mi considero prestato al mare, alla sua realtà operosa: il mare del lavoro e non quello della balneazione; ma per il mio lavoro legato soprattutto alla storiografia di mare, alle ricerca storica e sociale del linguaggio, alla sua cultura materiale, alla cronaca giornalistica, non alla letteratura e nemmeno alla poesia o alla vita dei poeti non vorrei essere considerato,per questo mio intervento, ne un campanista e nemmeno un campaniano dell’ultima ora e di recupero. Allora mi sia concessa, a mia discolpa per questa intrusione letteraria al Galvani una affermazione apodittica: Dino Campana è forse il più grande poeta del mare che io abbia incontrato nei miei studi e ricerche sulla marineria italiana. Parlo di quel mare vero, vissuto che sa di salsedine e non del suo immaginario. Nell'autunno del 1912 da Marradi Dino Campana torna a Bologna e vi rimane parecchi mesi accolto e vissuto dagli studenti universitari come un autentico poeta ispirato riuscendo a far convivere la sua stravaganza con la brillante goliardia felsinea. Ha già con sé i progetti poetici che confluiranno nella sua unica opera, i Canti Orfici. Frequenta l'ambiente della goliardia e gli universitari stessi gli propongono di pubblicare alcune poesie sui loro fogli e così Campana diventa ufficialmente un “poeta”. Alcuni dei suoi testi più importanti escono sul "Goliardo" e sul "Papiro", preannunciando il libro completo dei Canti Orfici che verrà pubblicato da una misera stamperia di Marradi solo nell'estate del 1914. Le Cafard – (Nostalgia del viaggio), è il titolo dato a un frammento il cui testo è composto da tre parti e le “rime assonanze onomatopeiche danno vita a un quadro sapido d’alghe marine, arioso di salsedine”. Nel titolo ci sono atmosfere dell’Africa francese, dei porti magrebini strappati alle flotte dei corsari barbareschi dalle truppe della Ancienne Légion étrangère negli anni in cui fu pubblicato il Dictionnaire, manuale scritto in lingua francese utilizzato dai soldati francesi per imparare e conoscere la lingua sabir e dialogare nei porti conquistati Marocco, dove i militi della Legione straniera sofferenti la noia e di malinconia, stavano dalle palizzate piantate fra le dune in contatto con il mondo esterno sparando con i loro fucili agli scarafaggi del deserto (les cafards). Il titolo del frammento era stato preso da Campana dal francesismo avoir le cafard – essere depressi o melanconici - allocuzione nata nelle colonie francesi dell'Algeria : un gesto causato dalla noia estrema, dalla tristezza, dalla malinconia; era l’inizio della depressione, della catatonia, di un disagio esistenziale5tema ricorrente nei suoi componimenti. Dino conosceva bene il significato più profondo di questo modo di dire francese tradotto in lingua inglese con I am blu: uno slang americano che trova la sua massima espressione nei canti malinconici della popolazione negra: il blues con la sua ricorrente blue note, la nota triste. La stessa cadenza armonica si ritrova nelle vidalitas argentine, nenie lente i cui i versi sono di tema amoroso e allegri, ma accompagnati da una musica triste. “In una sera dunque, mentre, dopo cena, si passeggiava sotto i portici solitari di via Farini, accennando in coro a stornelli 5
Lazare Sainéan.‐ Les sources de l'argot ancien – L.. Sainéa 1912
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toscano-romagnoli, ecco mettersi a capo del gruppo uno, improvvisamente apparso: aspetto campagnolo, tarchiato, capelli fluenti delle spalle alla decadente, barba corta rossigna, cappellaccio tondo e stivali rozzi, e con voce stentorea, alternata di toni gravi ed acuti – battendo il grosso tacco ritmicamente al canto – richiedere a gesti risoluti, imperiosi da noi una serietà ed un impegno da corale liturgico. Amava, come poi dimostrò, il canto, nel quale espandeva tutto sé stesso: canto popolare, portato giù dai suoi monti di Marradi e Palazzolo. E ne ricordava altri, primordiali nenie (dette Vidalitas), raccolte