32 minute read

Lavoro, il nuovo piano del Governo Annarita D’Agostino

Riforma del lavoro

OCCUPAZIONE: IL NUOVO PIANO DEL GOVERNO

L’Italia prova a fare “GOL” ma, sulle politiche attive del lavoro, le misure destinate a facilitare la ricerca di un’occupazione, la partita è ancora tutta da giocare

di Annarita D’Agostino

In un recente rapporto sui Centri per l’Impiego, la Corte dei Conti ha stimato che più di 1 milione e 300mila beneficiari di reddito di cittadinanza a ottobre 2020 possedeva i requisiti per sottoscrivere il Patto per il lavoro e, dunque, avviare il percorso personalizzato di reinserimento professionale previsto dalla misura. Passando così dalla prima fase “passiva” di lotta alla povertà alla seconda “attiva” di ricerca di un’occupazione. Solo poco più di 350mila - circa 1 su 4 - hanno iniziato un nuovo lavoro e circa 190mila - 1 su 10 - risultavano ancora occupati al momento della rilevazione. Alle critiche piovute sulla misura fin dai suoi esordi, oggi si risponde con “GOL”, il nuovo Piano Nazionale “Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori”. Cosa prevede? Cinque percorsi personalizzati per trovare lavoro: un rapido reinserimento per chi è più facilmente occupabile; un percorso di aggiornamento (upskilling) per chi ha bisogno di rinfrescare le proprie competenze; aggiornamento che diventa intensivo nella terza strada, quella del reskilling, per coloro che hanno bisogno di una complessiva riqualificazione del proprio profilo; un percorso di lavoro e inclusione con il coinvolgimento di servizi sociali e territoriali per categorie particolarmente vulnerabili; infine, una ricollocazione collettiva per i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro per crisi aziendale. «Dopo vent’anni di esperienze negative, se non addirittura fallimentari - sottolinea il professor Giampiero Proia, ordinario di Diritto del Lavoro dell’Università Roma Tre - almeno nella sua dimensione programmatica questo piano ha diversi pregi. In particolare, punta a personalizzare i percorsi diretti a promuovere l’occupazione, tenendo conto delle caratteristiche delle singole platee di soggetti che ne hanno bisogno, e questo è un aspetto fondamentale, perché ogni platea ha le sue esigenze». Destinatari del progetto, i beneficiari di cassa integrazione, indennità di disoccupazione come NASpI e DisColl, reddito di cittadinanza, e categorie considerate particolarmente fragili come gli over 55, i giovani Neet lontani dallo studio e dal lavoro, le donne in condizioni di svantaggio, le persone con disabilità, i disoccupati da lungo tempo, i working poor, ovvero i lavoratori che, percependo retribuzioni basse, sono comunque a rischio povertà. Lo scorso 21 ottobre, è arrivato l’ok della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome all’intesa sul riparto dei primi 880 milioni di euro che finanzieranno GOL. Saranno infatti le Regioni a dover redigere i piani di attuazione del programma a livello territoriale. Le premesse di GOL sono molto ambiziose: 3 milioni di occupati entro il 2025, di cui almeno il 75% dovranno essere over 55, donne, disoccupati di lunga durata, persone con disabilità, under 30; 4,4 miliardi di euro assegnati nella Missione 5 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ai quali si sommano 600 milioni per il rafforzamento dei Centri per l’Impiego e 600 milioni per il rafforzamento del cosiddetto “sistema duale”, ovvero l’alternanza fra formazione e lavoro. Saranno soldi ben spesi? «Sicuramente il PNRR ci ha offerto un’occasione per colmare un vuoto per cui la stessa Commissione europea ci aveva bacchettato con raccomandazioni specifiche per il nostro Paese - osserva la professoressa Lucia Valente, ordinario di Diritto del Lavoro della Sapienza Università di Roma -. Era necessario intervenire perché l’arretratezza cronica dei servizi per il lavoro nel nostro Paese è un fatto ormai sotto gli occhi di tutti». Per colmare il gap, dunque «abbiamo preso la misura già varata con la Legge di Bilancio 2021 ma ancora inattuata - ci spiega - e l’abbiamo inserita nel PNRR. E questa è stata

Le premesse di GOL sono molto ambiziose: 3 milioni di occupati entro il 2025, di cui almeno il 75% dovranno essere over 55, donne, disoccupati di lunga durata, persone con disabilità, under 30; 4,4 miliardi di euro assegnati nella Missione 5 del PNRR, ai quali si sommano 600 milioni per il rafforzamento dei CPI e 600 milioni per il rafforzamento del cosiddetto “sistema duale”, ovvero l’alternanza fra formazione e lavoro

