E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO V - N°7 - LUGLIO 2011 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE • POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI
hanno scritto: Gabriele Battaglia.Enrico Bertolino Alessandra Bonetti.Roberta Carlini.Arturo Di Corinto Alessandra Fava.ivan.Niccolò Mancini.Antonio Marafioti.Maso Notarianni.Valentina Redaelli.Nicola Sessa.Francesca Viscone hanno fotografato e illustrato: Marco Becker Alberto Bevilacqua.Anna Cola.Gianluca Cecere.Mario Dondero Elfo.Luciano Ferrara.Guido Guarnieri.Mattia Insolera Fernando Moleres.Ivo Saglietti.Ian Teh.Susanna Teodoro
E-IL MENSILE LUGLIO 2011 • EURO 4,00
Viteprecarie.Genova Ligabue.ZygmuntBauman Quartierid’Europa un racconto inedito di AndreaCamilleri
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Per il futuro del tuo bAmbino.
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Categoria Food&Beverage L’imprenditore dell’anno 2010 Premio Ernst & Young
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Il vento soffia? Parrebbe di sì. Parrebbe quattro volte sì. E allora forse è il caso di dispiegare le vele, e prendere i venti del destino ovunque spingano la barca. Possiamo pensare che il referendum sull’acqua sia un segnale preciso contro il fatto che si possa anche solo pensare di introdurre le regole del mercato nei beni pubblici? Che ci siano dei luoghi della società e dell’economia nei quali il profitto non deve e non può entrare? Questo si sarebbe voluto dire a Genova nel 2001, questo si dice oggi. E allora proviamo a vedere se si può cacciare il profitto da luoghi in cui è entrato impropriamente. Da luoghi pubblici come e forse anche più dell’acqua: la scuola, la salute, i diritti. Proviamo a capire – visto che abbiamo detto no al nucleare e che siamo consapevoli che la questione delle risorse è dirimente per il futuro del pianeta – se è possibile fare altro rispetto al passato? Per esempio, proviamo a pensare a eliminare lo strumento che ci consente di depredare il resto del mondo: la guerra. Proviamo a pensare di non avere bisogno di rubare al resto del mondo le risorse energetiche. Proviamo a pensare di eliminare il profitto dal luogo che è il più importante tra i bene comuni: la vita. Mettiamo insieme queste tre esempi, e proviamo a vedere se è possibile pensare a un processo graduale, ma importante, di risparmio sulle spese militari (venti miliardi all’anno, in Italia, escluse le grandi commesse che fanno capo al ministero delle Attività produttive, e sono altri miliardi). E se è possibile investire questi soldi anche nella ricerca sulle alternative al petrolio, riconvertendo le industrie militari in luoghi in cui si costruisce un nuovo “sistema energetico” in Italia. Infrastrutture, strumenti per la produzione e la distribuzione dell’energia. Tutte cose indispensabili, adesso che abbiamo detto addio al nucleare e che dobbiamo dire addio al vecchio carbone. Noi, nei prossimi mesi, daremo il nostro contributo. Ma noi da soli non bastiamo. È necessario che la rete per i beni comuni che si è costruita rimanga salda e prenda una direzione. Suggeriamo questa. Perché, se riducessimo le spese militari, probabilmente ci sarebbe tanto da dare e da fare e da costruire. Nella scuola pubblica, nella sanità pubblica. Nel mondo del lavoro in genere. Scorrendo questo numero si capisce quanto ce ne sia bisogno, di investimenti sul futuro. Per spezzare quella catena che si chiama precarietà e che è stretta non solo intorno ai polsi, ma anche intorno alla testa dei giovani nel nostro Paese. Maso Notarianni
P.S. Non perdetevi il numero di agosto di E, un numero speciale, quasi da spiaggia, e con una parte dedicata ai bambini. Lo trovate in edicola da mercoledì 3 agosto.
l’editoriale
prendiamo il vento
in questo numero 5 le storie
Ich bin ein Berliner di Francesca Viscone
Corro in Africa di Luciano Del Sette foto di Giò Palazzo
Libri con le ruote di Raethia Corsini
Versi galeotti di Christian Elia
Architetture esistenziali di Ginevra Battistini foto di Andrea Martiradonna
12 il reportage
Quartieri d’Europa Mercati, moschee, scuole. A Lione, come a Leeds o a Malmö, nelle zone di vecchia immigrazione si vive ogni giorno la sfida della convivenza tra visioni religiose, destini individuali e rapporto con la società ospitante di Nicola Sessa foto di Gianluca Cecere
26 l’intervista
L’arte del convivere Il multiculturalismo è veramente fallito, come hanno sostenuto David Cameron e Angela Merkel? Zygmunt Bauman sostiene che l’Europa non può più “mangiare” le differenze e deve inventare un nuovo modello di Nicola Sessa foto di Gianluca Cecere
34 il fumetto
Wikileaks La storia di Julian Assange comincia nel 2010: da allora il suo Wikileaks è diventato lo spauracchio di poteri e governi di tutto il mondo scritto da Dario Morgante disegnato da Gianluca Costantini
40 l’incontro
Il mio canto utile Alla vigilia di Campovolo 2.0 Luciano Ligabue racconta. Di un’infanzia là dove tutti erano comunisti, della fatica del successo, del bisogno di suscitare, attraverso la musica, una speranza o una convinzione di Maso Notarianni foto di Mario Dondero
52 il dossier
Vita da funamboli È quella dei giovani in un Paese, l’Italia, in cui il lavoro flessibile si può chiamare in 18 modi diversi e nel quale le corporazioni hanno un gran peso. Con uno sguardo alla precarietà, ma anche al welfare degli altri e a qualche buona idea di Roberta Carlini foto di Stefano Montesi, Dino Fracchia e Fernando Moleres
Lavorare in ginocchio una mappa a cura di Cartografare il Presente
Il fortino l’inchiesta di Christian Benna
C’è precaria e precaria di Gabriele Battaglia
Buonanotte Milano di Valentina Redaelli foto di Beatrice Mancini
La strana coppia di Michele Primi foto di Mattia Insolera
Poesia per chi resiste di ivan foto di Adele Lorenzi
74 cronache
96 il viaggio
Il buio oltre la muraglia C’è un luogo, nel remoto Nordest della Cina, che si chiama Dandong e dal quale, con il binocolo, si può scrutare la vita della Corea del Nord di Gabriele Battaglia foto di Ian Teh e Alessandro Digaetano
112 il racconto
I fantasmi - ultima puntata Un altro spettro, con voglie molto umane, porta scompiglio a Vigata. E finalmente il commissario Bennici viene a capo del mistero un inedito di Andrea Camilleri illustrato da Shout
120 domani
Libri di Alessandra Bonetti Teatro di Simona Spaventa Cinema di Barbara Sorrentini Architettura di Raul Pantaleo Rete di Arturo Di Corinto Design di Claudia Barana Musica di Carlo Boccadoro La giusta causa di Massimo Rebotti
126 le pagine
di Emergency
Il seme di Genova foto di Gianni Fiorito
Avevano vent’anni e manifestavano contro il G8 nel 2001: oggi ricordano quei giorni che hanno funzionato da spartiacque per il movimento No global e per la loro vita. Hanno vent’anni e hanno vissuto la stagione arancione di Milano L’onda lunga di Donatella Della Porta foto di Lucio Cavicchioni e Michel Spingler
Dieci anni dopo di Alessandra Fava foto di Francesco Acerbis, Roberto Arcari, Diana Bagnoli, Marco Becker, Alberto Bevilacqua, Carlo Cerchioli, Massimiliano Clausi, Elio Colavolpe, Luciano Ferrara, Dino Fracchia, Luana Monte e Antonello Nusca
Io partecipo di Massimo Rebotti foto di Eugenio Marongiu
le rubriche 30 Spiriti liberi di Giulio Giorello 32 Lessi di Neri Marcorè 50 Televasioni di Flavio Soriga 92 Mad in Italy di Gianni Mura 104 Pìpol di Gino&Michele 105 Il capitale di Niccolò Mancini 108 Polis di Enrico Bertolino 109 .eu di Stefano Squarcina 110 Un fisico bestiale di Bruno Giorgini
118 118 119
Buen vivir di Alfredo Somoza Decoder di Violetta Bellocchio Parola mia di Patrizia Valduga
124 La posta del cuore di Claudio Bisio
128 Per inciso di Gino Strada
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il nostro osservatorio 48 90
Buone nuove L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro
94 Casa dolce casa 106 Cessate il fuoco
in copertina foto di Emanuele Cremaschi [luz]
con noi E - IL MENSILE
Roberta Carlini
LUGLIO 2011
www.e-ilmensile.it Direttore responsabile Gianni Mura Condirettore Maso Notarianni Art director Federico Mininni Caporedattori Angelo Miotto ◆ Assunta Sarlo Redattori Gabriele Battaglia ◆ Christian Elia ◆ Luca Galassi
Alessandro Grandi ◆ Antonio Marafioti ◆ Enrico Piovesana Massimo Rebotti ◆ Valentina Redaelli ◆ Nicola Sessa Stella Spinelli ◆ Alberto Tundo Photoeditor Marta Posani ◆ Germana Lavagna Segreteria di redazione Silvina Grippaldi ◆ Elena Recalcati Amministrazione Annalisa Braga
Giulio Giorello
Nato a Milano il 14 maggio 1945. Insegna Filosofia della scienza all’Università di Milano. Editorialista del Corriere della sera. Dirige la collana Scienza e idee presso l’editore Raffaello Cortina di Milano. Su E cura la rubrica Spiriti liberi.
Hanno collaborato
Francesco Acerbis ◆ Roberto Arcari ◆ Ammar Awad ◆ Diana Bagnoli Claudia Barana ◆ Ginevra Battistini ◆ Marco Becker ◆ Violetta Bellocchio Christian Benna ◆ Enrico Bertolino ◆ Alberto Bevilacqua ◆ Claudio Bisio Carlo Boccadoro ◆ Alessandra Bonetti ◆ Andrea Camilleri ◆ Roberta Carlini Casa delle donne per non subire violenza Bologna ◆ Lucio Cavicchioni Gianluca Cecere ◆ Carlo Cerchioli ◆ Massimiliano Clausi ◆ Anna Cola Elio Colavolpe ◆ Gianluca Costantini ◆ Raethia Corsini ◆ Alfredo Covino Emanuele Cremaschi ◆ Federico De Cicco ◆ Donatella Della Porta ◆ Luciano Del Sette ◆ Alessandro Digaetano ◆ Arturo Di Corinto ◆ Mario Dondero Elfo ◆ Alessandra Fava ◆ Luciano Ferrara ◆ Gianni Fiorito ◆ Dino Fracchia Maurizio Galimberti ◆ Gino&Michele ◆ Giulio Giorello ◆ Bruno Giorgini Guido Guarnieri ◆ Mattia Insolera ◆ ivan ◆ Paolo Lezziero ◆ Nieves López Izquierdo ◆ Adele Lorenzi ◆ Beatrice Mancini ◆ Niccolò Mancini ◆ Neri Marcorè ◆ Eugenio Marongiu ◆ Andrea Martiradonna ◆ Maddalena Masera Fernando Moleres ◆ Luana Monte ◆ Stefano Montesi ◆ Dario Morgante Antonello Nusca ◆ Giò Palazzo ◆ Annamaria Palo ◆ Raul Pantaleo ◆ Olivia Parker ◆ Michele Primi ◆ rassegna.it ◆ Ivo Saglietti ◆ Borislav Sajtinac Mauro Scrobogna ◆ Shout ◆ Alfredo Somoza ◆ Flavio Soriga ◆ Barbara Sorrentini ◆ Michael Sowa ◆ Simona Spaventa ◆ Michel Spingler ◆ Stefano Squarcina ◆ Cecilia Strada ◆ Gino Strada ◆ Ian Teh ◆ Susanna Teodoro Patrizia Valduga ◆ Eduardo Verdugo ◆ Massimo Viegi ◆ Francesca Viscone Agenzie fotografiche ed editori
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La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC
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Mario Dondero
Di origini genovesi, nato nel 1928, è una delle più originali figure del fotogiornalismo contemporaneo. Inizia a lavorare nei primi anni Cinquanta con l’Unità, L’Avanti, Milano Sera. Nel 1955 si sposta a Parigi dove collabora con l’Espresso, l’Illustrazione Italiana, Le Monde, Le Nouvel Observateur. Frequenta e ritrae scrittori e intellettuali francesi. Tra le sue foto più celebri, quella del gruppo degli scrittori del Nouveau roman scattata a Parigi nel 1959 davanti alla sede delle Editions de Minuit. Il suo interesse per l’Africa si è manifestato attraverso la collaborazione alle riviste Jeune Afrique, Afrique-Asie, Demain l’Afrique. Ha fotografato Luciano Ligabue.
Gabriele Battaglia Milanese e milanista, nato nel 1966, ha iniziato come web-giornalista. Convinto che l’Oriente sia il migliore punto d’osservazione sul mondo contemporaneo, cerca di raccontare la Cina e gli altri Paesi del Far East. Ha all’attivo reportage e mostre fotografiche su vari media. Qui ha scritto C’è prercaria e precaria e Il buio oltre la muraglia.
E - IL MENSILE già PeaceReporter Redazione e amministrazione via Vida, 11 - 20127 Milano - Tel 02 801534 - Fax 02 26809458 segreteria@e-ilmensile.it Edito da Dieci dicembre Scarl via Vida, 11 - 20127 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Concessionaria pubblicità Poster pubblicità & p.r. Srl Sede legale e Direzione commerciale: via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma Sede commerciale: viale Gran Sasso, 2 - 20131 Milano Tel 06 68896911 - Fax 06 58179764 - poster@poster-pr.it Stampa Nuovo Istituto Italiano Arti Grafiche Spa via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Distribuzione M-dis Distribuzione Media Spa via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano - Tel 02 25821 - Fax 02 25825306 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione via F. Argelati, 35 - 20143 Milano Servizio abbonamenti e arretrati Picomax Srl viale Sondrio, 7 - 20124 Milano Tel 02 77428040 - Fax 02 76340836 Arretrati 8 euro Alle biblioteche carcerarie che ne facciano richiesta verrà attivato un abbonamento omaggio
Giornalista freelance, quando non scrive si occupa con continuità di due webmagazine: www.sbilanciamoci.info (ovvero: l’economia com’è e come può essere) e www.ingenere.it (sempre economia, ma anche molto altro, da un punto di vista di genere). Ha appena pubblicato per Laterza L’economia del noi, storie dall’Italia che condivide, e sul libro ha aperto un blog (www.economiadelnoi.it). Per molti anni ha lavorato al manifesto, di cui è stata vicedirettore fino al 2003. Su E ha scritto Vite da funamboli.
Nieves López Izquierdo
Madrilena dalla nascita e bolognese dal 2003. Architetto e cartografa d’inchiesta fa parte dell’équipe di Cartografare il Presente. Collabora inoltre con Le Monde diplomatique e con l’Unep per cui ha realizzato “Vital Climate Change Graphics for Latin America and the Caribbean, 2010”. Per E ha cartografato il lavoro precario in Italia.
Alessandra Fava
Genovese. Giornalista dall’89. Ha scritto per Marie Claire e Diario. Ha seguito il G8 genovese e i processi per Ansa, il manifesto e Radio Popolare. Si occupa di tematiche sociali, cronaca e sindacato. Quando può viaggia e scrive di esteri. In questo numero ha intervistato chi al summit genovese aveva vent’anni.
Beatrice Mancini
Nata a Este. Nel 2000 si laurea in Lettere classiche con una specializzazione in Archeologia medievale. Nello stesso anno partecipa a un corso di fotografia e inizia a lavorare come assistente. Nel 2007 partecipa con una borsa di studio al master in Photography and Visual Design presso il Centro Forma. Praticamente vive in treno tra Padova e Milano e fotografa ovunque. Per noi ha ritratto i ragazzi del cohousing.
Christian Benna Giornalista, classe 1976, torinese. appassionato di jazz, ciclismo e pugilato. Per pagare l’affitto scrive di cose economiche su varie testate. Per E ha realizzato l’inchiesta sugli ordini professionali in Italia.
Gianluca Cecere
Napoletano, 42 anni, fotografo. Si muove tra il reportage sociale e la ricerca personale. È rappresentato dall’Agenzia Laif. Ha fotografato i Quartieri d’Europa e Zygmunt Bauman.
storia 16 - Pino Bianco
Pino Bianco è nato a Montalbano Jonico (Mt) nel 1957. Ha il diploma di ragioniere, ma ha sempre lavorato nella ristorazione a Milano, Parigi, Londra e, dopo la morte del padre, nella pizzeria di famiglia a Scanzano Jonico. Nel 1991 ha aperto a Berlino una trattoria specializzata nella cucina povera della Lucania. È attivo contro la mafia e sostiene un asilo di integrazione.
Ich bin ein Berliner Qualcuno a Londra mi disse che la città del futuro era Berlino. Allora, ho pensato, voglio proprio vederla. Erano i primi anni Ottanta, ho attraversato confini e frontiere, sembrava di andare in un Paese in guerra. Invece ho trovato una città libera, piena di giovani. E ci sono rimasto. Qui mi sento riconosciuto come persona, come essere umano. Provo una sensazione di libertà che in Italia non ho mai avuto. Sono cresciuto a Scanzano, in Basilicata, ma il mio paese mi stava molto stretto. No, non perché sono gay, ma perché volevo girare il mondo. Nel 1991 ho aperto una trattoria, ’A muntagnola, nel quartiere Schöneberg. Ho chiesto a mia madre di aiutarmi, per un paio di mesi, a creare un menu con le ricette della mia infanzia. Dicevo: «Mamma, ti ricordi quel piatto che faceva la nonna, con il pane vecchio, o quei fusilli con la mollica?». Così abbiamo recuperato la cucina povera e alla fine è rimasta anche lei: è la mia cuoca. La Basilicata si è fatta conoscere lentamente, ma questo ritardo è la sua fortuna: il buon cibo lo facciamo arrivare da lì. Da cuoco mi sento utile anche come cittadino. Nel quartiere abbiamo un asilo speciale, l’Integrationskita Fuggenstrasse 32. È nato sette anni fa con un progetto di integrazione tra bambini con bisogni particolari, alcuni dei quali sieropositivi, e i cosiddetti sani. Quando l’ho saputo, ho chiesto che cosa potessi fare per sostenere l’iniziativa. Abbiamo deciso che i bambini sarebbero venuti ogni mercoledì a pranzo nel mio ristorante. Ordinano i loro piatti preferiti già la settimana prima. All’inizio mi chiedevano sempre le stesse cose: la pizza, le lasagne, gli spaghetti. E io: «Dovete assaggiare anche i nostri piatti tipici». Hanno cominciato a chiedermi che cosa sono i cannelloni, adesso conoscono anche tutti i piatti della cucina lucana. In Italia anche i rapporti con le istituzioni erano complicati. L’ufficiale sanitario era più forte e me lo faceva pesare, magari si portava via solo due pacchi di sigarette dalla mia tabaccheria, ma per me era una forma
di ricatto. Qui arrivano i controlli, mi dicono subito quello che non va, tornano dopo due mesi e devo dimostrare di aver risolto i problemi. Queste sono le cose che non rimpiango del nostro Paese. Ma da qui, allo stesso tempo, sento il bisogno di difendere l’immagine degli italiani per bene. Un paio di giorni dopo la strage di Duisburg, per esempio, insieme alla parlamentare del Pd, Laura Garavini, abbiamo fondato l’associazione “Mafia? Nein danke”. Dopo la conferenza stampa il dottor Finger, della polizia, ci ha contattati. Abbiamo firmato un protocollo di intesa, ci siamo impegnati a vigilare. Ci hanno dato anche un numero di telefono per le emergenze. Quando, a dicembre del 2007, sono venuti a chiederci il pizzo, non credevamo ai nostri occhi. Un paio di persone erano andate nei ristoranti italiani, compreso il nostro, e avevano consegnato delle lettere. Da parte del signor Mazzarella, un camorrista. Ci sono state quarantaquattro denunce. Ci siamo sentiti protetti dai poliziotti: ci chiedevano consigli, ci dicevano di non fare cose pericolose, di contattare gli altri ristoratori, di prendere il numero della targa. Dopo due settimane hanno arrestato tre persone, due napoletani e un nordafricano, che avevano già bruciato un ristorante e danneggiato una macchina. La gente ci fermava per strada per farci i complimenti, perché avevamo fatto rete tra noi, non ci eravamo lasciati isolare dalla paura. Siamo riusciti, credo, a dare di noi un’immagine pulita. Per una volta non ci siamo vergognati di essere italiani all’estero.
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Q
storia raccolta da
Francesca Viscone
storia 17 - Renato Canova
Corro in Africa
storia raccolta da
Luciano Del Sette foto
Giò Palazzo
Renato Canova è stato tecnico della Federazione italiana di atletica leggera (Fidal) dal 1969 al 2002. Ha iniziato come responsabile del mezzofondo juniores femminile, poi dei 400 metri e della staffetta 4x400 sotto la guida di Salvatore Morale, delle prove multiple (decathlon ed eptathlon femminile), del mezzofondo e del fondo maschile e femminile. Dal 1998 ha ricoperto l’incarico di direttore tecnico scientifico della Fidal, da cui si è dimesso a fine 2002. Anno in cui si è trasferito in Kenya, patria, insieme all’Etiopia, dei migliori corridori mondiali di mezzofondo.
