Racconti in fila per tre: fino alla fine del mondo e anche oltre. di Paolo Pascucci
Il venditore di fumo
Fu così che cominciò, esattamente con questa parola. Odradeck! Sul limitare della sera quando calano le fioche luci, forse il fastidio della notte è meno cupo se se ne va un giorno grigio e fumoso. Su un altro limitare, tra l'incrocio di alcune vie, così fredde e deserte, in quelle giornate di vento gelido e gonfi ritorni di caldo, laggiù, proprio sotto il cielo di carta, c'era l'uomo con il carrettino, quel vecchio quasi senza faccia con i mezzi guanti alle mani, forse l'hanno visto tutti ma nessuno si è fermato. Forse da queste parti molti desiderano la notte come speranza, incertezza di un cielo non più così uniformemente grigio in questi giorni che finiscono il secolo, e per strada la gente è poca e assente, chi ha più voglia di guardarsi, parlarsi, ormai tutto è stato detto. -Odradeck è tornato! Venite gente, Odradeck è qui! Non c'era bisogno di urlare in quel vuoto delle strade, con il vento che trasportava le parole e allontanava i desideri dalla gente: chi avrà voglia di inseguirli, chi ne avrà la forza? ma intanto era facile ascoltare, un'abitudine imparata presto, ascoltare gli altri, mentre fanno suoni non indirizzati a te, quando emettono antichi urli attutiti per togliere un nome alle cose. Era costrui, Odradeck, un venditore di fumo. Nascosto nel suo carrettino, se apriva un coperchietto, fuoriusciva un fumo, e quel fumo, mai uguale per la verità, era ciò che tu volevi, non si sa se lui parlasse insieme a quel fumo o se solo quella fumosa entità scaturente fosse sufficiente, né del resto tu sapevi che ne avresti avuto bisogno, se non dopo averla provata, ma questo era esattamente quello che succedeva, e poi te ne dimenticavi, fino alla volta in cui sentivi nuovamente quel nome: Odradeck! Sentivi quel nome con una sorta di stanchezza. Per chi si fosse avventurato per strada, il bavero alzato e lo sguardo abbassato, Odradeck sarebbe stata una mera curiosità uditiva. Ascoltare una voce umana in quel gelo, ti faceva per un attimo volgere il capo. Né, del resto, ricordavi più ciò che avevi provato, Odradeck, per te, era ritornato a essere lo sconosciuto di adesso. Odradeck non era sempre stato Odradeck. Per chi proveniva da una terra aspra la parola breve è una virtù e la rudezza un merito. Si spinse così in là questa usanza che chi parlava a vuoto, se la gente lo udiva, fingeva un solitario disprezzo e insieme un terrore. Quando l'esistenza lo condusse a scegliere infine scelse. Gettando alcuni sé da un dirupo ne venne fuori più appesantito come se quella esuberanza di seità un po' lo alleggerisse dal sopportare tutto. Ora, il peso da portare, ricadeva tutto su di uno, o forse due. Il pastore è un essere solitario e non basta sedersi su un masso per non essere più stanchi. Il cammino incontaminato dello sguardo, alla lunga, lo stancò. Si diede a grattare la terra. Con i passi. Camminava, finchè intese un grido.
Quel grido era: Odradeck! -Stepan!Stepan! Svegliati, è ora! Stepan era un vecchio coi capelli grigi e un impermeabile pure grigio, ma non di natura sua. Dormiva al Centro Ricovero e Accoglienza Garantite, un palazzo governativo dall'aspetto fatiscente con poche finestre. L'interno però non era male e ogni residente aveva una stanza per sé. I corridoi avevano il pavimento giallo, e quella, a dire la verità, era una delle poche occasioni di vedere un colore. Il vitto non era compreso e del resto egli non sentiva così spesso la necessità di mangiare. Mangiare mi stanca, aveva detto una volta. Ma di solito non parlava molto. Il palazzo non era riscaldato e uscendo non si provava in pieno l'intensità del freddo come se si fosse arrivati da un posto caldo. Stepan conduceva il carrettino con stanchezza, appoggiandosi a quella speranza su ruote, ma ogni tanto sostava, faceva correre lo sguardo, ma lentamente, senza dimostrare nessuna fretta. Poi guardava in alto, il cielo, ma alzava lo sguardo un poco alla volta, come si controlla un numero alla lotteria. Aveva un posto preciso finchè rimaneva in un luogo e lì si mise, in attesa. Quantunque fosse giorno le strade erano deserte. Dai tetti delle case usciva, di tanto in tanto, del fumo denso, biancastro. Fu mentre osservava quelle volute che qualcuno disse: Odradeck? Sei tu Odradeck? -Allora, sei tu Odradeck? Ti chiami così?- Il tipo che parlava indossava un paltò scuro coi baveri consumati e in testa portava un cappello. Aveva gli stivali spaiati e una fondina allacciata a una cintura nera. Anche la fondina era nera. Stepan lo guardò cominciando dagli stivali. -Cos'hai da guardare, vecchio?- fece il tipo, mentre una smorfia gli si dipingeva sul volto ossuto. -Si può sapere cosa diavolo guardi? E poi rispondi! Sei tu Odradeck o no? Mi stai facendo arrabbiare.- Nel dire così il tizio toccò la fondina e l'aggiustò come se non fosse messa bene. Si stava arrabbiando o forse era solo un modo per scaldarsi, con quel freddo. Stepan non parlava. Dopo aver finito di scrutarlo gli aveva piazzato gli occhi in faccia, ma con un'aria così tranquilla che l'altro s'infuriò di più. Fu allora che Stepan lo fece. Sapeva, sin dal primo momento in cui quel tizio in divisa aveva pronunciato quel nome, chi era e cosa voleva. Anche se lui, il proprietario di se stesso, non lo sapeva. Ma Stepan lo sapeva, l'aveva sempre saputo. Stepan aprì il coperchietto e un fumo uscì. -Maledetto schifoso, e così osi insultarmi, stramaledetto vecchio, prendi questo e questo!! Non ti capacitava di rispondermi e basta dovevi circuirmi, ingannarmi, ahhh maledetto- il tipo era in preda al delirio, urlava e sbraitava, gli occhi fuori della testa. Si agitava come un forsennato ma non toccò mai Stepan. A un certo punto cadde in ginocchio e cominciò a rantolare. Gli uscivano parole incomprensibili, sbavava. -Ahhhh, dolorosa, dolorosa...mente, dolorosamente- cominciò a farfugliare, tenendosi la testa. -Perchè? Perchè?- urlava, letteralmente fuori di sé. La sua disperazione sembrò raggiungere un culmine. Egli sgranò gli occhi e allargò la bocca prendendosi la gola. Era una maschera mostruosa. Stepan, che non si era mosso di un palmo, a un certo punto richiuse il coperchietto, e il fumo svanì. Come un corpo privo di vita il tipo cadde a terra e vi restò qualche tempo. A un certo punto si sentì singhiozzare e le sue spalle si mossero convulsamente. Ora l'uomo piangeva e si alzò, prima in ginocchio poi, lentamente, in piedi. Dai suoi occhi colavano delle lacrime sincere e impietose e come Stepan le vide cadere a terra si trasformarono in pietra. La
