Studente |
Paolo Tringali
Relatore |
prof. Marco Navarra
FacoltĂ di Architettura Siracusa | Corso di Laurea in Architettura Ateneo di Catania Tesi di Laurea: INFORMALE. strategie di riparazione per una cittĂ spontanea 26 Ottobre 2007
indice
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introduzione | luanda pop check list
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100 anni | design umanitario
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densità | Cairo
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informale | crescita senza regole?
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Self-Service city | istruzioni d’uso
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abitare | fai da te!
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terrazze | attività “sospese”
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riparazione | un progetto per la città informale
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note webgrafia bibliografia
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IL CAIRO È UNA CITTÀ AL LIMITE, UNA CITTÀ CHE SPERIMENTA QUOTIDIANAMENTE LA CONVIVENZA IN CONDIZIONI ESTREME – CARENZA DI TERRA, DI ACQUA, DI FONDI E DI LIBERTÀ – IN CONDIZIONI CHE IL CASO HA VOLUTO FOSSERO QUELLE CON CUI SEMPRE PIÙ ESSERI UMANI SONO COSTRETTI A CONFRONTARSI. Maria Golia
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© Mohamed Alì - Andy Warhol 1977
Conosci quella vecchia storia per la quale a Natale ogni famiglia invitava un povero alla sua tavola, lasciando un posto sempre apparecchiato? Immagina che questo poveretto cominci a criticare il cibo, a parlare i modi sgarbati e a toccare le tue cose. E ti rovina la festa. Questo è l’effetto suscitato dal nostro Padiglione: ha messo a nudo senza ipocrisie, quello che è il sistema dell’arte contemporanea. Il fatto che sia stata l’Africa, l’ultima arrivata, a scardinare tutto questo, irrita molto! Sindika Dokolo
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INTRODUZIONE LUANDA POP CHECK LIST
2007: Per la prima volta nella storia della manifestazione, alla 52 Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, è presente il padiglione africano. Come per ogni novità che si rispetti, nascono soprattutto domande e polemiche: Perchè un padiglione africano, considerato che non ne esiste né uno americano né uno europeo? Potrà essere sufficiente a descrivere la complessità di un intero continente? E soprattutto, considerato che l’intera mostra ospitata nel padiglione, è di proprietà del collezionista angolano Sindika Dokolo, è naturale domandarsi se una collezione privata possa essere rappresentativa di una nazione o un continente. a
Ciò che è stato realmente messo in mostra a Venezia, non è - a dirla con le parole di Sindika Dokolo (proprietario delle opere esposte alla Biennale) - una collezione d’arte africana, ma una collezione africana d’arte contemporanea. In questa semplice affermazione, si trova una possibile chiave di lettura della polemica; il mecenate chiarisce la propria posizione e sottolinea il significato della partecipazione alla biennale con la sua collezione: attraverso essa il Continente Nero può diventare in grado di “ritrovare se stesso nella cultura contemporanea” e quindi anche in alcuni aspetti della cultura globale. A sostegno della propria tesi, Dokolo, cerca di spiegare con un esempio quale possa essere oggi il ruolo dell’arte contemporanea in Africa e quali processi sia in grado di innescare: chiarisce, in una recente intervista sulla rivista Abitare1 come le persone di Luanda, osservando i cartelloni pubblicitari per una mostra d’arte contemporanea, con l’immagine di Mohamed Alì, realizzata da Andy Warhol, si siano riappropriate di un loro importante riferimento culturale. Dokolo spiega che “in realtà il lavoro non si lega a lui (Andy Warhol) nè a Mohamed Alì , ma rappresenta il processo attraverso il quale la gente si è riappropriata
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di un pezzo della propria cultura, senza che nessuno abbia detto come doveva farlo. La mia generazione ha degli obiettivi diversi da quella dei miei padri. Loro combattevano per l’indipendenza, io vorrei avvicinare i miei figli al mondo globalizzato. Mi sono accorto che il modo per ottenere questo non è il ‘sistema degli aiuti’, che ti mette in uno stato di nuova dipendenza, ma la cultura.” Lo scopo di questo breve testo introduttivo non è certamente quello di prendere posizione nella polemica in atto, quanto piuttosto di evidenziare che le parole di Sindika Dokolo, un africano che lavora per la crescita culturale della propria nazione, rifiutando la logica assistenziale e dell’aiuto umanitario, hanno una risonanza con l’approccio metodologico adottato nel lavoro di ricerca svolto al Cairo. “INFORMALE. strategie di riparazione per una città spontanea” è stato condotto cercando di osservare i fenomeni “dall’interno”, nel tentativo di offrire soluzioni, che fossero sempre una “amplificazione” di condizioni esistenti, anche se, in certi casi, esse potranno apparire di frontiera o provocatorie. In ciò si inserisce l’idea della riparazione come modello che ha già mostrato un alto grado di innovazione nella cultura araba contemporanea, e costituisce un approccio alternativo alle logiche occidentali del consumo e della produzione di massa. Il “fenomeno” città informale al Cairo è stato, dunque, trattato non come fosse il prodotto di una sottocultura in attesa dell’aiuto tecnologico dell’occidente, quanto piuttosto come modello di una città contemporanea, cresciuta con regole, scaturenti dalle condizioni e dai limiti che hanno prodotto quel funzionamento e quell’immagine.
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Il progetto proposto, studiate le regole che sottendono a quel funzionamento, opera in continuità con esse, talvolta amplificandole, talvolta immaginando altri usi, che comportano nuovi utilizzi ed ulteriori trasformazioni. Metodologicamente è stato adottato un processo aperto, centrato nel selezionare le proposte più adeguate a “quel” contesto. Si è provato a scommettere sulle logiche con le quali la città ed i suoi abitanti hanno già cominciato a sfruttare le superfici dei tetti attraverso attività d’uso informale, altrimenti difficili da realizzare a causa dell’insufficienza di spazi. In concreto si affronta il problema o la questione di dotare di micro-servizi collettivi (asili nido, centri di primo soccorso, ecc.) un’area densamente popolata e con una strutturale carenza di spazi canonicamente utilizzabili. Tale metodologia progettuale, che è una necessità nel contesto descritto, può rappresentare un’occasione anche per il mondo occidentale. Il 2006, infatti, è stato, per la prima volta, il momento in cui la popolazione urbana mondiale ha superato quella residente nelle campagne. Nella prospettiva in cui le megalopoli con i loro probemi e le loro potenzialità, diverrano organismi sempre più diffusi, complessi e densi, appare importante comprendere i fenomeni che le caratterizzano, ed immaginare possibili visioni per il futuro.