La mia giornata inizia alle quattro e mezza del mattino. Con i ragazzi salgo a bordo di un pick-up, e da Iten, nella Rift Valley, percorriamo una settantina di chilometri per arrivare al posto giusto. Sono le sei, è ancora buio. A bordo dell’auto seguo con i fari accesi i primi venti minuti dell’allenamento alla corsa lunga qualificata. Gli atleti preferiscono correre sulle strade sterrate, nonostante siano piene di pietre e di buche, perché l’asfalto indurisce i muscoli dei polpacci. Verso le dieci parte la preparazione, per esempio, di chi corre su pista. L’attività di un allenatore di mezzofondo in Kenya consiste, infatti, nel seguire, durante la stessa giornata, gruppi diversi, a seconda della specialità. A Iten, dove abito, abita anche la maggior parte dei miei ragazzi. Divido la mia professione tra uno specialista dei 1.500 metri come il ventunenne Silas Kiplagat, che nel 2010 fece registrare il miglior tempo mondiale, piazzandosi al decimo posto di sempre, e un maratoneta come Moses Mosop, che quest’anno a Boston, nella maratona seconda per importanza soltanto a quella di Londra, ha esordito combattendo fino all’ultimo metro con il numero uno Geoffrey Mutai, e stritolato il limite mondiale di Haile Gebrselassie. Alleno Florence Kiplagat, 24 anni appena, campionessa mondiale di cross nel 2009 e lo scorso anno di mezza maratona. Per inciso, è la moglie di Mosop. Con tutti, si è creata confidenza. Quando vado a trovare Moses e Florence nella loro bella casa, mi ritrovo a giocare con le due figlie, Aisha e Faith, che mi considerano il loro grandfather mzungu, il
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nonno bianco. Saaeed Shaheen, primatista del mondo dei 3.000 siepi, (il suo vero nome è Stephen Cherono) ha costruito a Eldoret, trenta chilometri da Iten, una sorta di palazzo nobiliare in stile indiano. Ma lui, che si è fermato nel 2008 per una tremenda botta a un ginocchio dovuta all’impatto con la portiera di un’auto, preferiva trascorrere il periodo degli allenamenti dentro uno spartano training camp di Iten. Nel 2005, una troupe televisiva sudafricana venne a intervistarlo. Al giornalista che gli domandava perché rimanesse a Iten avendo una casa così bella a Eldoret, Saaeed rispose: «Quando mi alleno ho bisogno soltanto di quattro mura, un tetto, un letto e qualche coperta. Per essere il migliore al mondo si deve essere duri con se stessi, e ciò non è possibile cullandosi in una vita fatta di comodità». Shaheen vinse, dal 2001 al 2006, ventotto gare consecutive. Per cercare di capire la mentalità di chi decido di allenare, vado a vedere dove è nato e cresciuto. Scopro villaggi di poche capanne in cima a una montagna; pascoli dove i bambini a piedi scalzi governano mucche, capre, pecore, e iniziano le scuole dopo aver compiuto i dieci anni. I giovani kenyani, oggi, tendono a bruciare le tappe di un’evoluzione fatta più di tecnologie (cellulari, televisori sofisticati, iPod...) che di valori. E questo ha provocato una smania di arricchirsi in fretta che va a danno dell’equilibrio psicologico. Una parte importante del mio impegno consiste nel tentare di educare gli atleti a una vita dove loro, a loro volta, sappiano educare chi li circonda. In Kenya, da sempre, mzungu, significa ricchezza. Per un bianco, è difficile evitare richieste di aiuto di ogni genere. Questo fa parte dell’educazione impartita dagli inglesi, che nel periodo coloniale hanno garantito alle popolazioni un
discreto livello educativo scolastico. Tale, però, da non raggiungere mai quello degli occupanti. L’obiettivo era accrescere la cultura della gente perché potesse lavorare meglio per i coloni. Ciò ha prodotto una diffusa mentalità di tipo assistenziale. Ci si è così trovati nella necessità di ricercare, per ogni gruppo, villaggio e tribù, un leader al quale demandare tutto. Oggi, il ruolo di capo è stato surrogato dal mzungu, ma anche dall’atleta famoso. L’atleta è ricco, ha maggiore esperienza del mondo e maggiore capacità di decidere, è in contatto con culture differenti. All’inizio si sente orgoglioso di essere considerato il punto di riferimento della comunità. Solo più tardi si accorge che ciò arreca seri danni alla sua preparazione, ma in genere non trova la forza di spiegarlo, non riesce a respingere le responsabilità di cui gli si chiede di farsi carico. Poi ci sono altre conseguenze, portate da una fama che va ben oltre i confini del Kenya. Nel mese di maggio, il campione di maratona alle Olimpiadi di Pechino 2008, Samuel Wanjiru, appena venticinquenne, si è sfracellato cadendo dal balcone di casa in circostanze poco chiare, forse suicida dopo una lite con la moglie. Quel che rimane certo è che Wanjiru era completamente ubriaco. L’avevo conosciuto nel 2005, l’ultima volta che gli ho parlato era il 2008 e già l’alcol era per lui un grave problema. Tornato nel suo Paese, si era costruito una magnifica casa. Ormai pensava più ai soldi che alla corsa. Aveva una personalità incredibile in gara, ma nella vita era fragile. Wanjiru rappresenta il tipico caso di un ragazzo di profonde qualità umane, sbalzato troppo rapidamente e senza preparazione dal rango di povero anonimo a quello di eroe sportivo mondiale. Con i trionfi sono anche arrivati milioni di dollari, e intorno a lui sono fioriti “amici” con l’unico intento di sfruttarne i soldi e
l’ingenuità. Non so se una tragedia di tale portata potrà essere istruttiva per tanti ragazzi che sognano la carriera agonistica e il podio. In Africa si tende a dimenticare subito tutto ciò che colpisce negativamente. So, però, che da parte mia metterò ancora più decisione nel tentare di educare i giovani che si allenano con me a una vita diversa. In grado di garantire loro un futuro degno davvero di tale nome.
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storia 18 - Debora Soria
Ottimomassimo: i libri con le ruote
storia raccolta e fotografata da
Raethia Corsini
Debora Soria è nata a Napoli e ha 40 anni. Vive da sempre a Roma. Fa la libraia da più di dodici anni. Nel 2006 insieme a due colleghi si è inventata la prima e unica libreria per ragazzi itinerante su quattro ruote.
C’era una volta la Mel Giannini Stoppani di Bologna, la più grande libreria per ragazzi d’Italia. Quando avevo 27 anni andai a lavorare nella sede romana. Ci ho passato sette anni meravigliosi e ho imparato moltissimo. Il progetto non era solo vendere libri, la libreria era pensata come un punto d’incontro: i bambini giocavano, guardavano i libri e noi parlavamo con loro e con i genitori, aiutandoli a scegliere. Ci siamo dati da fare per coinvolgere anche scuole, teatri, festival di musica, d’arte, di letteratura. Ed è stato un successo e un’esperienza impareggiabile. Uno dei soci però ha realizzato che in quel modo non si facevano soldi e io ho resistito nel nuovo assetto più o meno un anno. Poi ho detto basta e dato le dimissioni. Tempo dopo, ho ripensato a quell’esperienza e mi sono detta: se per tenere aperto un negozio il problema sono i costi, e questo va a discapito della qualità di quel che vendi, forse bisogna eliminare il negozio. In più, se in una grande città come Roma non ci sono librerie per ragazzi, men che meno ce ne saranno in periferia e nei piccoli centri d’Italia. E allora – ho pensato – andiamoci noi. E così è spuntata un’idea con le gambe, anzi con le ruote, Ottimomassimo. Il nome è quello del bassotto del Barone Rampante di Calvino, che ai bambini sapeva parlare, e che un po’ a questo strano librobus somiglia.
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Sul carrozzone sono saliti anche Tiziana Mortellaro e Daniele Tabanella, i miei soci. La prima (e unica) libreria itinerante per ragazzi d’Italia gira con più di quattromila libri e va dove riceve inviti da insegnanti, genitori, educatori, e organizza incontri, laboratori, letture animate. Non solo a Roma e provincia, dove Ottimomassimo ha incontrato migliaia di bambini in oltre centocinquanta scuole. Ovunque arriva, la nostra libreria ambulante trova un’Italia che non s’immagina. Per esempio, ha scoperto che Vicenza è una città che promuove moltissimo la lettura per ragazzi, tanto che è stata creata una rete di biblioteche scolastiche con duecentomila volumi, o che, in provincia di Torino, si legge molto in qualche caso grazie alla fede religiosa. I valdesi infatti imparano le Sacre scritture e si sa che quando si comincia a tenere un libro in mano da bambini, poi non si smette più. Vallo a spiegare a certe insegnanti che si sono mostrate ostili con Ottimomassimo o a quei genitori che a Grumento Nova, vicino a Potenza, hanno gridato a due ragazzini che si erano avvicinati: «Ma che volete fare gli intellettuali?». Quei due sono scappati, ma un altro, coraggioso, ha comprato un libro ed è andato a casa mettendolo sotto il maglione. Non capita solo in Basilicata, ci sono tanti posti in cui i libri mettono paura. Per questo sarebbe bello creare una rete di Ottimomassimo. Il punto è che questa è una lotta culturale. Di guadagno non ce n’è. L’unico, e non garantito, è quello di riuscire a instillare nei piccoli la “febbre” della lettura. Per farlo ci vogliono passione, ostinazione e anche disponibilità a veder saltare lo stipendio. Da qualche tempo facciamo pagare i seminari scolastici un euro a bambino per coprire le spese. Il denaro per vivere ognuno di noi lo tira fuori da un secondo lavoro: io faccio formazione ai librai, Daniele è un web designer, Tiziana per ora fa la mamma. Fino a oggi non sono arrivati sostegni a Ottimomassimo: è una cosa troppo nuova, nessuno la capisce. I bambini invece sì.
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storia 19 - Paco
Versi galeotti L’aspetto più divertente di tutta questa storia è stato quello di scoprire di essere un poeta. Proprio io, che non sapevo neanche cosa fosse un poeta. Ho imparato a scrivere, come a parlare o a camminare, ma sono dovuto entrare in carcere per capire quanto valeva. Per capire che la parte migliore di me usciva fuori dalla stessa porta di quella peggiore: le mani. Quelle stesse mani che, una sera d’inverno, mi hanno chiuso qui dentro per sempre. Queste mura si chiamano Alto Hospicio, in uno di quei posti deserti che riempiono il mio Paese, il Cile. Il nome completo dice Complejo Penitenciario de Alta Seguridad, che significa che qui ci mettono quelli senza futuro, ma con un passato pesante. Il mio, come quello di quasi tutti, è sporco di sangue. Il prete, qui dentro, dice che esiste sempre un’alternativa. Magari ha ragione, ma non me l’aveva spiegato nessuno. Uccidere per non essere ucciso, solo questo mi hanno insegnato. L’ho fatto con le mani e, per tanto tempo, quando sono svaniti l’alcol e la droga, non sono più riuscito a guardarle. Ma non ho mai smesso di scrivere. L’ho sempre fatto, su tutto quello che mi capitava a tiro. Scrivevo, oggi so che erano poesie. Per me erano come i graffiti che altri amici disegnavano sui muri. Venivano pensieri, magari di notte. Ho sempre parlato poco perché non ho mai avuto abbastanza parole da dire. Scriverle, però, mi veniva facile. Un giorno, nella sala lettura del carcere, arriva questo ragazzo, Miquel. Sapevo chi era, lavora per un’associazione che viene qui ogni giorno a tentare di lavorare con noi. Mi fanno tenerezza, sono così diversi dal mondo che trovano qui dentro, così indifesi. La società, come la chiamano, li stringe in mezzo alle sue due facce: quella che funziona e quella che non funziona. Noi siamo l’errore, fuori c’è il risultato esatto. Loro sono il tentativo di provare a non renderci un fallimento fatto e finito. Magari non ci riescono sempre, ma con me ha funzionato. Miquel mi ha detto che partiva un nuovo progetto, grazie all’entusiasmo di due scrittori cileni. Un
laboratorio di scrittura. Io ho detto che non mi interessava, sapevo scrivere già. Che stupido che ero, come se fosse la stessa cosa. Juan, uno dei due autori, si è innamorato di quello che facevamo. Diceva che non doveva finire così, con la fine del laboratorio. Si è dato tanto da fare, fino a quando ha convinto il ministero a darci fiducia. Ha messo in piedi una casa editrice cartonera. Mi ha spiegato che è un movimento di editoria dal basso, senza chiedere i soldi a quelli che poi ti dicono che cosa devi scrivere. Per i libri si utilizzano i cartoni raccolti per strada. Abbiamo imparato a ridargli vita, a farli diventare libri, colorati e illustrati. Ogni cartone che mi passava per le mani lo chiamavo con il nome di un detenuto. Perché mi sembrava che quello che facevamo a quel cartone lo facevamo un po’ a noi stessi. Come nascere di nuovo, migliori di prima. Il materiale del laboratorio è diventato un’antologia, che abbiamo pubblicato e diffuso fuori da questo carcere. Le mie poesie, così le chiama Juan, sono diventate il mio fantasma. Girano loro, al posto mio. In fondo è meglio così. Sono l’unica cosa che voglio che la gente ricordi di me, perché tutto il resto non l’hanno capito, come non l’ho capito neanche io. Tutto quello che volevo dire a mia madre, alla mia donna, a mio padre. A tutti, insomma, ma mi mancavano troppe parole. La Canita Cartonera, così si chiama la nostra casa editrice, è diventata il salvagente al quale stiamo tutti attaccati. Per non affogare in questi giorni tutti uguali, in questi corridoi che girano attorno al vuoto. Al silenzio. Quando scrivo riesco a sentirmi solo, che magari fuori fa paura, ma qui diventa poesia.
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storia raccolta da
Christian Elia foto Alfredo Covino [onoff picture]
Paco sta scontando l’ergastolo nel Complejo Penitenciario de Alta Seguridad, carcere di massima sicurezza, della cittadina di Alto Hospicio, nella provincia di Iquique della regione di Tarapacá, in Cile. Nel penitenziario ha preso vita il progetto Canita Cartonera, dove i detenuti aiutati dagli scrittori cileni Víctor Hugo Díaz e Juan Malabran hanno creato una piccola casa editrice che utilizza cartoni riciclati per rilegare libri. Molti di questi libri, come nel caso di Paco, sono raccolte di poesie e racconti degli stessi detenuti.
storia 20 - Silvia Makita
Architetture esistenziali storia raccolta da
Ginevra Battistini foto
Andrea Martiradonna
Silvia Makita, 40 anni, architetto, nata a Bergamo da padre giapponese e madre romena, è l’incarnazione della mescolanza. Da anni convive a Milano con Andrea, il suo compagno italiano da cui ha avuto tre figli, Jasmina, Arturo e Tobia. Si dedica a loro e alla casa mettendo a frutto la sua creatività.
Sono italiana, eppure non lo sento. Interrogarmi su questo aspetto della mia identità è difficile come andare dallo psicologo... Sono travasata qui, ma sarei potuta stare altrove. Vorrei sentirmi italiana, come mio fratello, ma non ci riesco. Cucino il sugo al pomodoro, ma è superficiale, non ce l’ho nel sangue. Se mi travasassero in un’altra forma, andrei bene sempre, in India, in Messico, ma in Italia no. Forse perché l’Italia è troppo antica, ha tanta storia, tanta cultura. Qui senti il passato e io al confronto mi sento troppo piccolina. A me piacciono le città internazionali, New York, Hong Kong, dove tocchi con mano l’avvenire. Mi sento molto più vicina al Paese di mio padre, il Giappone, e al suo popolo bambino. Attraverso gli ideogrammi e la loro storia antica ho scoperto una forma mentale molto interessante. Sono una chiave, hanno aperto una parte di me che qui non si coltiva e che ti completa. È un mondo orizzontale che procede per immagini fiabesche. E, attraverso la riscoperta dei gesti, si ritorna puri, si ritorna bambini. È un mondo molto estetizzante, che ti incanta. Mia madre, invece, di origine romena, non aveva nulla a che fare con i giapponesi. Aveva un temperamen-
to completamente estroverso. Era calda, passionale, bionda, formosa e occupava lo spazio. L’opposto dei giapponesi, che entrano discretamente, s’inchinano, sono delicati. Era una donna fortissima, un pilastro, come lo sono spesso le donne dell’Est. Non sarebbe mai potuta vivere in Giappone, era troppo diversa, ma voleva andarsene dalla Romania di Ceausescu. I miei genitori hanno scelto a tavolino di vivere in Italia, a Bergamo alta. Perché è bella ed era un posto che non apparteneva a nessuno dei due. A me è sempre stata un po’ stretta. Tutto è casa, tranne lì. Per mio fratello, invece, è la sua casa e ci vive ancora con la famiglia. Il Paese di mia madre l’ho conosciuto attraverso le persone, non attraverso i luoghi. Non ci andavamo mai e i miei parenti non ci sono più. Il Giappone invece era la via di fuga dal provincialismo di Bergamo. A Tokyo d’estate frequentavo la scuola per figli di coppie miste. Ce n’erano di tutti i tipi, anche giappo-finlandesi. Erano tutti bellissimi. Ci insegnavano la storia giapponese, molta matematica. Per me era entusiasmante. A Bergamo invece negli anni Settanta le coppie miste erano una rarità. Dopo la laurea mi sono detta: io devo stare con i bambini, al lavoro penserò dopo. L’ho fatto perché so che cosa vuol dire non avere il terreno sotto i piedi. I miei genitori lavoravano sempre. È una scelta faticosa la mia, perché non hai relazioni e sei isolato. Così ho inventato un modo creativo per stare in casa e con i miei figli. Partendo dalla mia passione per le genesi familiari ho fatto a mano una sciarpa lunga 33 metri con colori diversi a seconda delle generazioni. Ma i legami che più mi commuovono sono quelli orizzontali, i legami d’amore; non tanto quelli verticali che uniscono genitori e figli. La diversità e la casualità nei rapporti di coppia, anche in quelle che non sono felici, mi affascinano molto. Da mamma mi capita spesso di stare al parco a Milano, circondata da tate straniere, che spesso mi fanno i complimenti per come parlo bene l’italiano. Mi scambiano per una babysitter e mi chiedono come mai mi dedico ai figli e non faccio l’architetto. So un sacco di storie su di loro, da dove arrivano, che cosa fanno, che aspirazioni hanno. Il mondo dei bambini andrebbe reimparato dalle tate immigrate, che soffrono le case vuote, senza calore. Lo stesso modo di vivere le case, così come i parchi e lo spazio pubblico urbano, andrebbe reimparato da loro.
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di
Nicola Sessa
foto
Gianluca Cecere
Quartieri
Lione, Leeds, Malmö: è veramente finito, nel vecchio continente, l’esperimento del multiculturalismo? Quanti diversi islam si incontrano nei mercati, nelle moschee, nei centri commerciali? E, per contro, come e dove è cresciuta l’islamofobia, quel razzismo culturale che emargina e fa di ogni erba un fascio? Tre luoghi, tre città nelle città, per raccontare il gioco libero e faticoso della convivenza tra nazionalità, culture e generazioni, tra uomini e donne che costruiscono qui i loro differenti destini
d’Europa
Vénissieux, la rouge Sabato mattina, stazione di Vénissieux, una cittadina che si trova a non più di una decina di chilometri da Lione. È giorno di mercato su alle Minguettes, il quartiere nuovo della città costruito a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, e il tram numero 4 si arrampica senza intoppi verso il pianoro circondato da alti palazzoni grigi. A ogni fermata salgono numerose le donne, ognuna con almeno un paio di bambini al seguito: tutte indossano lunghe vesti e l’hijab che lascia scoperto solo il volto. Molti uomini sono vestiti all’occidentale, alcuni portano jellabah immacolate o marroni. A bordo del tram, si parla prevalentemente l’arabo. Alla fermata di avenue Jean Cagne le porte si aprono, tutti si riversano in strada a passo veloce in direzione del mercato, le lunghe vesti delle donne e le tuniche degli uomini si gonfiano e si sgonfiano, morbide. Quello delle Minguettes è il più grande mercato della regione Rhône-Alpes con circa quindicimila persone che ogni settimana si aggirano fra i suoi banchi. «Jalla, jalla! Allons, allons!», gridano a squarciagola i commercianti. Gli odori, le mercanzie e le voci della piazza recidono ogni legame spazio-temporale con la realtà: come catapultati in un suq da qualche parte in Medio Oriente si dimentica di essere nel cuore della Francia. Cibo, spezie profumate, un’immensa varietà di colori e fantasie per gli hijab; enormi banchi di libri in francese e arabo a carattere religioso. Tra i bestseller, diverse opere di Tariq Ramadan e guide all’interpretazione islamica: Il Corano spiegato ai miei bambini e Statuto della donna musulmana. Ai quattro angoli del mercato, i mendicanti attendono in silenzio il tintinnio di qualche spicciolo nel bicchiere; più in là si raccolgono fondi per la costruzione della moschea a Saint-Genis-Laval, a Grenoble e alla Duchère. Lasciando il mercato, giganti di cemento a sedici piani accompagnano la discesa lungo rue Gaston Monmousseau che porta fino al centro della vecchia Vénissieux. È un’altra città: diventa raro ascoltare una parola in arabo e sono poche le donne con gli hijab. Piazza Léon Sublet, con il museo della Resistenza e della deportazione, conserva un sapore francese di inizio Novecento.
La città ribelle
Al nono piano dell’Hôtel de Ville il sindaco Michèle Picard ripercorre la storia di Vénissieux la rebelle, la rouge. Per quasi un secolo la cittadina industriale della banlieue lyonnaise è stata prima il modello della resistenza all’invasione nazista e al governo di Vichy, poi l’avamposto della lotta operaia contro il sistema del reimpiego e della ristrutturazione industriale che ha portato alla chiusura di opifici e al taglio di migliaia di posti di lavoro. La città, con i suoi sessantamila abitan-
ti, ha un’importante storia di immigrazione: alla prima ondata di italiani e spagnoli arrivata nel primo dopoguerra, si sono aggiunti – a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta – altri flussi stavolta provenienti dal Maghreb. Con le industrie che lavoravano a pieno regime e l’incessante bisogno di manodopera la città è cresciuta rapidamente e nel 1963 si aprono i cantieri per la costruzione delle Minguettes. Dal 1968 al 1975 la popolazione passa da trentamila a settantacinquemila abitanti, complice anche la politica di Valéry Giscard d’Estaing che, nel 1976, vara una legge per il ricongiungimento familiare che sanava un fenomeno in atto già da alcuni anni. Le “torri della Democrazia” si riempiono velocemente e due stili di vita completamente differenti, quello europeo e quello maghrebino, confluiscono nel grande laboratorio sociale delle Minguettes. Michèle Picard è nata alle Minguettes e ricorda i tempi in cui frequentava la scuola insieme con le sue amiche immigrate di prima generazione: «A quei tempi nessuno si poneva la questione sulla religione degli altri», mi dice. «Quando in mensa c’era la carne di maiale, non mi chiedevo perché le mie amiche non la mangiassero, se per motivi religiosi o perché non la gradissero e non ho mai visto delle donne a scuola con un velo o anche solo con un foulard». Tutto è cambiato dalla metà degli anni Ottanta, quando molte fabbriche hanno chiuso i battenti o hanno drasticamente tagliato i posti di lavoro: circa diecimila francesi hanno lasciato le Minguettes e gli immigrati, in maggior parte disoccupati, sono rimasti in blocco sul pianoro. «Isolamento, miseria e disoccupazione hanno fatto da concime all’integralismo e all’estremismo», dice Picard. «Vuole sapere quali sono le conseguenze? Alcune delle mie amiche che prima non indossavano il velo, adesso portano il niqab; anno dopo anno, alle feste di fine scuola vedi sempre più donne con il volto coperto; impossibile trovare ragazzine che frequentino la piscina o i centri sportivi». Picard, comunista come tutti i sindaci di Vénissieux dal 1944 in poi, riconosce che il problema è squisitamente politico: «In Francia, abbiamo una destra reazionaria, populista e razzista da una parte e dall’altra una sinistra che ha scusato tutto per troppo tempo senza mai dare una risposta». È compito della sinistra, sostiene Picard, riaffermare la laicità nella società francese. La sinistra deve muoversi, perché «tra lo stare zitti e il passare per islamofobi ci sono tanti stadi intermedi».