pietrificazione proseguì all'insù fino agli occhi piangenti, fino al capo, e scese, pietrificando l'intero corpo. Un intero corpo pietrificato, bloccato e piangente. Stepan parlò. -Odradeck! La crosta pietrificata si frantumò e riapparve l'uomo. Apparentemente non era cambiato. Si portò subito le mani al viso, stupefatto, toccandosi quasi a sincerarsi di esistere. Il suo sguardo era perso, atterrito, ma...qualcosa c'era, di indefinibile, di indecifrabile. L'uomo si coprì gli occhi completamente e scappò. Corse, semplicemente fuggì correndo, correva talmente forte, talmente veloce, che a un certo punto, nella lontananza, ma Stepan non ci avrebbe giurato, aveva persino cominciato a volare, sì a volare, con le braccia stese all'indietro, correva e volava. Stepan si voltò. Qualcuno lo stava osservando. Era un cane. Lo fissava, seduto, con la testa inclinata. Stepan notò che aveva un occhio solo. Un altro punto di vista. Quel giorno Offo era nervoso e non mi ubbidiva. Io non potevo allontanarmi di tanto perchè se sopraggiungeva la notte dovevo essere lesto a ritornare. Lesto a ritornare lo diceva mia mamma e a me quell'espressione piaceva. Così, mentre mi ero attardato a osservare un bellissimo fumo che usciva da un tetto, fumo che aveva preso la forma di un'aquila, si magari la coda era un po' troppo lunga, però muovendosi nell'aria dava proprio l'impressione di volare. Allora ero lì che guardavo rapito quell'aquila di fumo e sento che qualcosa non mi torna. Infatti abbasso lo sguardo e Offo non c'era più! Poi accadde una cosa imprevista. Improvvisamente, da dietro un palazzo, spuntò un uomo che correva. Aveva la divisa e il cappello della milizia e doveva essere un poliziotto. Così io guardai d'istinto dalla parte dove era diretto per vedere se magari c'era un ladro. Però niente, per quanto potessi vedere non c'era nessuno. C'era solo il poliziotto che correva. Quando però fu vicino a me si fermò. Aveva il fiatone e rimase qualche secondo così, con le mani sulle ginocchia, ansimando. Io lo guardavo perplesso. Il tipo mi fece un sorriso. Quando gli ritornò un po' di fiato si rialzò in piedi e disse: -Sta per scendere la notte piccolo, sta lesto a tornare a casa!- mi fece un altro sorriso e riprese a correre, anche se questa volta, mi parve almeno, cioè a me parve così, mi sembrò che corresse dalla...contentezza, sì, insomma, io pensai questo, non so perchè. La cosa stranissima però furono le sue parole, dal che io rimasi molto meravigliato. Anche lui aveva detto 'sta lesto': che cosa strana stranissima, in più, aveva detto, non volendo, anche il mio vero nome, seppure un po' diverso, ma come faceva a saperlo? A me questi misteri qui mi piacevano tantissimo! E così, eccitato e contento mi misi a cercare Offo, che non poteva trovarsi così distante: Offo! Offooooooo! Un sub normale, di Jarosław Impjazctritzki Io ebbi un'interessante discussione, una volta, con un fruttivendolo sapiente, una specie di Mister Magù con degli spessissimi occhiali in una finissima montatura. La prima cosa che mi venne in mente, vedendolo, fu: oddio, adesso gli si rompe la montatura e le lentone cadono a terra e si rompono. Gli feci un sorriso per farmi perdonare quei pensieri comici e irrispettosi. Si, insomma, non proprio irrispettosi, ma visto che quel signore era piuttosto avanti con l'età, beh sì non era giusto prenderlo in giro, così sorrisi. Anche lui sorrise. -Avete delle mele del Perù?- dissi a un tratto. Non so perchè dissi così, a onor del vero non lo so. Alle volte, e penso sia successo anche a voi, si dicono cose così, improvvisamente e senza averci riflettuto. Sono delle specie di
coazioni, qualcosa che devi dire, e così la dissi. -Giovanotto- disse proprio così, nonostante all'epoca avessi già cinquantotto anni -giovanotto, le mele del Perù valgon bene un però!- e scoppiò in un'allegra e fragorosa risata. Quella risata contagiò anche me. Qual buon vento C'era un bimbo che li osservava dall'altro lato dell'incrocio. Anche il cane si volse, seguendo lo sguardo di Stepan, ma non si mosse, solo la coda si mosse, spazzando il marciapiede. Stepan allora cominciò a danzare. Stepan danzava con levità di piuma, a ogni salto si scrollava di dosso un anno della sua lunga esistenza, la danza lo prendeva, l'impermeabile svolazzava, anche il cane ne era totalmente preso. Una musica, come un trillare di mille campanelli e un soffiare di cento trombette marine, un incalzante ritmo che alleviava prese a spandersi per l'aria. Stepan ne era contagiato e zompettava allegro. A un certo punto fece un gran inchino verso il bimbo, che non si era ancora mosso, e cominciò a fargli un segno lieve con la mano, come a chiamare. -Biiimbooo, biiiiimboooooo,- ululava l'allegra e triste musichetta, e l'oooooo diventò un uuhuhuhuhuhu, un ululare d'un vento, ma d'un vento carezzevole, un vento caldo e buono. Stepan ballava, il suo corpo acciaccato e stanco si librava nell'aria, danzava come una foglia presa da un vento amico, era una foglia con l'impermeabile, ora meno grigio del solito. La foglia giunse fino ai piedi del bimbo, ma, birichina, non si fermò, il piccolo fece un timido gesto come per raccoglierla ma quella fuggì, e in lui s'accese come un piccolo sorriso. -Uuuhuuhhh,- gridava l'allegro vento, -viiieeeeeniiiiiihhhhh. Il cane abbaiò, tremando tutto nello sforzo -Uaarfff, uaarfff!