La questione della decisione

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La questione della decisione di Paolo Pascucci


XV. La questione della decisione Premessa. Questo post è un po’ lungo. Se farete fatica ad arrivare alla fine o abbandonerete prima non avrò raggiunto il mio scopo: interessarvi. Si noti che l’intento di questo lavoro ricade all’interno del meccanismo che cerco di spiegare. La convinzione che ciò che state leggendo è interessante deve coinvolgervi emotivamente e rappresentare una novità. La risposta a quella novità ed emozione che scateneranno queste righe sarà la convinzione che siano importanti da leggere, da cui la consapevolezza interiore che siano interessanti. La decisione di rimanere incollati al testo fino alla fine, sino allo scoprimento dell’arcano è imputabile a quella parte del nostro cervello che sola può farci compenetrare da un concetto o evento sì da crederlo vero e reale, l’emisfero destro (si considerino, per esempio, i casi di emineglect, in cui il soggetto con traumi all’emisfero destro non riesce a vivere come propri gli arti sinistri, sì da denunciare un complotto ai suoi danni consistente nell’averglieli attaccati a sua insaputa). La decisione di leggere e l'autoconsapevolezza dell’interesse che suscita la materia sono figlie del modello di decisione dell’emisfero destro in situazioni nuove ed emotivamente connotate. L’assenza di decisioni contrarie, quali ad esempio ripensamenti sul modello di auto da comprare o sul colore migliore della tinteggiatura, sono indice della emergenza di questa consapevolezza come di una cosa vera e reale, una credenza appunto, una convinzione che coinvolge tutto noi stessi. Buon divertimento. Credenze e convinzioni. In molti articoli ho cercato di immaginare una risposta a una domanda che mi assilla: che accade a qualcuno quando crede in qualcosa? Io credo che tizio, sindaco di X sia un perfetto galantuomo e che tutte le illazioni uscite sui giornali non siano altro che una campagna di stampa diffamatoria orchestrata dagli avversari politici. Io credo che in un certo attentato non ci sia la mano di misteriose forze terroristiche ma degli stessi governanti dello Stato in cui è avvenuto. Io credo che sistemi di trasporto perfettamente ecocompatibili siano già stati preparati ma che le potenti lobby petrolifere li abbiano acquistati e li tengano nascosti in attesa che si venda tutto il petrolio. Faccio questi pochi esempi al limite tra realtà e fantasia solo per focalizzare il tipico sistema di pensiero di chi crede, in cui le varie convinzioni non sono il risultato di una scelta tra opzioni con diverso peso ma sembrano la conseguenza di una persuasione intima, un tutt’uno con il proprio Sé. Lo stesso accade anche a chi è iscritto a un partito, a una confraternita, a chi fa parte di un club, di un’elite, insomma, con diversa misura, a tutti quelli che hanno fatto una scelta. Il tema della scelta (inconsapevole a volte) in chi crede fermamente, è convinto con tutto se stesso di qualcosa, è per me fondamentale. Il fatto che spesso la scelta sia inconsapevole mi fa pensare che non avvenga a livello della coscienza verbale. Vi propongo questo piccolo esempio: in una discussione, anche accesa, con qualcuno, se il nostro interlocutore afferma qualcosa che è in contrasto con quanto detto da noi, e che ci fa sentire aggrediti, è più facile che, pur di contrastare questa sua affermazione, effettuiamo quella che si chiama una confabulazione, cioè neghiamo la realtà, inventiamo di sana pianta, giochiamo con le definizioni, pur di non ammettere che ha ragione, la cui conseguenza sarebbe una nostra (presunta) figuraccia. In questo esempio, vi sono due aspetti da considerare: ognuno dei due interlocutori ha la sua opinione e, se queste opinioni divergono, sorgono contrasti. È un po’ come una difesa territoriale, lo spazio vitale intorno al nostro corpo che non può essere invaso, e così ci difendiamo, confabulando, da questa aggressione che mira a destabilizzarci.