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Immigrati in Europa Dal confronto dei dati degli Istituti statistici nazionali emerge che la percentuale di cittadini di origine straniera in Italia è più bassa rispetto agli altri Paesi europei. Secondo i dati Istat, quattro milioni e mezzo di immigrati rappresentano il 7,5 per cento della popolazione italiana. In Francia sono l’8,3 per cento, in Germania l’8,8. Seguono Regno Unito (11,4 per cento) e Spagna (12,2 per cento). Il 14,3 per cento dei cittadini svedesi è nato all’estero.
La laicità dello Stato
Nel 2010, Vénissieux è diventata il campo di battaglia su cui la laicità francese ha sferrato un colpo all’avanzata dell’integralismo islamico. Si trovano in questa cittadina le radici della legge che, dall’11 aprile di quest’anno, vieta alle donne di indossare il niqab o il burqa negli spazi pubblici. Chi ha avviato la battaglia è André Gerin, vent’anni in fabbrica alla Berliet, una rapida ascesa nei quadri del sindacato e del partito comunista che lo ha portato alla guida della città per venticinque anni. Dal 1985 al 2009, il periodo più caldo e travagliato della storia di Vénissieux. Gerin, oggi, è deputato all’Assemblée Nationale. Ha lo sguardo deciso e una stretta di mano ferrea. Senza dubbio, un uomo abituato alla lotta e avverso ai compromessi: «In questa città – dice – le minoranze sono la maggioranza: il 55 per cento della popolazione è composta da immigrati o da figli di immigrati. Ho abitato per trent’anni alle Minguettes, a fianco degli immigrati che erano anche i miei compagni in fabbrica. Negli ultimi quindici anni ho potuto costatare che la situazione è cambiata. In strada si vedono sempre più “fantasmi”. Parlo di veli integrali: di burqa e niqab, non di foulard o di hijab. La questione del velo integrale è, in un certo senso, solo la punta dell’iceberg». Gerin spiega che si tratta di una lotta per affermare ciò che è stato conquistato dalla civiltà francese, un certo modo di vivere all’interno dello Stato, il concetto di laicità. Nella banlieue lyonnaise una minoranza molto convincente sta strumentalizzando la religione, usando i musulmani e l’islam come mezzi politici. «Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità per combattere questo fenomeno: ho avuto dei contrasti all’interno del mio partito e i socialisti hanno partecipato molto marginalmente al dibattito», dice Gerin, lamentando il fatto che la sinistra francese – e ancor più quella europea – di fronte a questa problematica preferisce mettere la testa sotto la sabbia. Solo chi come Gerin ha vissuto in prima persona certi eventi può avere una reazione così netta. Due episodi in particolare hanno dato la sveglia: nel gennaio 2002 l’ex sindaco viene a sapere che due giovani di Vénissieux, di diciannove e venti anni, sono finiti a Guantanamo. Dopo tutta la trafila di indottrinamento e addestramento attraverso Londra, Afghanistan e Pakistan i due ragazzi sono stati arrestati dall’esercito statunitense e trasferiti nella base Usa sull’isola caraibica. Nell’aprile 2004, poi, Gerin si è attivato per far espellere dal territorio francese l’imam Benchellali che predicava a favore della lapidazione delle donne e proferiva parole d’odio contro la Francia e i valori della Repubblica. «Da allora ho cominciato a pensare che bisognava studiare per capire come mai la Sharia si stesse imponendo così prepotentemente negli spazi della Repubblica», dice rivolgendo per un attimo lo sguardo a un’icona sulla parete del suo ufficio che ritrae Voltaire. La battaglia – e qui è la differenza con l’approccio populista delle destre – si può vincere solo tendendo la mano all’islam spirituale, non politico: «Da anni ci battiamo per la costruzione di una moschea a Vénissieux, allo scopo di dare un luogo di preghiera degno di questo nome ai musulmani e soprattutto per tenere i giovani lontano da quei sottoscala, almeno dodici sul pianoro delle Minguettes, dove si predica un islam radicale e
politicizzato». Sono infatti le nuove generazioni quelle più sensibili al richiamo di un islam integralista, mentre i padri, arrivati in Francia con la prima ondata migratoria, sono più legati ai valori della Repubblica. La nuova legge sul burqa dovrebbe, nelle intenzioni, contribuire anche a liberare le donne dal giogo stritolante di mariti e fratelli. Michèle Vianès, dell’associazione femminista Regards de Femmes, è convinta che darà la forza a tante donne di denunciare gli uomini che impongono loro l’uso del velo integrale. Vianès non rinuncia però a porre l’accento, anche sul valore politico della legge a difesa della laicità dello Stato: «Perché la Repubblica – dice – si vive a volto scoperto». Myriam Boufedji ha trentatré anni, una laurea in Scienze politiche e una grande passione per l’arte moderna. È musulmana, nata in Francia da genitori algerini che vivono a Saint-Étienne. Si definisce di doppia cultura: «Io sono il risultato di questa fusione e riconosco la differenza tra cultura e religione». Quando si è trasferita a Lione per l’università ha visto molte donne con il velo integrale: «Credo che sia qualcosa di molto violento e umiliante per una donna, anche per noi che le guardiamo», dice con lo sguardo basso. Myriam non è sicura di potersi definire una femminista, ma è molto sensibile a quello che accade alle ragazze della sua età. Per questo motivo, da qualche anno, è entrata a far parte dell’associazione Ni putes ni soumises (Né puttane, né sottomesse) aiutando le ragazze musulmane che vogliono liberarsi del velo integrale o sottrarsi ai matrimoni forzati. Myriam ha un’idea molto precisa della religione, qualcosa che deve rimanere nella sfera privata e ripete più volte che in nessuna parte del Corano è scritto che la donna è obbligata a tenere il volto celato. Rispetto alla nuova legge, Myriam è sincera: «Una donna musulmana che denuncia il proprio uomo o che divorzia, è socialmente morta. Senza fondi che possano aiutare queste donne a farsi una vita nuova, credo che questa legge non sia molto utile per la loro emancipazione. Dall’altro lato è necessario porre un freno all’espansione dell’integralismo perché se quello che si pratica a Vénissieux è l’islam, allora io non sono musulmana».
_ ◀▲▲ Michèle
Vianès, attivista di Regards de Femmes Picard, sindaco comunista della cittadina ◀ André Gerin, per venticinque anni primo cittadino di Vénissieux, oggi deputato e “padre” della legge che vieta burqa e niqab negli spazi pubblici ▲Myriam Boufedji, giovane militante dell’associazione Ni Putes ni soumises ◀▲ Michèle
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Leeds, musulmani dagli occhi azzurri Non c’è ombra di traffico. In una domenica soleggiata e calda, le strade di Leeds sono deserte. «Non illudetevi – dice il tassista – è un miracolo, domani ritornerà grigio». Molti dei tassisti di Leeds sono originari del Pakistan. Non Steve, però, british al cento per cento: «Questo è uno dei tanti lavori che gli inglesi non vogliono più fare, ma a me piace. È sempre meglio che stare seduto tutto il giorno dietro a una scrivania», bofonchia, scrollando le spalle. Da Victoria Square, in non più di dieci minuti si raggiunge Hyde Park, dove si trova la Grand Mosque. «Questa è una zona molto interessante: qui c’è il quartiere asiatico e, a una strada di distanza, quello universitario». Steve si piega in avanti sul volante, come se stesse cercando con lo sguardo qualcuno o qualcosa. All’incrocio con Alexandra Grove quasi si ferma. «Ecco, in quella casa sono state preparate le bombe per l’attentato a Londra del 7 luglio 2005», scuote la testa. La moschea si trova proprio di fronte alla casa che ha indicato, in Hyde Park Road. Sono da poco passate le cinque, è l’ora dell’Asr, la preghiera del pomeriggio. Nella moschea, che fino al 1994 era una chiesa, i fedeli arrivano a gruppi di due o tre. Nel parcheggio ci sono anche quattro taxi: autisti pakistani che hanno fatto un salto veloce per assolvere gli obblighi di preghiera. Molti fedeli hanno capelli biondi, occhi chiari, pelle lattea: la moschea di Hyde Park è il punto di riferimento della Leeds New Muslims Community, il gruppo dei nativi che ha scelto l’islam e che accompagna nel percorso di conversione i nuovi adepti. Mentre l’imam guida la preghiera, in una stanzetta separata da un vetro, si tengono corsi sull’islam in inglese. Molte donne, sedute sui tappeti, prendono appunti. Il maestro, con le gambe incrociate e una copia del Corano tra le mani, guida una bambina dai capelli color oro nella lettura del testo. Altri bambini si rincorrono nella grande sala della preghiera, tirando calci a un pallone.
I convertiti
Dawood Talbot, David per l’anagrafe, è il presidente della Leeds New Muslims. Ha 58 anni e quando ne aveva 28 ha abbracciato l’islam, lasciandosi alle spalle una gioventù fatta di serate al pub con gli amici, whiskey, birra, una breve esperienza nel partito comunista e la passione sfegatata per il Leeds United. I suoi genitori sono cristiani e, assicura, i rapporti con loro sono ottimi. Ancora oggi, trascorrono insieme il giorno di Natale e Dawood porta con sé anche la moglie pakistana e i quattro figli, tutti musulmani. «La vera tragedia fu di dover dire a mio padre, trent’anni
fa, che non potevamo più bere insieme e che non avrei mangiato il bacon a colazione la mattina di Natale», dice Dawood ridendo. Talbot e il suo gruppo hanno aiutato molte persone ad avvicinarsi all’islam: «Si tratta di un cambiamento di vita importante e come tale va compiuto passo dopo passo, lentamente». Tanti chiedono cosa non si deve mangiare e come bisogna vestirsi, «come se l’islam fosse tutta una questione di dieta o di abbigliamento». È importante, invece, insegnare loro il vero significato della religione; che diventare musulmani non significa acquisire la cultura araba: «Bisogna tenere bene a mente che noi siamo musulmani ma anche inglesi», spiega ai nuovi musulmani Talbot che raccomanda di tenere il meglio «della prima e della seconda vita». Per quanto possibile, insiste, nessuno deve vivere la conversione come un’abiura del passato, perché l’isolamento in un gruppo si traduce in depauperamento culturale e uno degli obiettivi principali suoi e dell’associazione è di accorciare la distanza tra musulmani e non musulmani. Secondo i dati della Leeds New Muslims, il numero di inglesi che si avvicina all’islam è in costante crescita e due terzi dei convertiti sono donne. Nabila, al secolo Michelle, è moglie e madre di quattro figli. È diventata musulmana quando ne aveva già tre. L’hijab color grigio perla nasconde i capelli presumibilmente biondi e incornicia un volto punteggiato di graziose efelidi; gli occhi azzurri comunicano serenità d’animo. Quando si chiamava ancora Michelle, era una ragazzina ribelle, cresciuta in una famiglia cattolica che la «costringeva alla confessione tutti i sabati e ad andare a messa ogni domenica». Poneva domande sulla religione, senza ottenere le risposte che cercava. Poi l’incontro con l’islam. «Diventare musulmana è stato come rinascere – sospira – un nuovo incontro con la purezza, si ricomincia tutto da capo. Per me è stato importante perché così ho potuto cancellare i tanti errori compiuti in passato, tante cose di cui non vado fiera». Quando si è convertita, i rapporti con il padre sono diventati molto difficili: non accettava la sua decisione, si vergognava di camminare al suo fianco perché indossava l’hijab. «Io percepivo – confessa Nabila – la paura di mio padre per l’islam: era convinto che una donna musulmana fosse considerata una cittadina di seconda classe, che non avrei mai potuto guidare la macchina, obbligata a stare rinchiusa in casa e che avrei perso per sempre la mia indipendenza». Il tempo, però, le ha dato ragione: dopo la conversione Nabila si è iscritta all’università e si è laureata, «l’unica della famiglia», dice con orgoglio. Lavora come insegnante, guida la macchina e se esce con le amiche
â–ś Franco Bianchini e Max Farrar, professori alla Leeds Metropolitan University â—€ Dawood Talbot, presidente della Leeds New Muslims, con la moglie e la figlia
non deve chiedere il permesso al marito, musulmano di origini indiane. «Nabila è solo la versione migliorata di Michelle ma, sostanzialmente, sempre la stessa persona».
Multiculturalismo fallito?
Il dibattito sul multiculturalismo è cominciato, prima che altrove, proprio nel Regno Unito nel 1966. L’allora ministro dell’Interno, il laburista Roy Jenkins, ruppe l’equazione “differente cultura eguale cultura inferiore”, bocciando l’assimilazione forzata dello straniero in favore di pari opportunità per tutti in un ambiente multiculturale e di mutua tolleranza. Il 5 febbraio scorso, alla Conferenza di Monaco per la sicurezza, il premier David Cameron ha, di fatto, sancito il fallimento del modello multiculturale. Max Farrar e Franco Bianchini, entrambi professori alla Leeds Metropolitan University, sono concordi nel sostenere che, sul terreno, il multiculturalismo nel Regno Unito non sia affatto fallito. Ma allora perché Cameron, e poi la cancelliera tedesca Angela Merkel, hanno dato un giudizio tranchant su una questione così spinosa? Farrar non ha dubbi: si tratta di dichiarazioni finalizzate al consenso della working class bianca e dei ceti medi che non hanno mai accettato l’insediamento di neri o asiatici e, negli ultimi dieci anni, dei musulmani. L’attenzione dell’opinione pubblica ha toccato il suo apice dopo gli attacchi di Londra del 2005. L’area di Beeston, dove sono cresciuti tre dei quattro attentatori, è stata assediata per mesi dai giornalisti dell’intero globo che facevano a gara per mostrare gli aspetti più negativi di una comunità abbandonata a se stessa. «Nei giorni seguenti al 7 luglio fu organizzata una grande manifestazione cui ho partecipato anch’io», dice Farrar mostrando delle foto scattate in quell’occasione. «La comunità musulmana – aggiunge – condannava l’atrocità commessa dai quattro ragazzi, gli inglesi camminavano mano nella mano con loro sventolando le bandiere della pace, ma i giornalisti ci ignorarono. Preferirono puntare le telecamere su un ristretto gruppo di bianchi di Beeston che voleva marciare contro gli immigrati». Leeds, che ha una lunga storia multiculturale, ha superato la prova facendo distinzione tra quattro criminali e una grande comunità. Quando si parla di multiculturalismo, secondo Farrar, non si può prescindere dal concetto di segregazione, conseguenza degli scarsi redditi e del posto occupato da ciascuno nella scala sociale: «Non dipende dal colore della pelle, è più che altro un problema economico. Le persone costrette a vivere nella povertà, nel cono d’ombra della società, hanno molte più probabilità di commettere errori». Bianchini, che condivide l’opinione di Farrar, individua nell’interculturalismo un passaggio intermedio tra multiculturalismo e integrazione: la politica dovrebbe favorire le opportunità di incontro e di scambio per mettere una pietra tombale su razzismo e pregiudizio. Il punto d’arrivo è la ridefinizione delle istituzioni con il contributo dei nuovi cittadini: se ci fosse una consultazione ad ampio raggio che comprenda i punti di vista, le esperienze e le tradizioni che derivano da altre culture, tutto sarebbe più facile. Invece continuiamo a considerare queste persone una minaccia per la nostra sicurezza o, nel migliore dei casi, manodopera a basso costo da sfruttare.
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Rosengård, casa mia «Io amo questo luogo, è casa mia», dice Miriam, passeggiando in uno dei parchi di Rosengård. «È un quartiere bellissimo e non capisco perché agli svedesi non piace». Con una mano Miriam sposta i lunghi capelli di un nero profondo e scoppia in una gran risata: «Forse hanno paura di venire qua? Temono che gli facciamo del male? O che siamo tutti criminali?». Rosengård, periferia di Malmö, è diventata negli anni il simbolo di tutto ciò che è negativo: culla della criminalità, della droga e delle gang giovanili, dell’antagonismo verso le istituzioni. Soprattutto, Rosengård, tra i paladini delle “radici giudaico-cristiane dell’Europa”, è vista come il prototipo dell’Eurabia: quell’ipotetica Europa islamizzata contro la quale Oriana Fallaci ha
scritto parole di fuoco nel libro La forza della ragione. Rosengård è diventato un titolo per aumentare le vendite dei giornali in edicola. Presentata dai media, non solo nazionali, come l’inferno svedese e il ricettacolo dell’islam più radicale, la periferia di Malmö è, in realtà, il luogo che non fa notizia in cui oltre cento etnie vivono nel segno dell’integrazione. Non però gli svedesi di Malmö che, salvo rare eccezioni, si tengono alla larga dal ghetto: un muro invisibile tiene separata la comunità svedese da quella multietnica. Nel grande centro commerciale, dove è possibile acquistare qualsiasi cosa di qualsiasi parte del mondo, la gente si intrattiene a parlare di politica, di sport o della propria terra d’origine. Nella libreria che ha in vendita quotidiani
e riviste provenienti da sessanta nazioni, persone di tutte le età si aggirano tra gli scaffali, altri sono immersi nella lettura. Più in là, in una saletta, su cinque tavoli si gioca a scacchi: un afgano ha appena dato scacco al re nero di un macedone, su un’altra scacchiera, che vede di fronte un iraniano e un greco, un capannello di uomini discute animatamente sulle possibili vie di fuga a disposizione del greco. Tra di loro parlano il Rosengårdssvenka, una sorta di dialetto svedese parlato solo qui, frutto di accenti e commistioni verbali dei diversi ceppi linguistici. Per le strade del quartiere, l’arabo risuona a ogni angolo: il 99 per cento degli abitanti di Rosengård non ha radici svedesi, la gran parte è composta di rifugiati iracheni e palestinesi, somali, rom, nordafricani, bosniaci, macedoni, serbi, croati, iraniani, libanesi, afgani. Quasi tutte le donne, che portano a spasso tre, quattro bambini ciascuna, indossano l’hijab. Miriam, la ragazza dai lunghi capelli neri, non lo porta più. È nata diciannove anni fa, a Malmö, da padre iraniano e madre libanese. Parla cinque lingue e coltiva un sogno ambizioso e nobile: migliorare il mondo e
fare qualcosa per il Medio Oriente. Una mattina, a gennaio di quest’anno, si è svegliata e ha deciso di non indossare più l’hijab: «Resto comunque musulmana e religiosa. Credo che l’hijab sia una scelta personale; ho deciso di toglierlo perché non mi sentivo più a mio agio: magari un giorno lo indosserò di nuovo». Temeva la reazione dei genitori, che invece hanno rispettato la sua decisione. «Non per tutte è così facile, però», dice Miriam. «Alcune mie amiche vorrebbero compiere il mio stesso passo, ma sono obbligate dai genitori a portarlo. Altre, la maggior parte, lo indossano per propria scelta». Come tanti altri ragazzi, Miriam lavora due volte alla settimana a Radio Rgra, un progetto sociale che dà l’opportunità ai giovani del quartiere di preparare talk show radiofonici sugli argomenti più attuali: si parla di hijab, religione, droga, musica, criminalità, femminismo. L’input arriva direttamente dai ragazzi che si presentano
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Malmö melting pot Rosengård è stata costruita a partire dagli anni Sessanta, grazie al Miljonprogrammet varato dal governo socialdemocratico: in dieci anni un milione di nuovi appartamenti per gli stranieri che arrivavano in Svezia per lavorare nei cantieri navali e nelle industrie. Bejzat Becirov, direttore del Centro islamico di Malmö racconta: «Qui vengono a pregare uomini e donne di oltre novanta nazionalità. E il 70 per cento degli impiegati del Centro non è musulmano».
da David e Sven, i responsabili di Rgra Rosengård, e propongono le loro idee. Quelli che non hanno voglia di parlare chiedono di poter registrare la loro musica – quasi sempre rap – da trasmettere in radio. «Abbiamo creato questa piattaforma appositamente per loro, perché possano esprimere il loro talento. È anche un modo per imparare molte cose da loro», dice David mentre scorre con il dito sulla scaletta delle programmazioni. In sei mesi di presenza a Rosengård, più di cento ragazze e ragazzi tra i tredici e i venti anni, hanno avuto la possibilità di parlare di cose importanti, con il linguaggio della gente comune, lontanissimo dal gergo dei politici. All’inizio, molti genitori erano scettici: per motivi religiosi o per diffidenza non volevano che facessero radio. Poi hanno capito che i ragazzi frequentavano la radio per fare cose belle, importanti e che quell’impegno li avrebbe tenuti lontano dalle gang, dalla droga e dalla strada.