- e allora il bimbo si mosse. Egli giunse con grande lentezza e circospezione vicino al cane e al carrettino. Intanto Stepan ancora danzava, tutto preso, anche se, con la coda dell'occhio, lanciava brevi occhiate dalla parte del bimbo. -Offo!, vieni bello!-il cane si gettò letteralmente addosso al bimbo, si alzò sulle zampe e scondinzolando cominciò a leccarlo .Faceva mille moine, mugolava dalla contentezza. -Si, si Offo, si si buono!- diceva il piccolo accarezzandolo -anche io son contento!- e si inginocchiò. Stepan si era fermato, nel frattempo. Guardava i due ora, con il collo allungato come una civetta, e aveva un sorriso furbetto stampato sul volto e gli occhi riderelli. -Io ho una cosa per te!- disse Stepan muovendo la testa a ritmo, in qua e in là, e dondolandosi pure col corpo. Il bimbo alzò lo sguardo, affossò un poco il collo, e fece due occhioni spalancati e sorpresi. Stepan aprì lo sportellino e inserì una mano ossuta e semiguantata nel foro. Il bimbo era tutt'occhi e anche il cane s'era girato. -Ti interessa?- fece Stepan scandendo bene le parole, ritraendo la mano dal pertugio e nascondendola lentamente dietro la schiena. Il suo viso era un autentico punto di domanda fatto di faccia. Il bimbo fece lentamente sì con la testa, completamente preso. Stepan strizzò gli occhi e si ingobbì un po', guardandolo come di sottecchi. -Ah si? Ma, dimmi un po', il tuo nome è proprio Asdrubale, come mi ha detto il tuo cane? Oppure...è un altro?- e strizzò l'occhio così improvvisamente che il ragazzo chiamato Asdrubale ebbe un singulto di riso e si coprì lesto la bocca con la mano. -Ma i cani non parlano- disse, soffocando la riderella che lo aveva preso irrefrenabile. -Oh! Ma come sarebbe a dire, poffarbacco baccone! E anche perdincibacco! Il tuo cane parla eccome, sapessi che chiacchierone!- così esclamò allegramente Stepan assumendo
per l'occasione anche l'aria da burbero, imbronciando il labbro e chiudendo un occhio, proprio così. Come a voler sottolineare l'affermazione il cane si mise a abbaiare -uarff,uarff- e saltellava e girava a tondo, felice e eccitato come una trottola. -Ehhhhhhh,-disse il ragazzo chiamato Asdrubale sorpresissimo e spalancando gli occhinon ho mai visto Offo così eccitato- e batté le mani, proprio così batté le mani dalla gioia. -Allora, Picco? Che mi dici?- disse Stepan, assumendo un'aria furtiva, come chi stia rivelando un segreto. -Oooohhhhh- fece il ragazzo chiamato Asdrubale, -ma come fai a sapere il mio vero nome, nessuno lo sa!Jarosław Impjazctritzki -Venga con me, e vedrà con i suoi occhi increduli. Mister Magù, o insomma quel suo alias fruttarolo mi fece cenno di seguirlo nel retrobottega. La porta era un po' sbilenca e stridette acutamente quando l'aprì. Dentro, l'aria era afosa e umida e c'era poca luce. Nel breve attimo in cui dovetti abituarmi a quella mezza oscurità persi di vista il nonnetto. A destra e a sinistra c'erano ampie scaffalature in legno ripiene di barattoli, vasi, piante, vasetti, sacchetti scuri annodati in cima, e vasi, vasetti in grandissima quantità. C'erano anche delle cassettine in polistirolo bianco, piene di piantine. Erano strane, per lo più, quelle piantine, piccole quando non piccolissime, ma forti, sembravano quasi finte, e quasi tutte avevano dei piccoli frutticini colorati, dei piccolissimi frutticini in miniatura appesi a piante in miniatura! Era strabiliante! Non erano piante bonsai, no no, erano proprio delle piccole piante da frutto o ortaggi o qualunque altra cosa, ma erano...in miniatura! Le due scaffalature ai lati di quel breve corridoio ne erano piene! A mano a mano che mi abituavo a quella semioscurità scoprivo cose sorprendenti. Al termine del corridoio si apriva una stanza più ampia, più illuminata, da una serie di finestre a altezza uomo disposte tutto intorno alle pareti. Nel mezzo nella stanza vi erano tre lunghi tavoloni di legno, divisi da due corridoi, e sopra ogni tavolone vi erano come dei plastici, non ebbi modo di vedere bene, ma sembravano come quei plastici che usano fare gli architetti, con case, costruzioni e tutto è riportato in scala minuta, riprodotto fedelmente da sembrare...vero! -Venga, venga da me- mi interruppe il mio Mister Magù. Alzando lo sguardo lo vidi in lontananza, a una ventina di metri, proprio al termine dei tavoloni, a fianco di una specie di banco sopra il quale sembravano disposti, a scalare, della frutta e della verdura. Gli feci un cenno con la mano e mi avviai. Nell'avvicinarmi, buttai l'occhio fuori da una delle numerose finestre. Dava su un largo incrocio. Vi si vedeva, a una trentina di metri, un ragazzino, di schiena e, dall'altra parte dell'incrocio, un cane seduto di fronte a un carrettino. -Venga, venga!- ripetè il nonnetto -Ehehehehe, non si distragga, che qui c'è qualcosa, ehehehehe, che l'interesserà!-. Così smisi di osservare e lo raggiunsi. -Lei è uno scrittore?- mi disse all'improvviso. -Beh, insomma, non saprei...ci provo, ecco!-. La domanda mi aveva colto di sorpresa e in più non mi andava di pavoneggiarmi come facevo quando qualcuno mi riconosceva. Pure dovevo esserci abituato. -Ehhhh, non dica così- fece il tale togliendosi gli spessi occhiali -l'ho riconosciuta, sa? Anche senza questi occhialoni! Ohohooooorrrorhhhh-. Che strano e buffo modo di ridere aveva! Si piegò su se stesso e le guanciotte gli divennero rosse! Che buffo!