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San Francisco - Incendio 1906
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100ANNI
ARCHITETTURA PER L’UMANITA’
Progettazione Sociale, Progettazione Umanitaria o Architetura per le Emergenze sono solo alcune delle etichette (solitamente tradotte dalla lingua inglese) che il XX secolo ha provato a definire per descrivere le ricerche e l’impegno di molti progettisti in tutto il mondo nei confronti delle situazioni di crisi, legate a calamità naturali o attività belliche, che sempre più spesso sono entrate a far parte della nostra vita. 2
Dall’inizio del secolo, a seguito della rivoluzione industriale, si erano prodotte molte innovazioni nel campo delle costruzioni: le strutture in acciaio, le pompe per l’acqua, gli ascensori. I lavoratori continuavano a migrare verso le aree urbanizzate, provocando la nascita degli SLUM nelle aree periferiche delle grandi città. L’attenzione degli architetti si rivolse quindi verso le potenzialità dell’industria nella realizzazione di edifici low-cost. Il primo esempio, durante il XX secolo, di ricostruzione legata al design a scopi sociali si verificò in occasione del terremoto di San Francisco del 19063: in quell’occasione grazie ad un innovativo rapporto tra politica ed architettura, vennero realizzati in brevissimo tempo centinaia di piccoli villini in legno. Le Corbusier fu uno dei più attenti interpreti di questi fenomeni; egli concepì la casa come “macchina per abitare”, e sviluppò un prototipo di unità residenziale modulare, che chiamò Maison Dom-ino, uno dei concetti di base della quale era la possibilità dell’unità di essere ripetuta sia in orizzontale, che in verticale, tamponamenti prefabbricati e bucature dalle altezze uniformi ne semplificavano la realizzazione. Un altro pioniere della prefabbricazione e degli edifici come “sistemi di componenti” fu l’architetto tedesco Walter Gropius, che fondò e diresse il Bauhaus dal 1919 al 1928. Uno dei principali obbiettivi della scuola era quello di far fiorire una “coscienza sociale” del progetto. Egli progettò nel 1931, assieme a Marcel Breuer, uno dei primi condomini residenziali, che sovvertiva le idee alla base delle anguste e scure case popolari, risultato di grandi speculazioni edilizie. Ogni appartamento copriva l’intera profondità
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del blocco, ricevendo così la luce da entrambi i lati. In ogni blocco erano inoltre previsti spazi verdi condominiali. Come Gropius e Le Corbusier anche l’americano R. Buckminster Fuller, credeva nel potere del progetto per migliorare le condizioni umane. Uno dei suoi contributi più importanti fu quello di indagare uno schema strutturale che si basasse sul principio delle tensioni, piuttosto che su quello delle compressioni. La Dymaxion House, progettata da lui nel 1929, ed il cui concetto di base era quello di realizzare “il più possibile con il meno possibile”, aveva un sistema di climatizzazione naturale, e poteva essere illuminata da una singola sorgente, attraverso un sistema di specchi. Il suo più importante contributo al “design umanitario” è rappresentato dalle sue ricerche sulle cupole geodetiche, che ancora oggi, costituiscono importanti riferimenti nella progettazione di rifuggi di prima accoglienza. Nel 1931, Jean Prouvè, fonda la società anonima Les Ateliers Jean Prouvé con la quale provvede alla fornitura di mobili in ferro e attrezzature per il completamento dell’ospedale Grange-Blanche progettato da Garnier a Lione. A Prouvè risale la progettazione di un sistema di pareti mobili e alcuni esperimenti di case o strutture prefabbricate, leggere e facilmente trasportabili quali la maison BLPS del 1935, una abitazione di circa 3x3 metri pensata come unità minima per le vacanze. Sempre al 1935 risale la realizzazione dell’Aeroclub Roland-Garros a Buc ( Parigi), una struttura in ferro con rivestimenti in vetro e in pannelli prefabbricati double face, con interposto uno strato isolante. Anche i blocchi sanitari erano prefabricati con un procedimento che ricorda quello usato negli ambienti di servizio delle navi e degli aerei e che prefigura la cellula bagno tridimensionale progettata tra il 1938 e il 1940 da Buckminster Fuller per la sua Dymaxion. Nel 1936, cominciò a svilupparsi l’idea di poter avere dei rifugi temporanei mobili; in quell’anno, Wally Byam, progettò e realizzò il prototipo per la prima casa mobile su ruote. Oggi milioni di persone trovano sistemazioni temporanee e di emergenza
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negli eredi di quel prototipo. Durante la seconda guerra mondiale ogni energia economica e progettuale sarà finalizzata alla guerra: il design di rifugi ed unità per le truppe diverrà, pertanto, una priorità4. In seguito a ciò i senza tetto erano milioni in tutto il mondo e furono progettate numerose soluzioni di ricovero d’emergenza. A tal proposito l’architetto finlandese Alvar Aalto sviluppò un sistema di ricovero temporaneo che poteva essere trasportato direttamente sui luoghi del disastro, dando riparo a quattro famiglie, che condividevano una centralina energetica per il riscaldamento. Contemporaneamente, in Francia, Le Corbusier venne invitato a mettere in pratica le sue idee ed esperienze nel progetto per l’Unité d’Habitation di Marsiglia; Alta 17 piani, è composta da una successione di 337 appartamenti, che appaiono come costruiti in serie e poi assemblati, a testimoniare la sua idea, secondo la quale la casa si sarebbe dovuta trasformare in una “macchina per abitare”. Ogni unità abitativa è del tipo duplex, con ingressi disposti su un corridoio-strada situato ogni due livelli. Al settimo e ottavo piano sono presenti una parte dei servizi generali necessari alla popolazione (asilo-nido, negozi, lavanderia, ristorante, ecc.), in modo da eliminare, secondo la teoria di Le Corbusier, il salto dimensionale tra l’edificio e la città. Ancora una volta la progettazione torna all’idea della produzione di massa. Tra il 1947 ed il 1951 vienne realizzata la prima Levittown, che prese il nome dal suo progettista e costruttore William Levitt. Al di la degli aspetti figurativi il progetto fu rivoluzionario per il“design umanitario”perchè, per la prima volta, il concetto di produzione seriale venne spostato dalla fabbrica al sito di costruzione. Per tutti gli anni cinquanta si sviluppò quello che si definì movimento “self-help”, la cui idea di fondo era che i governi, anzichè finanziare progetti di pianificazione dall’alto,
