il cielo negli occhi
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Laura Blandino
Tempo di cose nuove
romanzo
Prima Parte
Estate
1. Lo sgorbietto di casa Faceva davvero caldo quel giorno e, sebbene agosto volgesse ormai al termine, un’afa insopportabile continuava a soffocare la città di Roma; solo di tanto in tanto, attraverso le finestre spalancate, circolava una leggera corrente d’aria. Riempire scatoloni era una gran fatica, ma ormai il lavoro era quasi ultimato. Paola decise di concedersi una pausa e si sedette per terra, in un angolo della camera. Prese il suo quadernone dalla copertina gialla e se lo appoggiò sulle gambe incrociate. Lunedì, 27 agosto 1990 Guardo tutti questi scatoloni intorno a me e mi si stringe lo stomaco. Un altro trasloco, l’ennesimo. Ogni volta ho sperato che fosse l’ultimo, e invece…
Sentì bussare alla porta. – Ciao sgorbietto – suo fratello si affacciò tra gli scatoloni. – Hai un rotolo di nastro adesivo in più? – Prendilo – rispose Paola, accennando alla mensola. – Grazie, a dopo – e scomparve. Stefano aveva gli stessi lineamenti decisi di suo padre e gli stessi occhi grigio azzurri di sua madre: un volto già virile nonostante la giovane età, una capigliatura nera irresistibil-
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mente ribelle, e uno sguardo profondo in cui era fin troppo facile smarrirsi. Il suo modo di fare sicuro e il suo approccio disinvolto riuscivano a dissimulare molto bene ogni fragilità, ogni insicurezza. Nessuna meraviglia che Ste piacesse molto all’altra metà del cielo: Paola aveva ormai perso il conto delle ragazze che negli ultimi anni si erano innamorate di lui (quasi mai ricambiate, per la verità). Con un padre così brillante e di successo, con una madre così piacente malgrado l’età, con un fratello così disinvolto... che cosa c’entrava lei? Magrolina, poco aggraziata, il viso affilato e un po’ spigoloso, i capelli corvini tagliati corti, gli occhi nerissimi spesso velati da una malinconia indecifrabile: era lo “sgorbietto” di casa, appunto. Però era molto brava a scuola, e questo costituiva per lei un punto di forza, un’oasi di sicurezza. La ragazza si strinse nelle spalle, e riprese a scrivere. Non che io sia particolarmente affezionata a questa casa, in fondo ci ho vissuto solo due anni. Sembra ieri quando ci trasferimmo qui…
Aveva appena superato l’esame di terza media e doveva lasciare tutto: la scuola, le poche compagne con cui era faticosamente riuscita a fare amicizia, la casa dove aveva vissuto cinque anni, il mare che vedeva dalla finestra. Doveva lasciare tutto, e si sentiva morire. Adesso no, questa volta era un po’ diverso: ormai sapeva che ai distacchi si sopravvive e che ricominciare si può. Paola amava scrivere, teneva un diario fin da quando era ragazzina: era come confidarsi al solo amico cui fosse certa di poter accordare piena fiducia. Conservava gelosamente il
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suo quadernone in una scatola metallica chiusa a chiave e nascosta in fondo al guardaroba. In realtà a nessuno dei suoi familiari sarebbe mai passata per la testa l’idea di curiosare fra quelle pagine, tuttavia Paola provava un istintivo pudore per i suoi pensieri e preferiva saperli al sicuro in quella specie di cassaforte. Papà dice che siamo una famiglia fortunata, perché “la vita ci dà continue opportunità di rimetterci in gioco”.
A dire il vero non si trattava di opportunità, ma di necessità: la carriera costringeva il dottor Bonvicino a frequenti spostamenti, e i familiari che altro avrebbero potuto fare se non seguirlo? Lui era sempre entusiasta: viveva ogni nuovo incarico come una sfida e diventare direttore di filiale a Cassanico era stata una grande conquista per lui. Il dottor Bonvicino aveva ricevuto la nomina in primavera, ed era subito riuscito a farsi apprezzare. Era davvero bravo nel suo lavoro: orientato al raggiungimento degli obiettivi, sempre pieno di energia, sapeva coinvolgere la sua squadra nel modo giusto. In tutti quei mesi aveva vissuto in albergo, tornando a casa solo una domenica ogni due, ma non era una situazione sostenibile a lungo, visto che Cassanico distava più di seicento chilometri da Roma. L’accordo era che, terminato l’anno scolastico, i suoi cari si sarebbero organizzati per raggiungerlo; da parte sua, papà si era impegnato a trovare una sistemazione che rispondesse alle esigenze di tutti. L’aveva trovata a San Giovanni, piccola frazione della quieta cittadina. Dopo un’estate molto particolare, con i mondiali di calcio
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giocati proprio in Italia e le consuete vacanze studio all’estero, i Bonvicino erano adesso pronti per il trasloco. Mamma si adegua, in fondo per lei un luogo vale l’altro. Nei “momenti sì” è fiera del suo marito in carriera, e quest’appagamento sembra bastarle per non essere troppo infelice. Nei “momenti no” si chiude a riccio, e nulla pare avere importanza per lei.