-Io l'ho letto il suo libro, ecco una cosa che lei non si aspettava! Vero? E ne ho letto anche la parte che lei non ha scritto, birichino! Sissignori, anche quella che lei non ha scritto!- disse, mentre trafficava con le mani sopra quel banco di frutta verdura finalmente traendone qualcosa. Ma io guardavo lui in faccia, ancora senza gli occhiali che si era tolti, e alla trasformazione che aveva subito, non sapendo bene se fosse più quella lenta trasformazione o quello che aveva detto a sorprendermi di più! Colui che scrive. Finalmente! Ecco Offo! Ma che ci faceva laggiù, davanti a un carrettino, senza il padrone del carrettino? Dapprima pensai che Offo avesse combinato qualcosa e provai a aguzzare la vista. Niente, c'era solo Offo davanti al carrettino, seduto bello placido, tutto attento a osservare il carrettino: ci sarà stato qualcosa che gli piaceva, non era da lui stare così fermo, eppure per un attimo si era girato, anche se poi era tornato a guardare davanti! Io non mi muovevo perchè la cosa mi pareva un po' strana. A un tratto si alzò un venticello. Io sentivo quasi un po' freddo e quel vento mi fece proprio piacere perchè era un vento caldo. Insieme al vento arrivò anche una foglia: accidenti, stavo quasi per prenderla, era proprio una bella foglia, ma lei scappò di nuovo! Mi venne da sorridere: che foglia impertinente! Poi cominciai a sentire una specie di musichetta. Ma non era una musichetta vera e propria, no! Mi parevano come delle parole, dette cantando, una canzone di parole musicali, che anche se io non capivo riuscivo ugualmente a comprendere! Che cosa strana stranissima assai era quella! Erano come tante parole dette velocissimamente, o almeno così mi sembravano perchè non ne saprei ripetere nemmeno una, e però le compresi lo stesso. Poi Offo abbaiò. Perciò mi mossi. Fu allora che vidi che c'era qualcuno vicino al carrettino, oltre a Offo. Non so perchè ma mi avvicinai molto lentamente. Era un vecchietto allegro che ballava, e l'impermeabile svolazzava a ogni piroetta. Accidenti come ballava quel vecchietto, io, mentre avanzavo, lo osservavo molto attentamente. Quando giunsi vicino al carrettino dissi -Offo, vieni bello!- e Offo mi saltò addosso: era così contento di vedermi. Offo non ne poteva più dalla contentezza, perciò io gli dicevo -Si , si Offo, si si buono!- e poi -anche io son contento!- e così mi inginocchiai per accarezzarlo meglio. Il Baratto Chi narra. Per chi si fosse adagiato in quegli istanti narrati a osservare un certo angolo di un incrocio fra vie polverose e deserte, lo spettacolo offerto dalla natura di una città gelida sarebbe stato sufficiente a compensare l'esposizione a quell'innaturale freddo? Ma, in maniera forse ancora più misteriosa, l'anonimo o gli anonimi osservatori, alla stregua di ricercatori naturalistici, avrebbero osservato lo stesso evento allo stesso modo oppure in modi tra loro diversi, e non solo per il punto di vista? In realtà è noto dalle scienze della mente che il punto di vista condiziona fortemente la nostra comprensione dei fenomeni osservati e, mentre ciò avviene nell'umana mente con assoluta naturalezza senza subirne alcuna imposizione apparente, altrettanto naturalmente accade che non rinunciamo facilmente alla nostra posizione anche di fronte a palesi violazioni delle nostre convinzioni più consolidate. Anzi, proprio a questo scopo, capita che alcuni si diano a costruzioni avvaloranti di una
certa consistenza e che grazie alle caratteristiche stesse del nostro linguaggio, riescano a scivolare nei meandri della semantica fino a risultare incomprensibili all'interlocutore contrario ma non a quello favorevole. Una cosa simile si sarebbe verificata per quell'orecchio che si fosse avvicinato a sufficienza a una strana triade in quelle giornate di gelo. -Ohhh, lo so che nessuno lo sa,- fece Stepan allungando il collo verso il ragazzo chiamato Picco, -lo so benissimo,- e intanto si sfregava le mani coi mezzi guanti, apparentemente per il freddo. -Ma tu, dimmi un po',- fece poi all'improvviso, fendendo la sorpresa del ragazzo chiamato Picco -tu, non è che per caso, e dico per caso, ...scrivi un diario?- e qui fece una gran smorfia divertente che il ragazzo chiamato Picco non sapette trattenersi dal ridere e sbottò: -Ma tu sai tutto!?- e in realtà non si capì bene se era una domanda o una esclamazione. -Eh,eh, eh- rideva Stepan -Picco, Picco, ecco qua un bel regalo per te,- e nel dir così cacciò da dietro la schiena qualcosa. Quel qualcosa era una biglia fanstamagorica, di innaturale bellezza. Il ragazzo chiamato Picco ne fu abbacinato. Anche il cane fissava la biglia. Gli occhi di Stepan erano vispi e furberelli, e li teneva puntati a dismisura sul ragazzo chiamato Picco che, da parte sua, era completamente preso dalla biglia. -Ti piace, eh?- disse scandendo bene le parole Stepan. Il ragazzo chiamato Picco annuì con la testa, lentamente. Anche il cane sembrò aver capito la domanda perchè abbaiò. Il ragazzo chiamato Picco allungò una mano per toccare la biglia ma Stepan richiuse la sua a pugno e la ritrasse. -Vogliamo, e dico vogliamo,- cominciò, sfoderando il più bel sorriso del suo repertorio, che pure non era granchè, -vogliamo fare un bell'accordo io e te, Picco? Vuoi?Ancora una volta Picco annuì, totalmente preso dal ricordo, però ebbe anche la forza della disperazione per dire: -Ma, quella biglia è bellissima,... io non ne ho mai viste di così belle...sembra cambiare colore ogni secondo...- e in quella gli venne anche il singhiozzo, tanta era l'eccitazione che il suo piccolo corpo doveva contenere. Colui che scrive. Ohhh, il mondo era tutto tondo. Che fantasmiliosa e sorprendosissima fantasmagorìa ne venne a me qual lucente bagno per occhi superattenti. La tondezza della bilia bilieggiava al mio baluginìo, nel che avvenne che io smettessi l'usualità e mi dessi all'insperato. Cambiai pure modo di parlare. La cosa andò così. Io ero proprietario di una bilia incommensurabilmente incommensurabile. Il mondo non aveva più granchè significato, per me. Bè forse un po' si, ma poco. La bilia era tutto. Io la chiamo bilia, perchè mi fa più tondo, ma in effetti si chiama biglia, ma la gl ne frena in qualche modo la scorrevolezza. Sissì. Ohhh, che fantastilionezza! Io divenni tutt'uno con la mia bilia. La mia bilia era solo mia, era enormemente e indubitabilmente e indifferentemente mia, e tuttamente pure mia. Io la rimiraaavo in continuazione tanto che mia mamma disse: -Sdrubale- perchè le era venuto il nervoso sempre a vedermi con quella bilia, che mangiava le lettere. -Sdrubale, se non la smetti con quella pallina, te la butto via!- e si metteva le mani sui fianchi come per dire: ohi, è ora di mangiare, veh! Io nemmeno prendevo in considerazione alla mia venerabile bilia poter essere a me allontanata, nemmeno in con-si-de-ra-zio-ne. Tutto il mondo aveva tondità. La tovalia era tonda, e anche il tavolo era tondo, e il piatto era tondo e il bicchiere era tondo, che magnificezza di tondi era questo qui tavolo, eh siii, e io ero sognevolmente preso, tanto che sbarellavo.