in Argentina, ma questi ultimi preludevano a tristezze gravi, improvvise, nelle quali s’immetteva taciturno.”6 Hölderlin, Goethe, Dürer, Novalis, Nietzesche, Beethoven, Wagner, sarebbero diventati i padri del Faust “giovane e bello” descritto dal Campana nel suo libro mentre andava in giro sognando nella notte italiana di Bologna. Sia chiaro che il termine poeta del mare non significa che è un marinaio poeta o meglio ancora un poeta marinaio anche se occorre sgomberare subito l’equivoco che può sorgere nel voler scrutare nella sua vita errabonda per cercare a tutti i costi dove e quando egli si sia imbarcato e quali tratti di mare abbia solcato con una nave o una barca, poiché nulla toglie o aggiunge alla sua grandezza. Per cercare di capire il rapporto che Campana ha con il mare occorre lavorare su quelli che sono gli indizi che si ritrovano nei suoi componimenti e nelle sue lettere. Cercare l’essenza del suo rapporto con il mare nella mappa del proprio territorio che egli descrive, senza andare a cercare le prove dei sui testi, alla sua tremenda vicenda umana e soprattutto alla sua vita “errante”, sapendo che i testi di Campana sono essi stessi il territorio in cui egli si muove e vive. In questa mia ricerca e contributo sulla sua esistenza di poeta marino come ho detto ci aiutano le sue “tracce” letterarie sul uso dei termini legati al mare e alla navigazione che seppure scarse – come per altro tutta la sua produzione poetica – per me sono sufficienti a comprendere al meglio la sua vita e come egli racconta attraverso “Questo antico idioma” non sempre spiegato dai marinai, ma da loro stessi compreso e tramandato con una esperienza sapienziale che sta nel conoscere l’arte del navigare e del vivere a bordo. In Mediterraneo il linguaggio dei porti è stato definito Sabir un termine tecnico che indica un insieme ben preciso di fenomeni, è lingua franca, cioè "lingua dei Franchi", come gli Arabi chiamavano indistintamente gli Europei Occidentali. Si tratta di una lingua costruita con i traffici di mare, e fra le onde e sulle banchine dei porti. Giorno dopo giorno, formatasi nella confluenza dei vari linguaggi occidentali, portati dai crociati e tenuta viva soprattutto dalla Milizia della Casa del Tempio e più ancora dall'ordine di San Giovanni Gerosolimitano. I Cavalieri di Malta rappresentanti le otto lingue degli Stati Europei. La lingua poetica di Campana non solo sconvolge l'ordine sintattico in vari modi: ma il suo componimento spesso è parziale un impasto fra le varie lingue che il poeta conosceva (francese, spagnolo, tedesco, inglese, oltre al latino e al greco, allora di norma per un italiano della sua cultura) 6
Mario Bejor – Dino Campana a Bologna (1911‐1916) – Ed‐ Società Tipografica Editoriale ‐ 1943
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E’ irrilevante stabilire se Campana fosse un marinaio per reggere il mare, tuttavia è incontestabile che nella sua scrittura la vita di bordo spesso è narrata come autentica testimonianza in mare e di bordo e la terra è raccontata da chi ha navigato. Una terra vista dal mare. Un altro punto di vista. Ecco cos’è la sua navigazione in mare; rappresenta non solo la vita di bordo e lo stare assieme ad altri in spazi ristretti ma racconta il modo concreto come si attraversa il mare. L’idea romantica di stare in mare per “diporto” in Mediterraneo non appartiene a Dino Campana, appartiene per primi forse a due grandi poeti inglesi: Percy Bysshe Shelley e Lord Byron. Questo ambiente incredibile, compreso fra la terra e il cielo, è la fonte d'ispirazione per Campana è il mondo del lavoro Per Campana è il porto, la vita di banchina, oppure è la terra che si allontana o si avvicina durante la navigazione o l’imbarco stesso. Chi sa cogliere la vita di mare e di bordo costruisce attorno a se il proprio mondo, anzi la propria visione del mondo. Terra e mare si uniscono e la divisione si annulla in un'unica percezione dello spazio. Si rompe il