È da dire che l’intensità del contrasto è inversamente proporzionale all’affiatamento e alla simpatia reciproca dei due soggetti, all’importanza del tema di discussione e così via. Sta di fatto che, in condizioni ottimali, le opinioni divergono e sono sostenute anche contro ottime ragioni dell’altro. La cosa, mi sono chiesto, cambierebbe se, invece di discutere animatamente con le opinioni di un altro, noi le leggessimo? La mancanza di un interlocutore umano, con tutto il suo repertorio di segnali corporei e motori, la sua presenza fisica, che già da sola è in grado di indirizzare simpatie e antipatie, potrebbe inibire la risposta emotiva e far risaltare quella razionale, in cui ciò che conta è la comprensione dei fenomeni? Attenzione però, che anche nel leggere, cioè nel confrontarsi con un testo scritto invece che con un umano in carne e ossa, non è detto che siano assenti le implicazioni emotive. Il tema è legato alla scelta, alla decisione. Quando discuto con una persona reale, in ogni momento devo prendere decisioni in base ai segnali che l’altro mi invia. È una cosa nota a tutti che certe persone sconosciute, la prima volta che le incontriamo possono starci simpatiche o antipatiche all’impronta, senza che sappiamo neanche bene perché e che questa conoscenza implicita condiziona anche il nostro atteggiamento futuro nei loro confronti. Una discussione animata tra due persone che non si piacciono comporta una serie di atteggiamenti di difesa e aggressione in cui, dei due sistemi abitualmente usati per inviare segnali e modificare l’ambiente, l’emozione e razionalità, la prima vince sulla seconda. In più: la razionalità (per esempio una passione scientifica) può essere emotivizzata (trattasi di neologismo, ndr), ma un’emozione può essere razionalizzata? Entrambe le cose sono possibili: come detto, lo studio della matematica può essere una grande passione emotivamente coinvolgente e la vendetta è un’emozione trattata con lucida freddezza, a volte. In più ancora: si sostiene che la razionalità appartenga all’emisfero sinistro e l’emotività a quello destro, in linea di massima, ma si sostiene anche che l’emisfero destro si occupa di quei fenomeni nuovi, non ancora affrontati e quello sinistro invece è utilizzato per la gestione delle consuetudini. I due emisferi. Ma allora vale la relazione emisfero destro=emozione=novità? O meglio, come suggeritomi: emisfero destro -> emozione -> novità e, dall’altra parte, emisfero sinistro -> razionalità -> consuetudine ? Cerchiamo di fare ordine. Perché le situazioni nuove dovrebbero essere pertinenza dell’emisfero destro e cioè dell’apparato emotivo? E perché non potrebbero essere gestite altrettanto bene dall’emisfero sinistro, specializzato nelle conoscenze certe? Qui ritorna il problema della decisione. Le emozioni sono, di solito, scatenate da stimoli di una certa intensità. L’amore, la rabbia, il disgusto, non si provano, rispettivamente, in maniera tiepida e compassata per una persona anonima che non ci scatena niente, per un individuo che vediamo per la prima volta per 5 secondi e poi scompare dalla nostra vita o per una minestra insipida ma mangiabile. Amore, rabbia e disgusto si provano per fenomeni intensi, che producono un cambiamento, al quale poi vogliamo poi dare un nome. Ecco, allora, le emozioni richiedono decisioni rapide e opportune. Emerge quindi la differenza del meccanismo d’azione dei due emisferi: non è che noi siamo sorpresi dall’emozione amore o rabbia o disgusto, che già conosciamo, già abbiamo sperimentato, e quindi ricadrebbe in ambito abituale, è che la situazione nella quale la sperimentiamo è nuova, e tutto l’insieme di circostanze, seppure singolarmente affrontabili, nel loro insieme rappresentano una novità, e per essere affrontate al meglio necessitano di euristiche più che di algoritmi.