-Metti via quella pallina e vieni a cena, senò le prendi!- così io udii mia madre che vociferava dalla cucina nel mentre cosa facevo io? Ma non lo immaginate? Ecco, io mi rendo conto che non l'ho nemmeno descritto, tutto quello che quella mia fantastamiliosa bilia faceva, ma è perchè è impossibile dirsi, era una cosa superrima, anzi, superrissima! Ero lì, con attento rimirìo, a rimireggiare cotanta lucentosità quando mi disturbano! -Uffa! Cosa c'è, mammaaa?- fo' strascicando le vocali. -'scolta...- ma io a quella parola mi ero tutto appropinquato, perchè quella parola era temibile, era, come avevo sentito dire da un grande, un preludio. A tavola posai la bilia sul biancore tovaglino e mangiai svogliatamente. I grandi scuotevano la testa, alcuni, altri sorridevano. Io ero...bè lo sapete. Mia mamma tentò l'affondo finale, con l'arrivo della crostata di sicomori, il mio dolce prefediletto, cioè preferito e prediletto, il mio dolce totale insomma, quello che io ne mangiavo mille tonnellate e dicevo: non ce n'è più? Non v'immaginate la sorpresa quando io lo mangiai svogliatamente, anzi nemmeno io me l'immagino perchè io non vedevo niente con le punte degli occhi, ma solo con l'intorno dell'occhio, che dicono si vedono le cose meno bene e quando si muovono. La cena prima o poi finì e io dovevo fare una cosa importantissima: prendere una decisione. Io salii in camera mia che ero concentratissimo, ma mia madre giuro che pensò che ero distratto: ma se dico che ero superconcentratinssimo?! Io dovevo, in cambio di questa innominabile e splendevole bilia, niente po po di meno che consegnare il mio diario, da me stesso definito Fantasmagorico e anche bellissimissimo, tanto che io volevo sentire pure il parere di Offo, che era anche lui protagonista, ma poi desistetti, perchè non l'avevo chiamato e ormai ero in camera. Il mio diario: mai avrei rinunciato a colui, ma che fare? Ero letteralmente: indeciso!
Una scelta difficile (prima parte) Chi narra. -Picco, Picco, caro Picco- così si esprimeva Stepan, di fronte a uno scontento Picco, cui un lieve incresparsi delle labbra rendeva conto del broncio che lo aveva catturato. -Peròòòò, non è...- e batteva i piedi Picco, e Offo, che era molto assai empatico col padrone, guaiva, muovendo il muso in direzione di Stepan. -Eh, eh, eh- ridacchiava Stepan, bonario come un nonno, anche se il suo cuore era turbato. -Non dovevo mostrartela, eh Picco? ora tu non sai resistere, nevvero?- e girò la testa come a cercar d'osservare ciò che lui stesso celava dietro la schiena. -Ma, piccolo mio, la cosa è semplice semplice, tu mi dài il tuo diario e io ti do questa bilia, perchè tu la chiamerai così, nevvero, 'la mia bilia', eh, eh, eh-. Per chi avesse avuto la buona grazia d'osservare il cielo alla ricerca di prodromi meteorologici sarebbe rimasto stupefatto d'osservare che quelli eran tempi in cui non ci si raccapezzava. A scanso d'equivoci il tempo, forse per timore di indurre sgomento e sorpresa negli umani, s'era decisamente volto al grigio e, più che spesso, un cielo color di ruggine marciava imperterrito lungo tutto l'orizzonte visivo dell'osservatore, il quale, potete ben immaginare, appresa codesta tecnica, tosto smetteva l'osservazione, figurandosi, in cuor suo, una inamovibilità meteorologica degna d'un quadro. Ora, anche in quei momenti che si narrano, il cielo, per mantener fede alle premesse, indulgeva al monotòno, con ciò contribuendo suo malgrado al malumore che s'era impossessato di Picco.
-Non è giusto- proferì finalmente Picco, al quale non sembrava effettivamente giusto che le cose belle venissero mostrate come possibili e ottenibili e che poi invece si scoprisse che per averle c'era bisogno di così grandi rinunce. Egli, ormai, non poteva cavarsi dalla mente quella biglia, e la desiderava ardentemente. Dall'altra parte, però, egli era legato al suo diario come la pelle era legata al suo corpo, tanto che non era così semplice staccarglielo di mano, anzi, l'operazione poteva dar l'idea dell'atto di strappare una pelliccia al legittimo proprietario. Per questo Picco pativa gli infernali tormenti: e chi, del resto, non starebbe sulle spine, se per ottenere ciò che ha sempre desiderato, dovesse rendere ciò che ha di più caro? -Suvvia, piccolo mio, suvvia, cosa sarà mai di così tanto grave? In fondo, io lo so, tu ti fidi di me- e qui Stepan fece una cosa strana perchè diventò improvvisamente serio, alla qual cosa pure Picco passò dallo sconforto puro allo sconforto macchiato di estrema sorpresa per quell'inattesa variante. -Picco, le cose stanno così e non puoi farci niente. Questa bilia è miracolosa e perfettissima e col tempo, a saperla usare, ti permetterà di fare cose memorabili, inenarrabili e fanstamagoriche- e quest'ultima parola la pronunciò così lentamente che a Picco sembrò che continuasse a rimbombargli nella testa un bel pezzo dopo che Stepan aveva smesso di parlare. Fosse stato per il cambio d'umore o per l'intonazione scelta, sta di fatto che Picco raggiunse un limite desiderante: era quasi in pericolo la sua stessa esistenza di bambino libero, perchè tale è un desiderio fortissimo e potentissimo che non può essere appagato per propria volontà. Stepan sembrò notare questo cambiamento, perchè il suo viso ritornò leggermente sorridente, anche se in un modo più strano. -Per dimostrarti che mi fido di te,- disse, e nel frattempo con gesto lento e misurato riportava la mano da dietro la schiena davanti a Picco, che aveva allargato gli occhi a accogliere quella magnificenza, -per dimostrarti che mi fido di te,- e aprendo la mano gli consegnò la biglia, perchè Picco era già pronto con la sua manina, oltre che con gli occhi, a accogliere. Colui che scrive. Quello fu un giorno assai assai strano stranissimo per me. Le cose belle che mi piaceva fare la sera prima di andare a dormire, come per esempio tirare fuori la mia pesante scatola di latta