Il rapper iraniano
Behrang Miri è l’ispiratore del progetto Radio Rgra. Si definisce iraniano-svedese ed è il rapper che va per la maggiore in Svezia. Ha 27 anni, ma l’esperienza con i ragazzi di periferia lo ha portato ad avere una visione ampia e critica dei problemi e delle possibili soluzione per l’integrazione dei nuovi cittadini di Malmö. Barba curata, cappello viola e sguardo fermo, con ampi gesti e ritmo serrato, come se stesse rappando, Behrang fa viaggiare il suo pensiero: «Rgra – afferma – è nata per dare ai ragazzi di Rosengård, come delle altre periferie ghetto, gli strumenti per rispondere agli xenofobi e agli islamofobi che contribuiscono alla cultura della segregazione. Perché se ti chiami Mohammed e non Sven, è molto difficile che ti venga dato un lavoro. La multiculturalità è una cosa bellissima – aggiunge – ma senza uguaglianza e pari opportunità per tutti, è zero. Non esiste». Gli occhi di Behrang quasi escono dalle orbite: «Dicono che gli immigrati non vogliono imparare lo svedese, che rifiutano l’integrazione. Tutte stronzate! Ci sono persone che parlano otto lingue, che sono in contatto ogni giorno con gente di oltre cento nazionalità: cos’è quella se non integrazione? La maggior parte degli abitanti di Malmö non è mai stata a Rosengård. Se non crei un contatto, come si possono far conoscere la cultura e le tradizioni svedesi? Molti ragazzini che vivono nel quartiere non hanno mai avuto un amico svedese». Hanno paura, temono che Malmö diventi la prima città musulmana d’Europa? «La paura è figlia dell’ignoranza», risponde Behrang. «Rosengård è il futuro: tutto ciò che vuol dire globalizzazione, social network, internet, quello è Rosengård; il simbolo dell’integrazione, segregato dal potere che rappresenta solo il passato». «Io stesso – conclude – sono il futuro, il volto nuovo. Eccomi: sono il risultato di Iran più Svezia».
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19 anni, padre iraniano e madre libanese di redazione a Radio Rgra ◀ Behrang Miri, rapper iraniano-svedese e anima del progetto radiofonico di Rosengård ◀▲ Riunione
Qui è nato Zlatan A Rosengård, nel 1981, è nato Zlatan Ibrahimovic. I suoi genitori di origine croato-bosniaca sono arrivati a Malmö nel 1977. Ibrahimovic ha cominciato la sua carriera calcistica al Malmö FF alla fine degli anni Novanta sotto la guida di Roland Andersson. La svolta arriva con l’ingaggio nell’Ajax e poi nei campionati italiano e spagnolo con le maglie di Juventus, Inter, FC Barcelona e Milan.
Conversazione con Zygmunt Bauman di
Nicola Sessa
foto
Gianluca Cecere
L’arte del convivere
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È vero, come sostengono certi leader conservatori europei, che il multiculturalismo è fallito? Secondo il grande sociologo è finito il tempo dell’assimilazione degli stranieri. Ci troviamo in un Interregnum, siamo in cerca di un nuovo modello che riesca a tenere insieme le differenze in modo permanente
Bauman Nato da una famiglia ebrea a Poznan, in Polonia, il 19 novembre del 1925, Zygmunt Bauman è considerato un punto di riferimento assoluto della sociologia mondiale. Conosciuto per le sue teorie su etica postmoderna, consumismo e modernità liquida, è autore di oltre cinquanta titoli. Dal 1990 è professore emerito all’Università di Leeds, dove risiede dal 1971, dopo che fu costretto a lasciare la Polonia a causa di una violenta campagna antisemita messa in piedi dal partito comunista. «Mi diedero solo un pezzo di carta – dirà Bauman – su cui era scritto che io non ero un cittadino polacco».
“Non possiamo più risolvere il problema degli stranieri mangiandoli”
Professor Bauman, secondo il premier britannico David Cameron e la cancelliera tedesca Angela Merkel l’esperimento del multiculturalismo è fallito. Che cos’è successo? «Il multiculturalismo è un concetto sbagliato cui è stata attribuita una definizione non appropriata. Che cosa intende dire la signora Merkel affermando che il multiculturalismo è finito? Quando i flussi di migrazione verso l’Europa non erano così massicci, gli europei in nome di una presunta superiorità culturale, espressione dell’evoluzione, si erano convinti che tutta l’umanità, presto o tardi, sarebbe cresciuta al loro livello: se uno straniero arrivava in Italia, i locali si aspettavano che questi diventasse un italiano, che si assimilasse a loro. Il concetto di assimilazione non significa altro che l’abbandono dell’identità che ti sei portato dietro; significa non essere diverso dagli altri, diventare esattamente come i nativi vogliono che tu sia». Viene messo in pratica ciò che Claude Lévi-Strauss definiva come la “strategia dell’antropofagia”? «Esattamente. Questa è la modernizzazione della strategia antropofagica. Oggi non divoriamo materialmente lo straniero, l’intruso, ma ne mangiamo le differenze. Ad ogni modo, il sistema piramidale della cultura che vedeva noi all’apice e il resto del mondo in basso, si è sgretolato e adesso non ci si può più aspettare che l’assimilazione sia un meccanismo automatico. Prendiamo l’esempio tedesco: in Germania vive una grande comunità turca e i turchi amano la loro nuova patria, vogliono vivere nel sistema tedesco, ma si “riservano” di diventare tedeschi. Cento anni fa era normale considerare i turchi dei semiprimitivi rispetto agli europei ed era normale aspettarsi che si adattassero alla società europea e che si assimilassero. Adesso non ci troviamo più in quella situazione. L’Europa e il mondo stanno rapidamente cambiando la loro morfologia: non siamo più in quella fase in cui le “culture superiori” attendevano l’assimilazione delle “culture inferiori”. Abbiamo a che fare con un arcipelago della diaspora. A Londra, per esempio, ci sono settanta differenti diaspore che vivono le une vicine alle altre: si lavora negli stessi luoghi, i figli frequentano le stesse scuole, ma ognuno mantiene la propria identità non scorgendo una buona ragione per abbandonarla. Quando la signora Merkel parla della morte del multiculturalismo, quindi, probabilmente intende dichiarare l’esistenza di una molteplicità di modus vivendi; che l’assimilazione non è più perseguibile e soprattutto che bisogna accettare la grande sfida che si prospetta all’orizzonte: imparare la difficilissima arte del vivere permanentemente con le differenze». Abbiamo gli strumenti per vincere questa sfida? «Ci troviamo nell’Interregnum. Uso questo termine così come lo ha rielaborato Antonio Gramsci rispetto alla nozione classica che abbiamo ereditato da Tito Livio: i modi che conosciamo di affrontare i problemi non funzionano più e nuovi strumenti devono ancora essere inventati. Non possiamo più risolvere il problema degli stranieri “mangiandoli”. Dobbiamo creare una nuova strategia, che oggi ancora non abbiamo».
Non crede che dietro l’attacco al sistema multiculturale si celi una crociata culturale nutrita dall’islamofobia? «Credo che sia un aspetto appassionante, ma credo che in questo modo si tenti di semplificare un problema che è ben più complesso. Come dicevo prima la questione non è limitata al confronto tra diverse religioni, ma riguarda la difficoltà di vivere permanentemente nella differenza, qualunque essa sia: linguistica, religiosa, di modi e stili di vita, di abbigliamento, gusti e così via. Tutti temevano che la globalizzazione avrebbe portato a omogeneizzare ogni cosa; oggi sappiamo che non è così e che la globalizzazione ha avuto un effetto “dividente”, più che unificante; ha evidenziato ancor di più le differenze esistenti e ne ha create di nuove. Gotthold Ephraim Lessing, pioniere dell’Illuminismo tedesco, lo aveva predetto: “Non illudetevi, la diversità tra gli uomini sarà eterna, non ci sarà la commistione delle culture”. Hannah Arendt lodò questa sua lungimiranza ma soprattutto il favore con cui Lessing guardava a questa previsione-auspicio. Perché è nella diversità che risiede la creatività, il perenne mutamento». Rimane il fatto che la comunità ospitante teme questa novità, non si sente a suo agio. «L’arrivo degli stranieri provoca due differenti reazioni: la mixofilia e la mixofobia. La mixofilia è, ovviamente,
l’attrazione e il piacere per la varietà. La mixofobia insorge quando il soggetto si sente sotto-informato, non riesce a decifrare il comportamento dello straniero, non riesce a comportarsi di conseguenza. L’ignoranza e l’impotenza risvegliano il sentimento della paura: i bambini hanno paura del buio perché non sanno come comportarsi, non possono prevedere cosa accadrà. Non riuscire a comunicare adeguatamente con lo straniero è anch’esso una sorta di buio, di nebbia, dove non si sa cosa ci sia. Non sono un veggente e non posso dire alla fine quale tra queste due reazioni prevarrà sull’altra, ma sono ottimista sul fatto che molto si potrà fare per mitigare i timori stimolati dalla presenza degli stranieri». Negli ultimi anni il mondo è cambiato in maniera radicale e con esso è cambiato anche il concetto di confine. L’Europa si presenta come una fortezza. Dove porterà questo tipo di approccio? «Il concetto di fortezza è discutibile: c’è una nuova élite globale che può facilmente ignorare i confini. Per loro l’Europa non è certamente una fortezza. Un’altra categoria di persone è invece fermata dagli ufficiali dell’immigrazione, parcheggiata in quei non-luoghi chiamati campi rifugiati e poi rispedita nei Paesi di provenienza. Mi lasci dire una cosa. Io non mi sento molto a mio agio a parlare di rifugiati:
quando nel 1968 mi forzarono a lasciare la Polonia, mi fu dato un foglio di carta, non un passaporto, su cui c’era scritto solo che io non ero un cittadino polacco. L’idea di un’Europa chiusa e controllata come una fortezza è frutto della propaganda elettorale dei politici. Lasciano credere che se la disoccupazione cresce è colpa degli immigrati, se qualcosa non funziona è colpa degli immigrati. È molto più semplice spiegarla in questo modo e non con le ragioni reali. Che, probabilmente, sono da ricercarsi nella nuova mobilità del capitale che semplicemente si sposta là dove ci sono lavoratori più zelanti, che non fanno sciopero e dove magari i sindacati non esistono. Comunque nessuno considera seriamente l’idea di “rimuovere” gli immigrati dai loro nuovi insediamenti. Se ciò avvenisse, l’economia inglese – e credo anche quella di altri Paesi – andrebbe verso il collasso».
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“L’idea di un’Europa chiusa e controllata come una fortezza è frutto della propaganda elettorale dei politici”
la ribellione è una pioggia spiriti liberi di
Giulio Giorello
foto Dino [buenavista]
Fracchia
“Compagni, bisogna sognare!”. Chi si aspetterebbe che un razionale stratega della lotta di classe come Lenin concluda così il suo capolavoro politico, Che fare? (1902). Eppure, senza i sognatori, niente scoperte scientifiche, innovazioni tecnologiche, riforme sociali – e nemmeno lotte contro discriminazione e tolleranza. Ma capita fin troppo spesso che i libertari di oggi si trasformino nei tirannelli di domani; che il conformismo, magari in modo “democratico”, cancelli la “diversità” delle opinioni e degli stili di vita; che alla variegata “confusione” del dissenso si sostituisca un grigio consenso “di massa”; che infine compaia qualcuno che t’impone di sognare i suoi sogni invece dei tuoi. Però, come amava dire uno degli avversari più tenaci del marxismo Usa, il reverendo Martin Luther King, anche la democrazia ha sempre bisogno di qualcuno che la sogni, e al tempo stesso vigili che la realtà della veglia non la riduca al predominio dei molti sui pochi. Se così accadesse, che dovrebbero fare questi ultimi, limitarsi a chinare pacificamente il capo? Non sono questioni puramente accademiche: per esempio, nella nostra Europa di cui adesso è di moda vantare le “radici cristiane”, in più di un caso si sostiene che la “concessione” di una moschea ai musulmani dovrebbe essere sottoposta a referendum popolari, cosicché tutti i miei concittadini dovrebbero decidere di un mio inalienabile diritto: la libertà della mia coscienza. E tutto questo mi offende, anche se non sono un seguace dell’islam. La protesta, compreso quella che i moderati di tutte le risme bollano come “violenta” diventa allora il modo di palesare l’offesa. Diceva il virginiano Thomas Jefferson, poi terzo presidente degli Stati Uniti: «Una piccola ribellione, di tanto in tanto, è come una benefica pioggia in una terra riarsa dalla siccità». Reinstaurando il pluralismo, che è la condizione necessaria perché si possa ancora “sognare”, le minoranze che insorgono contro la dittatura della maggioranza (anche quelle costituite da un solo individuo!) lavorano, sul lungo periodo, per la libertà di tutti, compresi coloro che li hanno bollati come sovversivi. Raramente, però, questi ultimi saranno grati ai ribelli, riconoscendone lealmente i meriti. In un bel romanzo che ha un sapore fortemente intitolato, e non a caso intitolato Ingratitudine (No Reply, Milano), Lucio Trevisan rievoca alcuni decenni della nostra vita, più precisamente i momenti in cui “vedevamo volare i tubolari come se fossero giavellotti, in una sorta di battaglia tra Greci e Troiani sotto le mura della rocca”. A suo tempo, dice Trevisan, il grande Oscar Wilde ne avrebbe tratto una commedia. Noi, più modestamente, ci limitiamo a ringraziare tutti coloro che hanno capito che il conflitto è un generatore di libertà: dagli oggi tanto vituperati “sessantottini” ai No global picchiati a sangue nella Genova del G8 (estate 2001), magari passando per i No Tav, che non vogliono che un progresso “ad alta velocità” schiacci… la facoltà di decidere di testa loro. Comunque, come si dice in Irlanda, No surrender!
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Elfo
istruzioni di volo Chi di voi sa librarsi da terra faccia un passo in aria. Nessuno? Eppure chiunque potrebbe, se non fossimo vittime di un blocco psicologico creato dalla nostra mente che, crescendo condizionata dal fatto che in natura alcuni fenomeni come la levitazione sono impossibili, li esclude automaticamente dalla nostra portata. Non ci credete? “Avevo dodici anni la prima volta che ho camminato sulle acque”. Quest’affermazione non è tratta dall’autobiografia di un qualsiasi capo di governo megalomane ma è l’inizio del racconto di Walt, un orfanello che passa le giornate rubacchiando per le strade di Saint Louis negli anni Venti e che accetta una sfida sotto forma di scommessa, un po’ perché forse non ha niente da perdere, più probabilmente perché l’istinto, come spesso fa di fronte a tornate determinanti, gli suggerisce di fidarsi. L’opportunità gliela offre Maestro Yehudi, un misterioso figuro che scorge in lui l’ingenuità e la purezza necessarie per riuscire nell’ardua impresa. Non dovesse avere successo nel giro di tre anni, si farà tagliare la testa di netto per mano dello stesso Walt. In una fattoria immersa nel nulla del Kansas inizia per Walt un durissimo tirocinio che scaverà nel suo spirito fino ad annullarlo: prove al limite delle possibilità umane, come ad esempio restare sepolto vivo per un giorno e una notte. La bravura di Paul Auster, autore di Mr.Vertigo (Einaudi) sta nel trattare argomenti fantastici e irreali come assolutamente normali e praticabili, tant’è che non ti stupisci più quando il ragazzo inizia davvero a volare e a girare per i teatri e le fiere di mezza America, avendo nel frattempo acquisito un’umanità commovente e trasformato l’ostilità iniziale verso il suo maestro in amore filiale. A dirla tutta è proprio questo il nodo principale della narrazione, non tanto la descrizione del fenomeno sovrannaturale; sono i rapporti in evoluzione tra personaggi, il coraggio di andare contro le convenzioni e lo sfidare il mondo in quelle che sembrano leggi della natura incontrovertibili. È proprio la rinuncia ai toni favolistici che permette al narratore di affrontare in modo credibile argomenti più drammatici, come il razzismo, attraverso gli altri due inquilini della casa, Mamma Sioux – un donnone discendente di Toro Seduto che provvede alle faccende domestiche e a dispensare affetto materno – ed Esopo – un ragazzino nero paralizzato che Maestro Yehudi trasforma da schiavo in fin di vita in un intellettuale conteso dalle migliori università, in un Paese in cui imperversava la criminale brutalità del Ku Klux Klan. Le conseguenze delle azioni del Klan, tra l’altro, segnano uno dei passaggi più significativi e dolorosi del romanzo. La storia non finisce qui però: l’adolescente Walt perde la capacità di volare ed è costretto ad affrontare la vita diversamente da come aveva sognato. Non è quello che capita a tutti quando si devono prendere le misure con la concretezza, le responsabilità di una vita adulta a volte così gravosa che non può che tenere incollati a terra? Guardandosi indietro Walt vede un mondo dove tutto sembrava possibile e a portata di mano e ora, cambiando lavoro dopo lavoro, fa fatica a ritrovare il bandolo della matassa. Dov’è finita la magia? Si può sopravvivere così? Pensando alla realtà, rifletto una volta di più sul bisogno irrinunciabile di avere buoni maestri, sulla fortuna di trovarli o la saggezza di andarseli a cercare, qualcuno che sappia sì insegnarti a volare, senza però farti perdere di vista la distanza dal terreno, senza tralasciare il modo di cadere senza farsi male. Le sirene che cantano di carriere folgoranti sono a ogni angolo di strada e bisogna essere ben ancorati per non farsi ammaliare, cosa rara in quest’epoca di ritmi schizofrenici, competizione e precarietà. Ci vuole pazienza là dove c’è da imparare, ci vuole tempo se non si vuole sprecare tempo, perché solo dove investi tempo ed energie e fiducia in te stesso hai buone possibilità di durare. Non si deve credere a chi promette tutto e subito, perché si scordano di dirti che il difficile viene dopo. Penso a tutti quei concorsi in televisione, a quelle splendide meteore che brillano un paio di stagioni e poi vengono macinate per fare spazio a quelle successive. Non buttate via tutto il mare che avete negli occhi, figli, volare è possibile, ma spiccate il volo solo quando è il momento giusto.
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Nell’aprile del 2010, durante una conferenza stampa a Washington, il portavoce di Wikileaks Julian Assange diffonde un video che mostra l’assassinio di almeno dodici civili iracheni, tra cui due giornalisti della Reuters, durante l’attacco di due elicotteri Apache americani. Da quel giorno, da quel video denominato “Collateral Murder”, le informazioni riservate diffuse da Wikileaks sono diventate lo spauracchio costante per i potenti e i governi di tutto il mondo.
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Conversazione con Luciano Ligabue
Maso Notarianni
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Mario Dondero
Il mio canto utile Correggio è Pianura Padana. Piana che più piana non si può. Giugno bussa alle porte e già ci sono trenta gradi e milioni di zanzare cattive che ti aspettano. Bella è bella, anche se il bar Mario non c’è. I suoi portici un po’ di ombra la concedono, ma da qui a intravedere il fresco ne passa di acqua del Po sotto i ponti. L’edicola del paese, quella proprio in centro, che tutti ci passano davanti, espone una locandina: “Ligabue nello spazio”. Gli astronauti sono ancora per poco in orbita: due sono italiani, si chiamano Paolo Nespoli e Roberto Vittori, il Liga ha suonato per loro una canzone. Per arrivare allo studio di registrazione si esce dal paese, verso i capannoni di una industria meccanica che non sembra conoscere crisi. Proprio in uno di questi sta il Liga a provare, forse per Campovolo 2.0, già tutto esaurito. Di fianco allo studio che non sembra proprio quello della superstar del rock italiano, stesso capannone, le macchine girano e producono parti di altre macchine. Il rumore però non arriva nemmeno alla strada, e, sbirciando, si vede che qui è tutto un altro cinema, che da queste parti alla sicurezza sul lavoro ci tengono davvero. L’unica cosa che sbatte è il nome della ditta: Negri Bossi. Per arrivare fin qui si prende a destra sulla strada principale che porta al paese, una strada emiliana e opulenta, una sequenza di villette con giardini perfetti e capannoni altrettanto curati. All’incrocio in cui si deve girare a destra, un cartellone annuncia che, a sinistra, c’è la carrozzeria Luciano Ligabue. Che d’inverno, con la nebbia, uno si immagina quante volte gli han rotto le scatole, al lattoniere.
Nello studio si viene investiti dalle note di una canzone con un testo che riecheggia rivoluzioni, sogni di soli sorgenti e futuri radiosi. Prova a immaginare di incontrare una persona che non ti riconosce. Cosa vorresti che notasse di te nei primi cinque minuti? «Il mio accento e la mia faccia parlano per me,
sono la fotografia di una provenienza geografica e di un’appartenenza culturale. E di un periodo legato a questa appartenenza. Comunismo è una parola che ha mutato significato nel tempo. Per me ha significato pensare che le cose potessero funzionare e cambiare rimanendo nei binari di valori che ci piacevano. E che in quel funzionare e in quel cambiare ci fosse anche molta allegria. Sono cresciuto dentro al modello più lontano possibile da quello dell’Unione sovietica. A Reggio Emilia, negli anni Settanta, c’era allegria perché le cose qui funzionavano. E tutto ciò che costruiva cultura e vita sociale non era fighetto come spesso è oggi».
di tutto, avevi un’alternativa. Tutti i mestieri di cui si parla quando mi si racconta lo dicono». Tutti veri? «Si, sono tutti veri, e li ho fatti perché non trovavo il posto da ragioniere per cui mi ero diplomato. Le risposte giuste a chi adesso si sente precario le dovrebbe dare chi si occupa, o meglio chi si dovrebbe occupare, di queste questioni. Quello che possiamo dire noi è semplicemente di tenere botta, perché è difficile raccontare un mondo che non promette più di tanto».
Inclusivo invece che esclusivo... «Parlo per esempio delle feste dell’Unità. Chi usava le ferie per fare volontariato nelle feste del partito lo faceva con allegria, con gioia, con coinvolgimento. Ed era contagiosa, quell’atmosfera. Insomma, se posso raccontare quello che sono, direi che sono un cinquantenne che ha sempre vissuto qui e che, tra i dieci e i vent’anni, ha seguito un’idea e ha respirato un’atmosfera che erano molto belle. Non era questione di tessere, io non ne ho mai avuta una. E non ho mai pensato che se un’idea non venisse dal partito non dovesse essere presa in considerazione o che tutto quello che veniva invece dal partito dovesse essere positivo».
Tu hai chiuso il tuo ultimo tour con il pezzo Il meglio deve ancora venire. «È una rassicurazione che chiedo, non che offro. Tu mi devi dire che il meglio deve ancora venire. Perché io lo voglio sentir dire. Al di là di questo, e lo dico dai miei cinquant’anni e non da ottimista (e questa è un po’ una sfiga mia), credo fortissimamente che la realtà sia fatta da cose estremamente pratiche, ma anche da come ciascuno di noi le interpreta. È chiaro che se tu non hai un posto di lavoro, non è che il pensiero positivo te lo faccia trovare o ti risolva il problema. Ma se escludi con il tuo pessimismo la possibilità che possa capitare ti chiudi, ti fermi. Per questo in momenti così difficili è necessario attivare tutte le risorse di speranza, di convinzione, di fiducia. Anche se il momento sociale è quello che è».