una fortuna, perché ci siamo legati mani e piedi ai tempi del PNRR. Quindi, finalmente abbiamo degli obblighi da rispettare sulle politiche attive». Filerà tutto liscio? Secondo Valente, «la riuscita della riforma è già compromessa dal fatto che GOL rinvia l’attuazione di tutte le misure a piani regionali, nonostante parta come piano “nazionale”. Il problema è che costituzionalmente questo “rimpallo” di competenze è corretto, perché alle Regioni sono assegnati i servizi per il lavoro, ma hanno abbondantemente dimostrato di non essere in grado di erogarli. Quindi mi sarei aspettata che la parola “nazionale” nel GOL avesse un significato concreto: le Regioni fanno un passo indietro e avanza lo Stato, facendo esattamente la stessa cosa che è stata fatta con il piano vaccinale per la sanità. Nella sanità c’è Figliuolo, anche per i servizi per il lavoro abbiamo bisogno di “un Figliuolo”. GOL non va in questa direzione». Un altro errore che si ripete nuovamente riguarda il ruolo dei Centri Pubblici per l’Impiego (CPI): «Nel piano GOL - ci spiega la professoressa Valente - i CPI saranno la porta di accesso per tutti gli attuali percettori di sussidi. Questo significa ingolfare i Centri, che già sono pochi: solo 550 su tutto il territorio nazionale». E su questo terreno si incappa in «un altro problema storico delle politiche attive in Italia, che è quello dell’attuazione», sottolinea il professor Proia. Però, «l’investimento programmato sui Centri per l’Impiego potrebbe garantire una maggior efficienza - aggiunge -, anche se il successo del piano non deriva dall’investimento in sé quanto piuttosto dalla capacità delle persone addette ai servizi per l’impiego di fare bene il proprio lavoro». Ma nelle intenzioni del Governo c’è la volontà di intensificare la collaborazione con i servizi privati per il lavoro. Un’ipotesi che le agenzie per il lavoro accolgono con favore: «Partendo dal presupposto che le persone devono poter scegliere a quale operatore affidarsi, il privato interviene a supporto del pubblico, mettendo a disposizione la sua rete. Basti pensare che l’insieme delle agenzie per il lavoro ha circa 2.000 sportelli attivi in tutte le regioni», evidenzia Maurizio Mirri, direttore Politiche Attive dell’agenzia per il

«L’aspetto positivo di GOL è dato dal fatto che, per la prima volta, si supera la distinzione fra le competenze dei servizi al lavoro e quelle dei servizi formativi»

lavoro Gi Group. Un supporto che consiste in “un’attività di presa in carico e di valutazione dell’occupabilità delle persone, ma anche di intervento sulle soft skills per rendere la persona occupabile e, come ci auspichiamo il piano GOL possa cogliere, di stretta connessione con le attività formative». “L’aspetto positivo di GOL - precisa Mirri - è proprio un approccio “olistico” alla persona. Per la prima volta si supera la distinzione fra le competenze dei servizi al lavoro (presa in carico, accompagnamento e ricerca di lavoro) e quelle dei servizi formativi. Purtroppo molte Regioni tengono ancora oggi le due attività separate e assegnate a distinti assessorati. Invece, i servizi per il lavoro e la formazione devono essere modulati sulle esigenze della singola persona e integrati fra loro». La personalizzazione dell’assistenza per la ricollocazione si potrebbe ottenere incentivando l’adozione di un altro strumento: l’outplacement. Si tratta di un servizio intensivo di supporto alla persona per il rientro nel mercato del lavoro pagato dall’azienda che licenzia, ci spiega Cetti Galante, amministratore delegato di Intoo, società di Gi Group specializzata nei servizi di outplacement. Dunque, non pesa sul pubblico e consente anzi di risparmiare risorse che possono essere dedicate ai disoccupati di lungo periodo, generalmente più difficili da reinserire. «Ascoltiamo e aiutiamo le persone che ci vengono affidate - età media di 45 anni, 52 per i manager - ad attivarsi subito nella ricerca, e con questo tipo di assistenza in sei mesi circa ritrovano lavoro, come dipendenti o non, a seconda anche dei bisogni individuali. Almeno il 25% delle persone over 55 che perde il lavoro - sottolinea Galante - non desidera rientrare in azienda ma chiede espressamente di essere supportato nell’avviare un’attività in proprio: aprire una Partita IVA, una micro impresa con un figlio, avviare una start up. Questo ancor di più dopo la pandemia, che ha portato tanti a una profonda riflessione sul proprio equilibrio vita-lavoro, che lasci più spazio anche alla famiglia o agli hobby. Persone che potranno lavorare stabilmente e con una buona retribuzione anche oltre la consueta età pensionabile, se lo desiderano. Dunque, l’outplacement può agire anche come un motore sociale di proattività e invecchiamento attivo e potrebbe rappresentare quindi un potenziamento del sistema pubblico-privato per questo target».