con tutte le mie miriadi di bilie tondeggianti di svariatissime misure e colori e poi prenderne un po' e catalogarle tutte da una parte quelle uguali sulla coperta del letto, oppure, ma sempre sulla coperta del letto, prendere la scatola con i soldatini e fare una epica battaglia utilizzando le mie bilie come proiettili, oppure ancora prendere la mia scatolina con innumerevoli raganelle morte, ecco, quelle splendevoli cose non mi piacevano più, quella sera. Io ero assaissimamente triste e anche corrucciato, perchè io una volta ho sentito dire questa parola a qualcuno che era assai triste, e mi era rimasta impressa. Così presi il mio diario e ne accarezzai la copertina. Io avevo fatto ricoprire la copertina del mio diario con una morbida pelle, poi sopra questa pelle avevo inciso a fuoco il mio simbolo, che ovviamente era una bilia, o meglio, un tondo. Quel tondo, per me, voleva dire che tutta la vita era come un tondo, che io cominciavo a scrivere in tenera età e poi, quando avevo tipo quarant'anni, che ero vecchio, ancora scrivevo, e questo voleva dire 'la continuità della vita' parola che non è mia ma che io ho letto sopra un libro, e m'era tanto piaciuto. Perchè, infatti, se uno ci pensa bene bene, la vita continua, cioè la vita è tutta formata di
una serie di momenti, che a un certo momento io sono allegro e gioco, e in un altro momento io sono triste e forse piango, però ormai sono grande e piango di rado, e allora io pensavo che pure quei due momenti così diversi diversissimi erano sempre la mia vita, ero sempre io Picco, che però ho un nome d'arte, Asdrubale Asdrubalini, ma io non mi chiamo mica così, io mi chiamo Picco, e tutti mi chiamano Picco, e anche quel vecchio signore, quando diceva che lui sapeva il mio vero nome, io però il mio nome finto, cioè Asdrubale non l'avevo mai detto a nessuno, e invece che mi chiamavo Picco lo sanno tutti, per questo ero sorpreso. Il mio diario era una cosa fantasmagorica e io avevo cominciato a scriverlo quando avevo due anni. Cioè, non è che io avevo proprio cominciato a due anni, è che io già a due anni disegnavo con le matite colorate, e mia mamma aveva conservato i disegni, e così io li avevo messi all'inizio del diario, come se fossero le prime cose che avevo scritto, anche se le avevo disegnate. Quando la mamma venne a darmi il bacio della buonanotte io ero già sotto le coperte, e sopra il cuscino, una da una parte e uno dall'altra, avevo messo i miei inestimabili tesori: la mia bilia e il mio diario. Mia mamma mi disse delle cose e anche mi accarezzò, ma io non avevo tempo di ascoltarla perchè pensavo. Pensavo a quanta tristezza avrei avuto privandomi del diario se volevo la bilia, o della bilia, se volevo conservare il mio diario. Cercavo di capire quale cosa mi avrebbe reso triste tristissimo di più, per fare 'una scelta oculata'. Io intanto che pensavo a queste cose ne pensavo anche una terza, e mi dicevo: questa notte io non dormirò, e infatti feci un sogno, anzi due. I sogni di Asdrubale Asdrubalini raccontati da se medesimo, e scritti in un diario che è l'ago della bilancia. Ecco che improvvisamente era già mattino, ma stranamente mia madre non mi chiama. Io mi alzo dal letto e sento graffiare la porta. Io so già che è Offo, ma io gli avevo insegnato ormai da un sacco di tempo, forse sei settimane, che non doveva farlo, così rimango di stucco. Apro la porta e infatti è Offo! Offo mi fa delle grandi feste e si alza sulle zampe e vuole leccarmi. Io mi devo vestire e infatti sono già vestito e scendo le scale e nel contempo chiamo: mammaaaaa! Nessuna risposta. E infatti la cucina pure è disabitata. Così io cerco a rovistoni da tutte le parti sempre con Offo dietro ma non c'è nessuno. Intanto che penso su questo fatto che mia mamma mai mi lasciava da solo senza avvisarmi non una o due volte ma cento volte di star buono, di fare il bravo con la nonna, che la nonna è anziana, e allora sono assai sorpreso.
E infatti anche in cucina vi era nessuno e intanto era anche un bel giorno e c'era il sole e c'era tutto un chiarore che arriva dalle finestre. Per prima cosa io ho fame e anche Offo è del parere e così preparo il desinare. Ma tutto è già pronto e io sono assai allegro perchè le cose filavano via bene, anche se ero un po' triste. In questo frattempo di cose io sono già fuori dalla porta dietro, quella che dà sul cortile e ovvio Offo è vicino a me. Sorpresa delle sorprese è tutto pieno di neve, un candore immacolato ricopre tutto il mondo e i rami degli alberi sembrano tanti sorrisi coi baffi bianchi, al che io sono tutto
arzillo e comincio a camminare. Il vialetto però è pulito e Offo mi segue oppure è già avanti, non so bene, però non me ne curo. Ora però tutte queste cose belle bellissime io le voglio condividere con mia mamma perchè noi comunichiamo molto e infatti lei mi dice sovente viene Picco parliamo un po' eccetera eccetera, cosa però seccante per me, anche, perchè prevedo discorsi sulle marachelle; ma non c'è nessuno e quindi non posso condividere questa mia gioia. E ecco, dopo che ho girato il muricciolo della casa, che mi si apre ai miei occhi un paesaggio tuuuutto interamente bianco, la distesa di là della rete, dei campi pieni di erbacce è un lago di neve, tanto bellissimo che ho voglia di stendermici sopra. Infatti sto già scendendo la scarpatina senza curarmi di Offo che abbaia perchè io desidero di stendermi sul bianco manto, ohhh io quanto intensamente sento quel desiderio di stendermi e intanto Offo abbaia abbaia: ma perchè abbaia tanto?, ma io non me ne curo. Io sono già vicino alla rete che per me scavalcarla è un attimo e allora Offo mi prende il bordo dei pantaloni e comincia a tirare e digrigna pure dallo sforzo. E infatti un po' mi sbilancia e io sono arrabbiato con Offo. -Ma perchè mi tiri così?, dico mentre cerco di non cadere, anche se mi sarebbe piaciuto stendermi lì sulla neve, però mi piaceva