Emozioni e Coscienza di Paolo Pascucci
1. C’è questo signore qua, Derek Denton, professore emerito all’Università di Melbourne, fondatore dell’Istituto Howard Florey, il più importante centro di ricerca australiano sul cervello, come riporta il risvolto di terza del suo ultimo libro, Le Emozioni Primordiali (Gli albori della coscienza)[1]. Insomma, per farla breve, secondo voi chi ha più credibilità tra lui e me? Dico così perché, appunto, nel suo libro egli propone una teoria sulla coscienza simile alla mia, o io la propongo simile alla sua (come meglio vi piace), pur essendo sicurissimamente lui all’oscuro della mia esistenza o di qualsiasi mia teoria, ma essendo certamente anche io all’oscuro della sua, quando approntavo la mia. “Agiamo perché siamo ‘costretti’ dalle nostre emozioni.” Così si dice in quarta di copertina. Leggiamo qualche breve brano: “[…] questo libro intende presentare l’ipotesi che la coscienza sia emersa nel corso dell’evoluzione animale sotto forma di emozioni primordiali o primitive attivate soprattutto da recettori interni (enterocettori). Un’emozione primordiale è una forma impellente di eccitamento accompagnato da un’intenzione compulsava, che è progressivamente apparsa durante l’evoluzione in quanto altamente funzionale alla sopravvivenza di un organismo. Emozioni primordiali quali la sete, la fame, il bisogno di aria e il dolore segnalano che è l’esistenza stessa dell’animale a essere direttamente minacciata.” Ho letto solo le prime pagine e quindi potrei modificare il mio giudizio, ma egli non sembra ipotizzare un ruolo per l’instaurarsi della coscienza primaria alla ricostruzione motoria del mondo, quale correlato spaziale della coscienza, che è invece la mia ipotesi (simile a un’altra teoria che ho conosciuto solo dopo aver ipotizzato la mia, cioè quella detta Sensorimotoria di O’Regan e Noe, di cui vi parlerò in seguito). In sostanza l’emozione sarebbe un grumo di intenzionalità indistinta, mediato dalle sostanze chimiche, che assumono forma nello spazio grazie alla parte di sistema motorio che attivano (distinzione tra istinti innati e comportamenti appresi). Quindi, in definitiva, nella mia teoria, la coscienza è data dall’integrazione emozione-atto, quello che ho definito teoria emotoria della coscienza, giacchè l’emozione senza correlato spaziale è niente. Anche emozioni primordiali come le definisce Denton, secondo me, sono “sperimentabili” dal soggetto solo nel momento in cui agisce, cioè egli è l’emozione, e può essere l’emozione solo se riesce a indirizzarla verso qualcosa. In questo, la musica, per saltar di palo in frasca, è un serbatoio, al quale noi forniamo, di volta in volta e a seconda anche dello stato in cui ci troviamo, un correlato spaziale, solo che nel caso degli umani anche una ricostruzione sostituto motoria, cioè simbolica, vale quale spazio agibile, e in questo spazio non valgono sempre le regole di quello fisico-motorio. Fine della prima parte. Nel prosieguo bisogna parlare del ruolo della superficie corporea nella definizione dello spazio extracorporeo che rimandano tutti i sensi tranne il tatto, bisognerà capire se il grumo indistinto emotivo è in grado, di per sé, di fornire un abbozzo di coscienza, sul quale si è poi innestata la ricostruzione motorio (insomma, è come se dalla ruota si fosse passati direttamente all’automobile), capire cos’è e come avviene la ricostruzione spaziale e immaginare il ruolo dell’emozione quale propulsore e motivatore dell’atto. Ma, alla fin fine, non ho mica tanto da preoccuparmi, cose da chiarire ce n’è in abbondanza e forse le ipotesi di questo autore possono, più che competere, aiutare le mie. Adesso continuo a leggere, però vi avverto che io leggo piano. [1] D. Denton ,Le Emozioni Primordiali, Bollati Boringhieri 2009.