Ifatti di cronaca, purtroppo tragici e sempre più frequenti, supportati dai dati Inail che registrano un aumento degli infortuni, parlano chiaro: in Italia si continua a morire sul lavoro, anche se gli incidenti si denunciano in percentuale maggiore rispetto al passato. Nei primi otto mesi del 2021, le segnalazioni sono aumentate dell’8,5% rispetto allo stesso periodo del 2020 e, di questi, 772 hanno avuto l’esito più grave, 95 solo nell’agosto scorso. Gli eventi mortali che hanno riguardato le donne sono diminuiti del 6%, passando da 83 a 78, mentre quelli che hanno interessato gli uomini sono scesi da 740 a 694 casi. Se sono calati i decessi fra i lavoratori italiani e comunitari, sono però aumentati quelli che hanno coinvolto cittadini extraeuropei, che sono passati da 82 a 84. Rispetto all’età, c’è stato un lieve calo dei casi di morte fra i giovani nelle fasce 20-24 anni (-4) e 30-39 (-12), e una diminuzione più consistente fra gli over 55 (-86, da 435 a 349). Il settore industria e servizi è l’unico a far registrare un decremento di denunce mortali, da 761 a 646 (-10,4%), mentre gli altri segnano un aumento, come quello agricolo che passa da 70 a 84 denunce (+20%). Particolarmente allarmanti sono i dati che riguardano il Sud, dove maggiormente si concentrano gli aumenti, con i casi di morte sul lavoro che passano da 165 a 211. Numeri, troppi e spesso aridi, che nascondono ognuno un nome e un’identità. Da anni, un operaio metalmeccanico e delegato alla sicurezza Fiom Cgil della provincia di Firenze cerca di restituire dignità e umanità alle vittime del lavoro, raccogliendone la storia e portandola alla luce. Marco Bazzoni, oggi 47enne, analizza ogni giorno le notizie e colleziona tutte le informazioni possibili su queste persone, sulla loro vita, sulle circostanze degli incidenti. Più volte, in questi anni, ha

LAVORARE IN SICUREZZA: IN ITALIA, ANCORA TROPPI INCIDENTI

di Ilaria Romano

Purtroppo, secondo i nuovi dati Inail, si muore ancora sul lavoro. Si è riscontrato un aumento degli infortuni, ma vengono denunciati più frequentemente rispetto al passato

dichiarato che si dovrebbe smettere di parlare di “morti bianche”, proprio per evitare che appaiano come tragiche fatalità e non come tragedie che si potevano evitare applicando tutti i parametri di sicurezza e, soprattutto, facendo più controlli. «I tecnici della prevenzione sono circa duemila in tutta Italia - dice spesso Bazzoni - e per controllare 4 milioni di aziende ci vorrebbero vent’anni». Nel frattempo, grazie al suo prezioso lavoro di documentazione che nel 2015 gli è valso la menzione speciale del Premio giornalistico Pietro Di Donato, la versione online del quotidiano La Stampa ha realizzato una mappa navigabile dell’Italia con tutti i casi di quest’anno, purtroppo aggiornata anche di recente (lab.lastampa.it/2021/ morti-sul-lavoro-la-mappa-degli-infortuni), dalla quale emerge anche un dato anagrafico significativo: gli over 60 morti sul lavoro sono stati 30. Guardando invece agli incidenti non fatali, sempre in riferimento ai dati Inail, le denunce presentate tra gennaio e agosto sono state 349.449, oltre 27mila in più rispetto allo stesso periodo del 2020, con un incremento su tutto il territorio nazionale ma con picchi di crescita in Basilicata, Molise e Campania. Come avverte anche l’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro, bisogna usare cautela nel confronto con i numeri del 2020, soprattutto se si considerano le malattie professionali contratte durante le attività, e in molti casi influenzate dal Covid-19: non solo perché il virus si è diffuso in uffici e cantieri, ma anche perché il 2020 si è caratterizzato per le notifiche tardive di malattia, dovute alla distanza temporale tra il contagio e il decorso, senza contare i periodi di arresto delle attività produttive che hanno invece ridotto periodicamente l’esposizione al rischio di contagio. Secondo l’ultimo rapporto Eurostat (dati 2018), l’Italia si colloca al di sopra della media europea (2,21 casi ogni 100mila lavoratori) per numero di incidenti mortali, con 2,7 casi. Tra gli Stati membri, la situazione più allarmante è quella del Lussemburgo con 6,42 casi ogni 100mila, seguito da Romania con 5,27 casi, Lettonia (4,69) e Cipro (4,51). In testa alla classifica per numero minore di incidenti ci sono i Paesi Bassi con 0,87 casi, seguiti da Germania con 1 caso ogni 100mila e Finlandia con 1,28. L’Unione Europea ha mostrato un’attenzione alla sicurezza sul lavoro e, lo scorso 28 giugno, la Commissione Ue ha presentato il nuovo “Quadro strategico sulla salute e sicurezza 2021-2027”, che definisce tre obiettivi: gestione dei cambiamenti negli

Anche le aziende stanno cominciando a sperimentare, grazie alla tecnologia, nuove apparecchiature che possano prevenire una disattenzione o attivare i soccorsi nel modo più veloce possibile in caso di incidente

I PASSI FATTI NEL CORSO DELLA STORIA

Già nel IV secolo a.C., Ippocrate si occupa del rapporto tra lavoro e malattie, e insegna ai suoi discepoli a informarsi sempre del mestiere dei pazienti per aiutarsi nella formulazione della diagnosi. Nel medioevo, nel 1556, è ancora un medico a individuare le patologie connesse al lavoro in miniera: si tratta del tedesco Georg Bauer, che scrive il De re metallica, sulla natura dei metalli. Nel 1700, Bernardino Ramazzini, professore di Medicina all’Università di Modena e Padova, pubblica De morbis artificum diatriba, Le Malattie dei Lavoratori, in cui associa circa quaranta malattie ad altrettante occupazioni dell’epoca, per lo più artigianali. Ma è soltanto dopo la Rivoluzione industriale che una serie di leggi cominciano a regolamentare il lavoro, in particolare nel settore estrattivo e che riguarda i bambini. Fra il 1886 e il 1899 appaiono anche le prime norme sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali. Nel 1906, con l’apertura del primo Congresso Internazionale di Medicina del Lavoro, si avvia una produzione legislativa poi affiancata al Codice penale del 1930 e al Codice civile del 1943. Nel 1955 il Presidente della Repubblica emana una serie di decreti che trattano di prevenzione degli infortuni e delle norme igieniche, anche se il concetto moderno di sicurezza sul lavoro si sviluppa nel 1970, con l’introduzione dell’elettronica, delle telecomunicazioni e dell’informativa. Nel 1994, con il Decreto Legislativo 626, si arriva al primo Testo unico sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, una raccolta di norme che disciplinano tutto il settore in maniera organica, poi abrogato dall’odierno Decreto Legislativo 81 del 2008, che illustra le misure necessarie per assicurare la tutela sul posto di lavoro, dalla formazione alla sostituzione di macchinari obsoleti e pericolosi, fino alla dotazione di dispositivi di protezione.