più di là della rete e allora attendo. Così provo a salire la rete che per me è una vera sciocchezza, però questa volta è di una difficoltà per me sorprendente. Ecco che sono a metà della rete con le mani che stringono la rete e i piedi sotto le mani e sporgo tutto in fuori e infine c'è Offo che spenzola dai miei pantaloni e la situazione è veramente ridicola e io urlo a Offo: -Smettila Offo che poi per colpa tua mi tocca comunicare con la mamma e sono ramanzine per i pantanoloni strappati. Ma cosa ti prende? Ohhhhhh, e in quel frammentre che io così discuto con Offo sento il mio nome. -Piiiiccoooooo!, Piiiccoooooo!,- al che mi volto e vedo in lontananza, al di là della rete, provenire dal fondo della bella distesa, una figura scura venire verso di me. Io non so chi è ma mi sembra di riconoscerla e infatti la riconosco! Oh disdetta delle disdette! Mentre sono lì ancora appeso penso alla mia disdettissima disdetta e anche al gioco andato in fumo, ma anche al fatto che io dovevo decidere, e io non sapevo proprio decidere. Così sono di nuovo a terra dalla mia parte della rete e Offo è ritornato normale e quel vecchio signore che mi ha regalato la mia possente bilia è già lì, vicino a me, sorridente, e comincia a parlare. -Picco, ma qual buon vento, sai stavo camminando in cerca di mele del Perù da queste parti, perchè devi sapere- e così dicendo guarda intorno di sottecchi e mette la mano al lato della bocca abbassando la voce, -devi sapere, caro Picco, che le mele del Perù prediligono il freddo e quando c'è la neve- e qui fa un gesto con ambo le mani e fa uno sbuffo -Puff! Spuntano su come funghi, ahahahahahah! Ma io non rido. Notando questo mio non ridere il vecchio signore diventa triste pure lui. Io intanto vedo che Offo un po' si agita, ma non ci faccio caso. -Io ti capisco, Picco, ti capisco benissimo, sai?- fa il signore e a me mi sembra proprio triste e compunto mentre lo dice, tanto che io un po' mi faccio coraggio e penso che forse non è tutto perduto. -Ti capisco proprio, e ti compatisco: non è affatto una decisione semplice! Hanno un bel dire le anime semplici, nella loro insensibilità e furbizia, ah, ma nel cambio ci guadagni Picco, questa incommensurabile e fantasmagorica bilia in cambio di quel piccolo Diario, che in fondo puoi benissimo riprendere a scrivere: ne compri uno nuovo e ...oplà, il gioco è fatto! No, caro Picco, non è così, e noi lo sappiamo. Io ero tutto intento a ascoltare il vecchio signore ma ero anche compunto, che è una parola che mi è sempre piaciuta. Infatti il vecchio signore continua a parlare. -Ma non possiamo farci nulla, Picco, nulla- e muove le mani dal centro ai lati come se spazzasse. -E' così, e così dev'essere! A te è stata data una possibilità di scelta e in questa scelta ciò che dovrai lasciare è veramente, ma veramente, anche se noi ci diciamo il
contrario,- e qui abbozza un sorrisino che anch'io un po' sorrido -molto ma molto meno importante di ciò che hai in cambio. Ce l'hai con te la bilia, ... Picco? Io mi guardo nelle tasche come per cercare ma so benissimo di averla con me, e infatti guardo e...oibò, mi manca il respiro: la bilia non si trova! Cerco che ti ricerco son tutto scalmanato che anche Offo ha ripreso a abbaiare e intanto il vecchio signore mi pare che sorrida sotto i baffi, però non son sicuro, ma cerco invano! La bilia non si trova! Vista dall'esterno. Era la stessa realtà a essere mutevole. Le mani ancora cercavano fin dentro le più profonde tasche del mondo, ma già sapevo che il destino s'era compiuto, la biglia m'aveva abbandonato. Una tristezza senza fine mi prese, improvvisamente. Guardai verso il vecchio. Non c'era. Al suo posto un ramo. Spuntava dal terreno come un arto proteso, ossuto e malefico, ritorto dalla rabbia: osservai quel ramo adunco, di nereo colore e...improvvisamente, cominciarono a spuntare piccole foglie aguzze, lamine di magnetite. Il ramo si contorceva su se stesso e sembrava crescere. E ora, a quello spuntar di foglie provai una stretta al cuore, come di un evento irreversibile e senza arresto, l'invasione di un nuovo mondo su questo, l'inarrestabile acquiescenza della notte. Così non resistetti e voltai lo sguardo. Oh, povero mio piccolo cane, povero Offo! Il suo corpo scheletrico è lì a terra, ai miei piedi, ancora proteso. Anche la rete s'è liquefatta e il mondo non ha più ostacoli. Povero piccolo mio cane spirato nell'ultimo anelito, strappato alla sua stessa esistenza dal malcreato. A che serve ormai? E così, in quel vento nemico che si alzava, sotto quel cielo violento, la mia vita mi si distese davanti, vidi l'esattezza della parola e il sottostante pensiero. Allora il ramo parlò. -Vieni meco-, mi disse con fare cerbero. E al mio titubare ancora parlò. -Corpo che porti il male sempre aperto sul mondo, vieni, che il tuo destino ti sarà dato. Non lasci il tuo passato? Ebbene, n'avrai ciò c'hai cercato...il nulla del profondo, l'abisso sgraziato, infine, la parola muta. Allora, allarmato da tanta viltà, mi mossi. Sbagliando, ora purtroppo so, raggiunsi quella voce, dietro il ramo crescente, alla volta del nero. Quella corteccia al nero sembiante, quella rugosa pelle, quell'informe colore, quello svenimento del dolore premevano sul cuore simili a otri gonfi sul torace sospesi. Così io dissi. -Chi sei che dietro tanto nero nascondi il tuo sembiante? Io, non ti temo- ma l'ultime parole sgattaiolarono sulle altre, ben più robuste, queste, più timorose. -Picco, Picco...ma quando cambierai? Quando capirai, finalmente? Abbassai gli occhi, come colpito da un guanto sullo sguardo. La vita, vile e servizievole, ancora mi cercava, ancora domandava il suo voluto, la scarno adempimento del passato, inestinto. Così, cavai fuori la mano dalla tasca, stretta intorno all'inenarrabile segreto, era il mio cuore fuoriuscito alla parola, era il fiato arso dalla morte. L'apersi e la biglia brillò, come una vita che ignorante s'alza senza curarsi intorno. E di nuovo fu il vecchio, contorto come il suo ramo e antico, nel suo magro sorriso. -Non rendermi la tua vita, dannato Picco, dannatissimo testardo, tientela! Non la rivoglio mica indietro! Ah! Dannatissimo e orgoglioso ragazzo...ma l'esistenza, non t'ha insegnato niente?- così diceva il vecchio, senza mascherare un orribile disgusto. -Ancora non ti comprendo! Che chiedi, dunque? Ti rendo ciò che hai dato, non basta?- così gridavo io, avvinto dall'odio. -Noooooo, dannatoooo, nooooo! Voglio il tuo passato e il futuro, che v'è ancorato! Dammi l'universo a te creato, quell'inutile orpello che mantieni, a fottuta protezione d'un mondo in estinzione...Voglio il tuo stramaledettissimo diario, lo vogliooooo, tu inibisci tutta una vita