In effetti, quando papà aveva lanciato l’idea di trasferirsi tutti a Cassanico, la signora Bonvicino – Sissy per gli amici – si era mostrata per lo meno possibilista: non certo entusiasta, ma nemmeno del tutto contraria. In fondo, dopo due anni a Roma si era ormai stufata dei ritmi convulsi e dell’aria inquinata (così come durante la sistemazione precedente si era presto stufata del mare, del vento, della salsedine che rovinava la pelle... Insomma: la mamma era una che si stufava abbastanza in fretta). Per il signor Bonvicino era stato relativamente facile convincere la moglie. Era bastato garantirle una casa indipendente con giardino, fuori città ma non troppo: affinché si potessero godere pienamente il silenzio e il verde della campagna, ma nel contempo si riuscissero a raggiungere facilmente i negozi, il parrucchiere, la palestra. Chi l’ha presa veramente male è mio fratello. Forse perché lui è quello che ci perderà di più.
Stefano non aveva reagito affatto bene alla notizia del nuovo trasloco: aveva una compagnia di amici che come lui amavano divertirsi, giocava in una piccola squadra di basket,
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da qualche tempo aveva iniziato le lezioni di scuola guida. – Io non vengo via – aveva affermato senza mezzi termini. – E che cosa penseresti di fare? – aveva chiesto il padre, non senza ironia. – Rimango qui; la mia casa è questa ormai. – Il contratto di affitto scadrà a fine agosto, lo sai. – Troverò un’altra sistemazione, sempre qui a Roma. – Con quali soldi? – Ho qualcosa da parte... – Vista la tua scarsa propensione al risparmio, dubito che quel “qualcosa” possa bastare per più di un mese! – Cercherò un lavoretto. – Buona fortuna, ragazzo. Ma in attesa di trovarlo, il lavoretto, comincia a fare quello che dico io. – Guarda che sono maggiorenne ormai. Spetta a me stabilire dove vivere... – Potrai stabilire il “dove” quando il “come” non implicherà più che sia io a mantenerti! Messo all’angolo, Stefano non aveva più osato replicare, era uscito sbattendo la porta con tutte le forze della sua giovane rabbia. Per papà questo trasloco è l’inizio di una nuova avventura. Per mamma è l’ennesima illusione di cercare altrove quello che non ha mai trovato. Per Stefano è un abuso, cui prima o poi riuscirà a ribellarsi. Per me è un trasloco, e basta.
Paola sospirò leggermente, e si scostò la frangetta nerissima dalla fronte sudata. Le dita sfiorarono per un istante un odioso brufolo che era spuntato proprio lì in mezzo, come la protuberanza di un unicorno.
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Ricominciò a scrivere… Lascio un bell’appartamento in piena Roma, per andare a vivere in una casetta in capo al mondo. Lascio il ginnasio, per affrontare una classe sconosciuta in un nuovo liceo. Non mi aspetto una grande accoglienza, se devo essere sincera, ma ci sono abituata. È come cancellare la lavagna e cominciare a scrivere daccapo. Solo che quella lavagna è la mia vita e il gessetto mi trema nella mano. Mi consola il pensiero che potrò portare con me tutti i libri, i miei migliori amici. E potrò comprarne infiniti altri, perché nella nuova casa ci sarà molto spazio. A giugno, quando sono andata con papà e mamma a vederla, ho notato nella campagna circostante alcuni angolini che diventeranno presto – ne sono sicura – luoghi di rifugio. Per me va bene.