ambienti di lavoro, miglioramento della prevenzione degli incidenti, efficientamento delle risposte a fronte di eventuali crisi sanitarie, come quella appena vissuta e tuttora non completamente superata. Nel frattempo, anche le aziende stanno cominciando a sperimentare, grazie alla tecnologia, nuove apparecchiature che possano prevenire una disattenzione o attivare i soccorsi nel modo più veloce possibile in caso di incidente. In Liguria, la start up Smart track, ad esempio, ha sviluppato una piattaforma per la sicurezza dei lavoratori che si basa su dispositivi indossabili e sensori, e che consente di gestire eventuali emergenze ed evacuazioni in tempo reale. Questi congegni, chiamati WeTag, vengono associati alle persone e comunicano con una rete di sensori chiamati àncore, che fungono da satelliti per geolocalizzare l’evento e il lavoratore coinvolto in luoghi chiusi e privi di copertura Gps. In base alle esigenze, è possibile fornire la localizzazione continuativa del lavoratore oppure attivarla esclusivamente a seguito della ricezione di un allarme, ad esempio, in caso di condizione “uomo a terra”, mancanza di una dotazione di sicurezza, accessi in aree non consentite o in caso di evacuazione del sito. Questa opzione di “modalità dormiente” permette di non invadere la privacy dei dipendenti, ma di attivare il tracciamento solo in caso di reale pericolo.

Un nuovo Anno di Felicità

«I gnoranti della luce che circondava l’innocenza/ eravamo così felici amore mio,/ attraversando tutte le strade/ e ridendo degli ostacoli di pietre e grandine/ con il calore delle nostre mani unite/ che volevano fermare la nostra corsa». Sono versi di una struggente poesia che Carmen Yanez ha dedicato al compagno della sua vita, al suo “Lucho”, lo scrittore Luis Sepùlveda. La storia di Carmen è la storia della monella, “Pelusa”, e di “Lucho”, il lottatore, quello che non si arrende mai. Carmen “Pelusa” Yanez, poetessa. Luis “Lucho” Sepúlveda, scrittore. Quarant’anni fa, adolescenti innamorati a Santiago del Cile, giovani sposi. Un figlio, la felicità, un mondo a colori. Ma all’improvviso tutto si fa buio, orrore. Separati, sequestrati, torturati dal regime di Pinochet. Il mondo che diventa solo bianco e nero. Nessuno sa più nulla dell’altro, inevitabilmente lei lo crede morto, in qualche modo gli sopravvive. E poi esuli per il mondo, lontani dalla propria terra, ognuno percorrendo la sua strada. Si ritroveranno molti anni più tardi in Europa. E torneranno a sfiorarsi, a guardarsi negli occhi. A sposarsi una seconda volta, protagonisti di una grande storia d’amore… Poi Lucho è scomparso, tra le prime vittime del Covid nell’aprile del 2020. Carmen Yanez è una poetessa fluente e molto accattivante con i suoi temi preferiti, la memoria, l’esilio, la poesia stessa, con il suo mondo denso di ideali e battaglie civili. E una parola sempre esatta, che non conosce nessun orpello retorico per dire sempre la “sua verità”, cercando e cogliendo il nucleo del senso. E lo dimostra anche il suo ultimo libro, Senza ritorno, pubblicato in Italia da Guanda, per il quale ha avuto, a L’Aquila, il Premio internazionale «La poesia non mente, anzi si espone, si spoglia.

Apre le finestre

affinché gli uni e gli altri, e tutti insieme, possano identificarsi e reinventarsi»

Laudomia Bonanni, che in precedenza era stato assegnato, tra gli altri, a Evtushenko, Walcott, Takano, Adonis. La incontriamo nell’occasione abruzzese per una conversazione.

“Eravamo così felici e non sapevamo”, attraversiamo il tempo senza comprendere ciò che possiamo perdere? Dicono questo i suoi versi. Cosa ne pensa Carmen?

Ebbene sì: a malapena ci rendiamo conto che, nonostante certe mancanze, abbiamo quasi tutto per essere moderatamente felici finché un lampo, un uragano, un tornado, un maremoto, una guerra, una pandemia ci toglie brutalmente ogni felicità.

Carmen: penso al titolo della sua raccolta di poesie. Lo ha scelto prima della morte del suo Lucho?

È purtroppo una dolorosa coincidenza.