diaframma che ci separa dal mare. Come non accorgersi che in Viaggio a Montevideo non c’ è soltanto una implicita ammissione di un viaggio in Atlantico “Io vidi dal ponte della nave /I colli di Spagna/Svanire,nel verde/Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando/ Come una melodia…..” ma una rivoluzionaria interpretazione e descrizione del tratto costiero. Una innovazione visiva e letteraria non compresa da Ungaretti che arriva a negare l’esistenza stessa del viaggio di Campana in Atlantico forse per valorizzare il suo Levante in Allegria dei Naufraghi. È importante capire questo modo di interpretare la realtà del mare di un poeta italiano del Novecento poiché raramente capita e trovare nelle scritture questa rappresentazione della costa e attraverso il racconto della navigazione scrivere su ciò che accade a bordo e fra le onde. In realtà le poesie di Campana, anche se parlano di paesaggi e di fantasie, sono legate alle vicende di uomini e donne veri, alla storia di civiltà e di popoli. Dino Campana con i suoi Canti Orfici è fuori dai codici e dai canoni con cui un poeta del novecento italiano deve vivere e raccontare il mare. È un mare certamente non vissuto dai poeti, idealizzato, un mare sognato forse, un mare guardato dalla terra, immaginato, sconosciuto e ignorato oppure rimosso come fa Ungaretti, e lievemente agognato da Eugenio Montale il quale vivendo in un ruvido riparo ligure, luogo dimenticato delle Cinque Terre, poteva scrutare, ascoltare, registrare il respiro infinito del mare, l’urlo dei gabbiani, il concerto variato del vento. Pascoli deve affacciarsi alla finestra per raccontare il mare “M’affaccio alla finestra e vedo il mare; /vanno le stelle, tremolano l’onde:/Vedo stelle passare; /un guizzo chiama, un palpito risponde:” cosi come per D’Annunzio “Dilettevole, se altra mai, è la vista del mare, quando a giorno sereno egli è tutto placido e ripianato..” Quello di Campana è un percorso narrativo che ribalta i codici visivi e descrittivi; soprattutto consegna alla terra, anzi al territorio, altre connotazioni. Abbatte quel diaframma che divide la terra dal mare; forse lo ignora totalmente con la sua sensibilità poetica. Ma il mare gli entra dentro; anzi lo chiama. 15
In Viaggio a Montevideo come in quasi tutte le poesie marine si ritrovano tutti gli stilemi utili e necessari per definire Campana un poeta che sa raccontare sapientemente e magistralmente anche il rumore del mare. La nave e il porto, la vita a bordo, l’imbarco e lo sbarco, i colori della terra e del mare che cambiano, il mare e le vele e soprattutto il percorso della nave, la sua rotta rendono questo testo una testimonianza preziosa per scavare ulteriormente nel vagabondaggio attraverso il mare di Dino Campana. La rotta della nave, meglio ancora del piroscafo che parte da Genova è ben delineata nel suo testo e non si discosta molto dalla rotta atlantica per il Brasile e l'Argentina tracciata per primo da Cristoforo Colombo, che passava e passa per lo più nei pressi di Madeira e delle Canarie, con soste a Dakar, alle Isole di Capo Verde, fino a giungere all'Isola dei Fiori, di fronte a Rio de Janeiro, dove gli emigranti che sbarcavano venivano sottoposti a controlli soprattutto sanitari. Poi i velieri e bastimenti, costeggiando il Brasile, toccavano Vitoria, Santos -il porto di São Paulo-, Porto Alegre, per giungere finalmente, dopo una lunga, spesso pericolosa traversata, all’approdo alla foce del Rio di La Plata. Tutto quanto viene descritto da Dino Campana nel suo viaggio attraverso l’Atlantico ha una costruzione letteraria “visiva” e non “visionaria”. È un point of view della realtà che ti circonda in cui non esiste più la linea di confine determinata dalla separazione terra mare. “Io vidi dal ponte della nave/I colli di Spagna/Svanire, nel verde…” è l’incipit di Viaggio a Montevideo ma la stessa costruzione della frase si ritrova in La Verna con “Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte.” È