Qualcuno era comunista… «Un giorno, poi, abbiamo scoperto che fuori da questo posto non era così. Una grande fregatura, accorgersi di far parte di un modello assolutamente insolito quando si era convinti che anche nel resto del mondo le cose andassero come da noi».
È la prima volta che una generazione intera non ha prospettive di miglioramento. «Sì, ma se accetti che tutto sia già scritto, e che tutto sia scritto in negativo, ti perdi il futuro».
C’era allegria. Adesso non c’è più? «Adesso c’è molto più disincanto, molta più diffidenza. Giustificatissimi, credo». Una cosa che invece non vuoi proprio che venga in mente a chi ti ha appena conosciuto? «Sono talmente abituato a sentir dire qualsiasi cosa di me che sono vaccinato. Non che mi piaccia, ma non me ne curo. È fantastico, ma anche drammatico vivere in un paese di ventimila abitanti. Qua si sono raccontate tutte le storie possibili su di me: dalle peggiori malattie al tipo di droga che avrei usato, al fatto che sarei stato salvato all’ultimo momento da una overdose… Qualsiasi tipo di invenzione. E adesso vedo che ci si sono messi anche i giornali. L’anno scorso un giornalista di un quotidiano locale è venuto a chiedere alla gente che girava sotto i portici di Correggio com’era il rapporto con la mia compagna. E un giorno sono uscito di casa e ho trovato in edicola una locandina che annunciava la mia separazione». “È dura non essere al sicuro e vedere sempre un po’ più piccolo il futuro”. Hai fatto il bracciante, il metalmeccanico, il promoter, mille mestieri. Sei stato precario, quindi. Ma forse ai tuoi tempi la precarietà era diversa. «È fuori di dubbio che la precarietà che ho vissuto io era diversa, perché riuscivi a pensare che, al di là
Il futuro non esiste. «Il futuro è il presente che deve ancora capitare. E se è fatto di pensieri negativi per forza è un presente di merda. Per questo ci vuole buonsenso: se credi in un futuro allora ti dai da fare. Se lo dai già per perso, ti adagi nella rassegnazione». Come trovi il modo di comunicare con generazioni così tanto diverse dalla nostra? «Non lo so. Parlo con loro attraverso il mio lavoro. Non mi sono interrogato più di tanto sul perché anche quelli che sono molto più giovani di me si identifichino con le mie parole. Credo che semplicemente sia perché lì dentro ci metto il disincanto di chi ha visto che le cose non sono poi andate come avrebbe voluto». Non sei uno che indora le pillole. «No certo, ma d’altra parte ci metto l’incitamento a prenderti le responsabilità rispetto alla tua vita. Che è tua. Non c’è nessuno, là fuori, che è veramente preoccupato di migliorare la tua vita come lo devi essere tu. Quando questa cosa arriva alla testa di chi mi ascolta sono contento di pensare che il mio lavoro diventa utile».
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Campovolo: il ritorno «Invitiamo la gente a casa nostra per far festa». Ligabue descrive così Campovolo 2.0, il maxiconcerto che si terrà il 16 luglio all’aeroporto di Reggio Emilia. Versione migliorata di quello del 10 settembre 2005, l’evento sarà l’unico live elettrico del 2011 per il rocker emiliano. Ottanta metri di palco con 600 metri quadrati di schermi giganti, un’area campeggio all’interno di un LigaVillage che ospiterà spazi per le attività sportive e gli stand delle associazioni umanitarie da sempre appoggiate dal Liga. Quest’anno l’appuntamento del Campovolo sarà limitato a centomila spettatori, per evitare inconvenienti tecnici come quello che, cinque anni fa, mandò in corto circuito uno degli amplificatori del palco. Ligabue, in occasione della festa, sarà affiancato da tutti i musicisti che lo hanno accompagnato nel corso della sua carriera: i ClanDestino, Banda e l’attuale formazione. Il rocker di Correggio suonerà per oltre tre ore.
“Ho riflettuto su una cosa impopolare: la critica del successo”
Utile è una parola importante. «Ci tengo molto all’aggettivo utile legato al mio lavoro. Quando le canzoni attivano un pensiero, una speranza, una convinzione, una voglia, ecco, allora diventano utili. Poi davvero, non capisco come ci riesco. E non lo voglio nemmeno capire più di tanto. Nella realtà io non parlo con loro. Come adesso non sto parlando con te. O meglio, sei tu che adesso non parli con me, ma con la tua idea di me. Nessuno dialoga con me, ma ognuno parla con l’idea che si è costruito di me. E questo vuol dire fatica, isolamento, difficoltà di comunicazione». Scusa la brutalità: come fai a vivere così? «Con molta, forse troppa facilità si dice: “È il prezzo del successo”. Poi alla fine ti accorgi che di prezzi te ne mettono lì una serie… Fortunatamente non mi sono isolato del tutto, perché ho, da sempre, delle amicizie molto salde che non mi fanno sentire tutto il giorno un alieno. Ma quando ho sentito che il successo stava modificando profondamente la mia vita, che avrei dovuto vivere una vita altra rispetto a quella cui ero abituato, ho avuto bisogno di esorcizzarla. Buon compleanno Elvis, Su e giù da un palco, Radiofreccia: c’è stato un periodo in cui qualsiasi cosa facessi diventava un grande successo. E questo ha portato a galla tante cose che non mi aspettavo, ovviamente non tutte positive, anzi. Ho riflettuto molto e profondamente su una cosa che oggi è altamente impopolare, che non si può nemmeno dire, è quasi sacrilega: la critica del successo». Blasfemo. «Noi siamo educati all’idea che il nostro nirvana sia il successo. La nostra felicità è legata al successo che devi ottenere. Fin dall’asilo sei educato al culto del successo, quando poi ci arrivi e dici “Beh no, non è proprio così come lo raccontavano”, allora devi rivedere tutta la tua vita. E io allora ho inciso Miss Mondo».
volevo come ero davvero, ma sembrava che questo non andasse bene a nessuno. È ovvio che c’è un grande disagio e una grande fatica che dipende dall’essere così isolato. Quando parlo con qualcuno io so che devo andargli incontro per permettergli di entrare in sintonia. Ma poi, come diciamo da queste parti, non ci si può lamentare del brodo grasso». Ligajovapelù è di quel periodo. «Eravamo proprio nel pieno del missaggio di Miss Mondo. C’è stato il Kosovo. Un’emotività fortissima in tutto il Paese, una guerra a 400 chilometri di distanza. A quel punto ci sono arrivate una serie di telefonate dalle segreterie dei partiti, ma anche dalla Presidenza del Consiglio: “La musica deve fare qualcosa”. Perché la musica deve sempre fare qualche cosa, loro no. Io avevo un giro armonico. E quella frase è nata subito. Ci siamo detti che sì, potevamo fare qualche cosa, ma niente di istituzionale. Nella canzone ci permettiamo solo di dire che non accettiamo l’equazione pacifista uguale coglione. Il lavoro fatto con Lorenzo e Piero è stato fatto con grande serenità e grande voglia». E poi? «E poi gli effetti di questa canzone sono stati vari. Da un lato una grande felicità per il risultato, che non è stato solo l’ospedale di Emergency in Afghanistan, ma anche il cd singolo più venduto nella storia del nostro Paese. Mi è dispiaciuto però, e tanto, vedere con quanta facilità chiunque ti lanciasse addosso merda. Da destra, da sinistra, da sopra e da sotto. È vero che in quel momento era difficile per un governo di centrosinistra andare alla guerra. Ma la cosa triste è che chi pensavi fosse della tua stessa idea è stato quello che ci ha tenuto di più a fare ascoltare la parodia della canzone che non la canzone stessa. Ci siamo sentiti isolati tutti e tre. Abbiamo espresso una opinione che era molto condivisa dalla gente, ma che è stata bersagliata da troppi».
E che cosa c’entrano le belle donne? «Miss Mondo è, per quindici minuti, la donna che tutto il mondo si vuole trombare e che tutte le altre donne invidiano. E, passati quei quindici minuti, nessuno sa più chi è. Quell’album è la cosa più impopolare che potessi fare. Ed è uno dei più importanti che ho fatto. Lo è per me, perché era sui fatti miei, sulle mie difficoltà. Perché con quell’album ho detto: “Io sono anche questo”. E chi mi ama sa che non deve chiedermi l’impossibile. Prima ognuno mi voleva in un modo diverso. Mentre io mi
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Scalata rock Nasce a Correggio il 13 marzo 1960. Nel 1990 incide il suo primo album, Ligabue. Il 1991 è il tempo di Lambrusco, coltelli rose & popcorn che, tra le altre, contiene la canzone simbolo delle sue performance live, Urlando contro il cielo. Nel 1993 viene scelto dagli U2 per aprire i loro concerti di Torino e Napoli. Ligabue continua a solcare l’onda del rock internazionale e, nel 1994, pubblica A che ora è la fine del mondo?, suo quarto album e titolo di una cover di It’s the end of the world as we know it (and I feel fine) dei R.E.M. L’anno seguente arriva la svolta con Buon compleanno Elvis, album che gli attribusce il ruolo di rocker più famoso d’Italia. Trainato dal singolo Certe notti, votata come miglior canzone del decennio 1990-2000, il disco rimarrà in classifica ben 70 settimane e venderà oltre un milione di copie. Stessa cifra che, nel 1997, raggiungerà Su e giù da un palco, doppio disco registrato durante i concerti in giro per l’Italia. In uno di questi, il primo allo stadio Meazza di Milano, si esibisce davanti a 110mila fan. Nel 1998 accetta la regia di Radiofreccia, film basato sui suoi racconti Fuori e dentro il borgo, pubblicati solo un anno prima. Il film, di cui firmerà anche la colonna sonora, ottiene importanti riconoscimenti: tre David di Donatello, due Nastri d’Argento, un Globo d’Oro e tre Ciak d’Oro. Nel 1999 pubblica il suo sesto disco di inediti, Miss Mondo e, contemporaneamente incide, insieme a Jovanotti e Piero Pelù, Il mio nome è mai più, canzone contro la guerra. I proventi della vendita del disco vengono devoluti a Emergency che riesce a inaugurare un ospedale in Afghanistan. Nell’estate del 2005 è protagonista al Live8 di Roma e il 10 settembre dello stesso anno, per celebrare i 15 anni di attività, organizza un maxiconcerto all’aeroporto Campovolo di Reggio Emilia. È il record europeo di presenze per un live a pagamento di un singolo cantante: 180mila persone. Nel 2009 diventa il primo artista a esibirsi per dieci date consecutive all’Arena di Verona. Nel 2010 pubblica il suo nono album di inediti, Arrivederci, mostro!, che esce l’11 maggio, giorno del ventesimo anniversario dell’uscita del suo primo album. Il 15 aprile dello stesso anno è il Liga Day, durante il quale viene trasmesso in oltre 100 cinema in tutta Italia, il live dell’Olimpico di Roma del 2008.
Oggi la pace è più vicina o più lontana? «È più lontana. L’abolizione della guerra è un gran bel pensiero, ma è ancora un’utopia. Non si può prescindere dal considerare che l’economia mondiale ha dato segnali forti rispetto al fatto che non vuole cambiare niente. E se non cambia l’economia mondiale, non si può nemmeno abolire la logica che vuole risolvere le cose con la guerra. Sono strettamente concatenate. La logica della guerra è figlia di questo modello economico». Da piccoli è più facile continuare a essere utopici. E tu da piccolo volevi rimanere sempre adolescente. Ci sei riuscito o sei cresciuto? «Mi han fatto crescere. Avrei voluto non farlo, ma mi hanno fatto crescere. Speravo che, cantando il rock, potessi continuare a restare un ragazzino. O a fingere di esserlo, con i capelli tinti come fanno Bob Dylan o Mick Jagger. Tutta la vita: invecchio, mi incartapecorisco, divento patetico ma dentro rimango adolescente. Non è così, non si può fare. Nemmeno loro ci sono riusciti». E che regole ti sei dato? «Per come mi hanno cresciuto e per come sono fatto, ho un po’ il complesso del bravo ragazzo. E nonostante veda che i furbi ce la fanno più facilmente, io quando ho delle regole tendo a mantenerle. Poi ho un pensiero, che ho preso per buono: si raccoglie quel che si semina. Non ho ambizioni di santità o di medaglie da boy scout: so che se semino merda prima o poi la raccolgo. Credo che questo non si possa spiegare. Non si entra nella vita degli altri. Quel che posso dire è che seguire quei pochi principi che hanno a che fare con la mia idea di convivenza civile mi permette di non essere in balìa di qualsiasi cosa. Ma questo funziona per me, non vuol dire che possa funzionare per tutti».
Il sentimento mi fa ricordare che devo una domanda al direttore Mura: barrique o non barrique? «Lo so che lui vorrebbe “non barrique”. Ma io ho imparato a non precludermi dei piaceri. Che poi è come regalarsene di nuovi. Ero schieratissimo sulla musica. C’erano cose che non avrei mai sentito nemmeno sotto tortura. Ma era una pregiudiziale. L’ho persa e ho trovato bellissime canzoni pop che mi han fatto stare bene. Vale lo stesso anche per il vino, se non si sente solo la vaniglia, può essere buono anche se è barricato». Che cosa ascolti in questo periodo? «Un francese che ho trovato per caso: Cascadeurs, un cantautore statunitense che si chiama Ray Lamontagne e i Low, un trio del Minnesota. Questa è la musica che in questo periodo gira tra cd e iPod che uso mentre corro». Che cosa ti porti in spiaggia? «Fumetti, sudoku e, se sono libri, che siano leggeri». Un libro importante? «Ce ne sono troppi. Posso dirti che Delitto e castigo, è il libro su come mi sono sentito io per molto tempo. Un libro sul senso di colpa, il sentimento più inutile che ci sia, ma dal quale più difficilmente riesco a staccarmi». Questa come origine è cattolica, non comunista... «Ma se uno si porta Delitto e castigo in spiaggia, vuol dire che si vuole male».
L’Italia: viva, morta o X? «Beh, morta no. Se la batte tra viva e X. Ma faccio fatica a fare un quadro di insieme. L’Italia è troppo complessa come realtà. Ci sono migliaia di paesi uno diverso dall’altro. E ciascuno con diverse comunità. Ci sono migliaia di modi di fare la stessa processione. E la nostra diversità va ammessa, perché poi è più facile comunicare». A proposito di comunicare: tra tacere e subire c’è una linea sottile. Ma a volte è difficile anche tacere. Tu da che parte vuoi stare? «In generale chi tace acconsente. Poi ci sono momenti in cui non sai se questa regola vale davvero. In questo Paese si sentono solo le urla. A insulto si risponde con altri insulti. Io spero di stare dalla parte di chi si è preso l’impegno di raccontare le cose come le vede. E che le mette nel suo lavoro. Non sono un fan delle chiacchiere. Mi piace scegliere quello che voglio dire, e mi piace che il mio punto di vista si preoccupi molto del sentimento. Sono uno che, oltre all’idea, guarda anche, forse soprattutto, al sentimento che sta dietro quell’idea. Credo sia anche questo che rende l’idea convincente».
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Discografia Ligabue, 1990 Lambrusco, coltelli rose & popcorn, 1991 Sopravvissuti e sopravviventi, 1993 A che ora è la fine del mondo?,1994 Buon compleanno Elvis, 1995 Su e giù da un palco (Live), 1997 Radiofreccia (colonna sonora), 1998 Miss Mondo, 1999 Fuori come va?, 2002 Giro d’Italia (live), 2003 Nome e cognome, 2005 Primo Tempo (best of), 2007 Secondo Tempo (best of), 2008 Sette notti in Arena (live), 2009 Arrivederci, mostro!, 2010
Filmografia & Video Radiofreccia, 1998 Da zero a dieci, 2002 Gli ostacoli del cuore, 2006 (videoclip del brano cantato con Elisa)
Bibliografia Fuori e dentro il borgo, Baldini & Castoldi, 1997 La neve se ne frega, Feltrinelli, 2004 Lettere d’amore nel frigo, Einaudi, 2006
Buone nuove a cura di
Gabriele Battaglia
illustrazioni Federico
De Cicco
12 maggio, Costa d’Avorio
Oltre settecentomila bambini tornano a scuola, dopo le violenze che hanno paralizzato il Paese a seguito delle elezioni presidenziali dello scorso novembre. Gli scolari riprendono le lezioni grazie all’intervento dell’Unicef, Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia, che ha distribuito cinquecentomila kit scolastici, ciascuno contenente una cartella, libri e penne. L’agenzia dell’Onu si propone di raggiungere un milione di bambini. In Costa d’Avorio permangono ancora tensioni e i più piccoli hanno paura di tornare a scuola. «Molti bambini – dichiara Gilberte Yeble Amari, responsabile Unicef per l’istruzione in Costa d’Avorio – sono stati costretti a fuggire e, quando sono ritornati, hanno trovato le loro case vuote. Questi kit sono, quindi, un primo passo per riavvicinarsi agli studi».
12 maggio, Italia
Di tumore si muore sempre meno. È quanto emerge dal rapporto presentato da diverse associazioni in occasione della VI Giornata nazionale del malato oncologico. Quasi un milione e trecentomila persone ha superato il tumore da più di cinque anni (57 per cento dei malati circa) e circa ottocentomila sono vive dopo oltre dieci anni dalla diagnosi.
12 maggio, Germania
John Demjanjuk, 91 anni, il “boia di Sobibor” (Polonia), viene condannato a cinque anni di prigione dal tribunale di Monaco di Baviera. Ex guardia nazista, accusato di concorso nell’eccidio di quasi 28mila ebrei, Demjanjuk aveva già scontato otto anni di carcere in Israele, dove era stato ritenuto colpevole di avere lavorato come guardiano al campo di concentramento di Treblinka con il soprannome di “Ivan il terribile”. Demjanjuk è stato rilasciato in attesa del processo di appello.
13 maggio, mondo
I farmaci retrovirali assunti subito dopo la diagnosi di sieropositività riducono i rischi di trasmissione dell’Aids. È questo l’esito di uno studio dell’Istituto di Sanità Usa, che ha monitorato 1.763 coppie in cui uno dei partner è affetto da Hiv. Il risultato è importante, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, perché consente di stilare nuove linee guida per la prevenzione e aiuta le persone sieropositive e i loro partner a convivere con il virus.
13 maggio, Perù
La multinazionale del petrolio ConocoPhillips annuncia che abbandonerà l’esplorazione di una delle più remote e incontaminate aree dell’Amazzonia peruviana. L’amministratore delegato James Mulva dichiara laconicamente chiuse le operazioni nel cosiddetto “Lotto 39”, al confine con l’Ecuador, ma dietro alla decisione ci sono in realtà le proteste di molte organizzazioni internazionali contro attività che mettono in pericolo la vita di due tribù isolate che vivono nell’area. Gli indios che non hanno mai avuto contatti con il mondo esterno possono infatti contrarre dai lavoratori delle compagnie petrolifere malattie per le quali non hanno sviluppato difese immunitarie. ConocoPhillips deteneva il 45 per cento degli interessi nel Lotto 39, la maggioranza è in mano all’ispano-argentina Repsol-YPF che, al momento, prosegue nelle operazioni.
16 maggio, Uganda
Il parlamento accantona un disegno di legge antigay che avrebbe reso punibili con la pena di morte alcuni comportamenti legati all’omosessualità. Questa è già illegale nel Paese africano, ma la nuova legge avrebbe accentuato le pene previste. All’origine della battuta d’arresto, l’attivismo dei gruppi ugandesi per i diritti civili e le proteste della comunità internazionale.
16 maggio, Argentina
Otto ex militari che il 13 dicembre 1976 parteciparono alla fucilazione di quindici prigionieri nella località di Margarita Belén, sono condannati all’ergastolo per crimini contro l’umanità.
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1 giugno, Spagna
Il nuovo codice militare delle forze armate spagnole prevede punizioni per qualsiasi comportamento xenofobo, omofobo o machista. Sarà considerata grave colpa, che può portare all’espulsione dall’esercito, “compiere azioni che attentano all’intimità, la dignità personale o lavorativa, la libertà sessuale delle persone, così come quelle che implicano vessazione o disprezzo di compagni e subordinati”.
7 giugno, mondo 25 maggio, Bolivia
Al via Mi Agua, progetto voluto dal presidente Evo Morales e finalizzato all’approvvigionamento di acqua potabile in tutto il Paese. Finanziamenti che vanno da un minimo di cento milioni di dollari a un massimo di trecento verranno assegnati a 327 comuni per la ricerca di acqua, costruzione delle tubature e dei bacini per la conservazione.
25 maggio, Cina
La Suprema corte del popolo cinese, massima istanza giudiziaria del Paese, chiede ai tribunali di applicare una moratoria di due anni all’esecuzione di tutte le condanne a morte. Dopo quel periodo di solito le pene capitali vengono commutate in ergastolo. Precedentemente, il legislatore aveva già stabilito che l’unica autorità autorizzata a decidere in ultima istanza sulle condanne alla pena capitale è proprio la Suprema corte, che ha già ridotto da 68 a 55 la lista dei crimini che la prevedono.
26 maggio, Svizzera
Il governo decide che la Confederazione uscirà totalmente dal nucleare entro il 2034, quando chiuderanno le centrali di ultima generazione. Gli impianti più vecchi saranno invece fermati prima, entro il 2019.
29 maggio, Malta
In un referendum la popolazione si esprime a favore dell’introduzione del divorzio in uno degli ultimi tre Paesi del mondo (con le Filippine e il Vaticano) in cui non è legale. Alla tornata referendaria ha partecipato il 72 per cento degli aventi diritto e i tre quarti di questi si sono espressi a favore del divorzio, che le ex coppie potranno ottenere dopo quattro anni di separazione. Prima, oltre a ottenere lo scioglimento del vincolo matrimoniale attraverso le tradizionali procedure della chiesa cattolica, i maltesi potevano divorziare all’estero per poi vedersi riconoscere l’atto anche in patria.
30 maggio, Germania
Anche il governo tedesco rinuncia ufficialmente all’energia nucleare. Il ministro dell’Ambiente Norbert Röttgen annuncia che gli ultimi tre impianti saranno chiusi entro il 2022. Dopo il disastro di Fukushima, grandi manifestazioni di massa hanno percorso il Paese e spinto l’esecutivo verso questa scelta.