2. Nel suo lavoro A Cognitive Theory of Consciousness (1998)[1], Bernard Baars propone una definizione operazionale della coscienza. “Baars si domanda a partire da che cosa una qualsiasi persona ragionevole possa convenire che qualcun altro abbia vissuto una certa esperienza: quale evidenza oggettiva si può avere, ad esempio, del fatto che una certa persona abbia visto una banana? Si ha coscienza di un evento a) se immediatamente dopo di esso la persona che l’ha visto può dire di esserne cosciente e b) se è possibile, indipendentemente dalla persona implicata, verificare l’esattezza di ciò che ha riferito.”[2] Provo a immaginare cosa farebbe un animale qualsiasi di fronte a una banana, e come noi potremmo accorgerci che egli ne ha consapevolezza. Egli agirebbe. Si avvicinerebbe, annuserebbe e, a seconda dell’animale, la mangerebbe o la lascerebbe lì. Però potrebbe anche non fare nulla di tutto questo, potrebbe non rappresentare nulla di interessante per lui da investigare e egli, pur diventandone consapevole, non manifesterebbe esteriormente questa sua consapevolezza. Quello che facciamo noi umani, secondo quanto dice Baars: “[…] per quanto riguarda gli essere umani, Baars precisa quattro componenti di questa operazione: la coscienza di un evento; la capacità retrospettiva di effettuare il richiamo dell’evento alla coscienza ogni qual volta lo si desideri; la capacità di ricodificare (ovvero simbolizzare) l’evento con il parlato o la gestualità e, infine, la capacità di compiere volontariamente questi discorsi o gesti.”[3] Il modo di vederla e prenderne coscienza, sarebbe simile, per esempio, tra noi e un cane? Probabilmente no, perché le dimensioni relative, tra le altre cose, hanno la loro importanza. Ho visto un filmato naturalistico in cui la documentarista affrontava dei ghepardi. Nulla di eccezionale, i ghepardi sono animali piuttosto timorosi e non riuscivano a sostenere lo sguardo della documentarista, né avevano il coraggio di avvicinarsi. E se lei tentava di avvicinarsi a loro, si allontanavano. Tutto questo se restava in piedi, perché se si abbassava e diventava “più piccola” acquistavano subito coraggio e si facevano sotto. Del resto ognuno di noi riesce a osservarlo su di sé, o meglio, sui suoi ricordi. Quante volte, rivisitando un luogo dell’infanzia, esclamiamo: me lo ricordavo più grande? E’ uno notazione che avevo già fatto ma ve la ripropongo, e ha a che fare, secondo me, con la famosa ricostruzione motoria del mondo basata sulle capacità motorie del soggetto, che sono in funzione delle dimensioni e della competenza motoria assoluta (capacità coordinativa, forza muscolare, rapporto peso-potenza e così via). È pur vero che i collegamenti tra mappa somatosensoriale e mappa motoria non mutano all’aumentare delle dimensioni, ma è senz’altro vero che invece la relazione tra propria dimensione e mondo esterno varia, così come tra le capacità motorie e l’ambiente. Questi due fattori sono in grado di modificare la nostra comprensione o consapevolezza del mondo, e di farci ritenere come irraggiungibile (rispetto alla nostra età, per esempio) la banana dell’esempio, se posta in cima a una pertica. E non solo la sua raggiungibilità sarebbe inficiata, ma anche la consapevolezza generale dell’oggetto, anche se non ne sarebbe modificata la sua percezione assoluta. Abbiamo introdotto due concetti, relativo e assoluto, in funzione di alcuni parametri, fisici e non, dell’osservatore. Vediamo di svilupparli. Quando rivisitiamo un luogo dell’infanzia, come detto, lo notiamo solitamente più piccolo a come ce lo ricordavamo, che dovrebbe essere più o meno anche come ne avevamo consapevolezza da piccoli. Pure non manchiamo di riconoscere luoghi e oggetti e anche persone, anche se in formato ridotto. Vi è dunque differenza, tra il riconoscimento assoluto di luoghi e oggetti e quello relativo degli stessi luoghi e oggetti riferito a come ce lo ricordavamo? Da una parte noi abbiamo una consapevolezza che si tratta degli stessi luoghi e oggetti, e dall’altra che sono diminuiti di formato. L’invarianza ricostruttiva rispetto alla variazione