Siamo già stati innamorati, ma ogni volta la cosa ci prende, e così per la rabbia e per il disgusto. Certe situazioni ripetute, per esempio la gestione di anziani disabili in istituti di ricovero, fa assopire alcune emozioni che invece si presenterebbero con grande forza in chi le vivesse per la prima volta. È lo stesso che accade le prime volte ai giovani medici, quando devono fare un’autopsia su cadavere. Allora: abbiamo detto che una situazione nuova, emotivamente connotata, richiede risposte dall’elevato impegno emotivo e che avvengano in tempo piuttosto ristretti. Se non altro, la risposta fisiologica del corpo si verifica in tempi rapidi, mentre quella motoria può anche subire un ritardo. L’essenza del ragionamento è questa: novità ed emozione implicano una serie di decisioni veloci, pronte. Non è tanto il tipo di risposta ad essere nuovo ma è l’adattabilità decisionale alla novità che implica la presenza dell’emisfero destro. Infatti, le risposte su base emotiva sono per lo più standardizzate, appartengono al repertorio filogenetico, oppure sono apprese ma sono comunque stereotipizzate. Ciò che serve è la capacità di decidere in tempi rapidi e questo lo può dare in maggior misura l’emisfero destro. La presenza dell’evento che si verifica nel momento in cui siamo presenti ci impone decisioni veloci associate alla certezza di cosa siamo e come dobbiamo rispondere. Nel momento del colpo di fulmine, della scintilla folgorante non sto a chiedermi ma cosa sto facendo?, non penso che sono già sposato con prole, mi innamoro punto e basta, sono preda delle mie decisioni repentine, quelle in grado di affrontare situazioni nuove e impreviste. In quel momento io ho una credenza, una convinzione che è tutt’uno con me stesso: sono innamorato. Immaginate ora che vicino a noi, nell’istante in cui accadono questi eventi, sia presente un nostro caro amico, al quale confidiamo questo improvviso sentimento. Hai voglia a dirci ma no, guarda che è solo un’infatuazione, una cosa passeggera, c’hai moglie e figli ma cosa vai a pensare e via dicendo (cioè, mi rappresento una situazione a metà strada tra il credibile e l’incredibile; anche qui, come in ogni situazione, l’atteggiamento dell’amico risentirà di tutta una serie di precondizioni di cui deve essere a conoscenza affinché decida di dissuaderci o incoraggiarci), abbiamo la completa consapevolezza di essere innamorati, che non è solo per la procacità della tipa, che è qualcosa di forte e intenso e bla bla bla. Ecco, io credo che le convinzioni abbiano tutte, più o meno, queste stesse caratteristiche: le forti convinzioni implicano cioè una serie di modelli di comprensione e azione sulla realtà che presentano poche varianti procedurali e tendono a eliminare i circuiti sottorappresentati. Adesso mi tocca spiegare cosa intendo per varianti procedurali e circuiti sottorappresentati. Con la prima locuzione intendo le varianti che noi mettiamo in atto nella nostra vita per sconfiggere la noia: un amplesso con la nostra partner abituale modificando l’esecuzione o il luogo; prepararsi il pranzo variando la ricetta del solito tipo di pasta; farsi un’ora di bicicletta invece che sui rulli per strada. La variante procedurale è un’uscita motoria che serve ad eseguire la stessa azione quando serve un po’ di motivazione in più che latita al nostro interno. Per circuito sotto-rappresentato intendo tutti quei circuiti neurali, presenti al momento di un’azione ma che non vi partecipano. Per esempio, dobbiamo stappare una bottiglia di vino costoso e arrivati a un certo punto pensiamo sia ora di tirare e infatti tiriamo il turacciolo ma, ed era come se lo sapessimo (anche se potrebbe essere ricostruzione postuma) , il turacciolo si rompe a metà e la parte rimasta nel collo della bottiglia è anche a rischio di cadere nel vino. Quel era come se lo sapessimo era, per me, un circuito sottorappresentato in cui noi ricostruivamo, sulla base dei dati oggettivi, la possibile rottura del tappo, rispetto alla convinzione che avevamo di aver avvitato abbastanza a fondo il cavatappi.