La International Tropical Timber Organization (Itto) – organizzazione intergovernativa che promuove l’utilizzo accorto delle risorse forestali – dichiara che nel mondo l’area di foreste sottoposta a qualche forma di sfruttamento sostenibile è cresciuta del 50 per cento dal 2005, arrivando a coprire 183 milioni di ettari dai precedenti 69. Brasile, Gabon, Guyana, Malaysia e Perù sono i Paesi che hanno fatto più progressi nella gestione sostenibile delle risorse forestali. Con questa definizione, si intendono diverse tecniche che consentono alle foreste di mantenere la loro “biodiversità, produttività, capacità rigenerativa, vitalità e possibilità di svolgere, adesso e in futuro, rilevanti funzioni ecologiche, economiche e sociali, a livello locale, nazionale e globale, e che non causano danni ad altri ecosistemi” (definizione della Food and Agriculture Organization – Fao). Nonostante i progressi, ancora solo il 10 per cento delle foreste del mondo è gestito in forme sostenibili.
televasioni di
Flavio Soriga
illustrazione
Borislav Sajtinac
gli occhi del cuore Il problema di quando si cresce, e non si è più ragazzini, è che non ci si innamora mai, o di meno, o non come prima. Così credevo da ragazzino, e invece non è vero. Yep. Quando uno è innamorato non riesce a stare lucido, a concentrarsi, e la qualità del lavoro ne risente e il Pil fracassa. Dagli anziani premier ai giovani scriventi a cottimo, il mondo intero è frenato nel suo sviluppo da milioni di persone che anziché far quadrare i bilanci e costruire strade e curare i corpi o le anime, si perdono ad ascoltare il proprio cuore. Eppure, l’amore fa girare tutto, con furia e candore ci fa servi di uno sguardo, di un messaggio che non arriva, di un bacio svogliato, ci fa consumare in analisi filologiche di sms sincopati, ci fa sbroccare, come dicono a Roma. Di Roma, io mi sono innamorato. E di Boris, che è una serie tv, e anche un ritratto bellissimo del posto in cui vivo. «A Roma, la gente», direbbe uno che non conosce Roma e guarda Boris, «non può mica parlare così, come in questa serie: te famo, s’annamo, ’a giramo, te devi d’annà a fanculo, te vojo dì ’na cosa». E invece, sorpresa: sì che può, da qualunque classe sociale provenga, qualunque professione eserciti. A Roma, occorre dire, la vita può essere un inferno, soprattutto se ti è indispensabile muoverti con i mezzi pubblici e non hai soldi abbastanza per pagare un affitto disumano. Eppure, Roma è così bella. Ti fa sorridere. Ti fa straparlare. Ti sembra di sognare, ogni giorno. Ti droga la penna mentre scrivi i tuoi articoli. Ti fa smarmellare la luce nelle rubriche sulla tv per il giornale di Emergency. Perché Roma. Perché l’amore. Perché Gli occhi del cuore, così italiana e così intensa e così disgustosa, perché questa finta serie tv dentro la vera serie tv Boris, Gli occhi del cuore è la malattia degenerativa di un pubblico tv anzianotto, brontolone, smielato, di bocca buona, non allergico alla stupidità pura. E non è una malattia grave, forse, perché un pubblico così c’è in tutti i Paesi del mondo, e sa anche passare a qualcosa di meglio, col telecomando, quando ne ha voglia. Perché quando smetti di innamorarti, forse, quando la vita ti nega quello stato di tormento e grazia, restano pur sempre le soap opera. Che durano poco, e dopo puoi tornare al cinismo, o alla sanità mentale, momentaneamente preclusa agli innamorati, e anche per lunghi periodi, e per fortuna, e chissenefrega del Pil. (“E quando la notte è ormai morta gli uccelli sono soliti il giorno annunciar, le coppie abbracciate son prime a lasciare la fiesta per andarsi ad amar, la pista ormai vuota restava, lui stanco e sudato aspettava, lei per scherzo girò la sua gonna e si mise a danzar”. Vinicio Capossela, Modì, 1991).
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Stefano Montesi [buenavista]
di
Roberta Carlini
Vita da 52
L’Italia ha un altro primato negativo: diciotto forme diverse per definire il lavoro flessibile (a volte freelance, quasi sempre precario). Leggerete di milioni di esistenze “sul filo” e di giovani che fanno anticamere infinite. Con una mappa per orientarsi nella giungla e alcuni esempi dall’estero per capire che ciò che conta, alla fine, è il caro e vecchio welfare
funamboli 53
Donne, giovani, laureati
Dunque, hanno pagato finora i più deboli, i più fragili tra i lavoratori fragili, del tutto privi di quei cuscinetti di protezione detti “ammortizzatori sociali”, ma chiamati essi stessi a fare da cuscinetto dell’intera economia di fronte al crash mondiale. Un cuscinetto nel quale sono sovrarappresentate alcune fasce sociali: giovani (36 su 100 sono impegnati in lavori non standard), donne (19 per cento), laureati (22,9 per cento). Sembra di vedere la topografia delle piazze degli indignadosindignés-indignati, vittime designate prima della crisi
Dino Fracchia [buenavista]
Precario, indipendente, fragile, freelance, in transito, flessibile, atipico. Le parole per dirlo sono tante. E non sono innocenti. L’aura del “precariato” è indubbiamente negativa, si porta dietro il desiderio irrealizzato di diventare stabile, un desiderio tanto antico da diventare realtà burocratica e costruire il paradosso del “precario storico”, come dire, il flessibile rigido o l’ambulante statico. “Freelance” invece è una bella parola, evoca una libertà che va dritta e acuminata al bersaglio, non ci si presenta così con gli occhi bassi e le spalle incurvate. “Carriere fragili” e “transizione” sono le categorie più nuove, che colgono la condizione più tipica di quei tre-quattro milioni di persone impigliate nel nuovo mercato del lavoro, in perenne transito da un’occupazione all’altra. “Flessibile” era la parola d’ordine dalla metà degli anni Novanta in poi, quando con la legge Treu – e poi con la legge 30 – il catalogo del mondo nuovo del lavoro è stato squadernato e declinato fino a giungere alle sue attuali diciotto forme, usate e abusate senza mantenere mai le promesse miracolose di quella auspicata “flessibilità”. È utile elencarle tutte, riprendendole pari pari dalle tabelle dell’Isfol: lavoro a tempo determinato, apprendistato, contratto di inserimento, formazione lavoro, lavoro interinale, intermittente, a progetto, job sharing, collaborazione coordinata e continuativa, collaborazione occasionale, partita Iva, imprenditore, associato in partecipazione, socio di cooperativa o società, coadiuvante familiare, stage, pratica professionale e tirocinio, altro. È un primato italiano, nessun altro Paese europeo ha tante parole per offrire, o comprare, lavoro “non standard”: ossia fuori da quel grande mondo antico del lavoro standard, alle dipendenze per tutta la vita oppure autonomo per libera scelta e attitudine. Neanche i numeri sono innocenti. A seconda della definizione, l’area del mondo nuovo del lavoro si allarga e si restringe a fisarmonica. Ci sta dentro, di sicuro, il lavoro a termine. Ma dovrebbero starci dentro anche i “parasubordinati”: collaboratori, soci o partite Iva che non hanno reale autonomia né libertà di orari e mansioni. L’Isfol li conta in modo preciso, ponendo requisiti abbastanza stringenti per tracciare un confine tra lavoro autonomo vero o fittizio. Poi aggiunge gli apprendisti, i tirocinanti e gli stagisti. Si arriva così a tre milioni e centomila persone, nel 2010: in calo, rispetto al 2008, quando erano tre milioni e 622mila. Ma è abbastanza facile intuire che non è un calo virtuoso, derivante dal passaggio al lavoro a tempo indeterminato: quei cinquecentomila che mancano all’appello sono quelli che, per primi e più di tutti gli altri, hanno pagato la crisi, le vere vittime del crollo iniziato in quell’agosto del 2008 ai piani alti della Lehman Brothers.
e poi dell’austerity di bilancio imposta in tutt’Europa. Poco prima, in Italia c’era stata la manifestazione del 9 aprile – “Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta” – autoconvocata e organizzata attraverso il web da una miriade di gruppi e reti. Ma già da diversi anni il mondo del lavoro “precario” sta uscendo dalla frammentazione per tessere alleanze e reti, cercando forme nuove di coalizione, virtuali e fisiche. E “coalizione” è la parola chiave del saggio-inchiesta sul mondo del lavoro indipendente, e in particolare sui lavoratori della conoscenza, scritto di recente da Sergio Bologna e Dario Banfi, che compie una scelta chiara ed evidente fin nel titolo: Vita da freelance (Feltrinelli). Freelance, non precari. Perché c’è un mondo del lavoro, un’area grigia che naviga tra partite Iva, collaborazioni, imprese senza o con pochissimi dipendenti, che ha scelto e non subìto la formula del lavoro autonomo. Perché per molti settori dell’economia della conoscenza questa è la scelta migliore, più adatta e libera. Perché “il precaria-
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to è un sistema di desideri più che uno status sociale”: si definisce precario chi aspira a non esserlo più, e tra questi c’è chi pensa a un preciso percorso di carriera, chi invece accetterebbe qualsiasi cosa pur di passare alla stabilità, chi si rassegna a essere precario per tutta la vita, chi addirittura lo desidera. Invece, “il lavoro autonomo non ha queste ramificazioni del desiderio, è una scelta che una volta compiuta costituisce stimolo a starci dentro il meglio possibile”.
Unione di diversi
Ma oggi, lo starci dentro “il meglio possibile” significa prendere una strada nuova, inedita per il lavoro indipendente, che nella sua storia ha sempre puntato su una illusione di autosufficienza, sull’individualismo. Il mettersi insieme era al massimo un’unione corporativa, di simili: le professioni, gli ordini, gli albi. Tutti apparati vetusti, inutili nell’era di internet, della concorrenza internazionale, dell’economia della conoscenza che non tollera recinti, steccati, codici proprietari. Il “professionista” diventa così un lavoratore che come gli altri può contare solo sulle sue
braccia, o peggio sulla sua mente. E il deprezzamento del lavoro intellettuale è un altro degli elementi negativi del quadro, come navigare senza salvagente negli alti e bassi del mercato. In solitudine, non si salva. L’unica possibilità che ha è quella di coalizzarsi con altri, ma in forme di unione sempre più trasversali, interprofessionali, aperte: unioni di diversi, reti di mutuo soccorso, piattaforme politiche. Tutte azioni collettive per le quali, è convinzione profonda degli autori del libro, il sindacato non è attrezzato; ma che cominciano a trovare nuove forme associative anche in Italia, come già è successo altrove (il più importante, il caso della Freelancers Union di New York). Un esempio forte di questa tendenza è Acta, associazione cofondata proprio da Sergio Bologna, che con e per gli “activisti” ha scritto un “Manifesto del lavoro autonomo di seconda generazione”. Ma di movimenti più o meno organizzati è tutto un fiorire, ultimamente, grazie anche al “lievito” del web. Dove sit-in virtuali sempre più spesso prendono corpo fisico, com’è successo per esempio qualche mese fa, quando il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua disse pubblicamente: «Se dovessimo dare ai
parasubordinati la simulazione della loro pensione futura, avremmo un sommovimento sociale». Precari per forza e freelance per scelta, divisi nell’orizzonte dei desideri, si ritrovano così uniti in concretissime urgenze del presente: i contributi, le pensioni, l’Irap, le dichiarazioni dei redditi, i servizi, i committenti che pagano tardi o non pagano affatto, le banche che non fanno credito. E più in grande: l’incertezza, il rischio, la mancanza di una rete di protezione, l’impossibilità di costruirsela con un faida-te assicurativo o pensionistico. «Funamboli», li definisce Emiliano Mandrone, ricercatore dell’Isfol. Che avverte: «Accanto ai parasubordinati, alle partite Iva “deboli”, al lavoro a termine, a quello gratuito degli stagisti, c’è anche la flessibilità del part time; e quella, mai contata nelle statistiche, dei dipendenti delle piccole imprese, che si sentono precari quanto gli altri perché, se l’azienda chiude, non hanno protezione. Tutti costoro camminano in difficile equilibrio sulla corda: hanno imparato a farlo da tempo. Solo che un conto è fare il funambolo a un metro d’altezza, un conto a cento metri». Ecco, ormai da anni un’intera generazione in Italia fa il funambolo a cento metri d’altezza. È ora di abbassare la corda.
Fernando Moleres
a
Giovani indignados in Plaça de Catalunya, Barcellona, prima che la polizia autonoma catalana li cacciasse a calci e manganellate. Il Movimento, nato in tutta la Spagna il 15 maggio, costruisce accampamenti in decine di piazze: battaglie sociali, critica della democrazia rappresentativa e la richiesta di partecipazione si fondono nella pacifica protesta contro la partitocrazia
57
Lavorare in ginocchio Non è un Paese per giovani
Friuli Venezia Giulia
ASIA
OCEANIA 49.000
10.000
Trentino Alto Adige Veneto EUROPA 811.000
Puglia
Marche
Lombardia
Molise
Abruzzo
Emilia Romagna
Umbria
Basilicata
Toscana Piemonte e Valle dʼAosta
Lazio
Liguria
AFRICA 16.000
Calabria
Campania
N 0
100 km
AMERICHE 521.000
Sardegna
Disoccupazione giovanile
Sicilia
Percentuale dai 15 ai 24 anni, 2010 10 - 15
Lavoro sommerso
15 - 20 20 - 30 30 - 40
Lavoro precario
Percentuale sul totale degli occupati, 2008
0,5
15-20
2,0
40 - 50
4,0
20-27%
50 - 60
Milioni di lavoratori
Giovani in fuga Lo spessore della freccia è proporzionale al numero di persone
Percentuale di precari 13 - 16
Giovani italiani residenti all’estero (18-34 anni)
17 - 19,5 23 - 26,2
Equilibrio instabile: una storia precaria come tante Anna Curcio, 40 anni, sociologa, nata a Cosenza, da 10 mesi madre di Marta Canterbury (Gb) Cittadella Firenze del Capo (Cs)
Roma Cosenza
Rogliano (Cs) Specializzazione
CNR
Laurea
Rogliano
Arcavacata di Rende (Cs)
Cosenza
Dottorato
CNR
Contratto di collaborazione
Istituto Transform
Assegno di ricerca
Retribuzioni mensili in euro 4.000
Custode serale di monumenti
Università della Calabria
Università della Calabria
Contratto standard
Borsa di studio
Borsa di studio
Contratto di collaborazione
“Lavoretti” in nero
3.000
Comune di Cosenza Premio alla Tesi di Laurea
“Lavoretti” in nero
2.000
Prestito “Lavoretti” in nero
1.000
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
La macchina della precarietà Scoraggiati
Partite IVA 2% Collaboratori 5% Tempo parziale 42% Tempo determinato 51%
1,5 mdp
INATTIVI 15 mdp
Dipendenti a tempo determinato involontari
ITALIA
Dipendenti e autonomi a tempo parziale involontari
60 milioni di persone (mdp)
Collaboratori e Partite IVA con tre vincoli: monocommittenza, rispetto di orari di lavoro prefissati, effettuazione delle prestazioni lavorative prevalentemente o esclusivamente nella sede di lavoro del committente
Uomini 40% Donne 60%
PRECARI A tempo determinato 2,8 mdp A tempo parziale
A tempo parziale 0,7 mdp Collaboratori
4 mdp
0,4 mdp
2,7 mdp FORZE DI LAVORO 25 mdp
DIPENDENTI
AUTONOMI 6 mdp
17 mdp
DISOCCUPATI 2
Roma
Arcavacata di Rende (Cs)
Regione Lazio Contratto di collaborazione
Giovani
OCCUPATI 23 mdp
1,1 mdp
New Roma Londra York Arcavacata di (Gb) (USA) Rende (Cs) Università della Calabria Assegno di ricerca
Durham North Carolina (USA)
2005
Roma
2007
Senza titolo di studio 1% Scuola dellʼobbligo 37% Diplomati 46% Laureati 16%
Bologna
Post-dottorato
“Lavoretti” in nero
2008
15-24 anni 18% 25-34 anni 30% 35-44 anni 27% Più di 44 anni 25%
Duke University
Borsa di studio Regione Calabria
2006
Fonti: Istat: Rilevazione Continua delle Forze Lavoro, 2011; Istat: “Noi Italia. 100 statistiche per capire il paese in cui viviamo, 2011”; Ufficio Studi CGIA: “Il precariato in Italia”, 2011; Fondazione Migrantes: “Rapporto Italiani nel mondo, 2008”; www.almalaurea.it, Banca dati on-line, accesso maggio 2011, Interviste a Vando Borghi, Sandro Mezzadra e Gigi Roggiero (Università di Bologna).
Messina
Univ. Calabria Univ. Messina Assegno di ricerca Contratto di insegnamento
“Lavoretti” in nero
Nord 44% Centro 22% Sud 34%
2009
2010
“Se prima vedevo il lato positivo della flessibilità adesso nella precarietà vedo soltanto impossibilità e limiti. La precarietà non è soltanto economica ma condiziona tutti gli aspetti della vita, anche le cose più banali e quotidiane: dove vivi, che tipo di relazione stringi con le persone… Se non ci fossero le nostre famiglie a darci una mano non sapremmo come fare. Ho anche avuto una piccola eredità da una vecchia zia, però sono quelle cose che tamponano, non riesci a costruirti una vita. Rimane questo grande interrogativo: che cosa ne sarà di noi? Non faccio più progetti, forse non ho fatto progetti a lungo termine in tutta la mia vita”. 2011
Settore privato 65% Settore pubblico 35%
NIEVES LÓPEZ IZQUIERDO/CARTOGRAFARE IL PRESENTE, 2011.
l’inchiesta
Il fortino
di
Christian Benna
foto
Beatrice Mancini
Architetti, avvocati, notai. E poi tassisti e farmacisti. L’Italia degli ordini professionali e delle corporazioni sta benissimo. Delle liberalizzazioni non c’è quasi più traccia. A chi conviene lasciare tutto immobile e molti giovani fuori?
È il decoro che ti frega. Cresci a pane e legge, con la testa infilata nei codici per una buona decina d’anni, inseguendo sogni di giustizia e merito e, perché no, qualche avventura, come dentro un romanzo di John Grisham. E stringi i denti, quando fai pratica, spesso a salario zero anche se hai orari da dipendente e hai superato da un pezzo la soglia dei trenta; e campi tra lavoretti notturni e qualche soldo passato dal welfare di mamma e papà. Ma al momento dello scatto, del rompete le righe, ecco che arriva l’ultimo ostacolo, quel muro fatto di “decoro” che invita a rimetterti in coda per entrare anche tu nel ricco mondo delle caste. E scorciatoie, senza padri e padrini, non ce ne sono. Per Cristiano Cominotto, come per altri intraprendenti professionisti, sembra essere andata così, con l’ennesima ombra che si allunga alla fine del tunnel. A lui il Consiglio nazionale forense, il potente ordine degli avvocati, ha gentilmente detto di darsi una calmata. Va bene l’idea degli Avvocati di strada, l’associazione a cui ha dato vita a Milano insieme a Francesca Passarini, grazie ai varchi aperti dal decreto Bersani sulle liberalizzazioni. Un negozio con vetrina al posto del tradizionale studio con targa d’ottone e il modello di avvocatura all’anglosassone come riferimento. Insomma gli avvocati della porta accanto. Ma quell’insegna “Alt”, Assistenza legale per tutti, così simile al segnale di stop e per giunta con la dicitura in bella vista “prima consulenza legale gratuita”, proprio no. Qui si lede il “decoro” professionale. Facendo leva “sull’emotività irrazionale” del cliente. Dopo il ricorso di Cominotto, la Corte di Cassazione a sezioni unite ha depositato una sentenza che conferma la censura del Cnf. Perché la pubblicità diretta risulta lesiva per l’immagine della professione, figurarsi il primo consulto gratuito. Quasi un metodo concorrenziale, se non un mezzo di dumping. Del resto l’articolo 17 del codice deontologico forense parla chiaro e vieta l’acquisizione della clientela con “modi non conformi alla correttezza e al decoro”. La sentenza è del novembre 2010. Quattro anni prima, nel 2006, Pierluigi Bersani firmava il pacchetto delle liberalizzazioni: abolizione del tariffario degli ordini professionali, apertura alla pubblicità, spazio alle parafarmacie e vendita di farmaci da banco nei supermercati, mandati plurimandatari per agenti assicurativi, licenze dei tassisti. Tutte misure per migliorare la competitività del Paese, a partire dalle libere professioni, che però non avevano fatto i conti con il “decoro”.
La repubblica dell’onore
Il decoro, dice il Devoto Oli, è quel concetto che determina ciò che conviene all’uomo onorato. “Una nozione generale è difficile da individuare”, secondo l’Antitrust, l’authority per la concorrenza guidata da Antonio Catricalà, che ha avviato un’indagine sulle liberalizzazioni nel campo delle professioni. “In materia di determinazione dei compensi e di attività pubblicitaria – così scrive l’Autorità – un numero significativo di codici deontologici sono stati emendati in seguito alla riforma Bersani, al fine di ostacolare l’applicazione della stessa”. In conclusione, l’indagine dell’Autorità ha riscontrato una sostanziale incompatibilità delle norme dei codici deontologici, e non solo quello degli avvocati, con i principi della libera concorrenza. Insomma fatta una legge, si trova l’inganno. O meglio la legge della casta è più legge di quella del parlamento. Cristiano Cominotto non si è dato per vinto. E ha continuato il suo percorso, convinto che «indietro non si torna». Certo, «ci sono delle resistenze, e dei richiami, talvolta anche giusti e condivisibili. Il nostro obiettivo è di avvicinare l’avvocato alla gente eliminando ogni tipo di barriera. Dopo la sanzione dell’ordine, abbiamo modulato la nostra offerta. Non possiamo chiamarci Alt? Allora diventiamo Al, Assistenza legale, una ventina di studi di strada associati in tutta Italia e una clientela che magari non si rivolgerebbe a uno studio legale ordinario». L’ottimismo dell’avvocato Cominotto non è contagioso. Perché per i più giovani, come Elena, Davide e Paolo, architetto, commercialista e farmacista in erba, l’ingresso nella casta è diventato sempre più penoso. Fanno parte di quella tribù, passata ai raggi X da uno studio Filmcams Cgil, che non percepisce uno stipendio, almeno la metà di tutti gli stagisti e praticanti d’Italia, e quando ricevono un rimborso non supera i mille euro mensili. Tuttavia, il richiamo della casta non accenna a diminuire. Anzi, nell’Italia della crisi endemica, con tassi di crescita da prefisso telefonico, entrare a fare parte di un ordine e dedicarsi alla “libera” professione non perde appeal, con oltre due milioni di persone iscritti agli ordini. E la coda si allunga.