Paola chiuse il quadernone e lo ripose in cassaforte: la pausa era finita, occorreva rimettersi al lavoro per imballare le ultime cose, riempire gli scatoloni, scriverci sopra il numero. “P8” significava “Scatolone di Paola numero otto”; su un notes la ragazza aveva elencato con precisione il contenuto: “P8 – Mappamondo, ippopotamo, cuscino verde, abat– jour”. Era precisa, metodica, e non lasciava nulla al caso; sapeva per esperienza quanto l’attenzione nel preparare un trasloco fosse importante per non imbattersi in brutte sorprese all’arrivo nella nuova casa. Sua madre aveva delegato tutto alla ditta di traslochi, esigendo che provvedesse direttamente all’imballaggio di ogni oggetto; Paola invece non voleva
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che un estraneo mettesse le mani sulle sue cose, così aveva scelto di occuparsi da sola della propria camera. Quando ebbe terminato, notò che era giunto il crepuscolo. Doveva essere piuttosto tardi ormai; nonostante fosse ancora estate, le giornate avevano già iniziato ad accorciarsi. Di là, i lavori erano terminati. – Mia cara, sei sporca come uno spazzacamino – constatò la signora Bonvicino lanciando un’occhiata alla figlia, apparsa sulla soglia della cucina. – Avresti potuto far lavorare i ragazzi della ditta invece di faticare tu; paga tutto la banca, lo sai… – Papà quando arriva? – Ha appena telefonato, sarà qui tra mezz’ora. – Allora ho tempo per una doccia… – Sì, fai pure con comodo. Ho prenotato quattro pizze per cena; abbiamo il frigo vuoto ormai. Dannazione, detesto i traslochi! – Il suo viso spigoloso ma ancora gradevole si irrigidì in un’espressione di disappunto; le leggere rughe, contro cui creme e infiltrazioni lottavano da anni, si fecero per un attimo più profonde. Paola si chiuse in bagno e, mentre l’acqua iniziava a scorrere, si spogliò. “Guardati! – parve dire lo specchio. – Sembri un ragazzino: così magra, così goffa… E che cosa sono quelle due pertiche al posto delle gambe? Sembrano persino storte tanto sono scarne! E il seno? Credevi che con gli anni ti sarebbe cresciuto, eh? Invece guardalo: due conetti minuscoli, assolutamente ridicoli! Tu non sei una donna, non lo sarai mai!” Paola distolse lo sguardo dei suoi occhi nerissimi, su cui per qualche istante era passata un’ombra di rassegnato malumore, ma si riscosse immediatamente: stava imparando a
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non dar troppo peso ai messaggi impietosi che lo specchio le lanciava. – Per me va bene – replicò decisa ad alta voce, e s’infilò rapidamente sotto il getto tiepido della doccia. 2. Un nuovo inizio Da quando aveva lasciato l’autostrada, la carovana procedeva più lentamente sulle stradine dell’aperta campagna: papà Bonvicino sull’auto aziendale con Stefano, mamma sulla sua city car con Paola, e infine i due camion dell’impresa di traslochi. Stefano aveva sperato che suo padre gli consentisse di guidare almeno per qualche chilometro, ma il dottor Bonvicino non ne aveva voluto sapere: – Non sono un istruttore di guida, a ognuno il suo mestiere. Appena ci saremo sistemati a Cassanico, potrai iscriverti alla migliore scuola guida e completare la tua formazione. “A ognuno il suo mestiere”: con questa massima papà si era sempre astenuto da attività che riteneva lontane dal proprio “profilo di competenza”, delegandole piuttosto ai professionisti di volta in volta più idonei. Così Stefano aveva sempre avuto i migliori istruttori di tennis, di nuoto, di sci… i migliori professori per le ripetizioni di latino nel biennio… e aveva sempre trascorso pochissimo tempo con suo padre. Paola aveva scelto di viaggiare con sua madre, perché papà era solito tenere l’aria condizionata dell’auto a temperature polari e a lei veniva facilmente mal di gola. – Mia cara, sei sempre così silenziosa… – commentò la signora Bonvicino. – Non ho molte cose da dire, al momento. – Suvvia, mia cara: non sei almeno un po’ emozionata?