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utilizzassero i fondi disponibili per contribuire alla realizzazione delle abitazioni che le popolazioni in via di sviluppo erano abituate a costruirsi da sole. Una delle prime esperienze in questo senso fu coordinata, a partire dal 1946, dall’egiziano Hassan Fathy5, nella realizzazione del villaggio di Nuova Gourna. Egli sosteneva che nessuna fabbrica al mondo potesse produrre ciò di cui quel villaggio aveva bisogno. Egli guidò una sorta di lavoro artigianale in cui mise a disposizione le sue conoscenze tecniche, elaborando il progetto assieme agli abitanti. In quel periodo furono sviluppati molti approcci differenti basati sul “self-help”: spesso gli enti governativi realizzavano un nucleo costituito da una stanza ed i servizi, e gli abitanti potevano costruirvi attorno il resto dell’alloggio; o venivano forniti prestiti e sovvenzioni a chi costruiva le fondazioni, la struttura ed il tetto per la propria casa. Tra gli anni ‘60 ed ‘80 nascono i primi movimenti umanitari legati alla progettazione. Una giovane coppia americana fonda Habitat for Humanity: una sorta di associazione cristiana, che intendeva sradicare la mancanza di alloggi, costruedo semplici case, basate sull’”economia di cristo”. Tra il 1973 ed 1976 fu realizzato il primo progetto, costruendo in Zaire 100 unità edilizie. Nel 1982 fu publicata una guida pratica alla costruzione, intitolata Self-Help Housing Manual. Contemporaneamente, Fred Cuny, dagli anni settanta in poi promosse una continua attività di volontariato internazionale e di coordinamento, basato sull’idea che dopo un disastro più che ripulire con i buldozer, rimuovendo i detriti e importando i materiali da costruzione, fosse necessario incoraggiare le organizzazioni ed i governi a pagare le famiglie, affinchè loro stesse ripulissero i terreni e recuperassero i detriti per realizzare ricoveri sia temporanei che permanenti. Alla fine di questo periodo si sviluppò un nuova tendenza, detta“progettazione comunitaria” o “progettazione partecipata”. Samuel Mockbee già dai primi anni ‘80 fu uno dei principali promotori di questa modalità; fondò nel 1982 il Rural Studio: per la prima volta uno studio professionale si preoccuperà non solo di trattare gli interlocutori nelle situazioni di povertà ed emergenza con dignità e rispetto, ma anche di trattarli da veri
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e propri “clienti” . Negli anni ‘90 si osserva sia la sperimentazione di numerosi nuovi materiali e tecniche costruttive, sia la nascita di alcune organizzazioni con scopi umanitari, perseguiti attraverso il progetto d’architettura; la peculiarità odierna sta nella rapidità con cui gli attori coinvolti (governi, associazioni umanitarie, gruppi di progettazione, ecc.) possono scambiare tra loro informazioni attraverso internet ed i network che nascono appunto con tale scopo. 6
La storia del design umanitario in tutto il xx secolo sembra dimostrare l’esistenza di due approcci fondamentali: uno legato alla prefabricazione, la cui logica è stata quella di realizare prodotti modulari, facilmente assemblabili e trasportabili, in modo da raggiungere ogni luogo in tempi brevi; il secondo legato all’autocostruzione, in questo caso il ruolo dei progettisti sembra essere stato quello di imparare a sfruttare le risorse ed i modelli esistenti nel tentativo di avere un approccio maggiormente rivolto all’economicità ed ad una minore dipendenza da fattori esterni. Ciascuno dei due modelli si è dimostrato più adatto a certe condizioni: la rapidità e semplicità di montaggio previste nella prefabbricazione si sono spesso rivelate la soluzione migliore in molti casi di primo soccorso dopo un disastro naturale o per attrezzare campi provvisori per l’assistenza ai civili durante le guerre; l’autocostruzione, invece, è probabilmente l’approccio più adatto alla crescita di paesi in via di sviluppo, poichè elabora strategie che sono indipendenti da fattori esterni e dal sistema degli “aiuti umanitari”. Senza voler ridure ai due soli estremi una molteplicità di situazioni e variabili che possono a volte risolversi con una combinazione delle due strategie, si vuole qui provare a definire delle possibili condizioni d’intervento, al fine di valutare nel migliore dei modi quale possa essere l’approccio più adeguato ad una derminata “crisi”.
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DENSITA’ CAIRO
Cairo, Egitto 16 milioni di abitanti E’ al tredicesimo posto nella classifica tra le più grandi megalopoli del pianeta. Ogni venti secondi nasce un egiziano7. La crescente espansione della città e la continua domanda di alloggi da parte di una popolazione in costante aumento, hanno prodotto una città che oggi sembra aver raggiunto i propri limiti di crescita, dati dalle condizioni geografiche del territorio: a Sud-Est il deserto ed a Nord-Ovest il delta del Nilo con i preziosissimi terreni agricoli. Negli ultimi cinquant’anni, la crescita della città è avvenuta in modo spontaneo occupando i campi coltivati. Nel corso della sua storia la città ha cambiato più volte il suo nucleo originario, sicchè lo sviluppo attuale si è formalizzato, soprattutto tra il XVIII ed il XX secolo, intorno ad una molteplicità di “centri” con caratteristiche, sociali ed architettoniche chiaramente riconoscibili, a differenza quindi delle città europee che solitamente si sviluppano in anelli concentrici intorno ad un nucleo originario, il Cairo è cresciuta come un insieme di città spesso. La giornalista Maria Golia identifica la peculiarità del cairo in quella che lei stessa definisce “pressione umana”8, la mescolanza, cioè, di persone, animali e mezzi di trasporto, e la densità con cui tutto ciò si manifesta. La città ha, infatti, una densità della popolazione di circa 35 abitanti9 per km2; con i picchi più alti lungo un corridoio che si estende dal distretto di Giza, sulla riva occidentale del Nilo, fino alla parte nord orientale, attraversando tutta la città. Comprendere le dinamiche attraverso cui la città si è modificata, le tecniche costruttive e le strategie di sopravvivenza, utilizzate in questi nuovi inse-
Sky-line della città del Cairo 18
diamenti, rappresenta un preciso punto di partenza nella conoscenza della mega-Cairo.
Al Qahira - Sintesi storica
Il primo insediamento nella zona dell’attuale Cairo fu un forte romano edificato attorno al 150 d.C. e conosciuto come Fortezza di Babilonia, sito in prossimità di un antico canale egiziano, che collegava il Nilo al Mar Rosso. Una piccola cittadina copta crebbe lentamente attorno alla fortezza contro la quale si scagliarono le armate di ‘Amr ibn al-’As, provenienti dalla Palestina. La battaglia portò nel 639 d.C. alla capitolazione dell’assediata Babilonia e il conquistatore dette ordine che nell’area si edificasse un accampamento militare, che divenne la capitale del neo-governatorato, guidato da ‘Amr per volere del califfo ‘Umar ibn al-Khattab. La città del Cairo (Al Qahira, “la Vittoriosa”) fu fondata nel 969 d.c. dai Fatimidi, come città fortificata. A partire dal XIV secolo, sotto il dominio dei Mamelucchi, il Cairo divenne una delle città più grandi e floride del mondo medievale; essa dominava gli scambi commerciali e venivano realizzate maestose bellezze architettoniche. Nel XVII secolo, con il dominio Ottomano, la città conobbe un lungo e profondo periodo di declino, che durerà fino alla metà del XIX secolo. Sotto il governo di Mohamed Ali Pasha e del suo successore, la città avviò una rinascita partendo dal suo riassetto politico e soprattutto entrando in un processo di crescita economica e modernizzazione, dipendente però da imprenditori e tecnici europei. Nel 1863 Ismail, che aveva ricevuto un’educazione improntata alla cultura
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Ortofoto: Area metropolitanea del Cairo
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Abitanti per Km2 < 2000 2000 - 4000 4000 - 10.000 10.000 - 20.000 20.000 - 30.000 >30.000
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francese, prese il potere, con l’intenzione di migliorare e ammodernare la sua capitale, abbattendo molte delle costruzioni esistenti e ricostruendo dal nulla. Per 10 anni, quella che era stata una palude divenne la sede di un continuo cantiere; Ismail invitò architetti dal Belgio, dalla Francia e dall’Italia, per disegnare e costruire, accanto all’antico Cairo islamico, la nuova città, dallo stile europeo. Durante il suo regno, il Canale di Suez fu ultimato e inaugurato con grande clamore, e la città ricevette l’attenzione di tutto il mondo. Negli “anni ruggenti” che seguirono, il turismo e gli affari prosperarono, e Il Cairo divenne una sorta di città dell’oro. I banchieri europei, con la complicità dei loro governi, fecero a Ismail enormi prestiti (applicando altissimi tassi di interesse), affinché potesse realizzare i suoi piani. Nel 1882 il sogno finì, quando gli inglesi annunciarono che, fino a quando l’Egitto non avesse estinto il debito, ne avrebbero preso il controllo. Negli anni ‘60 i piccoli villaggi rurali, sorti nella regione definita “Grande Cairo” (che comprende i distretti amministrativi di Giza, Qalyubiya, e Cairo), hanno cominciato ad espandersi in maniera estremamente rapida ed incontrollata, erodendo i terreni coltivati sul delta del fiume Nilo e configurando una nuova e consistente porzione della città, oggi denominata “informal city”.
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circa, sono le persone che vivono negli SLUM, pari a un terzo della popolazione mondiale che vive in aree urbanizzate. Questa cifra potrebbe raddoppiare entro il 2030 fonte UN-HABITAT
INFORMALE CRESCITA SENZA REGOLE?
La conurbazione della regione, detta “Grande Cairo”, con una popolazione di quasi 16 milioni10 di persone, comprende circa il 25% di quella dell’intero Egitto. Dal punto di vista amministrativo è suddivisa in tre grandi province: il Cairo ne costituisce la parte centrale, ed ha ad ovest Giza ed a nord Qalyubiya. Parte delle tre province è oggi occupata dalla Città Informale, che può essere considerata uno dei più grandi slum del mondo arabo. Mike Davis nel libro Il Pianeta degli Slum11, definisce uno slum quale “luogo caratterizzato da sovraffollamento, strutture abitative scadenti o informali, accesso inadeguato all’acqua sicura ed ai servizi igienici, scarsa sicurezza di possesso.” La parola slum, tuttavia, non viene quasi mai utilizzata in Egitto, il termine aashwa’i12 è il solo che ufficialmente indica le aeree urbane degradate e la sua traduzione significa “casuale”; esso viene utlizzato proprio per sottolineare che tali aree sono non pianificate e costruite al di fuori delle regole. Il tipo di aashwa’i più diffuso nella regione detta “Grande Cairo” è di gran lunga quello che si è sviluppato a macchia d’olio, dopo la seconda guerra mondiale, sui campi coltivati del delta del Nilo. Soltanto recentemente il governo egiziano ha cominciato a prendere atto ufficialmente dell’esistenza di alcune aree residenziali degradate. Dal 1992 il governo ha lanciato un programma per migliorare le condizioni delle aree informali o aashwa’i. Oggi oltre il 60% della popolazione della regione vive in aree definite “informali”13. Il censimento del 1947 registrava una popolazione nell’intera regione di circa 2,8 milioni di abitanti. A partire da questo periodo la popolazione cominciò ad aumentare con una crescita del 4% annuo prevalentemente per la migrazione proveniente sia dall’alto che dal basso Egitto, a causa del boom economico: ad est della città cominciarono a svilupparsi ed a crescere rapidamente una moltitudine di villaggi agricoli e quindi, nel decennio a cavallo tra gli anni ‘50 e ’60, cominciarono a svilupparsi, in maniera significativa, le aree informali.
CRESCITA INFORMALE
1950
Diagrammi di crescita delle aree informali 24
La guerra arabo-israeliana, scoppiata nel 1967 e protrattasi con varie fasi fino al 1979, bloccò completamente la crescita della città pianificata, ma la popolazione, che continuava ad aumentare di numero, si riversò ancor più nelle aree informali che crebbero ulteriormente negli anni ‘70 e nei primi anni ’80 grazie al boom economico, dovuto all’infitah (passaggio da un modello economico dirigistico ad uno liberistico). Il periodo tra il 1974 ed il 1985 viene considerato il momento “d’oro” dell’edilizia informale al Cairo e fu anche il momento nel quale il governo cominciò a rendersi conto di non poter più ignorare il fenomeno: nel 1978 una serie di decreti resero illegale la costruzione sui terreni agricoli. Contemporaneamente il governo cominciava ad avviare la politica delle New-Towns (città satellite costruite ancora una volta su modelli occidentali), che si riveleranno un fallimento. Dalla fine degli anni ‘80 il fenomeno rallenta visibilmente, si verificano soltanto piccole addizioni sull’ampia fascia periferica vicino alla tangenziale. Quale ne sia stata la ragione è oggetto di dibattito; si discute infatti se, e in qual misura, abbiano influito i controlli governativi; sembra che il fattore decisivo sia stata la diminuzione di liquidità proveniente dalle rimesse dei lavoratori egiziani all’estero. Un altro fattore che ha certamente contribuito al rallentamento del fenomeno, in particolare dagl’anni ‘90, è stato il rallentamento della crescita demografica. Infine nel 1996 il governo emanò due decreti legislativi, i quali stabilivano chiaramente che ogni nuovo edificio su suolo agricolo ed ogni costruzione urbana realizzata, senza permessi, sarebbe stata severamente punita attraverso la corte di giustizia militare 14. Ciò nonostante il fenomeno non accenna ad arrestarsi: il Ministero della Pianificazione e il GTZ (German Technical Cooperation)15, che studiano il fenomeno con grande attenzione, coinvolgendo anche la popolazione, hanno confron-