un punto di osservazione analogo, assimilabile sia a bordo di una nave in mare, sia sulla vetta di un monte; a terra. Il mare, con la sua dimensione e la sua cultura, è entrato in Campana e non lo abbandonerà più. Queste identiche aperture iniziali con lo stesso verbo al passato remoto preannunciano nel primo caso “Dentro il crepuscolo d'oro la bruna terra celando Come una melodia: D'ignota scena fanciulla sola Come una melodia Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola”.. e nel secondo caso “Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare.” Vale la pena sottolineare che la tortora volava “leggera come una barca sul mare” una percezione visiva del galleggiamento di una imbarcazione che si ha in acque cristalline e talmente limpide da sembrare di essere sospesi sopra il fondale marino. In valli immensamente aperte. Con In viaggio a Montevideo Dino Campana racconta gli anni di maggiore trasporto di emigranti in viaggi transoceanici e le condizioni per la sicurezza di bordo erano apparentemente migliorate, con le imposizioni per legge alle compagnie armatoriali di assumere a bordo delle proprie navi un marconista e dare allo scafo una propulsione garantita da due eliche. Gli uomini venivano imbarcati in un ambiente sconosciuto che si rivelava essere un mondo ricco di suggestioni o di grandi disagi. Scriveva Edmondo De Amicis che il bastimento “continuava a insaccar miseria”. Era soprattutto la popolazione del Nord dell’Italia che si imbarcava e che si sperdeva fra i caruggi dell’angiporto si dava appuntamento nelle banchine del porto di Genova pronta per la grande avventura d’oltre oceano, “sopra il mare sconosciuto”: italiani che erano sono stati dei contadini e che, volenti o nolenti, l’emigrazione li faceva temporaneamente marinai pronti a solcare le onde dell’Oceano. Forse sarebbe stato più giusto definirli, con il termine anglosassone 16
di steerage passengers, una graziosa e contraddittoria definizione di passeggeri da stiva, di quelli cioè che avrebbero viaggiato nella parte più sporca e lurida della nave. Solo piccole minoranze hanno vissuto intensamente il viaggio in bastimento dal mare e sul mare rompendo il diaframma che separa l’acqua dalla riva. Era una comunità che navigava per la prima volta in oceano su scafi galleggianti dove il tempo sembrava essersi fermato, mentre con l’avvento della propulsione a elica si cominciava a respirare il profumo di un mondo che sembrava per la prima volta affacciarsi al rumore della modernità Dino Campana chiamerà tutto questo. “Passeggiata in tram in America e ritorno”: …Gli alti cubi della città si sparpagliano tutti pel golfo in dadi infiniti di luce striati d’azzurro: nel mentre il mare tra le tanaglie del molo come un fiume che fugge tacito pieno di singhiozzi taciuti corre veloce verso l’eternità del mare che si balocca e complotta laggiù per rompere la linea dell’orizzonte. Ma mi parve che la città scomparisse mentre che il mare rabbrividiva nella sua fuga veloce. Sulla poppa balzante io già ero portato lontano nel turbinare delle acque. Il molo, gli uomini erano scomparsi fusi come in una nebbia. Cresceva l’odore mostruoso del mare. La lanterna spenta s’alzava. Il gorgoglio dell’acqua tutto annegava irremissibilmente. Il battito forte nei fianchi del bastimento confondeva il battito del mio cuore e ne svegliava un vago dolore intorno come se stesse per aprirsi un bubbone. Ascoltavo il gorgoglio dell’acqua. L’acqua a volte mi pareva musicale, poi tutto ricadeva in un rombo e la terra e la luce mi erano strappate inconsciamente. Come amavo, ricordo, il tonfo sordo della prora che si sprofonda nell’onda che la raccoglie e la culla un brevissimo istante e la rigetta in alto leggera nel mentre il battello è una casa scossa dal terremoto che pencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro il mare tenace e riattacca a concertare con i suoi alberi una certa melodia beffarda nell’aria, una melodia che non si