Ma è un’immagine che può racchiudere il senso della sua esistenza?

Vuole indicare un timore: ogni essere umano che abbandona il suo luogo di origine ne è accompagnato per tutta la sua esistenza. Tornare o non tornare? Oppure disfare per sempre la valigia? Nel mondo sei davvero alla ricerca di un posto che sia davvero definitivo?

Ha scritto che “La poesia deve mettere il dito nell’occhio dell’incredulo”. Perché?

La poesia non mente, anzi si espone, si spoglia. Apre le finestre affinché gli uni e gli altri, e tutti insieme, possano identificarsi e reinventarsi.

La poesia può svolgere un qualche ruolo nel cambiare le menti, ad esempio, rispetto alle questioni ambientali, politiche?

La visione del mondo ci cambia man mano che ci apriamo al mondo e diventiamo consapevoli dell'ambiente, a seconda del contesto in cui ci troviamo nella storia. La poesia non cambia

il mondo, ci vuole molta fatica per cambiarlo, ma dà il suo immenso contributo alla coscienza, indicando le piccole cose che la storia ufficiale non racconta ma con cui si costruisce la vita.

Lei scrive versi da quando aveva 14 anni. In tanto tempo qualcosa è cambiato nel suo rapporto con la poesia?

Certamente, credo che senza di essa non si possa costruire futuro.

Qual è l’eredita più importante che le ha lasciato Lucho?

Lucho diceva sempre che lui, prima di essere uno scrittore, era un buon cittadino, e un buon cittadino è colui che si impegna nella società. Mi ha lasciato il suo esempio di essere umano generoso, solidale, empatico.

C’è qualcosa con cui riesce a sopportare questa scomparsa, ad elaborare meglio il lutto?

Poesia sempre, poesia per sempre.

Mi dica con un verso, una citazione amata, una semplice definizione ciò che è stato per lei l’incontro e l’amore di e per Lucho.

“Cosa resterà di noi/ innamorati/ se non il pomeriggio quando/ il sole splende/ sull'assenza?”. Sono versi di Memoriale, una poesia che si legge in Abitata dalla memoria, la mia precedente raccolta.

So che la vostra canzone era Gracias a la vida, di Violeta Parra. La sente ancora?

Ora più frequentemente, non prima. Era troppo doloroso. È un canto, una speranza, il segno indelebile di un incontro, che come gioia, appartenenza, destino, incalza e protegge.

Sta scrivendo un libro sulla vostra storia d’amore. Continua ancora oggi?

Sì, e mi è assai utile anche come arma per difendermi dalla mia stessa solitudine.

Una sua lontana poesia aveva come titolo Resilienza. Cos’è ora per lei la resilienza?

Ricominciare da me stessa, solo con i miei mezzi.

Cosa abbiamo da imparare dai terribili giorni della pandemia?

Sii più solidale, stringi la mano a chi non ha nulla, per creare un mondo diverso, senza consumismo, creare senza competere. Speriamo di imparare questa lezione così essenziale.

Una nuova stagione di incontri

Yoga, pilates, psicologia, musica, cinema, teatro e molti altri. Sono i temi trattati nella nuova stagione di “Zoom - I webinar di Spazio50”. Una serie di attesi appuntamenti a cui partecipare, per scoprire e approfondire vecchie e nuove passioni senza uscire di casa. Scopri l’intero calendario su www.spazio50.org/webinar e iscriviti agli incontri che preferisci

LA NATURA SOGGETTO DI DIRITTI

Il 21 settembre scorso una gru ha scaricato un grande albero davanti all’ambasciata norvegese di Brasilia. Si trattava di uno jatobà, pianta tipica del Centro e Sudamerica, che gli indigeni amazzonici avevano portato affinché chiedesse idealmente asilo a Oslo, perché “l’Amazzonia è una zona di guerra”. In questi anni, l’aumento delle concessioni petrolifere e delle colture di latifondo ha ridotto in maniera importante l’estensione del polmone verde del mondo. Per contro, già il 27 luglio 2014, il parco neozelandese Te Urewera (foto nella pagina successiva) è stato nominato persodi Raffaello Carabini

In tutto il mondo si cerca una via legale per proteggere al meglio il nostro pianeta. Dare a foreste, laghi, montagne, fiumi e agli altri esseri viventi lo status di persone giuridiche e lo stesso diritto alla vita delle persone, potrebbe essere la soluzione na giuridica a tutti gli effetti - nel 2017 lo ha seguito il fiume sacro dei maori Whanganui, il più importante, sebbene non il più lungo, del Paese australe - con “tutti i diritti, i poteri, i doveri e le responsabilità” di un essere umano. E come una persona, dotato per legge di un suo rappresentante legale. Sono i due estremi dell’ecologismo contemporaneo, da un lato l’impegno contro chi non tutela il territorio consentendo azioni che danneggiano l’intera umanità, dall’altro l’esempio vivo di quello che si dovrebbe fare. Tutti i fatti che succe-

dono nel mezzo si chiamano “ecofrizioni dell’Antropocene”, dalla riconversione industriale alla sostenibilità, dalla valorizzazione dei patrimoni alle trasformazioni del paesaggio, che avvengono ogni giorno nell’“attuale epoca geologica, in cui l’ambiente terrestre - nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche - viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana”, come l’enciclopedia Treccani definisce il termine coniato nel 2000 dal chimico olandese premio Nobel, Paul Crutzen. La professoressa dell’Università di Napoli L’Orientale, Flavia G. Cuturi, docente di Antropologia culturale, ha curato l’importante e corposa raccolta di saggi La Natura come soggetto di diritti. Prospettive antropologiche e giuridiche a confronto (Editpress, 548 pagine). Antropologi, linguisti e giuristi si confrontano su come foreste, laghi, montagne, possano ottenere lo status di persone giuridiche e lo stesso diritto alla vita delle persone.