60
Doppia coppia: in una casa di piazzale Loreto a Milano, Roberto, 30 anni, si tiene informato mentre cena e Maurizia, insegnante precaria, prende una boccata d’aria alla finestra. In cucina Marta, contratto a termine alla Feltrinelli, fa il bucato e Roberto, proiezionista di 37 anni, controlla il frigorifero per scegliere il pasto serale
Il super-ordine
L’ascensore sociale è bloccato. Lo ha scritto nero su bianco anche la fondazione Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo mettendo il dito nella piaga di un Paese che oltre a non crescere – e forse proprio per questa ragione – non ha mobilità sociale. Il 41 per cento degli over 50 interpellati dall’indagine di Italia Futura dice di aver migliorato il proprio stato sociale rispetto alla famiglia d’origine. Invece solo il 6 per cento dei giovani dice di trovarsi in condizioni migliori rispetto ai genitori. Pessimismo generazionale a parte, il succo della questione sta altrove. E non soltanto perché il 44 per cento degli architetti è figlio di architetto, il 42 per cento di avvocati e notai è figlio di avvocati e notai, il 40 per cento dei farmacisti è figlio di farmacisti. Ma perché chi nasce in una famiglia ricca rimane ricco e chi nasce in una famiglia povera rimane povero. Difficile incrinare il potere delle corporazioni, anche se tutti, a parole, vorrebbero riformare e aprire alla libera concorrenza ma appena si toccano, apriti cielo. E per i partiti sono dolori, come insegnano le rivolte dei taxisti e degli avvocati. A spiegare il perché dell’arrocco, basterebbe il numero dei professionisti che siede in parlamento. Il 14 per cento dei deputati fa parte della
categoria degli avvocati, il 12 per cento appartiene al gruppo di ingegneri, consulenti e architetti e il 10 per cento è appannaggio dei giornalisti. Oltre ai decisori, sulla riforma impossibile delle professioni pesa quindi il potere delle lobby. Sulla base dei dati forniti dalle Casse previdenziali e dall’Agenzia delle entrate, quindi solo i ricavi “dichiarati”, il volume d’affari degli iscritti agli ordini è stimato in 195,8 miliardi di euro, che rappresenta il 15,1 per cento del Pil. Ai due milioni e 108mila professionisti, distribuiti tra le diverse aree di attività (973mila nell’area sanitaria, 745mila nell’area tecnica, 490mila nell’area economico sociale e giuridica), si somma il numero dei lavoratori occupati nell’indotto, pari complessivamente a due milioni e 150mila unità, di cui un milione di dipendenti degli studi professionali. Nell’insieme, quindi, tra occupazione diretta e indotto, il bacino occupazionale delle professioni è stimato in oltre quattro milioni di posti di lavoro, pari al 15,9 per cento dell’occupazione complessiva in Italia. Questo esercito, secondo il presidente di Confprofessioni Gaetano Stella, va messo sotto lo stesso tetto, in un’unica associazione che tuteli tutte le professioni. Una super lobby? Per il presidente Stella le cose
Queste foto Sono vere e proprie famiglie di ultima generazione quelle dei giovani precari e dei lavoratori a basso reddito che abitano le case italiane. In queste pagine quattro gruppi di ragazzi che condividono quotidianamente il tempo, lo spazio e gran parte delle avventure della loro vita. Pagare da soli l’affitto è impensabile e così cercano la forza nell’unione. Beatrice Mancini li ha fotografati in quattro appartamenti di Milano.
l’inchiesta
non stanno così. «Noi associamo tutte le professioni che svolgono le attività intellettuali, anche quelle che un ordine non ce l’hanno. È evidente che ogni categoria ha un suo diverso peso nella scala gerarchica. Uniti potremmo far valere le ragioni di chi non è rappresentato, come è il caso dei più giovani. Anche qui non tutti sono d’accordo. Come gli ordini più potenti che temono di indebolirsi se altri si rafforzano».
Riformare le riforme
Architetti, avvocati e notai. Ma non solo. Parli con gli agenti assicurativi e anche qui occhi al cielo e sorrisi amari. La riforma Bersani? «Vanificata dallo strapotere delle compagnie assicurative che fanno e disfano il mercato a loro piacimento – dice Giovanni Metti, presidente di Sna, il sindacato di categoria – basti pensare alla Rc Auto, aumentata del 173 per cento dal 1994 al 2010. Altro che libera concorrenza». Non va meglio ai farmacisti, liberati dal sistema delle licenze e con l’apertura alla vendita di medicinali da banco anche nei supermercati, e oggi al palo in attesa della “sentenza” del Ddl Gasparri-Tommasini che minaccia la sopravvivenza di circa tremila parafarmacie. «Il Ddl Gasparri-Tomassini – ha detto Vincenzo Devito, il presidente del Movimento nazionale liberi farmacisti, ossia i professionisti non titolari di una farmacia – si propone di cancellare definitivamente le liberalizzazioni mettendo letteralmente sul lastrico le oltre tremila parafarmacie aperte. Un’intenzione che va contro la maggioranza degli italiani che, al contrario di Federfarma, gradisce la presenza del farmacista per ricevere quel valore aggiunto all’acquisto che si chiama consiglio, professionalità e preparazione scientifica». Insomma indietro tutta su tutti i fronti. Con il ministro Alfano all’angolo che cerca di ricomporre la frattura con gli avvocati – indiavolati per la legge sulla mediazione obbligatoria, che favorisce i contenziosi extragiudiziari per snellire la giustizia – concedendo, nella riforma della professione, il ritorno del tariffario minimo obbligatorio.
Il Paese delle libertà
Liberi tutti. Da Futuro e libertà al Popolo della libertà a Sinistra e libertà. Nell’arcobaleno dei partiti del 2011, la parola che riscuote maggior successo è, come in un film di Mel Gibson, la libertà. Ma nell’Italia delle professioni e dell’economia, ci si muove con le mani legate. Ogni anno, l’Istituto Bruno Leoni, il pensatoio liberista e mercatista che ha sede a Torino, compila una classifica sul tasso di liberalizzazione dei vari Paesi europei: energia, trasporti, commercio e anche le professioni. Negli ultimi quattro anni, lo studio di IBL ci dice che siamo fermi al 49 per cento per liberalizzazioni e aperture alla concorrenza. Tolto il mercato elettrico, che è stato il più liberalizzato del Paese con indici del 71 per cento, sul resto è notte fonda. L’Italia, dal punto di vista economico, è il Paese meno libero d’Europa. Secondo l’Indice della libertà di intrapresa, le nostre imprese sono libere al 35 per cento, ben sotto la media europea (57 per cento) e a distanza siderale dal Paese più libero, l’Irlanda (74 per cento). «Gli ordini professionali, così come sono strutturati, sono indubbiamente un freno alla competitività del Paese e alla mobilità sociale», sottolinea Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni,
richiamando uno studio della Banca d’Italia secondo il quale «la mancata concorrenza congelerebbe almeno l’11 per cento del Pil». E poi «così come concepiti, gli ordini non danno alcuna garanzia di qualità al cliente. Che gli ordini stiano sulla difensiva rientra nella logica delle cose. È invece perlomeno bizzarro che non ci sia una forte volontà politica di riformarli per spingere il Paese verso un sistema di mercato libero, come succede in tutta Europa. Un sistema dove, al posto del decoro, la leva del business siano innovazione, capacità e merito». Il governo Berlusconi, invece, così attaccato – a parole – agli ideali di libertà sembra fermamente intenzionato a difendere il sistema chiuso degli ordini professionali, salvo poi proporre, per dare l’idea di rilanciare il liberalismo in un Paese sempre più ingessato, la modifica dell’articolo 41 della Costituzione, la cui proposta di revisione suona testualmente così: “L’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”. Una sorta di “mani in alto, liberi tutti”.
H
Tre uomini e una casa: Matteo, 33 anni, stira le camicie mentre il suo coinquilino Francesco, 40 anni, guarda la televisione e Rocco, 37, legge la Gazzetta dello Sport, quotidiano per il quale lavora
Donne precarie, anello debole di un’economia globalizzata che fa ricadere sulle singole vite le esigenze della competitività senza confini. Donne giovani, istruite, in grado di dare valore aggiunto alle merci materiali e immateriali che trattano. Fanno comodo. Donne che reagiscono collettivamente o individualmente, a seconda dei luoghi e delle possibilità concrete. Dall’Europa all’Estremo Oriente, ecco tre storie di donne che accettano la precarietà come condizione strutturale e cercano di volgerla a proprio favore. La possibilità di farcela dipende in gran parte dall’esistenza di uno stato sociale oppure no.
Scandinavia, bella la vita
C’è precaria e precaria di
Gabriele Battaglia
Stine in Danimarca, Maarin in Estonia, Xiaoli in Cina. Tre modi diversi di vivere la flessibilità. Una scelta o una costrizione? Molto dipende da quanto è generoso lo stato sociale
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Stine Ofelia, 36 anni, danese. Vive e lavora a Copenhagen, dove si dedica alla visual art. Si è laureata in Antropologia sociale e ha poi frequentato un master all’accademia dell’arte di Malmö in Svezia. «Sono precaria, qualche volta lavoro, poi ci sono mesi in cui faccio un po’ di tutto, per esempio la fotografa, o qualsiasi cosa per trovare soldi. Il mio è un modo diverso di vivere, speciale». A luglio è in Italia per un mese – lavoro e studio – in autunno va in Norvegia. «I soldi per l’Italia li prendo da un’organizzazione privata danese che ha rilevato un antico monastero a San Cataldo e l’ha trasformato in residenza per artisti. Soldi privati, ma solo per metà mese; per l’altra metà li ho ottenuti da un programma speciale messo in piedi dagli Stati scandinavi». Finanziamenti sia privati sia pubblici secondo il principio di sussidiarietà e un’idea di Stato che deve garantire prima di tutto il benessere dei cittadini: sanità gratuita, maternità pagata dal datore di lavoro e, se il lavoro non ce l’hai, dallo Stato. Da studente, se sei in un istituto riconosciuto, ricevi denaro pubblico ogni mese per cinque anni. Circa seicento euro, che non vanno restituiti alla fine degli studi come succede in altri Paesi. Non bastano per vivere, ma aggiungendoci un lavoretto part-time te la cavi. La maggior parte degli studenti condivide appartamenti e se ne va dalla casa dei genitori molto presto. Poi si entra nel mondo del lavoro, dove vigono le regole di mercato, con lo stato sociale a tutelare un livello minimo accettabile di vivibilità. Ovviamente bisogna intendersi su cosa si intenda per “minimo accettabile”: «È chiaro che il nostro sistema è praticabile solo in un Paese ricco, e rispetto al resto del mondo i giovani danesi sono davvero fortunati. Se però mi limito al nostro contesto, mi chiedo perché lo Stato decida che un giovane debba comunque vivere “da povero”. In Danimarca non c’è ragione per mantenere uno studente in semi-povertà: gli si potrebbe dare qualcosa di più. Secondo me tutto dipende dalla mentalità per cui se ti tengono sul filo, tu studi di più, finisci l’università prima e ottieni un lavoro “normale” più in fretta». Un’occupazione che è però sempre più difficile trovare: «Io personalmente non me la passo male, non lavoro in un bar o in un ristorante da quando avevo diciassette anni, ma naturalmente non prendo molto. Ho studiato nove anni e ho due diplomi; se si considera questo, sono davvero pagata male. Il mercato è difficile, molte piccole gallerie hanno chiuso e così sopravvive l’arte più commerciale. Ho scelto di non diventare mainstream e di muovermi nella direzione opposta, per
l’inchiesta
questo sono diventata presidente dell’organizzazione dei lavoratori dell’arte». Si chiama Unge Kunstnere og Kunstformidlere (Ukk - Giovani artisti e intermediari dell’arte), agisce come un sindacato. Stine Ofelia, precaria dell’arte, ha scelto la soluzione collettiva. «Questa professione deve essere pagata come qualsiasi altra, non considerando tanto l’esito, l’esibizione, ma il processo creativo, il lavoro impiegato a produrre l’opera. Riteniamo che i soldi debbano arrivare dallo Stato. Ogni studente d’arte costa al Paese un milione di corone all’anno (circa 134mila euro). È assolutamente stupido che poi, dopo il diploma, si interrompano di colpo i finanziamenti. Non intendo dire che chiunque si diplomi all’accademia debba essere pagato, ma che l’arte deve essere riconosciuta come un lavoro, per l’interesse dello Stato stesso.» Non è l’unica battaglia del “sindacato”, ma dà perfettamente l’idea di pregi e difetti del modello nordico. Da un lato una coscienza diffusa dei diritti individuali: lo Stato è a disposizione del benessere di ognuno, inteso come diritto che evolve e si trasforma nel tempo. Dall’altro, il welfare tutela l’individuo in quanto cittadino ma non come lavoratore. Lì vige il mercato, e nel passaggio da studio a lavoro si rischia di restare disoccupati, improduttivi, senza la dignità di un’occupazione, semplicemente a carico della collettività. In cerca di una terza via tra Stato e mercato, la visualartista guarda alla Svezia: «Lì ci sono gruppi di cittadini che commissionano opere d’arte e poi le finanziano. Un modello popolare, con gente normale, senza una particolare educazione artistica, che decide che tipo di arte vuole nelle piccole città o nelle biblioteche. Potrebbe funzionare».
Estonia, un altro Nord
Maarin ha ventisette anni, è critica e curatrice d’arte. Dopo il master ha fatto di tutto, contemporaneamente: oggi cerca di cavalcare le opportunità di “Tallin 2011, capitale della cultura europea”, intanto ha ottenuto una borsa di studio dall’università, insegna, gestisce uno spazio culturale no profit nella capitale e per un paio di anni ha lavorato in un bar. Condizione finanziaria accettabile, inutile dire che il reddito arrivava soprattutto da quest’ultima occupazione: «Poi però il bar ha chiuso e la situazione è diventata sempre più insicura anche perché mia nonna è andata al ricovero e io devo contribuire alla retta. Ho insegnato storia dell’arte per quattro mesi, ma ti danno i soldi in una soluzione sola a fine corso e la retribuzione è piuttosto bassa. Mi sono trovata a pagare per due alloggi – il mio e quello della nonna – poi c’è internet, il telefono, le spese varie. Dovrei trovarmi una forma di reddito stabile». L’Estonia è il tipico no-welfare state di nuova generazione: una repubblica ex sovietica che gravita nel mondo scandinavo ma che delle democrazie nordiche non può o non vuole offrire le opportunità. «Ho la sicurezza sanitaria proprio perché insegno, però copre le cure di base, il resto tutto è molto costoso. Sono fuori dal mercato perché non faccio architettura d’interni o design, che tirano, sono una critica d’arte. Il governo liberale, di destra, non è trasparente: non si capisce con che criteri assegni i fondi. Credo che nel 2012 me ne andrò dall’Estonia per qualche tempo, qui la
vita si fa sempre più difficile per noi lavoratori flessibili. Per mantenermi dovrei tornare alle vecchie abitudini del college, fare ogni tipo di lavoro, dalla traduttrice all’editor sottopagata: non me la sento, sarebbe come tornare indietro. Vorrei andare negli Stati Uniti con una borsa di studio europea per allargare i miei contatti. Del resto questa vita in cui la dimensione personale è totalmente mischiata con quella lavorativa mi piace. Per me è come una missione». Lo Stato non aiuta e allora si è sempre più manager di se stessi, pronti a cogliere occasioni lontane per reinvestire, se possibile, nella propria “missione”. L’arte d’arrangiarsi non è virtù solo italiana e, di nuovo, si cerca di estrarre valore economico dalla propria sfera personale: «Esiste un assegno di maternità ma solo per chi paga le tasse e in proporzione ai contributi. Per esempio, io, se facessi un figlio, prenderei molto poco perché sono tassata solo sulla borsa di studio mentre il resto lo prendo in nero. Una ragazza che lavorava al bar con me si è licenziata per trovare un lavoro ufficiale, anche se meno redditizio. Poi si è messa in maternità. Molti scelgono di fare il secondo figlio perché l’assegno è quasi equivalente al salario. Sui giornali è uscita una storia curiosa: un datore di lavoro ha assunto la propria moglie come segretaria, dandole un salario alto, e poi l’ha messa incinta. Così anche l’assegno di maternità è notevole. Qui si discute molto del fatto che questo assegno sia tutto sommato una forma di discriminazione verso chi, di figli, non ne fa».
Cina, stagisti alla catena
Seimilacinquecento chilometri a Oriente, un grande balzo non solo spaziale. Ha diciassette anni, studia e-commerce management alla scuola professionale di Yibin, Sichuan, Cina. Sorridendo dice: «La mia insegnante fa schifo. Mi ha detto: “La Foxconn è ottima, sono di buon cuore, se vuoi guadagnare vai a farci uno stage”. Non mi ha raccontato degli operai che si sono suicidati nello stabilimento di Shenzhen». Xiaoli a febbraio è capitata come stagista nella più grande manifattura di elettronica al mondo, filiale di
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Tra lavoro e università: sono William, 26 anni, aspirante infermiere dal Salvador, sul divano a guardare la tv; Salvo, studente-lavoratore di 24 anni, fuma una sigaretta alla finestra mentre racconta a Eleonora, a tavola, come è andata la sua giornata. Sullo sfondo, Lela, divisa fra l’ateneo e la reception dell’Accademia del lusso, si tiene aggiornata sugli ultimi fatti di cronaca
Chengdu. Nel 2010, la taiwanese Foxconn, che rifornisce Microsoft, Apple e Nokia, ha fatturato 79 miliardi di dollari: più di molti suoi clienti. Impiega un milione di persone nella sola Cina continentale. Nello stesso anno, dodici operai dello stabilimento di Shenzhen si sono suicidati; tutti lanciandosi dal tetto di un edificio della fabbrica. A Chengdu, il 20 maggio scorso un’esplosione ha ucciso tre operai ferendone quindici. Il 26 maggio, un lavoratore di vent’anni ha scelto di farla finita: ovviamente con un salto nel vuoto.
«Devo svegliarmi alle sei di mattina, mentre quando vai a scuola puoi dormire fino alle sette o alle otto. Dal dormitorio prendiamo un pullman dove si sta incollati uno all’altro. Dalle 8.30 alle 11.30 lavoriamo, poi si pranza, alle 12.30 ricominciamo fino alle 17.30, poi ceniamo e infine si lavora dalle 18.30 alle 20.30. Dieci ore in tutto. Abbiamo avuto una specie di formazione militare per due giorni, poi mi hanno messa al controllo qualità, dove devo tenere gli occhi fissi sul colore della pellicola protettiva dei prodotti: giallo, rosa; mi vengono le vertigini e mi annoio. Quando smonto voglio solo dormire, ho un giorno di riposo a settimana. Nella mia stessa fabbrica, due studenti stagisti hanno avuto problemi di allergia alla pelle, penso siano dovuti al reparto verniciatura». Ma come ci è finita una studentessa di e-commerce alla catena di montaggio? Negli ultimi tempi, gli operai cinesi hanno ottenuto un miglioramento dei salari e delle condizioni in genere. La nuova generazione di lavoratori migranti non ci sta più a vivere di stenti. Si è così diffusa la pratica del kuangli (“dimissioni pazze”) con cui i giovani usano licenziarsi all’improvviso per sistemarsi dove trovano condizioni migliori. Prendendo esempio dall’Occidente, le imprese che operano in Cina – locali e straniere – hanno così fatto accordi con le scuole “vocazionali” (zhiye zhongxue), le nostre professionali, e introdotto la figura dello stagista: lavoro semigratuito senza i diritti dei lavoratori, come ha rivelato un’inchiesta di Jenny Chan ricercatrice per la Students and Scholars Against Corporate Misbehavior (Sacom), un’organizzazione nonprofit di Hong Kong. «Non ho chiesto di andare in quel posto – continua Xiaoli – ho dovuto ubbidire. Il cibo della mensa è scarso, il cavolo non sa neanche di cavolo. Non si distingue il pollo dal maiale e non si capisce da quanto tempo quella carne è lì. Il primo giorno stavo quasi per sputare tutto. Pensavo che il cibo della mensa scolastica fosse cattivo, ora so che era buono». E poi, Xiaoli è pure donna: «Spesso ho subìto delle molestie. Alcuni colleghi mi hanno abbracciata in pubblico e mi hanno detto parole di dubbio gusto. Lavoravo a una macchina per cui bisogna indossare la maschera, è arrivato un collega, anche lui con la maschera, e mi ha baciata. Ne ho parlato al capo, lui ha detto di non farci caso e di continuare a lavorare. Alla Foxconn molti capi utilizzano un brutto linguaggio. Quando gli chiedi qualcosa spesso ti liquidano dicendo: “Non farmi queste cazzo di domande!”. Alcuni offendono la nostra dignità». Il 10 marzo, con la scusa di un raffreddore, Yang Lei non è andata al lavoro, ha abbandonato la Foxconn e non ha detto nulla ai suoi insegnanti, che tanto «fanno schifo». Una via d’uscita individuale, la sua, per chi non ha diritti ma sa che da qualche parte un altro lavoro si trova. In attesa di un welfare “secondo caratteristiche cinesi”.