ode, si indovina solo alle scosse di danza bizzarra che la scuotono! E poi ancora .. C’erano due povere ragazze sulla poppa: «Leggera, siamo della leggera: te non la rivedi più la lanterna di Genova!» Eh! che importava in fondo! Ballasse il bastimento, ballasse fino a BuenosAires: questo dava allegria: e il mare se la rideva con noi del suo riso così buffo e sornione! Non so se fosse la bestialità irritante del mare, il disgusto che quel grosso bestione col suo riso mi dava.., basta: i giorni passavano. Tra i sacchi di patate avevo scoperto un rifugio. Gli ultimi raggi rossi del tramonto che illuminavano la costa deserta! costeggiavano da un giorno. Bellezza semplice di tristezza maschia. Oppure a volte quando l’acqua saliva ai finestrini io seguivo il tramonto equatoriale sul mare. Volavano uccelli lontano dal nido ed io pure: ma senza gioia. Poi sdraiato in coperta restavo a guardare gli alberi dondolare nella notte tiepida in mezzo al rumore dell’acqua.......... Riodo il preludio scordato delle rozze corde sotto l’arco di violino del tram domenicale. I piccoli dadi bianchi sorridono sulla costa tutti in cerchio come una dentiera enorme tra il fetido odore di catrame e di carbone misto al nauseante odor d’infinito. Fumano i vapori agli scali desolati. Domenica. Per il porto pieno di carcasse delle lente file umane, formiche dell’enorme ossario. Nel mentre tra le tanaglie del molo rabbrividisce un fiume che fugge, tacito pieno di singhiozzi taciuti fugge veloce verso l’eternità del mare, che si balocca e complotta laggiù per rompere la linea dell’orizzonte. La passeggiata in tram verso l’America Latina durava una ventina di giorni in un oceano trafficato dove senza sosta i piroscafi passavano dal Vecchio Continente al Nuovo Mondo e viceversa. Non è dato sapere quali passeggeri abbia frequentato Dino Campana in questo suo viaggio in America Latina, se esso sia stato compiuto in prima o in seconda classe o se abbia vissuto fra gli emigranti scrutando fra gli oblò del ponte di copertino che stava sulla linea di galleggiamento 17
“quando l’acqua saliva ai finestrini e seguiva il tramonto equatoriale sul mare., oppure sia stato in gruppo con loro,
gli emigranti, a cantare e soffrire, passando fra le donnine a pagamento che trovavano a bordo parte della loro prima ricchezza, se abbia vomitato il rancio, oppure se sia caduto a pezzi in branda come le stoviglie mal riposte che piombano a terra e che si schiantano come le onde percosse dalla prora della nave che avanza. Per Campana era pur sempre un viaggio in mare, presumibilmente in seconda classe, in un moderno piroscafo, e non in una vecchia carretta del mare, verosimilmente sistemato a prora con qualche centinaio di passeggeri della piccola borghesia italiana, distanti come censo dalla cinquantina di aristocratici e altezzosi passeggeri di prima classe ma vicinissimi al migliaio di emigranti che abitualmente se ne stavano stipati nella stiva. Con tutti loro si divideva soltanto il mal di mare che annullava i sessi e le distanze sociali, per poi riprendere una volta in porto l’aspetto normale subito negato da un arruolamento forzato che spesso gli emigranti ricevevano con le accoglienze di cattivi sensali che attraverso le organizzazioni umanitarie locali distribuivano il pane e il lavoro a quasi tutti i malcapitati che sbarcavano senza riferimenti certi. Alcuni erano accolti da parenti, altri venivano raggirati da volgari mestieranti che in cambio di qualche spicciolo garantivano un precario lavoro. Ad ogni sbarco seguivano le visite mediche e, se del caso, la quarantena per evitare il propagarsi di contagi epidemici sia agli emigrati, sia ai residenti. Diversi morbi colpivano spesso gli emigrati o rimpatriati dal Sudamerica, come il Beri-Beri e la Sifilide, il Vaiolo e il Morbillo, la Scabbia e la peste Bubbonica, la Difterite e la Pellagra e con il vapore era arrivata in Europa anche la filossera. Tutto era precario in mare ma era sempre un viaggio in attesa di uno sbarco a terra. La speranza dettava il primo approccio visivo con la nuova terra. Dal mare arrivava e partiva una diversa cultura. Campana arriva a Buenos Aires presumibilmente a bordo del piroscafo Ravenna il’17 novembre del 1907 quando la legislazione argentina stabiliva che gli immigranti erano quelli che arrivassero in seconda o terza classe con un vapore proveniente da oltremare. Non c’è nulla di scritto di Campana sulla sua mappa del soggiorno argentino, solo indizi, tracce. Scriverà Campana “Il bastimento avanza lentamente/Nel grigio del mattino tra la nebbia/ Sull'acqua gialla d'un mare fluviale/ Appare la città grigia e velata./Si entra in un porto strano. Gli emigranti/ Impazzano e inferocian accalcandosi/ Nell'aspra ebbrezza d'imminente lotta./ Da un gruppo d'italiani ch'è vestito/ In un modo ridicolo alla moda/ Bonearense si gettano arance/ Ai paesani stralunati e urlanti./Un ragazzo dal porto leggerissimo/ Prole di libertà, pronto allo slancio/ Li guarda colle mani nella fascia/ Variopinta ed accenna ad un saluto./Ma ringhiano feroci gli italiani” Campana ritrova le banchine dei porti, le balle, le botti, i quais,le vele a Buenos Aires si incontra al Boca con la comunità genovese e italiana fatta più di dialetti di persone che arrivano dalla vecchia Europa. Come risultato di grande immigrazione Buenos Aires, è in gran parte popolata da persone di discendenza europea, soprattutto italiani e spagnoli. Ritrova la “sua”Genova Gli uomini arrivati dalla penisola che popolarono La Boca, quartiere dipinto e colorato in modo variegato con le vernici rimaste nelle imbarcazioni, nei locali dell’angiporti dove si ballava la “milonga con cortes”, cioè il tango e lì Dino Campana incontra e conosce la cultura porteña e presumibilmente suona il pianoforte nei locali malfamati del Boca assimilando una nuova lingua: il lunfard. Un argot fatto da una serie di vocaboli che l’abitante di Buenos Aires, il porteño, utilizza in 18
opposizione alla lingua comune, lo spagnolo castigliano. In questo contesto Dino Campana conosce anche la creazione di una particolare forma di parlare cifrato ottenuto dalla inversione nell'ordine delle sillabe di una singola parola o frase, chiamata vésre, ossia l'inverso di revés, che significa 'rovescio'. Ecco che quindi, al vèsre, il tango risulta essere gotán, amigo dà gomía, cabeza è zabeca, leche con del café diventa chele con di feca mescolandolo a tutti i segni di comunicazione e di significazione tra i codici della malavita di Bueno Airese e dei genovesi con quelle innate regole del quartiere portuario de La Boca. I suoi inconsci inventori sono stati i milioni di immigranti, soprattutto italiani, che a metà dell’800 sono sbarcati nella capitale argentina, e lì si sono fermati in cerca di fortuna, in una babele fonetica e sintattica dove la parlata araba, greca, napoletana, toscana, spagnola, genovese si confondeva l’una all’altra, aggrovigliandosi e deformandosi. A livello linguistico l’unico problema era quello di farsi capire, qualsiasi fosse l’idioma parlato e Dino Campana, profondo conoscitore di quattro lingue trova invece un ulteriore forma lessicale per la sua poesia. Il lunfard è infatti l’antica lingua franca dell’emigrazione in Argentina, una forma di sabir occitano inventato nei porti del Mar de La Plata che mescola lo spagnolo con il dialetto genovese friulano, trentino, lombardo e piemontesi e lingue europee. Campana forse trova nella figura retorica e di ritmo di “le vele, le vele, le vele” - sul filo della contraddizione linguistica del revés o della vésre - un significato e una significante lessicale univoco di un termine italiano da introdurre nella cultura portena nel Golfo del Rio De La Plata quando tutti cercavano di trovare un modo per farsi comprendere, perdendo poco a poco le leggi della propria lingua senza trovare quelle del paese che li accoglieva. Per capire la radice della conoscenza del lunfard in Campana e del suo