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tato immagini satellitari dal 1991 al 1998, dimostrando che gli insediamenti informali al Cairo continuano a crescere ad un ritmo che è tre volte più elevato di quello della città formale. L’informal city, tuttavia, non presenta caratteristiche omogenee, e si possono individuare, in linea di massima, tre tipologie: la prima nasce propriamente dall’erosione di terreni agricoli, che vengono acquisiti attraverso la vendita. Queste aree presentano un impianto planimetrico piuttosto ordinato che corrisponde alle lottizzazioni agricole; le strade principali ripercorrono i grandi canali di irrigazione ormai interrati sui quali si poggiano blocchi residenziali lunghi tra i 70 ed i 150 metri con un fronte di 10-15 metri, distanti gli uni dagli altri da 2 a 4 metri. Gli spazi pubblici sono completamente assenti, e le strade sono, in genere, in terra battuta. Gli edifici sono costruiti con strutture portanti e solai in cemento armato, e vengono di solito progettati per poter raggiungere almeno i cinque piani di altezza. Spesso nelle aree marginali di nuova costruzione gli edifici raggiungono anche i 15-20 piani. La seconda tipologia nasce su terreni desertici e la sua peculiarità sta nel fatto che le residenze private vengano realizzate su suolo pubblico. La crescita del fenomeno è differente per ogni località: ad esempio Manshiet Nasser, ad Ovest del Cairo, è sorta su una vecchia discarica abusiva. Si tratta di piccoli insediamenti, che si allargano lentamente a causa del disinteresse del governo. Gli abitanti pur non avendo diritti di proprietà sulla terra, cercano di acquisirli dall’interpretazione delle leggi che regolano il suolo desertico ed accumulando documenti che certificano la loro residenza su quel territorio. Questi insediamenti somigliano molto alle favelas dell’America Latina: l’impianto urbano si presenta in maniera meno definita della precedente ed è
Costruzioni informali su terreni agricoli
Costruzioni informali su terreni desertici
Distribuzione delle tipologie informali 26
TIPOLOGIE DI INSEDIAMENTI INFORMALI AL CAIRO
Costruzioni informali su terreni agricoli Costruzioni informali su terreni desertici Costruzioni informali nella cittĂ storica
Costruzioni informali nella città storica
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dettato principalmente dalla topografia del territorio. In generale gli edifici sono alti 3-4 piani al massimo, spesso senza struttura portante ed in condizioni peggiori rispetto a quelli che sorgono sui terreni agricoli. Infine, la terza tipologia, si manifesta in alcune aree interne della città, sia nelle parti più antiche che in quelle svilluppatesi all’inizio del XX secolo, si sono infatti formate piccole sacche di edifici bassi (2-3 piani) ed in forte degrado, in cui alloggiano famiglie dal basso reddito. L’esistenza di queste sacche è dovuta solitamente al basso valore dei terreni. In effetti queste zone rappresentano una parte poco significativa della città, almeno per quanto riguarda il numero di abitanti. Recentemente alcune di queste aree sono state convertite in giardini pubblici, e gli abitanti ricollocati in edifici residenziali finanziati dallo Stato16.
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Self-Service CITY ISTRUZIONI PER L’USO
Boulaq El Dakrour, è un distretto, situato sul confine ovest, del governatorato di Giza; ha origine dal villaggio di Zeinein che si è espanso, negli ultimi cinquant’anni, sui terreni agricoli circostanti mediante insediamenti senza alcuna autorizzazione edilizia. Esso ha cominciato ad apparire nelle cartografie ufficiali del governo solo nell’ultimo decennio e rappresenta l’oggetto di studio della nostra ricerca17. Il distretto è situato su una vasta area pianeggiante delimitata ad Est, verso la città “formale”, da una precisa barriera costituita dalla linea ferroviaria Nord-Sud, dalla grande arteria stradale El Sudan e dal canale El Zomor. Il limite Ovest è definito dal grande anello autostradale che circonda la regione ed il limite Sud è la grande arteria Re Faisal. L’accesso veicolare a questo distretto è possibile soltanto in tre punti, mentre quello pedonale avviene grazie a cinque sovrapassi che superano il canale e la ferrovia. Il distretto è caratterizzato da un’altissima densità della popolazione, con punte massime di1000 persone per ettaro, essa, negli ultimi trent’anni, in alcune aree, ha continuato a crescere al ritmo di oltre il 12% l’anno, una crescita che, nonostante si sia registrato un rallentamento nel flusso migratorio proveniente dal basso Egitto, supera ancora di molto la media nazionale. Si prevede, pertanto, che la popolazione del distretto (attualmente 550.000 abitanti) potrebbe raddoppiare nei prossimi quindici anni18. Il livello di povertà, se confrontato con quello dell’intera regione cairota, è relativamente alto; studi recenti hanno rivelato che oltre il 50% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà; inoltre, va segnalato che all’interno del distretto permangono alcune sacche sociali ad alto reddito (ad esempio alcune residenze dell’Università del Cairo). Le reti di approvvigionamento idrico e delle fognature coprono buona parte
Distretti del Cairo Shubra
Imbaba
Abbasiya
Bulaq
Mohandisseen
Boulaq el Dakrour
Zamalek
Sayida Zaynab
Maâ&#x20AC;&#x2122;adi 0
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4
5 Km
Inquadramento urbano
terreni
nucleo
stato originario
terreni
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Diagramma di assorbimento dei terreni agricoli
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dell’area, ma con un servizio di livello insufficiente: molte abitazioni soffrono per la bassa pressione dell’acqua, in particolare quelle oltre il quarto o quinto piano, ed i canali di scolo sono altamente inquinati. Le strade asfaltate o pavimentate sono soltanto il 10% e la maggior parte di esse è situata nella parte sud19. Esiste solo un ufficio postale per servire l’intero distretto e due stazioni dei pompieri nei pressi delle due fermate della metropolitana. C’è, inoltre, una grave carenza di impianti scolastici, ed il Piano di Sviluppo redatto dal GOPP (General Office For Physical Planning) ha previsto una richiesta di oltre 1800 classi nel periodo fino al 2017. Una delle ragioni di questa grave mancanza è l’impossibilità da parte del “Dipartimento all’Educazione” di accedere a terreni privati per poter realizzare edifici scolastici. Nel distretto sono attualmente funzionanti otto impianti fra attrezzature sportive e centri della gioventù. Vi è un ospedale, ma nessun altro servizio sanitario delocalizzato20. Dalla descrizione effettuata risulta chiaro che il distretto di Boulaq El Dakrour vive una condizione di sottosviluppo rispetto all’intera città, per l’alta densità abitativa, per un elevato tasso di disoccupazione, e per le insufficienze infrastrutturali e dei servizi.