Professoressa, quali sono i diritti che dovrebbero essere attribuiti alla Natura? Perché non basta far rispettare le leggi di tutela e protezione che già sono in essere?

Nell’arco della storia, anche recente, pensi a quanti oggetti - chiamiamoli così - ai quali non riservavamo dei diritti particolari, si sono trasformati in soggetti di diritti. Non stiamo parlando di cose, ambienti, ai quali possiamo attribuire livelli di umanità diversi. Parliamo degli umani stessi. Ad esempio, pensiamo all’eliminazione della schiavitù, che ha in qualche modo posto al centro dell’attenzione di tutti un tipo di comportamento predatorio, violento, che toglieva qualsiasi diritto alle persone. Improvvisamente ci si è resi conto che non era più ammissibile. Immagini un arco temporale in cui tanti oggetti considerati tali sono diventati soggetti. Non ultime le donne. Il diritto al voto era loro negato e non visto come tale. In un’ottica di questo tipo la cattiva salute del nostro pianeta ci sta dicendo che le leggi, oggi così aggrovigliate nei confronti dell’ambiente, non sono sufficienti. L’idea è che la natura in quanto tale deve essere ripensata al centro della nostra vita e non in una posizione di marginalità o di sfruttamento, perché tanto è inesauribile. L’ambiente, invece, è già esaurito e noi dobbiamo rafforzare la sua percezione di soggettività per interrompere una catena che coinvolge anche gli umani. Se non siamo così sensibili nei confronti della natura, dobbiamo almeno pensare che noi viviamo nella natura, con la natura e della natura e, se la maltrattiamo, il primo a soffrirne in grande o in piccola scala sarà ciascun individuo, a qualsiasi latitudine.

In questa ottica, la cura e la responsabilità verso l’ambiente non sono un modo per tutelare e supportare lo sviluppo e la crescita dell’uomo nel suo pianeta, ma qualcosa di differente...

L’accelerazione dei consumi è una realtà che si verifica da 40/50 anni. Io penso che si possa intravedere uno sviluppo che non sia soltanto predatorio. Anche perché ci sono migliaia di persone che si stanno occupando esattamente di questo. Non avere un’ottica di privazione totale, ma lo scendere a patti con il nostro ambiente, che è uno sviluppo di tipo sostenibile. Parola un po’ magica che ha dietro moltissimo. Nessuno dice di tornare al lume di candela, che brucia ossigeno e non sarebbe auspicabile visto che siamo qualche miliardo sul pianeta, ma si può fare qualcosa perché il nostro impatto sia decisamente meno gravoso per le generazioni future. Perché l’impatto non è per noi, ma fa accendere uno sguardo preoccupato verso i figli, i nipoti, che erediteranno le conseguenze di ciò che facciamo.

Ma perché dobbiamo offrire diritti a una “madre” che sta diventando sempre più matrigna con i terremoti, le inondazioni, i tornado, gli tsunami e quant’altro?

Dobbiamo innanzitutto pensare che noi siamo ospiti di questa Terra e non padroni, perché siamo veramente transeunti in maniera più sconvolgente di quanto possiamo immaginare: gli alberi, ad esempio, sono esseri che vivono decisamente più di qualsiasi umano. Non dico di rovesciare totalmente e in maniera un po’ naif il nostro modo di comportarci. Dobbiamo pensarci, però,

in un’ottica di relazione stretta con le altre forme viventi, e trovare un equilibrio. Inoltre, c’è chi sostiene che certe tipologie estrattive, come il cosiddetto “fracking”, siano all’origine di piccoli o grandi movimenti tellurici. Non dico che l’uomo sia in grado di scatenare dei sismi, ma in zone fragili può favorirli. In alcune zone dell’Olanda, dove non c’erano mai stati movimenti terrestri, certe pratiche estrattive li stanno causando. Dobbiamo finirla con questa contrapposizione che vede noi da un lato e la natura dall’altro, noi buoni e la natura matrigna. Nessuno è buono, nessuno è cattivo, però siamo intrecciati e dobbiamo comportarci in modo che sia noi sia il resto della natura non ci provochiamo a vicenda e non causiamo problemi più di quanti non ce ne siano già.

L’interdipendenza tra uomo, foreste, animali, acqua è la stessa dei popoli indigeni o nativi, ma oggi circa il 70% della popolazione mondiale vive in agglomerati urbani e spera e opera per una crescita senza fine. Che senso avrebbe un ritorno alle origini, al mito del “buon selvaggio”?