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Avremo una casa tutta per noi, un giardino in cui fare i barbecue… Conosceremo persone nuove… Paola cercò di non lasciar trasparire un leggero moto di stizza: detestava quando sua madre la chiamava “mia cara”. Non che fosse di per sé un’espressione fastidiosa; il problema era che la signora Sissy Bonvicino la usava continuamente e la applicava alla figlia come alla panettiera, alla colf come all’estetista. Era una giornata splendida, con un sole limpido che sfolgorava sulle verdissime colline disseminate di vigneti, frutteti, pascoli. Qua e là, fra un pendio e l’altro, sorgevano le frazioni: piccoli villaggi di origine rurale a poca distanza dalla città, ma già nel cuore della campagna. Dopo l’ultima curva apparve Cassanico: sulla sommità della collina più alta sorgeva il centro storico e lungo i versanti si estendeva il resto della città. Paola si ripromise di visitarla al più presto: a giudicare dal primo colpo d’occhio doveva essere una cittadina antica e tranquilla, molto diversa dalla caotica metropoli in cui aveva vissuto negli ultimi due anni. Anche le notizie raccolte sfogliando la guida turistica della regione l’avevano incuriosita e aveva subito segnato sulla cartina i punti più interessanti. Paola amava molto visitare le città, soprattutto in solitudine: osservare, leggere le guide, vedere pagine di storia prendere vita in ogni colonna, in ogni vetrata, in ogni antica pietra. La carovana costeggiò per un breve tratto la ferrovia, oltre la quale scorreva il Fàvero, un torrente impetuoso e limpido che la gente del posto chiamava “il fiume”. Proprio ai piedi della città, il Favero formava una vasta ansa in cui l’acqua rallentava creando in quell’angolo di campagna una piccola spiaggia di sassi rotondi.
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San Giovanni era una delle frazioni più vicine a Cassanico: quasi attigua alla zona residenziale che si era sviluppata sul versante meridionale della collina, ma nel contempo distinta dal paesaggio urbano. Era come vivere in campagna, a un passo dalla città: i gruppi di casette con giardino si alternavano a cascine dotate di cortili, stalle, fienili. Quando arrivarono a destinazione, era quasi mezzogiorno. – Allora, che ne dite? – chiese papà Bonvicino scendendo dalla macchina e indicando con un vago gesto della mano quella che sarebbe diventata la loro nuova abitazione. – Per me va bene – rispose Paola con tono incolore. Stefano invece tacque, mantenendo intatto il broncio che si portava addosso fin da Roma. Si trattava di una piccola costruzione rurale a due piani, circondata da un giardino molto semplice: l’erba ben curata, il vialetto che conduceva al portoncino, la tettoia in legno addossata a una parete laterale, l’albero rigoglioso che sorgeva proprio al centro del prato. La casa era stata appena ristrutturata: entrando si sentiva ancora il profumo dell’intonaco. Tutte le pareti interne erano imbiancate a calce, e questo accresceva la luminosità degli ambienti. Era stata Sissy Bonvicino a insistere per mantenere i muri totalmente bianchi: nella casa appena lasciata abbondavano le tappezzerie dai colori intensi, ma la signora si era ormai stufata di quello stile così barocco. Al pianterreno c’erano un saloncino luminoso, la cucina con la stufa a legna, un vasto tinello e un piccolo bagno con i sanitari nuovissimi. Una scala in pietra conduceva al piano superiore, sul cui pianerottolo si affacciavano le tre stanze da letto e il bagno grande. Non c’era nemmeno un granello di povere sui pavimenti,
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nemmeno un alone di calcare sulle piastrelle: i proprietari avevano commissionato alla propria colf una pulizia accurata di ogni ambiente. Complessivamente, si trattava di un’abitazione spaziosa e gradevole. Nel primo pomeriggio, si presentarono i proprietari della casetta per una visita di benvenuto. Gli Ansaldi erano due signori gentili, che Paola aveva già avuto occasione di incontrare a giugno, sia pure soltanto di sfuggita. Questa volta si trattennero di più, informandosi cortesemente su eventuali necessità dei nuovi arrivati. – Chissà come sarete stanchi! – esclamò la signora Ansaldi. – Se potessimo esservi di aiuto in qualche modo… – Grazie, mia cara – rispose Sissy Bonvicino. – In effetti siamo esausti: viaggiamo dall’alba di questa mattina! Ma ci riprenderemo presto, ne sono certa! Questo posto è un piccolo paradiso; fa anche molto più fresco che a Roma. – Ci auguriamo davvero che possiate trovarvi bene qui. – Non ho dubbi, mia cara: il paesino mi piace molto e questa casetta è davvero deliziosa! – Apparteneva alla mia povera mamma: c’è un pezzo del mio cuore, qui… – e la signora Ansaldi dissimulò a fatica un moto di commozione. – Ma la stufa a legna funziona davvero? – Certo: vedrete come vi piacerà accenderla, quando arriverà l’autunno! – rispose il signor Ansaldi sorridendo sotto i baffoni. La moglie annuì con energia, poi si rivolse a Paola: – Noi abbiamo due figlie: una un po’ più grande di te e una ancora bambina. Cecilia è una piccola peste, ma Chiara, la grande,
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sarà felice di mostrarti un po’ di cose nei prossimi giorni. – Grazie – rispose Paola, chiedendosi se ne avesse voglia davvero o se non preferisse, invece, affrontare tutte quelle novità da sola, un pezzettino per volta. I traslocatori impiegarono tutto il pomeriggio a rimontare mobili, spostare scatoloni, installare lampadari; verso sera la casa assunse un aspetto vagamente vivibile. – Fra mezz’ora chiudiamo tutto e andiamo in albergo; al resto penseremo domani – disse papà; la sua segretaria aveva prenotato per tutta la famiglia la cena e il pernottamento presso l’hotel in cui il dottor Bonvicino viveva da mesi. – Non vedo l’ora di fare una buona doccia e stendermi in un letto pulito… – replicò la moglie passandosi una mano impolverata fra i capelli insolitamente in disordine. Paola si sentiva sfinita, persino troppo stanca per riuscire a pensare. Il sole non era ancora tramontato del tutto, quando la ragazza si ritirò in quella che sarebbe diventata la sua nuova camera: se avesse potuto sarebbe rimasta volentieri lì da sola, stesa sul materasso ancora imballato, ad aspettare il mattino. I mobili erano già stati montati esattamente dove aveva indicato; in un angolo della stanza, gli scatoloni accatastati la attendevano per i giorni successivi. La finestra era spalancata sulla campagna: il giardino e la casa dei vicini, un frutteto, una grande cascina poco distante, le colline accarezzate dai colori del tramonto, e all’orizzonte le montagne. Ciò che stupiva Paola era il silenzio: solo di tanto in tanto udiva l’abbaiare di un cane o il transito lento di un’auto in strada. Si sarebbe sentita rinfrancata, se non avesse avuto quel maledetto nodo alla gola: tra sé e sé lo chiamava
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familiarmente “la morsa”. Era come un groppo pungente che ogni tanto la stringeva in fondo alla gola e le rendeva difficile persino deglutire: le capitava spesso, soprattutto nei momenti di tristezza, rabbia o paura. Ogni volta, Paola l’affrontava cercando di respirare profondamente e lentamente, finché sentiva la gola tornare libera e il respiro regolare. Estratto dallo zainetto il quadernone, cominciò a scrivere. Martedì, 28 agosto 1990 Finalmente è sera, non ne potevo davvero più. Voglio raccontare una cosa successa oggi pomeriggio. Mentre i traslocatori scaricavano, ho fatto quattro passi intorno alla casa. In giardino c’è un albero bellissimo, credo sia un albicocco. Oltre il muretto di cinta, nel giardino della casa accanto, una bambina se ne stava in piedi in mezzo al prato.
Paola non avrebbe mai più dimenticato quell’incontro: pugni sui fianchi e faccia corrucciata, la ragazzina osservava in silenzio le operazioni di trasloco. Riccioli biondi, occhi azzurri, visino perfetto: sarebbe sembrata un angelo, se non avesse avuto un’espressione così ostile. L’ho salutata, ma non ha contraccambiato. Allora ho provato a presentarmi: “Mi chiamo Paola. Paola Bonvicino. E tu?” “Cecilia Ansaldi.” “Ho quindici anni, e tu?” “Nove.” “Abiti qui?” “No, io vivo a Cassanico centro. Questa è casa di mia zia,
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ma ci posso venire tutte le volte che voglio.” “Io sono arrivata oggi...” “Lo so.” “Adesso abito qui.” “Lo so” ha risposto sfrontata la piccola peste bionda; e, inforcata la bici che teneva appoggiata al muretto, senza nemmeno salutare se n’è andata. Come inizio non c’è male: Frazione San Giovanni mi ha accolta esattamente come temevo, forse persino peggio.
Avrebbe dovuto rassegnarsi, ancora una volta, a ricominciare da zero il duro percorso per farsi accettare dagli altri, dalla vita, e forse, a ben pensarci, anche da se stessa. 3. Ben arrivata, Paola! Il nuovo giorno fin dalle prime ore si preannunciò terso come il precedente. Rannicchiata nel suo letto d’albergo Paola osservava la luce del mattino entrare a sottili lame attraverso le persiane e ascoltava il respiro regolare di Stefano che dormiva ancora. La sera prima, dopo un’interminabile doccia tiepida, avevano scambiato poche parole; poi Paola si era arresa al sonno, esausta. Stefano invece era rimasto sveglio fino a tardi ad ascoltare musica con le cuffie. Quando la sveglia suonò, il ragazzo fece un sobbalzo e ringhiò rabbiosamente girandosi dall’altra parte. Paola si alzò, andò in bagno, si lavò, si rivestì, e quando tornò in camera trovò il fratello nuovamente addormentato. – Sveglia, pigrone! – Taci, sgorbietto… – grugnì Stefano. – Fa’ come credi, ma fra un quarto d’ora papà e mamma ci
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aspettano giù a colazione. – Non m’interessa. – Peggio per te, allora – concluse Paola, mettendosi in spalla lo zainetto e avviandosi fuori dalla stanza. Mentre si richiudeva alle spalle la porta, sentì Stefano che si alzava sbuffando. Nell’elegante hall dell’albergo la ragazza attese il resto della famiglia; rimase a lungo a osservare alcuni pesci coloratissimi che si inseguivano pigramente in un enorme acquario tropicale. Quando si sentiva un po’ disorientata, concentrare l’attenzione su qualcosa di colorato l’aiutava a non pensare con troppa intensità. Poco più tardi, i Bonvicino si ritrovarono al buffet della colazione. – Davvero delizioso questo hotel; pare che sia il migliore della città – osservò la signora Sissy sorseggiando un succo d’ananas con espressione da intenditrice. – Sì, devo riconoscere che mi sono trovato molto bene in questi mesi – ammise il marito. – Scommetto che ti mancheranno tutte queste comodità… – Non ne sono così sicuro: dopo tanti mesi in albergo, fa piacere tornare a vivere in una casa. “Ti fa piacere tornare a vivere in una casa perché sei stufo dell’albergo, o perché ti mancavamo noi?” si chiese Paola, ma non disse nulla e continuò a osservare Stefano che, appoggiato al banco delle brioche, era già riuscito ad attaccare bottone con una giovanissima cameriera. Quando arrivarono a Frazione San Giovanni il sole era già alto, ma l’aria si manteneva fresca e pulita. Paola si ritirò nella sua camera, e iniziò immediatamente a
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lavorare: desiderava svuotare tutti gli scatoloni al più presto, per poter chiudere il capitolo “trasloco” entro la giornata. Il fatto di essersi organizzata con metodo la aiutò a essere molto rapida nel lavoro di riordino: ogni cosa trovava subito il proprio posto, e per Paola fu un piccolo sollievo. Papà era già andato a lavorare, perché un manager come lui non poteva assentarsi troppo a lungo dalla filiale; mamma si era messa a sistemare nell’armadio le sue innumerevoli camicette di seta; Stefano si era chiuso in camera, ma dal silenzio si poteva desumere che non stesse dandosi molto da fare. In quella pace, Paola lavorava benissimo. I primi tre scatoloni erano già stati svuotati e appiattiti, quando la ragazza si fermò incuriosita: attraverso la finestra semiaperta filtrava il suono di una voce femminile che cantava una specie di antica ballata in una lingua incomprensibile. Paola si accostò con discrezione al davanzale, ma non si affacciò; rimase seminascosta dallo stipite a osservare la giovane donna che stendeva il bucato nel giardino dei vicini, proprio nel punto in cui, il pomeriggio precedente, Paola aveva incontrato quella ragazzina scontrosa di nome Cecilia. Alta, slanciata, la donna teneva i lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo che danzava allegramente sulla schiena. Raccoglieva i capi di bucato da una bacinella appoggiata sull’erba del prato e li stendeva a una corda tesa tra il palo della luce e il muro occidentale della casa. Assomigliava parecchio alla ragazzina scorbutica conosciuta il giorno prima, ma di sicuro doveva avere tutt’altro carattere. Probabilmente era la zia. Stendeva e cantava, cantava e stendeva; il suo lavorare pareva una danza, e Paola rimase a osservarla affascinata. Si risolse ad abbandonare la finestra solo quando la vicina
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ebbe terminato il lavoro e, raccolta la bacinella vuota, rientrò in casa. – Signoooraaaaa! Signora Bonviciiiiinoooooo! Chi chiamava a gran voce, immobile sulla soglia del giardino, era un donnone corpulento e vigoroso. – Venga, mia cara, venga… – mamma Bonvicino le si fece incontro trepidante. – Sono così contenta che sia arrivata! Erano stati gentili i signori Ansaldi: avevano offerto ai nuovi inquilini l’aiuto della propria colf perché li supportasse almeno nei primi giorni. Il donnone entrò e si guardò intorno con attenzione: – Uhm… Siete rimasti soddisfatti della pulizia che ho fatto l’altroieri? – Assolutamente sì! È stato un sollievo entrare in una casa già perfetta. – Adesso dobbiamo liberarci di tutti questi scatoloni. Da dove cominciamo? – Oh, io non saprei… È tutto così caotico oggi… – Allora partiamo dalla cucina, che è sempre la stanza più complicata! La signora Carla si dimostrò subito efficiente ed energica: mamma Bonvicino tornò alle sue adorate camicette e la colf si mise all’opera. Quando Paola scese per cercare un panno pulito, la trovò in piedi su una sedia, con il busto mezzo inghiottito da un pensile della cucina. Al saluto della ragazza, estrasse la testa dall’armadio e la guardò dall’alto della sua postazione sopraelevata. – Sei la figlia piccola dei Bonvicino, vero? – Sì, io…
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– L’ho capito subito; ho raccolto le mie informazioni, sai. Non vado mai in una casa se prima non so che cosa devo aspettarmi. – Io avrei… – Lo so, lo so, ce n’è di lavoro da fare; ma prima devo finire qui. Quando la cucina sarà a posto, verrò ad aiutare anche te. – Ma io non… – Ah, a me piace fare le cose per bene, altroché! L’interno dei mobili va pulito a fondo, prima di metterci dentro la roba… – e intanto aveva ripreso a strofinare i ripiani. – Proprio per questo io… – Ah, quanta impazienza voi giovani! Volete sempre tutto e subito, altroché! Io ne so qualcosa, eh… Le bambine degli Ansaldi a volte sono così agitate… Ma sono anche tanto care, ci mancherebbe! Le ho viste crescere! Pensa che Chiara, la grande, ha compiuto diciott’anni a primavera; è una brava ragazza, studia al liceo classico di Cassanico, quest’anno farà la maturità. Anche tu andrai nella stessa scuola vero? – Sì, ma io ho due anni in meno, e… – Lo so, lo so. E si vede! Sei così gracilina! Chiara invece è una donna ormai, sapessi com’è cambiata nell’ultimo anno! Si è anche incapricciata di un tizio, un giornalista scalcagnato… Il signor Ansaldi stava diventando matto, non lo sopportava proprio! Ma non è che si siano fidanzati, eh… sono solo amici! È lei che vorrebbe… ma lui mi sa che… Mi passi lo spray all’ammoniaca? – Ecco… – Comunque è una cara bambina, altroché! Mica come certe amiche sue… Ce n’è una che sembra il diavolo, con quei capelli rosso fuoco e quel ragazzo più grande di lei sempre attaccato addosso. E quell’altra, la figlia del fioraio… non ha
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nemmeno finito il liceo: appena maggiorenne se n’è andata in Inghilterra per i fatti suoi e tanti saluti a tutti. I suoi genitori non fanno che piangere quando ne parlano; che disgrazia, povera gente… – Veramente io non… – Ah certo, in fin dei conti sono affari loro, ci mancherebbe. E io sono una che si fa i fatti suoi, sappilo! A me importa solo che Chiara cresca bella e brava. E anche Cecilia, ovviamente: quella è una piccola peste, ma con un cuore d’oro credimi! “Sarà…” pensò Paola dubbiosa, ricordando l’infelice incontro del giorno precedente. – Certo non bisogna costringerla sui libri tutto il pomeriggio, eh! Quella è un animaletto selvatico, sempre in giro per la campagna in bicicletta, o a fare guai nella fattoria di quel suo amico con i capelli a spazzola… Un figlio di contadini, brava gente che vive in quella fattoria laggiù: hanno i campi, le bestie… La signora Carla aveva finito la pulizia dei pensili; scese dalla sedia ondeggiando pericolosamente i fianchi enormi e atterrò di fronte a Paola. – Adesso comincio a sistemare le pentole, ho visto che sono in questo scatolone qui. Ah, ecco… Belle queste: sono in acciaio a triplo fondo, le conosco… Io me ne intendo, sai: gli Ansaldi hanno un negozio di casalinghi nella via principale di Cassanico; un negozio di quelli belli, eh! Hanno pure articoli regalo, liste nozze… Anche alla professoressa hanno regalato una batteria di pentole quasi uguale a questa, per il matrimonio. L’hai già conosciuta la professoressa? – La…? – Ma sì, la professoressa Marta Ansaldi! Abita nella casa
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qui accanto, insegna all’università a Revinasco, e scrive anche dei libri: mica romanzetti, o cose così, ma proprio libroni seri, per quelli che fanno le scuole alte. È la sorella del signor Ansaldi, a giugno si è sposata ed è venuta ad abitare qui. Suo marito è il maestro di Cecilia e da quest’anno sarà anche preside della scuola: che uomo! Bello come un attore, altroché! Mi puoi passare i tegami mentre io li metto dentro? Paola si arrese: non c’era verso di farla stare zitta! In fondo, però, si trattava di una donna simpatica: chiacchierona, ma non maligna; i suoi pettegolezzi non erano di quelli pungenti, per i quali Paola provava da sempre un istintivo fastidio. La ragazza cominciò a svuotare lo scatolone, porgendo alla donna le pentole a una a una. Lavorando in due impiegarono pochissimo e passarono allo scatolone delle stoviglie. Paola aveva le idee chiare sulla collocazione di ogni oggetto, anche perché abitualmente era lei la cuoca di casa: mamma odiava cucinare, acquistava sempre piatti pronti da scongelare. Invece lei amava stare ai fornelli, era una specie di hobby che la rilassava e la divertiva; certi pomeriggi d’inverno, dopo ore di studio massacrante, le capitava di alzarsi e andare a preparare una torta (adorava il profumo dell’impasto che lievitava nel forno) o un dolce al cucchiaio che poi Stefano avrebbe divorato appena tornato da allenamento. La sistemazione della cucina era quasi terminata, quando qualcuno suonò al portoncino. Paola andò ad aprire e si trovò davanti una donna vestita semplicemente che le sorrise con simpatia; portava fra le braccia un cesto di vimini coperto da un canovaccio pulito. Accanto a lei un ragazzino dai capelli a spazzola dondolava ora su un piede, ora su un altro: avrà avuto una decina d’an-
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ni e sbirciava con curiosità l’interno della casa attraverso lo specchio della porta spalancata. Doveva essere il figlio. – Speriamo di non disturbare… – mormorò la donna con un cenno di saluto. – Abitiamo nella cascina qui accanto e vorremmo darvi il benvenuto. – Grazie, è un bel pensiero – rispose Paola confusa, invitandoli a entrare con un cenno del capo. – Io mi chiamo Pipetto e tu? – chiese il ragazzino, porgendole la mano. – Paola. – È cambiata molto questa casa – osservò Pipetto guardandosi intorno. – Prima ci abitava la nonna di Ceci. Venivo spesso qui. La donna appoggiò il cesto sul tavolo della sala e tolse il canovaccio: alla vista della ragazza apparve un tripudio di cose buone da mangiare. C’erano salamini e caciotte, uova e pomodori, frutta fresca e pagnotte dorate, una bottiglia di vino e un vasetto di marmellata. – È tutto per voi – spiegò Pipetto. – Sono i prodotti della nostra fattoria. Così se vi viene fame, visto che è quasi ora di pranzo… – Il pane è ancora tiepido – spiegò la donna.– L’ho sfornato questa mattina. Paola osservava tutto sgranando gli occhi per la meraviglia: il suo sguardo passava incessantemente dal sorriso della donna al volto del ragazzino, al cesto delle delizie. – Non so come… come ringraziarvi… – mormorò. – Non ce n’è bisogno: è solo un piccolo benvenuto. Paola rimase senza parole. Raccolse fra le mani una caciotta morbida e bianca, accarezzandola come se fosse una creatura viva.
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