percettiva rende conto della costanza della consapevolezza anche dopo una variazione dimensionale che potrebbe alterare il riconoscimento. Questo comporta che nel riconoscimento, non utilizziamo solo il rimando sensoriale come guida ma almeno un altro fattore, che sarebbe la quantità motoria associata a un evento. Pensate per un attimo a un uomo e al suo cane: l’uomo è riconosciuto principalmente, ma non solo, con l’odorato. Obiettivamente però l’umano non avrà sempre addosso solo e soltanto i suoi odori ma potrebbe usare ogni giorno un deodorante diverso, oppure essere bagnato, oppure indossare abiti non suoi o quello che vi pare: pure, nell’insieme odorifero il cane riconoscerà l’odore del padrone e su quello baserà il riconoscimento. Deve esserci, quindi, collegato a quell’odore riconosciuto, magari in mezzo a tanti altri sconosciuti, un qualcosa che garantisce che è proprio quell’odore verso il quale abbiamo un certo atteggiamento e certi sentimenti. Lo riprendiamo dopo. “Edelman (1992) definisce la coscienza primaria come la capacità di costruire una scena mentale integrata nel presente. Essa non richiede il linguaggio né un vero e proprio senso del sé, ma è basata sulla categorizzazione percettiva di segnali visivi e di altre informazioni sensoriali relative al mondo esterno. Nella definizione di Edelman, la percezione corrisponde al discernere un particolare oggetto o evento tramite uno o più sensi; si basa sulla capacità di separare quell’oggetto o evento da tutto il resto di ciò che nel mondo esterno, in un determinato momento, viene colto attraverso occhi, orecchi e naso.”[4] Edelman intende la categorizzazione come la definivo sopra, cioè invariante rispetto alla percezione, allo stesso modo in cui, come dice, riconosco una sedia come qualcosa su cui ci si siede, indipendentemente se ha tre o quattro gambe, due o tre sbarre trasversali e così via. A questo proposito, Denton cita il lavoro di Herrnstein e Loveland (1964)[5] e Herrnstein, Loveland e Cable (1976)[6] sui piccioni. I piccioni dovevano riconoscere le figure umane, rappresentate da bersagli diversi, come un bambino, un volto di profilo, un uomo di spalle e così via, in mezzo a decine di fotografie di altri oggetti. In seguito al riconoscimento corretto venivano premiati con del cibo. Il riconoscimento avveniva l’80% delle volte. Dunque anche i piccioni riconoscono delle invarianti rispetto alla mutevolezza del percetto, qualcosa che si può categorizzare come “umano” e al quale sono legate, secondo me, un insieme di possibilità motorie che effettuano il riconoscimento. [1] B.J. Baars, A Cognitive Theory of Consciousness, Cambridge University Press,
Cambridge-New York 1988
[2] D. Denton ,Le Emozioni Primordiali, Bollati Boringhieri 2009 p. 25 [3] Op. cit. p. 25. [4] Op. cit. p. 26. [5] Herrnstein R.J., Loveland D.H., Complex visual concept in the pigeon, in Science, 1964,
146, pp. 549-551. [6] Herrnstein R.J., Loveland D.H., Cable C., Natural concepts in pigeon, in Journal of Experimental Psychology Animal Behaviour Processes, 1976, 2, 285-302.