Nel 2011 c’è stato il fatale superamento delle popolazioni che vivono negli agglomerati urbani rispetto a quelle che vivono nelle zone rurali. È stato visto come una sciagura, perché comunque le città non sono solo quelle relativamente organizzate come le nostre. Ce ne sono moltissime abnormi, che sono il segno delle difficoltà di vita di certe popolazioni e presentano difficoltà enormi nel gestire le differenze socio-economiche. Quelle che hanno oltre 10 milioni di abitanti hanno solo una piccola parte di loro che vive bene il privilegio di stare in una città, la gran parte vive ai margini e si deve arrangiare. Più le città sono grandi più sono un concentrato di diseguaglianze, di sfruttamenti, di problemi di tutti i tipi, perché spesso sono in Paesi difficili. Ad esempio, il Messico vive il controsenso di una Capitale con 22 milioni di abitanti sui 110 di tutta la Nazione. L’idea che presenta la città come una grande conquista, frutto dell’ingegno dell’uomo, un suo artefatto, è un’idea che va decisamente ridimensionata. Soprattutto perché, essendo un soggetto di consumi, che fino a un certo punto produce ciò di cui ha necessità, avrà sempre bisogno di una natura benigna che gli offra materie prime, alimenti, prodotti energetici... Chi va in città spera di trovare un futuro migliore, mentre spesso trova l’alienazione di se stesso, di quello che sa. Non vedo nella città il simbolo della modernizzazione dell’uomo e del suo controllo sulle risorse; anzi, quest’ultimo ci è proprio sfuggito, forse definitivamente. Direi che quella crescita “senza fine” va vista in un’altra ottica. Quanto poi al “buon selvaggio” ho rilevato che le Commissioni dell’ONU, la CEPAL in particolare, che si occupa dell’America latina, stanno sollecitando da anni i governi a ritrovarsi a un tavolo schietto e aperto con le popolazioni indigene, che, avendo vissuto prima di noi e avendo superato i drammi della conquista e delle distruzioni che abbiamo imposto, ci possono invece svelare anche come poter affrontare il futuro. Queste commissioni stanno affermando che i nostri saperi sono limitati. Quelli scientifici hanno bisogno di confrontarsi con quelli di chi vive da centinaia di anni in certi posti sapendo come mantenerli. E vanno guardati con attenzione per sviluppare un’alleanza nuova e rinnovata, perché loro possono dirci tanto sul nostro futuro. Non si tratta di un ritorno, ma di una visione che potrebbe esserci molto utile e che guarda al futuro.

Ricercare il superamento dell’Antropocene in un pianeta dove non pochi comportamenti tendono a ridurlo al solo “maschiopocene”, non è un’inutile corsa in avanti, un’utopia quasi dannosa, che fugge da un reale piuttosto preoccupante?

Questa sua definizione di “maschiopocene” mi pare molto interessante. Direi che oggi Antropocene è “maschiopocene”, approfitto della sua intuizione. Purtroppo basta leggere i fatti di cronaca che avvengono ogni giorno in Italia, con femminicidi efferati quasi quotidiani. E lo stesso succede in mol-

ti altri Paesi europei, dove c’è una recrudescenza delle violenze contro le donne. Dovremmo quindi iniziare innanzitutto da noi per attuare questo superamento, che non è un’utopia, ma una necessità assoluta, immediata, importantissima, che riguarda la metà di questo pianeta, il quale evidentemente ha bisogno di nuove guide, di nuovi valori. Se non si pone fine a questo disequilibrio, a questa visione distruttiva, non andiamo da nessuna parte.

L’attenzione all’ecologia in senso lato, al surriscaldamento del pianeta e a tutte le relative problematiche, è stata dettata soprattutto dall’ultima generazione, da Greta Thunberg e dai più giovani. Lei pensa che i più maturi, i cinquantenni e oltre, siano meno sensibili a questi temi per la loro storia oppure che abbiano gli strumenti per reimpossessarsene e intervenire?

Io me lo auguro. Ho superato i 50 e quindi sono appieno nella “categoria” e penso che molti di noi abbiano anche più risorse rispetto agli anagraficamente giovani. Oltre all’impegno personale di chi vuole metterlo in campo, gli over hanno in mano gran parte della preparazione del futuro rispetto a Greta e ai giovani. Possiamo fare molto, a partire dai consumi quotidiani. Come? Innanzitutto riflettendo sul nostro stile di vita, sui consumi, che può essere già un importante passo fatto nel privato, insieme alle proprie famiglie. Ad esempio, dobbiamo essere consapevoli che mangiando una bistecca si sta alimentando una catena che ha dietro le zone deforestate del Brasile e dell’Argentina, devastazioni dell’ambiente che fanno cambiare gli stili di vita di intere regioni, con popolazioni che soffrono fino a migrare, perché le risorse non ci sono più per loro, ma poi non ci saranno nemmeno più per noi. Quindi ridurne il consumo è già qualcosa. Io non sono vege-

«Bisognerebbe ripensare il diritto in maniera tale che tutti i viventi e i non viventi godano di pari diritti, perché le nostre vite sono intrecciate. Non esiste un uomo dominatore che può sfruttare la natura all’infinito. Noi siamo interdipendenti con tutte le forme di vita e quindi dobbiamo ricercare un equilibrio che ci porti verso un futuro in maniera diversa da quella attuale»

tariana, non sono niente, ma mi rendo perfettamente conto che essere consapevoli di quanto sia grande il peso dei nostri micro comportamenti con il cibo, con l’acqua, con l’energia elettrica, con la benzina... Ciascuno di noi può essere un piccolo rivoluzionario.