riferimento al “pensiero triste che si balla" (così disse il musicista Enrique Santos Discépolo), bisogna rifarsi alla “Fantasia su un quadro d'Ardengo Soffici”composta da Dino Campana dopo aver visto alla galleria futurista di Firenze nel 1913 la Tarantella dei pederasti rappresentata in una tela dove ci sono due figure una vestita da società e una nuda] che ballano fra le tavole, il pianoforte i becchi di gas le réclames di una bettola”. Nell'autobiografia, Soffici ricorda questo dipinto e la Buca Lapi, in cui si svolgevano quei ritrovi fra «gli amici di Oscar Wilde» che lasciavano lui e Papini «disorientati e pensosi» e porta direttamente Campana al tango, agli uomini che ballano con altri uomini, coppie di donne, donne che «conducono» il passo e uomini che fanno l'«ocho», il sensualissimo giro di gambe come se fossero ballerine provette. e alla sua lingua: il lunfard. Poi c’è l’atmosfera complice della Pampa. “Quiere Usted Mate? uno spagnolo mi profferse a bassa voce, quasi a non turbare il profondo silenzio della Pampa. – Le tende si allungavano a pochi passi da dove noi seduti in circolo in silenzio guardavamo a tratti furtivamente le strane costellazioni che doravano l’ignoto della prateria notturna. – Un mistero grandioso e veemente ci faceva fluire con refrigerio di fresca vena profonda il nostro sangue nelle vene: – che noi assaporavamo con voluttà misteriosa – come nella coppa del silenzio purissimo e stellato. Quiere Usted Mate? Ricevetti il vaso e succhiai la calda bevanda”
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A mio parere si è liquidata in modo sbrigativo, come una bevuta dissetante, il rito del mate raccontato da Campana annullandolo in una semplice azione fatta da emigranti fra le tende messe su nel cielo della Pampa. Su questo punto lo scrittore Argentino Jose Gobello, il più importante tra gli studiosi di lunfard, purtroppo scomparso l’anno scorso, sembra essere riluttante a considerare il mate come una “Zucca che prepara una infusione e serve da teiera" e vede in questo gesto la complessa ritualità di un gesto di amicizia o complicità che passa attraverso alla stessa infusione “che noi assaporiamo con voluttà misteriosa” come sostiene Dino Campana. Cos’è il mate una semplice bevanda o un gesto di amicizia la cui intensità viene misurata e sancita attraverso il passaggio della bombilla con cui succhiare la miscela dell’yerba de mate? Occorre rifarsi nuovamente al tango, ai tangueiros, alla loro sensualità, alla sessualità non sempre ben definita e alla cultura portena. “Tomá mate, tomá mate/tomá mate, mi china, tomá mate,/que en el Rio de la Plata/no se estila el chocolate.” Sono le parole di un vecchissimo tango. Qui la traduzione dei versi è necessariamente arbitraria; comincia con un invito a prendere il mate,diventa mio compagno per trasformare il mio modo di essere perché questa è la Cina di Buenos Aires dove il cioccolato è insolito. Jose Cobello sostiene che si debbono conoscere le implicazioni di questo atto apparentemente semplice. Se il mate è particolarmente freddo è segno di disprezzo, se è molto caldo è amore ardente, se il mate è acqua sporca è un invito a cambiare compagno di avventura. Ma anche nei rapporti amorosi il mate ha i suo codici: se è con acqua gassata significa "ti amo", se nel mate è aggiunto Cafe è un perdono per l'offesa ricevuta, con la cannella è come dire "ti penso", e se aggiungiamo spremuta d’arancio è un invito e una speranza. Ma se è servito amaro è segno dell'indifferenza, dolce però se è un segno di amicizia, ma il gaucho considerato un effeminato, ma era anche un segno di adescamento fra le strade dei travestiti della calle di Godoy Cruz nella Vecchia Palermo di Buenosa Aires. Bisogna partire da un detto che circola nel Centro e Sudamerica sull’origine delle popolazioni che quei luoghi abitano; recita il motto: “I centroamericani discendono dai Maya e dagli Aztechi; gli ecuadoriani e i perunensi discendono dagli Inca; i