3. Piccolo excursus: mi viene di collegare l’invarianza di consapevolezza rispetto alla variazione percettiva, all’invarianza topologica della superficie corporea rispetto alla variazione degli stimoli tattili che possono verificarsi su quella superficie. Nel caso della pelle, la topologia ha funzione ricostruttiva, in quanto in un medesimo e invariante punto della nostra pelle noi possiamo provare sensazioni diverse, come solletico, dolore,
sfioramento e così via. Abbiamo dunque consapevolezza che avviene sulla nostra superficie corporea, mentre l’intensità del contatto è la variazione percettiva, che varia al variare dello stimolo. Ecco ancora Denton, sull’origine della coscienza: “Sono convinto che all’origine della coscienza vi siano le forme impellenti di eccitamento e le conseguenti spinte insopprimibili ad agire che caratterizzano le emozioni primordiali. Il termine ‘primordiale’, o primitivo, applicato a queste emozioni traduce l’elemento soggettivo del comportamento istintivo necessario per il controllo dei sistemi vegetativi dell’organismo.”[1] Dunque, le prime, informi, emozioni, che null’altro sarebbero se non istinti che regolano il sistema vegetativo, quello sul quale non abbiamo (forse) possibilità di influire volitivamente, sarebbero la prima forma di coscienza, in pratica la prima “forma” che indirizza il comportamento. Ecco cos’è la coscienza per me, una forma che indirizza. O bella, ma allora avremmo tante coscienze quante sono le forme che ricostruiamo, mano a mano che ci muoviamo nel mondo? Sissignore! E allora perché avrei tirato fuori la topologia, e la sua invarianza dell'ente al variare continuo della forma? La coscienza è una forma, o meglio, è un paesaggio motorio di forme, che mutano continuamente ma che si riferiscono sempre allo stesso oggetto, l’individuo. Questa generazione di forme prende benissimo il via dagli istinti, che sono forme pre-confezionate, che la natura ci regala già pronte, affinché noi le si possa usare per dare l’inizio all’acquisizione di informazioni e a apprendere. Come si riesce a stabilire la corrispondenza tra oggetto originario con una certa forma e le forme che successivamente prende, sì da mantenere la medesima identità? Cioè: la forma che prende all’inizio della sua vita è l’oggetto originario. Da questa somma (oggetto+forma) scaturisce un sé, che ha diversi modi di manifestarsi. Il linguaggio è una forma di manifestazione, ma è anche un vincolo, insieme. Quindi, a rigor di logica, secondo quanto affermo, noi siamo, almeno inizialmente, grumi emotivi vegetativi, che nell’istante in cui collassano in forme istintive, iniziano a formare la coscienza primaria. Dunque, la coscienza primaria, è:…un po’ di suspence. La coscienza è: qualcosa che indirizza. Si consideri un organismo senza nessun livello di coscienza. Egli non sarà in grado di agire nei confronti dell’ambiente, alla ricerca del cibo, e dunque sarà un organismo crescente, un organismo radicato. A questo livello egli non ha bisogno di qualcosa che spinge a agire, perché ciò di cui ha bisogno viene a lui: lasciate che lo cose vengano a me, sembra dire. Si consideri ora un organismo che deve inseguire il cibo. Egli avrà bisogno di recettori per il cibo: quando il cibo si lega ai suoi recettori, si attivano delle risposte chimiche con compiti diversi, dall’annettersi il cibo al dirigersi nella sua direzione. Cos’è che spinge questo primordiale organismo? Egli non se ne sta fermo, ma si muove. E si muove casualmente, cambiando direzione a intervalli più o meno regolari. Quell’energia che alimenta il suo motore interno è la sua coscienza minima, e potrebbe regolarsi così. (to be continued...) [1] Op. cit. p. 27.
4. Si immagini il movimento casuale come manifestazione di una volontà senza padrone. Questa volontà cioè non è di nessuno. Quando l’organismo incontra gradienti attiranti o repellenti, il legame ligando recettore innesca le modifiche chimiche interne. Quella
modifica “indirizza” il comportamento. In quell’indirizzamento si manifesta una forma di coscienza. Questo nostro piccolo organismo non ha sensori di superficie che lo avvertano di oggetti che premono sulla sua membrana. Egli in realtà scivola trasversalmente su una superficie che lo ostacola, egli scivola via da ogni ostacolo, perché non gli interessa sapere dove si trova o con chi ha a che fare, a meno che le informazioni provenienti da ciò che lo circonda non si leghino ai suoi recettori di membrana. Durante l’esecuzione di movimento casuale egli non ha coscienza, forse potrebbe averne nel momento della variazione che costituisce pur sempre una variazione di stato. In pratica, sinchè perdura l’inerzia motoria egli non è in grado di conoscere e conoscersi perché il suo mondo è uniformemente percepito. Quando interviene una variazione egli ha la possibilità di comprendere la variazione rispetto a, rispetto cioè al suo moto uniforme, e instaurare una consapevolezza, la consapevolezza, in questo minimo caso, è la presenza dell’oggetto desiderato o da sfuggire. Che mondo vede e che coscienza ne ha? Senza dubbio minima. Proviamo a immaginarla. Immaginatevi di essere un batterio. Tutto il mondo intorno a voi è di una uniformità esasperante. Voi non distinguete nemmeno fra voi e il mondo esterno, figurarsi il mondo esterno. Improvvisamente questa uniformità è interrotta da qualcosa. Cosa vogliamo mettere: una luce, un suono, insomma non so come trasferirvi il concetto di sostanza chimica. Diciamo una luce, va. Nella vostra uniformità nera appare una luce: voi siete la luce. Voi prima avevate vettori direzionali in ogni direzione dello spazio, ma non sapevate quale direzione era attiva in un momento dato, o meglio, non eravate la direzione attiva in un momento dato. Nel momento in cui un gradiente chimico fa scattare la scelta direzionale, voi siete la direzione, il nuovo vettore direzionale. Direte voi: perché adesso si e prima no? Ammettiamo che io stia viaggiando lungo una strada senza sapere dove mi trovo e in quale direzione sto viaggiando, se sud, nord, est o ovest. Senza saperlo consciamente so però qual è la mia meta. Al primo cartello indicatore io avrò consapevolezza di dove mi trovo. Se il cartello dice SUD A SINISTRA, io saprò che devo girare a destra , perché voglio andare a nord e so pure che sto provenendo da est e di fronte a me c’è l’ovest. Io sono dunque colui che va al NORD, ho un sistema tarato per il quale, non appena l’ambiente mi fornisce un’unica informazione, io so quale direzione prendere. In termini di colori potremo ragionare così: il mio mondo è uniformemente bianco in ogni direzione e anche io sono bianco. Se vedo una macchia nera (quando il ligando si lega al recettore) da una parte mi dirigo dalla parte opposta. Il mio mondo è bianco-nero, la mia coscienza è: dalla parte opposta della variazione. Io sono tutto il mondo e tutto il mondo è uniformemente uguale, tranne quando percepisco qualcosa, quel qualcosa è il legame di un ligando ai miei recettori. Si può benissimo intendere l’organismo come prossimo, dal punto di vista della coscienza (che, in astratto, potremo definire come l’insieme di istruzioni per distribuire delle quantità di moto), all’ambiente, fino al momento in cui non interviene una perturbazione, che “sveglia” l’organismo dal suo torpore gnoseologico. Quando un organismo sa, perché è intervenuta una variazione, egli conosce sia la nuova strada che quella da cui proviene. Per rispondere alla domanda fatta sopra: perché adesso si e prima no? vi dirò che è appunto perché è intervenuta una variazione che l’organismo conosce e diventa, se pur minimamente, consapevole. Egli non sa altro che questo: prima era il perdersi nell’infinita similitudine delle cose, ora finalmente vedo un po’ di luce.
5.
Riprendiamo da Denton: “Il prodursi di un’emozione primordiale segnala che l’esistenza dell’organismo è minacciata. Esempi di ciò possono essere la sete causata dalla disidratazione, la sensazione di soffocamento o il pressante bisogno d’aria che si verificano con lo strangolamento o per qualsiasi altra ragione che impedisca di respirare.”[1] Direte voi: dove sta la relazione con movimento uniforme e variazione? Qui si parla di un’emozione primordiale che avviene all’interno del corpo! Ma è appunto la variazione della concentrazione dei soluti, o dello stato trofico di un organo o qualsiasi altra variazione, che segnala la necessità dell’intervento dell’organismo intero, e non di una semplice reazione chimica o fisica, come per esempio la presenza di cibo in bocca che stimola la produzione di saliva e enzimi. Il sistema nervoso vegetativo forma la coscienza primaria per eccellenza. Nell’uniformità del susseguirsi delle reazioni chimiche, si intromette lo stato di allerta in conseguenza di un bisogno. A noi interessa sapere cos’è, questa variazione, e in che modo possa assurgere a ruolo di coscienza, nel