Ascensore per le stelle. di Camilla Lai
Qui al cairo, per intenderci, il vero supermegaboom edilizio è scoppiato negli anni 60. più, meno. soprattutto sul lato di giza, dove, racconta la generazione nata a fine anni 50, non c’era nulla, mentre loro crescevano. campi coltivati, insomma. non granché di altro. soli 40 anni dopo è un centro di traffico, rumori, gente, business, soldi, povertà e contraddizioni che manhattan, al confronto, trasmette la pace di una casa in campagna. raccontare perché o come questo sia accaduto, o che confusione tutto ciò abbia determinato, negli animi di milioni di persone, esula da questa favola. ma certo forma lo spazio che si riempie. Pare che i palazzi di Giza siano saltati fuori come funghi. così capita di entrare spesso in palazzi con vetrate basse e infissi d’alluminio. finestre ad angolo, cosicché da vetro su vetro solo appena intramezzato dall’inevitabile alluminio del 73 appaia una visione bifocale dei tetti del cairo, pieni di satelliti e spazzatura. balconcini riadattati a salotti che di condono non hanno mai sognato. soffitti non troppo alti. androni vasti, sempre qualche scalino. scene di film visti e mai vissuti. c’è sempre qualche ascensore che non funziona. il palazzo di ieri sera ne aveva ben tre. il mio amico mi ha spiegato che funzionano a giornate. il destro, il sinistro o quello di mezzo. a seconda. sembrava parlassero quegli ascensori, vestiti in arancione spiccato e tipicamente sessantottino. e dai vai tu, oggi. e no che non mi va di scendere. aò! a chi tocca? yalla yalla. nessun ascensore, in nessun palazzo di qualsiasi epoca, ha la porta, al cairo. chissà che fine fanno le porte degli ascensori, in egitto? ne sono arrivati tutti sprovvisti o ci sono delle oasi piene di porte, dietro i crateri di gesso del deserto bianco? non solo manca il portellone unico a quelli anni 70. le porte interne mancano anche agli ascensori più anziani, quelli con le porticine di legno che si baciano, che in italia se non si baciano perfettamente con lo scrocco della grata di ferro, l’ascensore proprio non accenna a decollare. gli ascensori egiziani, pur vecchiotti, funzionano anche senza porte. e ove ci sono anche senza chiuderle. funzionano anche senza che le porticine si bacino, in quei casi in cui manca l’altra metà (la migliore?). ma porte o senza, tutti gli ascensori, al cairo, schizzano su o giù come razzi appena si sfiora il numero del piano. i colori acidi dipinti sull’alluminio, verde, ocra, intermezzano il muro. e sul muro che scorre veloce, ci sono strani graffiti, incisi con un pennellone e una vernice che colava gocce dispettose: così finiva pure che qualche numero si rovinava. ma chi l’ha dipinti, quei numeri dei piani? e perché? soprattutto: come? quando il palazzo era ancora in costruzione? prima che ci infilassero l’ascensore senza porta? magari calandosi con una corda nella tromba il ritmo del viaggio è dettato dall’intercapedine infrapiano, e varia da palazzo a palazzo.
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ABITARE FAI DA TE!
La città informale del Cairo vive in una sorta di osmosi con la città consolidata, infatti questi due mondi sembrano contaminarsi continuamente, pur restando formalmente separati. Il confine è rappresentato da un insieme di infrastrutture urbane, che costituiscono, contemporaneamente, un limite ed una “membrana” che permette l’accesso e la comunicazione tra i due mondi: la grande arteria stradale Al Sudan sembra funzionare proprio come un hub, dove avvengono gli scambi tra i mezzi di trasporto pubblici ufficiali ed i trasporti “informali” che portano all’interno del quartiere di Boulaq El Dakrour. All’interno della città informale ci si muove soltanto con taxi, minibus da 12 posti e soprattutto con i tok-tok, piccoli mezzi a tre ruote di produzione indiana e di piccola cilindrata, che trasportano fino a 4-5 passeggeri. Tutto il distretto ha una struttura urbana estremamente chiara e precisa: i blocchi residenziali sono infatti cresciuti intorno ai piccoli villaggi rurali esistenti già dagli anni cinquanta, occupando i lotti agricoli dalla forma stretta e lunga, che si poggiavano sul lato più corto ai canali di irrigazione. La struttura della città segue oggi la lottizzazione agricola originaria, il che ha prodotto un’altissima densità edilizia, poiché i grandi blocchi residenziali sono stati costruiti senza soluzione di continuità tra gli uni e gli altri; parimenti essa ha prodotto tre tipologie di strade, ciascuna con caratteri ed usi diversi: i grandi viali di 15\20 metri, che dal limite Est penetrano all’interno della città, dove si concentrano, principalmente, le attività commerciali ed i mercati all’aperto; le strade principali che seguono il percorso dei vecchi canali di irrigazione e che attraversano il distretto prevalentemente in direzione Nord-Sud; ed infine, perpendicolari alle altre due tipologie, le strade strette (2-4 metri) tra i grandi blocchi edilizi con una sezione a “T” rovesciata, che assolvono fondamentalmente alle funzioni d’uso “condominiali”.
Materiali Tecniche Costruttive UnitĂ Edilizia Logge
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Un altro fondamentale aspetto che ha contribuito a definire l’immagine di questa porzione di città contemporanea è la tecnica costruttiva degli edifici. Gli abitanti hanno, con il passare del tempo, appreso e migliorato tecniche di costruzione in cemento armato riuscendo a realizzare edifici alti fino a 1520 piani. Tutti i blocchi edilizi sono costruiti seguendo un modulo quadrato con lato di circa 4 metri, che, con opportune variazioni, viene utilizzato anche per realizzare i vani dei collegamenti verticali. Le strutture in cemento armato sono spesso sovradimensionate, e vengono sempre realizzate con la prospettiva di una indefinita crescita verticale. Tutte le superfici esterne vengono lasciate con i mattoni di tamponamento a vista, che solo in rari casi vengono ricoperti da un sottile strato di intonaco colorato o di cemento grezzo. Unica eccezione è costituita dalle logge, che, rappresentando una sorta di spazio-diaframma tra lo spazio pubblico della strada e quello intimo dell’abitazione, vengono quasi sempre trattate con intonaco bianco e poi dipinte con tessiture colorate (in casi più rari vengono utilizzate delle piastrelle per comporre le texture decorative). Dallo spazio pubblico della strada si ha solitamente accesso, direttamente o attraverso un portico, al vano scala: questo è, quasi sempre senza copertura per consentire un facile accesso alle terrazze e per permettere di lasciar passare la luce. Il vano scala solitamente distribuisce l’accesso a due appartamenti simmetrici, per ogni piano; in molti casi le finestre dei servizi (bagno e cucina) si affacciano su di esso. Lungo il blocco di residenze si trovano dei piccolissimi cavedi, la cui superficie è spesso inferiore al metro quadrato, essi hanno la funzione di far penetrare un po’ di luce all’interno delle abitazioni, e di garantire una, seppur minima, circolazione d’aria. Gli alloggi hanno una superficie che varia tra 35 e 80 mq, e sono costituiti da
LIVELLI PER OGNI UNITA’ EDILIZIA
VOLUMI DELLE SINGOLE UNITA’ EDILIZIE 5760
1960 1920 1440 750
936
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1296 1404 936 576 720 756 960
1848
540
DIAGRAMMA DEI COLLEGAMENTI VERTICALI
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una sequenza di tre ambienti: si accede da quello centrale, che è un piccolo ingresso soggiorno, sul lato della strada si trova una stanza per ricevere gli ospiti, che solitamente è anche la stanza dove dormono i bambini, sul lato interno si trova una piccola stanza da letto ed i servizi.