rioplatensi discendono dalle navi”:stanno in porto o vanno per la pampa. José Gobello, sostiene che il lunfard «non è né una lingua, né un dialetto, né un gergo; è un vocabolario composto da voci di origini diverse che l’abitante di Buenos Aires utilizza in opposizione alla lingua ufficiale». Prosegue sempre Gobello che «Esiste una lingua comune, una lingua accettata, una lingua decodificata dalla Reale Accademia Spagnola e i porteños mischiano parole proprie dentro questo contesto”. È una lingua secondaria come il Sabir. Dino Campana conosce e impara molto del vocabolario del lunfard – sarebbe fare un torto alla sua vivace intelligenza e spirito di osservazione non sempre compreso, quando decide di comporre Barche amorrate e dare questo titolo a una poesia - (titolo incomprensibile che invece si apre con il vérse o il revérs” Le vele le vele le vele per finire poi smorzate da un onda volubile in un ultimo schianto crudele. Viene subito da pensare che ci troviamo di fronte a barche che si arenano o che finiscono a scogli come si dice in gergo. Insomma sono barche che si incagliano con uno schianto crudele, quello del legno che si rompe, e non certo che si ammarano come si è sostenuto in passato. 20
Sul titolo di questa poesia non ci troviamo neanche di fronte a un errore tipografico del buon Bruno Ravagli, stampatore in Marradi che per una sua incomprensione di mestiere su quanto scriveva Dino Campana pretese che i testi dei Canti Orfici fossero consegnati dattiloscritti. Ci troviamo invece in una sintassi scorciata e contratta, spesso alogica, un lessico dove si mescolano lingua colta e lingua quotidiana, una lingua secondaria non conosciuta in Italia; un forte sperimentalismo e un sapiente dosaggio ritmico-fonico come a voler introdurre un termine porteño e dal lunfard nella lingua italiana. È una prova ulteriore della presenza di Dino Campana in Argentina Dino Campana fissa e coniuga al participio passato il termine lunfard amu[o]rrar con il soggetto barche, che altro non sono barche lasciate abbandonate o arenate. Barche amorrate appunto!!. Lasciate abbandonate e arenate Infatti secondo il vocabolario del lunfard di Jose Gobello, ma anche in altri vocabolari, il termine amu[o]rrar significa lasciare abbandonato, andare in secco, arenare, e solo chi ha armato una barca sa quando e in che modo la vela sbatte, schiocca e frusta al vento o si arena o va a scogli in uno schianto crudele come recita la poesia di Dino Campana interpretata, fino a ora solo da una critica letteraria principalmente terraiola. Proviamo a intendere il termine amorrate in barche lasciate abbandonate e la poesia diventa subito comprensibile Dino Campana rientrerà da solo “manovrando carbone” nel 1909 verosimilmente su un piroscafo battente bandiera italiana a Genova “vestito da marinaio, con una larga fascia colore azzurro legata alla vita” come sostenne la zia Giovanna. Le influenze letterarie del suo viaggio in Argentina non vengono subito colte dalla critica letteraria del tempo (provinciale) , vissute come suggestioni visionarie di un pazzo e non visive di un poeta più attento a tradurre i propri sensi in poesia che alla mediazione e rielaborazione ragionata. Anzi l’autore dei Canti Orfici, dopo la trasfigurazione faustiana in due novenari, Faust era giovane e bello, aveva i capelli ricciuti, da versatile frequentatore di generi viene fermato dalla critica letteraria lassù fra gli abeti fumosi della nebbia …tra lo sfondo delicato delle Alpi7.” Diviene così il cantore delle passeggiate tra i boschi. Un autore da rivisitare per il movimento letterario Strapaese dell’Italia fascista, intransigente, rivoluzionaria e antiborghese mai tramontata, diventando poi un banale strumento letterario per rileggere nel dopoguerra il paesaggio montano dell’Appennino Tosco Romagnolo dell’Italia repubblicana .
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La Notte – Canti Orfici
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