È un tipico esempio di una cosiddetta via di mezzo, in cui la credenza è leggerissimamente messa in discussione da qualcuno che può tenerci testa senza il rischio di scatenare una nostra reazione di difesa/offesa: noi stessi. Per tornare alla questione iniziale si potrebbe allora fare queste affermazioni: le persone che hanno forti convinzioni su qualche fatto o persona, sono nella condizione descritta sopra. Le loro forti convinzioni, solitamente, si manifestano e diventano dialettiche solo in presenza di altri appartenenti al gruppo e/o avversari oppure, per usare concetti meno politici, quando si è in presenza del gruppo di riferimento al quale si appartiene e/o soggetti o gruppi in contrasto con il nostro. Lo so cosa state per dire: vuoi risolvere tutto in un banale contrasto tra sé (e il proprio gruppo) e gli altri, una semplice questione di appartenenza? Si. Il Sé è un insieme di decisioni (sull’ambiente). C’è una cosa (un’altra) che mi incuriosisce enormemente, e cioè la considerazione che su di sé non si prendono decisioni. O meglio, su di sé si decide in maniera certa, senza indecisione (scusate il gioco di parole), o ancora meglio: su di sé ci sono poche opzioni, è una specie di scelta obbligata. Mi spiego. Tutte le decisioni che prendiamo nella nostra vita, abitualmente, implicano il soddisfacimento di tensioni che due ambienti scatenano: l’ambiente interno e quello esterno. L’ambiente interno ci spinge a prendere decisioni sulla base di pure richieste fisiologiche, alla regolazione delle quali, peraltro, concorrono numerosi e complessi sistemi chimici. Per allentare quelle tensioni interne siamo costretti ad agire, a decidere quale azione intraprendere, con il corollario che queste tensioni interne in parte ci guidano verso certe scelte. Quanto più le scelte saranno vincolanti, cioè quanto meno opzioni presenteranno, tanto più saranno vissute come parte del Sé che, come ho affermato sopra, è quella parte sulla quale ci sono meno opzioni di scelta in assoluto. Il Sé è la cosa più convincente che abbiamo, siamo così convinti di essere vivi, di essere noi stessi, sia che siamo uomini che animali, che reagiamo sempre prontamente a tutte le aggressioni che tentano di destabilizzarlo. La fame, per esempio, è un’aggressione che tenta di destabilizzare il Sé. Mano a mano che aumenta si restringe il campo di opzioni possibili all’agire, che si focalizza sulla decisione di cercare qualcosa da mangiare. Scegliere a quale facoltà iscriversi invece può essere una decisione dalle molte opzioni, specie se non implica una necessità vitale o non è accompagnata da una passione precedente. Noi avvertiamo l’indecisione come un fastidio, infatti anche l’indecisione è un destabilizzatore del Sé. L’unica convinzione che possiamo trarre da questa situazione di indecisione è quella della nostra incapacità di decidere, del nostro essere incapaci di fare una scelta. Dov’è il contrasto, direte voi? Per prima cosa notiamo il senso di appartenenza. La mancanza di opzioni di scelta sul fatto che siamo indecisi ne fa una convinzione, quindi un senso di appartenenza al Sé. Il Sé, come detto, è tutto ciò che non ha (o ne ha pochissime) opzioni di scelta: il Sé è questo, punto e basta, si sceglie questa minestra perché l’alternativa è la finestra (perdita di parte del sé, si vedano articoli sulla complessità rappresentazionale del sé). In secondo luogo notiamo che, quasi sempre, come si forma una categoria del Sé, un gruppo di appartenenza del Sé, così si formano automaticamente dei gruppi di contrasto al Sé, anche qui più o meno marcati. In definitiva, il Sé è dunque dato dalla somma di tutti quei fenomeni ed eventi sui quali non ci sono opzioni di scelta e, una volta che si formano categorie e gruppi di appartenenza, automaticamente si formano i gruppi e le categorie di non-appartenenza


(ovvio, tutti quelli conosciuti, che potrebbero non essere tutti quelli esistenti). (continua...)


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