dall'uscire, la tua sgradevole ottusità...credi d'essere coerente e romantico? Credi di lottare per un ideale? Ahhhh, quando ti sarà tutto chiaro... Il suo fiato era per me come un fiele mieloso, un'aria conturbante che avvolgeva a spirale. Sentì come se stessi per soffocare. Mi bruciava ammetterlo, ma quelle parole inusuali mi intimavano di riflettere. E così feci. -Che vuoi da me, allora? Il mio diario, dici? Cosa c'è lì dunque, di così tanto prezioso da valere questa- e guardai la biglia, che stringevo con rabbia -e poi...dov'è il valore di questa? -Dov'è il valore di questa, dici? Oh no, povero Picco, oh no, ancora non te ne sei accorto? Vieni, ti mostrerò qualcosa. Così andai. Fu allora che lo notai. Per tutto quel dannatissimo tempo nel quale avevo cercato ascoltato parlato mosso, per la durata di tutta quella rabbia, oh, forse non era nemmeno rabbia...impotenza, ecco, per tutto quel tempo io non l'avevo notato...ma ora sì! Non so perchè non ci avevo fatto caso, se rapito da un desiderio di vedere ciò che volevo, come spesso succede, di desiderare e insieme vedere i desideri, del cuore o della mente, non so: ma che importa? E quella mia cecità mi sbalordì. Quella mia stupidità mi sconsolò. Ma allora, tutta la mia vita, tutta tutta la mia vita, ...trascorsa senza mai vedere...la verità? Il vecchio m'aveva detto Vieni, ti mostrerò qualcosa, e a quel punto io l'avevo visto, mi era apparso: lui era insieme ramo e uomo! Ora lo sapevo, ora l'inconscio sospetto si chiariva! Era, dannatamente, uomo e ramo, e come io mi muovevo intorno a lui, o abbassavo il punto d'osservazione, o se l'alzavo, lui...era sempre diverso, anche se era sempre lui! Il vecchio ERA il ramo che spuntava...ma l'orrore maggiore dovevo ancora vederlo: non spuntava da un terreno, o da neve o da qualsiasi altra dannatissima cosa sostanziale, vera, materica, no! Stramaledettamente no! Lui spuntava dal...nulla: non c'era niente...di solido, sotto i suoi piedi, e nemmeno sotto i miei...ma un intreccio, non saprei definirlo meglio, un intreccio di qualcosa, e anche questo qualcosa, oh si...anche questo qualcosa mutava, mutava continuamente, continuamenteeeeee! Presi con forza la testa con le mani, un urlo muto mi coglieva, un terrore vuoto e intanto, lui, il vecchio, ridacchiava oh sì!, lui rideva...anzi, no, ora piangeva...non so, la sua testa cambiava...nooooooo. -Impazziròòòòòòòò!- gridai con quanto fiato avevo. Sentì che rispondeva qualcosa, da lontano, sentivo che parlava, che spiegava, stava dicendo delle cose, sensate e terribili, che mi calmavano e mi esaltavano...ma io non riuscivo a comprenderlo: sapevo che erano quelle cose, ma non le capivo. A un certo punto fu in un tunnel, si allontavana a velocità sostenuta, sempre più veloce, semprepiùvelocevelocissimooravelocissimissimo...ma era sempre lì, vicino a me, ridente o piangente... -Ahhhhhhhh,-cominciai a gemere e temetti per la mia salute mentale. Caddi in ginocchio su quello che sapevo non essere nessun piano, ma tanto, che importava ormai? -Calmati!-, sentì a un certo punto, e seppi che era il vecchio. -E' tutto finito, alzati e apri gli occhi.- E così feci, calmato da quella voce e quelle parole, che mi allietavano l'anima, così rapita. -Volevi sapere il valore della biglia...ebbene, te l'ho mostrato.
-E dunque, vuoi vedere un po' della tua vita, Picco? Per modificarla, se credi,- così domandava il vecchio e il suo cuore era puro, in quel momento, lo so. Ah, dolore della conquista e del sapere! Quanto terribilmente m'aprirono l'animo quelle parole! Il mio corpo diventò un fremito fermo, non avevo membro ch'io tenessi a freno. Quale possente forza m'avvinghiava: ah malefico potere della biglia, ossuto mondo da lei
scaturente per bocca del vecchio. Ah soave dolcezza del presente, che modifica l'atto, ah oscura forza del momento, che interviene sul mondo ch'è stato e su quello a venire: seppi, improvvisamente, che potevo intervenire sul mio vissuto o su quello da vivere, che potevo modificarlo ora, perchè era presente a me, potevo cambiarne lo svolgimento, potevo spostarmi e ingrandirmi e ridurmi e...potevo tutto questo, con un altro me stesso. Ero io, con la mia volontà a modellare questo mio corpo passato o futuro, e lo facevo ora, adesso, potevo farlo, e cambiare gli altri, spostare le cose, malleavo la vita, semi-divino. Così iniziai a correre. Ohhh! Come correvo. Oh si, come correvo, io! Ero la corsa stessa, ero la meta da raggiungere, il balzo e il salto, ero il volo e lo stacco, ero la corsa a perdifiato. E correvo. Passavo colline monti laghi fiumi stati vite mondi universi e correvo correvo, con la facilità del gesto, con la semplicità del gesto continuo, e correvo. Oh si, io correvo. Lungo dirupi vette sassi, io correvo, libero e veloce. E tutta la mia vita era ciò che volevo, una corsa continua, uno sfuggire, un essere libero, un volare, un vivere sempre sul bordo del mondo, oh si, io correvo, come correvo! Poter sfuggire a tutto. E saperlo. Avere la certezza di avere sempre una via di fuga, una corsa per allontanarsi, liberarsi dell'impaccio. Oh si! E io correvo, correvo.