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molokheya con coniglio o pollo Il tempo di preparazione/cottura è di circa 30 minuti. Ingredienti : 1 coniglio o pollo aglio molokheya sale. Lavare e tagliare in pezzi il coniglio oppure il pollo e farli cucinare in una padella con olio fino a farli dorare. in un’altra pentola far bollire dell’acqua e aggiungere qualche spicchio d’aglio e la molokheya.Far cucinare la molokheya fino a quando la sua consistenza sia diventata abbastanza corposa.Servire la molokheya in un piatto e in un altro, come contorno, il pollo o coniglio.
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TERRAZZE ATTIVITA’ SOSPESE
Aggirandosi sopra i tetti e le terrazze del Cairo, non è raro trovare veri e propri “orti urbani”, sospesi a decine di metri di altezza, con coltivazioni di molokheya, bietola egiziana molto diffusa ed utilizzata nella cucina tradizionale; ed è altrettanto facile imbattersi nella menta aromatica, di un verde brillante, vellutata fra le dita; ed in fragole, basilico, pomodori, piante medicinali, spinaci. Le superfici dei tetti della città informale, con ogni evidenza, sono una risorsa fondamentale ed espressione delle potenzialità di un mondo, vitale, versatile, ed in continua trasformazione: deposito di materiali da costruzione, che serviranno per continuare la crescita dei blocchi edilizi; sono anche un nuovo suolo dal quale far svettare, sopra i tetti, imponenti piccionaie in legno, tralicci sospesi ad altezze vertiginose, popolate da uomini e volatili; recinto per gli animali, capre, tacchini, galline, oche. Le terrazze sono sempre accessibili direttamente dalla scala principale dell’unità edilizia, e sono quindi aperte a tutti i residenti dell’edificio. Ciascuno può coltivare ciò che necessita per il sostentamento della famiglia e vendere il surplus nei numerosi mercati di quartiere. Le coltivazioni sono solitamente realizzate in casse di legno da un metro quadrato, alte circa venti centimetri oppure in vasche e vasi rudimentali, ricavati da pneumatici e bottiglie di plastica tagliati oppure realizzate con tavole e lastre di compensato assemblate in qualche modo o con tubi per gli scarichi, adattati a contenere frutta e verdura di ogni genere. I tetti coltivati, tra l’altro consentono un miglior controllo climatico all’interno delle abitazioni: il professor El Behairy, che da alcuni anni collabora con la FAO nel tentativo di far moltiplicare gli orti sospesi, ha lui stesso un tetto coltivato; egli, spiega: “Un giardino pensile è un ottimo isolante naturale. Negli appartamenti, l’effetto è di avere otto gradi
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© Randa Shaath (b. United States, 1963) dalla mostra “Under the same sky. Rooftops of Cairo”
in meno d’estate e tre in più d’inverno”. E ancora, la vita sui tetti evidenzia un connubio tra gli animali e l’uomo che lì alleva: soprattutto i piccioni e le piccionaie sono profondamente radicati nella cultura cairota. Grandi tralicci in legno, realizzati con tecniche rudimentali, che si sono affinate nel tempo, svettano alti, anche 15 metri, sopra gli edifici della città. Sono sempre torri a base quadrata, e l’altezza dipende da quella degli edifici circostanti: la “scatola” che contiene i piccioni può trovarsi direttamente incastrata su una terrazza, oppure in cima ad un alto traliccio in legno. I piccioni devono poter essere liberati, e poi devono essere in grado di riconoscere la “casa” dalla quale provengono per tornarvi, richiamati dalle bandiere rosse: ogni piccionaia è differente dalle altre, ed, in particolare, la “scatola dei piccioni”, posta in © Randa Shaath (b. United States, 1963) dalla mostra “Under the same sky. Rooftops of Cairo”
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cima, è sempre decorata per essere univocamente riconoscibile; esse assolvono anche ad altri piccoli ruoli legati alla vita domestica: vi si trovano stesi i panni, servono come ancoraggio per le antenne televisive e le parabole satellitari, e hanno, nei piani più bassi, delle stanze in legno usate come depositi e quasi sempre vi vengono tenuti altri piccoli animali o piante. Ciò che si è descritto rimanda l’immagine di una città del Cairo, lontana dagli stereotipi, che la cultura occidentale spesso costruisce intorno al mondo arabo; una città dalle grandi contraddizioni e di grande vitalità, in continua trasformazione, dove lo spirito di sopravvivenza e la mescolanza delle funzioni divengono valori fondanti della città contemporanea.
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Vista del progetto sul fronte stradale
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RIPARAZIONE AMPLIFICAZIONI SULLA CITTA’ INFORMALE
Il Cairo invita a ripensare alcuni concetti molto usati in questi anni dalla cultura architettonica ed urbanistica: innovazione, stratificazione, permanenza, differenza. Di solito pensiamo che la trasformazione e l’innovazione siano esito di idee e progetti completamenti nuovi, che prima non esistevano; nella città del Cairo si delinea un’idea di progettualità concepita come insieme di processi di trasformazione che avvengono attraverso il riuso/riciclo di materiali, spazi, o parti di essi; il Cairo induce dunque a ridefinire l’approccio progettuale tradizionale inteso sia come modello ideale astratto che come lettura delle potenzialità del contesto. La città informale, si configura oggi, con una identità estremamente precisa; pochi caratteri formali si ripetono su tutto l’organismo urbano: i mattoni a vista sulle facciate, la regolarità della maglia strutturale, con cui vengo realizzati gli edifici, le logge decorate, che mettono in relazione lo spazio dell’abitare con la scala urbana, e le strade tracciate con precisione ma sempre in terra battuta. Tutto ciò ha contribuito alla definizione di modi di abitare, spazi della città, e ad una immagine complessiva, che non possono che essere definiti “contemporanei”. Dall’osservazione del contesto, la carenza di alcuni servizi di quartiere, combinata con una totale assenza di suolo per edificarli, e dalle riflessioni legate alla altissima densità abitativa, che caratterizza tutta l’area metropolitana del Cairo ed in particolare gli insediamenti informali derivano le scelte di fondo del progetto che ha tenuto come idea fondamentale, quella di sfruttare la superficie delle terrazze, esistenti sopra i blocchi residenziali. Infine la maglia strutturale, se da un lato ha rappresentato un vincolo, dall’altro ha reso altamente fattibile ed economicamente sostenibile il progetto. Da un punto di vista funzionale, il programma, si compone di un insieme di
+
alta densitĂ
=
crescita verticale
struttura modulare in c.a.