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Buonanotte Milano In pieno centro sta per essere inaugurato l’ostello che mancava. L’iniziativa di un gruppo di trentenni che si giocano tutto nella città che non dorme mai a meno di 150 euro di
Valentina Redaelli
Come sarà L’OstelloBello aprirà a Milano nei prossimi giorni, in via Medici 4, in fondo a via Torino. Dieci camere (una per donne, una per uomini, le altre miste), da due a otto posti letto, per un totale di 68 posti. Ogni stanza, climatizzata, ha il bagno privato con doccia e bidet («un elemento di italianità»). Due terrazzini, al primo e al secondo piano. All’ultimo, una cucina, a uso esclusivo degli ospiti, con un terrazzo più grande. Wi-fi gratuito ovunque e postazioni internet fisse nella hall. I tre piani riservati agli “ostellanti” avranno un ingresso con badge. Gli spazi comuni, che ospiteranno un bar, un piccolo ristorante, mostre, mercatini, concerti e altri eventi, saranno aperti a tutti. Per informazioni: www.ostellobello.com
«Aprite un motel a ore che è molto più facile». I segnali da parte della città, con i suoi sportelli pubblici e le tortuose trafile burocratiche, non sono stati proprio incoraggianti. Il coraggio se lo sono dati da soli i ragazzi che hanno immaginato e, alla fine, realizzato l’OstelloBello, “una casa aperta su Milano”, a cinque minuti a piedi dal Duomo. Una decina di soci, tra cui quattro donne, tutti trentenni. In tre – Carlo, Pietro e Nicola – hanno smesso di fare rispettivamente l’avvocato, il producer fotografico e l’assistente alla regia. In questi mesi hanno passato intere giornate a sporcarsi le mani con i muratori; hanno tenuto i rapporti con i fornitori; confrontato modelli di lavatrici e di infissi; richiesto licenze e allacciamenti; firmato contratti, con l’occhio sempre vigile sulla contabilità e sulle norme di sicurezza. Sono loro che gestiranno a tempo pieno l’ostello, affiancati da tre persone. Gli altri, quelli che non hanno cambiato vita, daranno la disponibilità a coprire periodicamente i turni. Come Alice, medico e socio di minoranza: «Me lo ricordo bene il giorno del bonifico. Ci ho messo tutto quello che potevo. Variano le quote, ma l’investimento emotivo è lo stesso. Tutti ci crediamo e ognuno di noi è pronto a fare qualcosa». Quando andiamo a trovarli, lo stabile – fino a qualche tempo fa uno showroom di mobili – è ancora un cantiere. Improvvisiamo un salottino sedendoci su secchi di pittura capovolti e mattoni forati. Poco più in là, la trave del soppalco che, con una scritta, darà il benvenuto agli “ostellanti”: “Questa casa non è un albergo”. I ragazzi spiegano perché: «Vogliamo dimostrare che anche a Milano, in centro, si può dormire in un letto pulito a 30 euro a notte, invece che a 150. In cambio chiediamo ai nostri utenti di condividere la nostra idea di socialità. Abbiamo cercato di concentrare in cinque piani il meglio di quello che abbiamo visto e annusato in giro per il mondo: gli standard di qualità e igiene di un ostello nordeuropeo e un’anima sudamericana, con una gestione familiare e accogliente, che favorisca l’interazione». Con la supervisione di un architetto, ogni singolo spazio è stato progettato, non solo perché fosse funzionale, ma anche perché rispettasse la filosofia che lo anima. Prendiamo il terzo e ultimo piano come esempio: è la zona migliore dell’edificio, un locale ampio e invaso dalla luce. Due vetrate aprono la vista su un terrazzo che farebbe invidia a molti. «Altri al posto nostro
avrebbero previsto due suite. Più redditizie». Invece i ragazzi hanno deciso di metterci la cucina, dove gli ospiti troveranno il necessario per preparare cene conviviali e l’atmosfera giusta per conoscersi. L’idea non è nuova, già realizzata nei posti più disparati del pianeta, ma nel clima stagnante che ha avvolto per troppo tempo Milano appare geniale: «Ci abbiamo pensato per la prima volta all’epoca dell’università – fine anni Novanta – quando giravamo per ostelli all’estero e ci chiedevamo perché a Milano praticamente non ce ne fossero. Abbiamo calcolato che, nel complesso, abbiamo frequentato più di duecento strutture nei cinque continenti, come viaggiatori in cerca di un letto e, in alcuni casi, come lavoratori. La nostra città continuava ad averne uno solo. La spinta decisiva quindi è scaturita dalla voglia di colmare un vuoto. È il sogno di diverse generazioni. È un atto d’amore verso Milano». Milano cerniera tra Italia ed Europa, Milano ultima tappa di un viaggio per riempire le valigie di vestiti, Milano che, sorprendentemente, ha un passaggio di
turisti superiore a quelli di Firenze o di Roma. Milano che è pronta a ritrovare un respiro internazionale: «L’OstelloBello farà la sua parte, ma sarà anche un posto molto milanese. Ogni serata sarà un’occasione di scambio tra cittadini e viaggiatori». Il pianterreno e quello sotto saranno aperti al pubblico: con sedie e tavolini, strumenti musicali a disposizione, una biblioteca e una libreria a muro per il BookCrossing, oltre a due palchi per ospitare concerti, presentazioni di libri, mostre e dibattiti per un massimo di trecento persone sui due piani. Un bancone da bar (con birre low cost) e una cucina per piccola ristorazione, dove un cuoco preparerà un menù completo a 15 euro per chi si ferma anche a dormire e a 22 euro per tutti gli altri. Con gli incassi OstelloBello Srl dovrà sostenere le spese d’affitto mensili e rientrare, nel giro di qualche anno, di un investimento di diverse centinaia di migliaia di euro. «Siamo cresciuti con la mentalità che tutto ciò
che ha una rilevanza sociale non deve produrre reddito. E invece non c’è niente di male. Anche a livello normativo c’erano grossi impedimenti: fino al 2010, la legge regionale sul turismo prevedeva che gli ostelli fossero un’opera assistenziale che poteva essere gestita solo da enti pubblici, religiosi o da Onlus. L’OstelloBello vuole essere la prova che si possono affermare valori anche attraverso una scelta imprenditoriale. Certo, se vuoi fare qualcosa di nuovo, però, devi mettere in conto che ti farai prendere a legnate sui denti per due anni». E adesso, dopo le legnate, l’inaugurazione.
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Piccole donne: Neda, giovane studentessa lavoratrice albanese, che tra un esame e l’altro lavora in un call-center con contratti mensili. È seduta sul letto a studiare, mentre in poltrona la sua coinquilina calabrese, Consuelo, si riposa dopo una giornata di lavoro all’aeroporto di Linate. Nella stessa casa vivono Marica, aspirante giornalista venticinquenne di Cisterna di Latina, e Karolina, 28 anni, in Italia dalla Lituania, che lavora come commessa di giorno e cubista in discoteca di notte
La strana coppia
di
Michele Primi
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Mattia Insolera
I giovani contro i vecchi? Non a Barcellona dove gli anziani soli accolgono in casa gli studenti. Alloggio gratuito in cambio di compagnia e buoni voti. Funziona e si estende a tutta la Spagna Vicenc Gil guarda la Sagrada Família e sorride: «Vediamo se arrivo a cent’anni. È un accordo che ho fatto con Dio». Ottantanove anni, vedovo, vive in un grande appartamento a Barcellona, nella zona benestante dell’Eixample. Accende il televisore per guardare il suo programma preferito, “Krackovia”, uno show comico in cui si fa ironia sui luoghi comuni dei catalani. Nel resto della Spagna li prendono in giro perché sono testardi, risparmiatori, ordinati. Ma li ammirano anche per la determinazione con cui affrontano i problemi, e il senso pratico con cui li risolvono. Con lui c’è Radoslav, a cui piace farsi chiamare Roberto. Ha ventitré anni, viene dalla Bulgaria e studia marketing: «Prima Vicenc prendeva venti antidepressivi al giorno – dice – da quando ci sono io in casa ha quasi smesso». Vicenc e Roberto sono la soluzione di un problema. A Barcellona la media di vita è alta (86 anni) e di conseguenza ci sono molti anziani rimasti vedovi che vivono soli e che faticano a reinserirsi nella società. C’è anche una popolazione in continuo aumento di studenti universitari, sia spagnoli che stranieri, e una richiesta di alloggi enorme rispetto all’offerta. «Abbiamo pensato a un sistema per affrontare queste esigenze e migliorare l’integrazione in una città che diventa sempre più grande e sempre più cara», dice Monica Duaigues, responsabile della Obra social della
Caixa Catalunya, la cassa di risparmio di Barcellona, un istituto di credito non quotato in borsa che reinveste gli utili in progetti sociali. «L’idea è quella della convivenza solidale tra anziani e studenti». Il progetto si chiama Viure y Conviure (vivere e convivere) ed è semplicissimo: un anziano accoglie in casa uno studente, offrendo alloggio gratuito in cambio di compagnia. Partito quindici anni fa in forma sperimentale in un quartiere di Barcellona, oggi è esteso a trentuno città spagnole e nell’ultimo anno accademico ha fatto registrare 360 convivenze (255 solo in Catalogna) con una percentuale del 35 per cento di studenti stranieri, provenienti da ventisette Paesi diversi. È aperto agli iscritti delle università pubbliche e private, e finanziato dalla Caixa Catalunya in collaborazione con le amministrazioni comunali. «I dati sono chiari: la convivenza solidale ha migliorato le condizioni di vita degli anziani, e anche i risultati degli studenti. La presenza di un numero sempre più alto di stranieri rende il programma ancora più valido: oltre agli evidenti vantaggi economici, gli immigrati trovano un modo per integrarsi rapidamente». Vicenc e Roberto guardano insieme le partite del Barcelona, fanno la spesa al mercato, giocano a scacchi. «Convivere non è facile – dice Vicenc – ci vuole un punto d’incontro tra l’educazione del ragazzo e la tolleranza da parte dell’anziano. Chissà se funzionerebbe
anche in Italia, con il carattere che avete!». Roberto apparecchia la tavola, bagna i fiori sul balcone: «La mia famiglia vive in un paese della Catalogna a due ore da qui, per me sarebbe difficile frequentare l’università a Barcellona. Collaboro anche alla promozione di Viure y Conviure, giriamo la Spagna per spiegare come funziona. Studio marketing, sono bravo a vendere». La selezione delle coppie è affidata a un team di psicologi che raccoglie le richieste, fa una serie di colloqui per capire problemi ed esigenze, e ogni mese controlla come vanno le cose. Il periodo di prova dura trenta giorni, poi si firma un accordo. L’alloggio è gratuito, dura quanto l’anno accademico, ed è legato ai risultati degli esami. Lo studente si impegna a tornare a casa entro le dieci di sera per sei giorni a settimana, a fare compagnia all’anziano e a svolgere alcuni compiti, come portare le borse della spesa o accompagnarlo dal medico. «Funziona perché le regole sono chiare», dice Carmen, novantacinque anni, una delle prime a entrare nel programma. «Sono anche una delle più richieste perché tratto i ragazzi come se fossero tutti miei nipoti. Per esempio, nell’accordo non c’è scritto che si deve cucinare per loro. Ma io faccio dei maccheroni buonissimi». Nel suo signorile appartamento in avenida Sarrià, negli ultimi dieci anni ha ospitato Margarita, Elmira e Sandra. La prima era di Maiorca, la seconda armena, la terza peruviana: «La famiglia di Margarita mi invita ogni estate a passare le vacanze alle Baleari, Sandra è venuta a presentarmi il suo fidanzato. È tedesco, un bravo ragazzo». Da un anno in casa di Carmen c’è Marta, una ragazza catalana che studia per diventare infermiera: «Mi piacerebbe fare più cose insieme a lei, ma capisco che non ha tempo. La vita è diventata difficile e i giovani se vogliono riuscire devono impegnarsi molto. Marta va all’università e lavora in uno studio dentistico». La convivenza per lei è questione soprattutto di intesa: «Le persone si riconoscono al primo sguardo. Spagnoli o stranieri, per me non c’è nessuna differenza». A Barcellona, anziani con abitudini e ritmi consolidati scelgono di confrontarsi con le esigenze e lo stile di vita di giovani che non conoscono, per riaprire una finestra sul mondo. Non ci sono situazioni di reale bisogno: le case sono quasi tutte di proprietà, molti studenti vengono da famiglie che potrebbero anche permettersi di pagare una stanza (il prezzo medio a Barcellona è di 350 euro al mese), ma preferiscono che i figli facciano un’esperienza. Quello che avviene è davvero un incontro finalizzato a creare una società migliore, basata sul dialogo tra generazioni e nazionalità diverse. La formula del successo di Viure y Conviure (oltre trecento gli studenti rimasti in lista di attesa nel 2010) è il passaparola, ma anche una tradizione di solidarietà, tipica della gente di Catalogna: «La ragione di entrata degli studenti è economica, per gli anziani è la solitudine – dice Monica Duaigues – noi diamo delle regole basate sul rispetto reciproco: l’anziano ci chiede una presenza in casa, lo studente una possibilità di risparmio. L’investimento è alto, ogni coppia ci costa duemila euro all’anno, ma nel tempo abbiamo visto nascere legami fortissimi. La convivenza rende tutti più tolleranti».
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Trattoria resistente Mauro il Bolognese, Milano
Poesia per chi resiste
di
ivan
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Adele Lorenzi
precario è l’equilibrio prima che cadere credere e non avverare star l’orlo il burrone senza aver nulla da gettare il tempo dei guinzagli sta come a strozzare chi tira le file dei fili e sa solo annodare. ritratto l’italia poggiata un soffio che scappa e corre sotto mentre scrivo che gocciola talenti come foglie il vento che getta semi sparsi il cemento in questo lampo che rimanda il boato d’una storia che s’è interrotta che s’ora la distanza si fa corta ognuno merita il regime che sopporta. poesia per chi resiste le sedie a progetto per chi s’alza l’alba e non va più a letto per chi scivola i cantieri senza contratto per chi soffoca i padroni del ricatto di pensare che poi tutto in fondo vada bene che la paura fa la prigione molto più che la gabbia o le catene.
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Il seme di Genova foto
Gianni Fiorito
Sono passati dieci anni. Ma mai come oggi ci si rende conto di quanto il movimento di allora abbia “scavato” in profondità. Quali sono i fili resistenti che collegano l’estate del 2001 a quella del 2011? Che cosa pensa chi allora era a Genova e oggi è un trentenne? Come sono finiti i processi e dove si trova chi guidò la repressione? Perché, perfino in una campagna elettorale, si può ritrovare l’eredità di quei giorni?
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L’onda lunga di
Donatella Della Porta Lucio Cavicchioni [buenavista]
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Genova Cassandra, ma non solo. Il Social forum, la proposta politica del luglio genovese di dieci anni fa, non è stata solo la profezia, corretta, delle sventure di un sistema liberista. A Genova e da Genova in poi, le organizzazioni che agivano da anni nella società civile cominciano ad autopercepirsi e a diventare un vero soggetto politico. Se gli anni Ottanta registrano, in Italia, la separazione fra società civile e politica, gli anni Novanta – dopo il crollo del Muro di Berlino e la stagione di Tangentopoli – realizzano l’incontro fra movimenti sociali che si erano specializzati su singole battaglie. Genova 2001, e prima ancora Porto Alegre, rendono visibile l’evoluzione di un movimento che aveva cominciato a incontrarsi nelle occasioni internazionali, nelle marce contro la disoccupazione, contro la marginalità e le mafie europee, nelle mobilitazioni per la pace e contro tutte le guerre. Genova è stata la presa d’atto della necessità di una riattivazione politica della società civile, nella consapevolezza che, dentro il sistema della democrazia rappresentativa, non c’erano alleati cui delegare l’agire politico. Genova è stata il catalizzatore di queste nuove energie. Oggi molte realtà che hanno animato quella stagione non ci sono più o si sono trasformate. Frequentando le piazze per raccogliere materiale per una ricerca sui temi del lavoro e del reddito, siamo andati a vedere varie manifestazioni, dall’Euromayday fino allo sciopero generale della Cgil. Tra i manifestanti si incontrano ancora gli attivisti che erano in prima fila dieci anni fa al Social forum insieme alla generazione di chi allora era troppo giovane per esserci. Nei movimenti dell’oggi è rimasto molto del messaggio e delle pratiche genovesi: alcune di queste tracce si ravvisano nell’onda lunga delle vittorie elettorali di Milano e Napoli, anche se non sono semplici effetti di quel movimento. E poi le recenti vittorie referendarie, a partire da quella sull’acqua bene pubblico, sono sicuramente legate a doppio filo al movimento sulla globalizzazione. Il segno di continuità con quell’esperienza non è dunque soltanto l’emergere di tanti movimenti nuovi, ma la contaminazione di significati con quel passato.
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Michel Spingler [ap/lapresse]
Cassandra
L’altra osservazione è che, in diverse aree del mondo, il movimento ha dispiegato i suoi effetti in tempi diversi. Negli Stati Uniti il meccanismo dei Social forum è partito in ritardo ed è ora particolarmente attivo, mentre in America Latina è più evidente la ricaduta a livello delle istituzioni politiche, con le vittorie di leader collegati al movimento. In Italia sarà ora interessante studiare le vittorie di Giuliano Pisapia, che a Milano ha stravinto tra i giovani, e di Luigi De Magistris a Napoli, per capire di più di questa nuova generazione che inizia a mobilitarsi. L’insufficienza della democrazia rappresentativa e la necessità di moltiplicare i canali di partecipazione sono stati temi ripresi ampiamente in questa recente campagna elettorale e che si muovono in parallelo alle questioni poste dagli indignados spagnoli e, in maniera diversa, anche dalle rivoluzioni mediorientali. Che la democrazia non possa essere solo quella rappresentativa è cosa nota: i partiti hanno svolto una funzione di coinvolgimento della società civile, ma piano piano siamo approdati a una concezione di autosufficienza delle istituzioni della democrazia rappresentativa che di fatto nega la partecipazione dal basso. Ecco perché negli ultimi avvenimenti di Milano e Napoli c’è l’onda lunga di Genova: c’è una continuità che in parte riguarda addirittura le singole persone, impegnate allora e impegnate oggi, ma soprattutto lo “spirito” di Genova vive nei metodi della partecipazione, delle reti di fiducia e delle conoscenze che sono nate durante e dopo il Social forum del 2001.
dd Donatella Della Porta insegna Scienze politiche e Sociologia all’Istituto Universitario Europeo di Firenze (testo raccolto da Angelo Miotto)
Genova 2001 – Genova 2011 Una mostra racconta un decennio di travolgimenti gravi, spesso terribili. Ma non sorprendenti. Anzi, ben previsti dal Forum sociale del luglio 2001, che fu zittito con la violenza. Si chiama Cassandra, infatti, la mostra realizzata da Progetto Comunicazione, visitabile per un mese al Palazzo Ducale di Genova, che si occupa di beni comuni, lavoro, economia, guerra, repressioni, diritti. Cronologia del decennio. Su grandi pannelli, tante foto e una selezione stretta di notizie: non c’è il matrimonio di William, l’assassinio di Abba sì, poco palazzo, tanta Palestina. Si sorride con Altan, Ellekappa e Vauro: tre vignette per autore ogni anno. Sui monitor, la cronaca minuziosa, giorno per giorno, accompagnata da video, prime pagine di giornali, memorie web. Cinque reportage d’autore: Lampedusa di Massimo Di Nonno; carcere minorile in Sierra Leone di Fernando Moleres; vittime di Srebrenica di Ivo Saglietti; operai in Cina di Justin Jin; Sardegna di Francesco Cito. Tre grandi lavori collettivi: acqua, dei fotografi Prospekt; bambini a scuola nel mondo; disastri climatici e ambientali. E ancora: gli orrori di Abu Ghraib di Fernando Botero; l’album fotografico dei Forum mondiali; le battaglie locali-globali, dalla Valsusa allo stretto di Messina. Erri De Luca, Gino Strada, Alex Zanotelli e molti altri hanno collaborato con i loro testi. Cassandra si occupa anche dei fatti di Genova, con tanti video e il punto su verità (ormai chiara) e giustizia (ancora oscura). Cassandra, Genova 2001 – 2011 Fino al 24 luglio Genova, Palazzo Ducale (Sottoporticato). Ingresso libero www.progettocomunicazione.org
Dieci anni dopo di
Alessandra Fava
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Luciano Ferrara
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Alberto Bevilacqua [buenavista] Se come dice Norberto Bobbio, la storia è fatta dai vincitori, ma alla lunga emergono le ragioni dei vinti, così è successo per il G8 genovese. I manifestanti allora furono massacrati di botte e arrestati, bollati come facinorosi, devastatori, sporchi comunisti, le loro ragioni seppellite sotto manganellate, cariche e una potente campagna mediatica. Solo negli anni successivi, ai processi Diaz e Bolzaneto sono emerse ricostruzioni più veritiere e persino quello contro i manifestanti ha svelato che i carabinieri caricarono un corteo autorizzato senza il via libera della polizia deputata a sovrintendere l’ordine pubblico. Le proteste contro le guerre irachene, la (ri)scoperta della Tobin Tax, il movimento dell’acqua, le lotte contro la riforma Gelmini, i flash mob dei precari nascono da quelle giornate e in parte con gli stessi attori. Così, se dieci anni dopo vai a sentire chi allora aveva vent’anni (a 23 è morto Carlo Giuliani), emerge il disincanto, ma anche la forza di quel movimento che affondava le sue radici a Seattle. «A Genova siamo arrivati ultracarichi – racconta Tommaso Cacciari, 33 anni, veneziano, allora studente di Storia, tuttora attivista dei centri sociali veneti – in primavera eravamo in Messico con gli zapatisti, a giugno occupavamo il Morion a Venezia e alla fine del mese arrivavamo a Genova. C’era un entusiasmo incredibile e succedeva di tutto. Anche che Manu Chao e io giocassimo a pallone al Carlini». L’immaginario collettivo del corteo più giovane del G8, quello partito dallo stadio Carlini venerdì 20 luglio, aveva partorito grandi scudi collettivi e rivestimenti di gommapiuma, ereditati più dai manga giapponesi che dalla guerra, «non ci sentivamo né Batman né Superman – ricorda Cacciari – era solo che imbottiti avevamo meno paura delle manganellate». Per il resto si vedevano
già appesi alla grata della zona rossa, non senza qualche intoppo: «Quando andammo a ritirare il plexiglas in una ditta genovese trovammo la Digos. In un istante afferrammo ognuno un pezzo e via. Peccato che mentre io pagavo, alcuni furono arrestati. Perdemmo tre pannelli e passammo la notte in questura. Eppure nonostante la militarizzazione crescente, ci credevamo ancora in un contesto democratico». I paletti saltarono quando quel corteo fu caricato dai carabinieri: «Attaccarono di lato e all’improvviso. Lo scudo gigante ha resistito pochi secondi. Io ero senza casco e il pentaelemento, la maschera a cinque filtri, non serviva perchè tiravano il gas CS che non avevamo mai sperimentato. