La ragazza in bottiglia

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Prima Parte

Il bianco e il nero

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1. Valentina

Uscì dal portone del palazzo come di galera. Osservò il cielo di settembre e il traffico della città che si stava risvegliando e pensò che sarebbe anche potuta essere una buona giornata. Se ovviamente non fosse dovuta andare a scuola. Usciva dalla cella della sua camera per entrare in un’altra prigione. Anzi, non era proprio così. La scuola era più che altro un parcheggio dove si annoiava a morte. Chissà se qualcuno era davvero mai morto di noia o era solo un modo di dire... Pensò a Giulia, la sua ex migliore amica: la immaginò addormentarsi durante una delle interminabili spiegazioni della prof di greco, perdere l’equilibrio e cadere con la sedia all’indietro, spaccandosi la testa su quelle orribili mattonelle del pavimento. Ridacchiò tra sé senza sentirsi troppo in colpa. Tanto quella, alle lezioni di greco, stava sempre attenta. E pure a tutte le altre, anche se non gliene importava niente, giusto per far contenti i suoi. A Valentina non fregava niente dei suoi né di nessun altro. Suo padre, un bel venerdì, era sparito di colpo nel nulla. Il giorno del suo sedicesimo compleanno, per la precisione. Gran tatto, non c’è che dire. Così Valentina avrebbe ben ricordato, ogni volta che avesse soffiato sulle candeline della torta, che suo padre adesso abbracciava i figli di un’altra. Tanto dubitava che ci sarebbero state altre

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candeline da spegnere, dopo che l’ultima volta l’aveva fatto assestando alla torta una colossale capocciata. A ripensarci ora le veniva solo da ridere: era accerchiata dalle sue sceltissime amiche che avevano già intonato “tanti auguri” e sua madre era pronta con la macchinetta e lei, bam, aveva preso a testate la torta. Anzi, mi sa che aveva fatto paf. Impagabile comunque il ricordo di quell’attimo. Peccato che a sua madre fosse mancata la prontezza di immortalarlo. Nessuno aveva riso, però. Le invitate erano rimaste raggelate nei loro twin-set fatti in serie. Poi, chissà come mai, si era diffusa in giro la voce che Valentina fosse matta. Perciò, niente più feste. Una liberazione, dal suo punto di vista. Ricordava perfettamente la sensazione che aveva provato davanti alla torta, perché le capitava spesso di sentirsi ancora a quel modo. Era una specie di vertigine, un istante in cui tutto attorno a lei spariva e Valentina si sentiva accartocciare dalla disperazione. Esattamente. La fuga del padre era stato solo l’inizio e forse avrebbe potuto anche farsene una ragione. La maggior parte delle ragazze che conosceva aveva i genitori divorziati, quando andava bene. Risposati, se erano sfigate. Poi però era morto Pietro e da una cosa del genere non si esce più. Aveva quattro anni, profumava di biscotti e Valentina lo adorava. Una roba fulminante, malattia innominabile, maledetta, orrenda. Ecco qua. A sua madre era rimasta solo lei, tanto più che era ammorbante già da prima della serie di sciagure. E se c’era stato un tempo in cui Valentina aveva anche studicchiato, adesso le sfuggiva il senso di tutto e il latino e il greco erano

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diventate due inutili lingue defunte. Figurarsi se poteva sprecare le sue già esigue energie dietro a quel ciarpame da rigattieri e vecchie prof incartapecorite. Valentina amava solo l’arte, voleva dipingere e quel liceo la spegneva da dentro. In realtà ultimamente non le importava più molto neanche dell’arte. Vedeva il mondo in bianco e nero. Con Pietro erano svaniti anche i colori e ogni possibilità di essere felice. Andava a scuola solo per non dover stare a casa con sua madre. Capirai... Rifletté brevemente sulla sua esistenza apatica: se fosse stata un libro, un lettore furbo sarebbe subito passato ad altro. Che poteva capitare a qualcuno che faceva di tutto per non far accadere niente? Le giornate trascorrevano identiche e sfilacciate. Si svegliava e non vedeva l’ora di tornarsene a letto. La sua vita era già finita. O almeno, Valentina credeva così.

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