senso che normalmente l’intendiamo noi, e cioè: se un attimo prima di provare un bisogno e scatenare la variazione dello stato neurale l’organismo non possedeva coscienza di sé, cosa interviene dopo affinché si crei questo genere di consapevolezza? Secondo me, la coscienza inizia con qualcosa di semplice. Però non possiamo intenderla se non ci focalizziamo sull’aspetto fondamentale: qui l’organismo non ha coscienza di sé attraverso uno schermo sul quale vede cosa gli succede, non è così che funziona. Se ci liberiamo dell’aura mistica che circonda uno stato di coscienza primaria e tentiamo di definirlo unicamente come sistema di pilotaggio di un organismo, allora possiamo fare qualche progresso. Questo sistema non è qualcosa che è calato all’interno di un organismo (anche se dal punto di vista anatomico è così) e da lì comincia a funzionare, magari con una centralina nella quale sono inseriti tutti i dati. La coscienza è il sistema stesso. La coscienza è il movimento stesso. Ma, al tempo, che genere di movimento? Non il movimento casuale ma il movimento finalizzato. Fintanto che perdura il movimento casuale l’organismo non ha necessità di essere consapevole della separazione che intercorre tra lui e il mondo, appunto perché per lui un luogo vale l’altro, egli perlustra tutto lo spazio disponibile con un sistema fisso e immutabile alla ricerca di cibo. Solo nel momento in cui un ligando si lega al suo recettore egli acquista un barlume di coscienza. Certo, è una micro-coscienza, niente di paragonabile alla nostra o a quella di un animale. Però necessariamente, o meglio, obbligatoriamente, si instaura, non appena avvenga una reazione tra la superficie dell’organismo e il mondo esterno, tale per cui si realizzano una serie di eventi chimici. La variazione modifica il sistema in maniera reversibile. Ammettiamo che l’output di un sistema S sia aaaaaaaaaaaa sempre e comunque; il sistema non ha bisogno di un vocabolario del significato di a, perché il suo output è sempre a, sempre e comunque. Il sistema S è però dotato di un recettore b; nel momento in cui le condizioni esterne consentono un legame con il recettore b l’output di S diventa b,e mantiene questo output finchè perdura il legame con il recettore b, per cui la sequenza di atti potrebbe essere questa: aaaaaaaaaaabbbbbaaaaaaa…Ora, è chiaramente insufficiente affermare che la sola variazione costituisca un elemento sufficiente a definire il concetto di coscienza, perché occorre che questa variazione trovi un posto privilegiato all’interno del sistema S, in modo da costituire, a suo tempo, uno stato del sistema anche in assenza di un legame ligando-recettore. Infatti, questo stato ipotetico b potrebbe venire indotto anche da un qualsiasi altro stato n, che si instaura per un legame ligando-recettore, e essere collegato allo stato b, così da attivarlo. Il sistema S sarà così aaaaaaaaaaannnnnbbbbbaaaaaaaaa: quella parte in neretto è, per me, la coscienza. È normale però che sinchè l’organismo è dotato di recettori e non di organi sensoriali, egli potrà anche rispondere con un output solo nel momento in cui avviene il legame con il recettore. Abbandoniamo il nostro organismo monocellulare e prendiamone uno arbitrario. Egli è dotato di un sistema muscolo scheletrico rudimentale e un altrettanto
rudimentale sistema nervoso. Ipotizziamo anche qui l’esistenza di un unico output di base a. Egli è pure dotato di un organo sensoriale K. Quest’organo consente di rilevare le colonne verticali V lungo il suo cammino rettilineo a. Quando incontra le colonne verticali V e ne risulta un impedimento all’avanzamento, il nostro organismo modifica la sua configurazione portando uno dei suoi bracci, quello che non è a contatto con il suolo e che può raggiungerlo, a toccare terra, e da quel nuovo punto di appoggio riprende il suo movimento (vedi Fig. 1).
Se la linea retta a rappresenta tutte le direzioni percorribili (avanti e indietro in senso orizzontale) non ha senso per lui possedere consapevolezza dei suoi stati. La sua strategia è quella di muoversi in tutte le direzioni permesse e quando incontra del cibo, mangiarlo. Se però quando incontra un ostacolo egli tenta di scavalcarlo, modificando il suo assetto, e non ritorna semplicemente indietro, allora quel cambio di assetto è una forma primitiva di coscienza, dalla quale origina questo abbozzo di coscienza ipotizzato in Fig. 2, Fig. 3 e Fig. 4.
[1] Op. cit. p. 28.