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Modello tridimensionale del progetto
distorsioni della struttura
estrusione del modulo
modello compositivo
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piccoli servizi collocati sui tetti di un blocco residenziale e legati alle attività quotidiane di esso. Il progetto è contenuto dal volume ipotetico dell’edificio residenziale, leggibile sttraverso la “gabbia” strutturale, risultandone idealmente protetto, ed al contempo costituendo un nucleo speciale di valore collettivo. Ciò consente di tenere i servizi separati dalle residenze, evitando ogni interferenza. Il progetto cerca di interpretare il vincolo rigido della maglia strutturale, che pur ammette piccole variazioni: la scelta è stata di incastrare nell’estrema rigidezza della “gabbia” in cemento armato, scatole interamente realizzate in legno; tale scelta, provocando interuzioni e distorsioni della “gabbia”, da un lato sottolinea il carattere episodico ed eccezionale dell’intervento, dall’altro ne ne rispetta la trasformabilità ed accrescibilità. Uno schema siffatto risulta essere facilmente riproducibile su altri edifici della città informale. Il complesso di servizi si articola su tre livelli, ciascuno dei quali è caratterizzato da una specifica funzione e da differenti flussi di utenze: il piano più basso ospita un centro sanitario e la “sala incontri” per gli anziani; su tutto il piano centrale trovano sede gli spazi dell’asilo, dedicati ai bambini, ed al piano superiore sono situati gli uffici per il personale; infine, la piastra di copertura in cemento armato, poggiata sulla gabbia, è attrezzata con un sistema di “orti urbani” o può costituire il nuovo suolo per le abitazioni future. In basso, il centro sanitario è costituito da un unico blocco, che fa da basamento all’intero sistema, e si articola in una sequenza di quattro ambienti; il livello dell’asilo è invece strutturato con tre “scatole” parallele messe in relazione tra loro da due patii, la cui differente dimensione riflette le diverse funzioni e possibilità d’uso; infine il livello degli uffici è nuovamente una scatola unica, che, posta ortogonalmente a quelle del livello inferiore, diviene un punto di osservazione privilegiato sulle attività dei bambini.
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Pianta dellâ&#x20AC;&#x2122;asilo e sezione tipo Disegni in scala 1:200
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La composizione del piano dedicato all’asilo con la chiarezza delle funzioni e la semplicità d’uso degli spazi rende il progetto leggibile, interpretabile e fruibile dai bambini; la precisa caratterizzazione spaziale non contrasta con la relazione di interdipendenza esistente tra gli ambienti: la scatola destinata alle aule si apre letteralmente verso l’ampio patio centrale, che la mette in diretta corrispondenza con quella per lo spazio polifunzionale (mensa, attività motorie, ecc.), lasciando così la possibilità di generare un ambiente unico ed una continuità tra interno ed esterno; la scatola che contiene gli ambienti destinati al riposo è invece isolata dal resto dell’edificio dal patio più piccolo ed è completamente chiusa su se stessa al fine di garantire un maggiore isolamento. In conclusione, le soluzioni costruttive individuate nel progetto mirano ad essere economicamente sostenibili, ed allo stesso tempo, utilizzando le tecniche conosciute dagli abitanti della città informale, consentono il mantenimento della loro autosufficienza ed un certo grado di integrazione con la cultura locale. Il progetto proposto, infine, pur rappresentando un evento fuori dalla norma, possiede una forte valenza simbolica, e, possiamo dire con l’architetto Jorge Mario Jàuregui, indica “il cambiamento delle cose: le persone infatti comprendono di avere il diritto a qualcosa che fino a quel momento era disponibile soltanto nella città formale”.
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Note
1 Eyoum Nganguè, La mia Africa?, Abitare n°475 p. 62-65, Settembre 2007 2 “Millenium Development Goals”, 2003, UNHABITAT, http://www.unhabitat.org/mdg/ 3 The San Francisco Earthquake 1906, da “Eye witness to History”, http://www.eyewitnesstohistory.com 4 Sinclair C. Stor K., Design Like You Give a Damn - Architectural Responses to Humanitarian Crises, Metropolis Book, New York, 2006 p. 33-43 5 Robert William Stevens, Habitat for Humanity, Community Self Help Housing Manual, 1982 6 Sinclair C. Stor K., Design Like You Give a Damn - Architectural Responses to Humanitarian Crises, Metropolis Book, New York, 2006 p. 46-53 7 AA. VV., Città architettura e società - X Mostra Internazionale di Architettura, Vol.I, Marsilio Editori, Venezia, 2006 p. 159 8 Ibidem, p. 161 9 Cairo Megacity – Mega problems http://www.isl.uni-karlsruhe.de/vrl/ResEng/2000/ global_trends/cairo/cairo.htm 10 La regione metropolitana detta “Grande Cairo” ha una popolazione che diferenti stime indicano tra 12.5 e 18 milioni di abitanti 11 Davis Mike, Il Pianeta degli Slum, Feltrinelli Editore, Milano, 2006 p. 27 12 Sims David, Urban Slums Report: The Case of Cairo, GTZ Ed., Il Cairo, 2002 p. 7 13 AA. VV., Città architettura e società - X Mostra Internazionale di Architettura, Vol.I, Marsilio Editori, Venezia, 2006 p. 160 14 Sims David, Urban Slums Report: The Case of Cairo, GTZ Ed., Il Cairo, 2002 p. 3,4
15 Centre de research et de documentation economique, juridique, et social con GTZ Cairo, Information System for Informal Development, bozza inedita. 16 Sims David, Urban Slums Report: The Case of Cairo, GTZ Ed., Il Cairo, 2002 p. 5,6,7 17 B.U.S.- Urban Management And Envi-
ronmental Planning, Partecipator Urban Development in Boulaq el Dakrour, Il Cairo, 2004 p. 4
18 Ibidem p. 1 19 Ibidem p 11,12 20 Ibidem p 14,15
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Webgrafia
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Crediti CDC Office in Cairo GTZ in Boulaq Al Dakrour GOPP (General Office for Physical Planning)
Foto Paolo Tringali Francesco Trovato
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Ringraziamenti (in ordine sparso) Marco (cinese) Tripi Alessandra (pasqua) Lucca Manuela (mela) Cifali Raffaello (il brutto che piace) Buccheri Francesco (geletti) Trovato Margherita CuscunĂ Corrado Tringali Marco Scebba Celeste (il figo) Greco Ezio (tazio) Siciliano Omar Nagati
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