Dal punto di vista strettamente legale i diversi contributi che appaiono nel libro da lei curato riescono a definire un possibile minimo comune denominatore che non risulti inapplicabile e inutile come le grida manzoniane? Ad esempio, quale potrebbe essere con una nuova normativa il contrasto verso gli incendi boschivi dolosi che si ripetono ogni estate?

Non sono un giurista, per cui le parlerò in termini di principio. In altri Paesi, come in tutti quelli anglosassoni, sono riusciti a contrastare certe azioni particolarmente dannose nei confronti dei fiumi, delle aree boschive e altro, trattando queste zone come soggetti ai quali non si può negare la propria vita “naturale”. La questione è interrogarsi sulla catena di sfruttamento delle risorse e comprendere quanto vada controllata nei minimi dettagli per spezzare connivenze e comportamenti che vanno contro le leggi già vigenti. Molti giuristi importanti affermano che il problema per noi, per la nostra tradizione, è appunto che la natura non ha una personalità giuridica. Forse bisognerebbe ricominciare da lì, ripensare il diritto in maniera tale che tutti i viventi e i non viventi godano di pari diritti, perché comunque le nostre vite sono intrecciate. Non esiste un uomo dominatore che può sfruttare la natura all’infinito. Noi siamo interdipendenti con tutte le forme di vita e quindi dobbiamo ricercare un equilibrio che ci porti verso un futuro in maniera diversa da quella attuale. Oggi ci sono troppi pochi vincoli allo sfruttamento delle risorse, tanti tipi di sovranità che si contrastano l’uno con l’altro e che causano tanti disequilibri e, alla fin fine, rendono persino conveniente incendiare un bosco.

PROBLEMI AL GINOCCHIO, ALLA SPALLA O ALLE DITA?

Questi micronutrienti sostengono la salute delle articolazioni

Dita rigide, spalle poco mobili e ginocchia aff aticate: i problemi con le articolazioni si fanno avanti con l’età. Gli esperti hanno scoperto che dei micronutrienti speciali sono essenziali per la salute delle articolazioni. Li hanno combinati in una bevanda unica nel suo genere: Rubaxx Articolazioni (in libera vendita, in farmacia).

Con l’avanzare degli anni milioni di persone sono afflitte da articolazioni affaticate e rigide. Il risultato è che anche azioni quotidiane come salire le scale o portare la spesa diventano difficili: la vita diventa meno piacevole. Oggi gli scienziati sanno quali sono i micronutrienti che favoriscono la salute di articolazioni, cartilagini ed ossa. Un gruppo di esperti li ha combinati in un complesso di micronutrienti: Rubaxx Articolazioni (in farmacia).

Il nutrimento ottimale per la salute delle articolazioni

Rubaxx Articolazioni contiene le quattro componenti naturali delle articolazioni: collagene idrolizzato, glucosamina, condroitina solfato e acido ialuronico. Queste sostanze

“Il prodotto è buono, ho la sensazione che le mie articolazioni stiano molto meglio.”

(Maria L.) sono componenti elementari della cartilagine, dei tessuti connettivi e del liquido articolare. Inoltre, questa bevanda nutritiva contiene 20 vitamine e sali minerali specifici, che sono essenziali per la salute delle

Integratore alimentare. Gli integratori non vanno intesi come sostituti di una dieta equilibrata e variata e di uno stile di vita sano. • Immagine a scopo illustrativo, nome modifi cato articolazioni. Ad esempio, l’acido ascorbico, il rame e il manganese promuovono le funzioni di cartilagini ed ossa. La riboflavina e l’α-tocoferolo proteggono le cellule dallo stress ossidativo, mentre il colecalciferolo e fillochinone contribuiscono al mantenimento di ossa sane. Tutte queste sostanze nutritive sono contenute in Rubaxx Articolazioni in alta concentrazione. Il nostro consiglio: convincetevene da soli! Bevete un bicchiere di Rubaxx Articolazioni al giorno per sostenere articolazioni, cartilagini ed ossa sane.

Per la farmacia:

Rubaxx Articolazioni

(PARAF 972471597)

www.rubaxx.it www.rubaxx.it

Signasol: per una pelle visibilmente bella e soda

Per la farmacia: Signasol

(PARAF 973866357) Ogni donna sogna una pelle liscia e senza imperfezioni. Con l’avanzare dell’età, la produzione di collagene nell’organismo tende tuttavia a diminuire progressivamente, facendo perdere alla pelle elasticità e compattezza con la conseguente insorgenza di rughe ed inestetismi della cellulite. La soluzione? Signasol è una bevanda specifi camente formulata per reintegrare le riserve di collagene. Gli speciali peptidi al collagene contenuti in Signasol sono in grado di rimpolpare la pelle dall’interno, restituendole la sua naturale elasticità. Signasol contiene inoltre vitamine e minerali essenziali: ad esempio, la vitamina C contribuisce alla normale formazione del collagene. Rame, zinco e biotina contribuiscono invece al mantenimento di tessuti connettivi normali e di una pelle normale. Per una pelle visibilmente bella e soda, chiedi Signasol in farmacia!

This article is from: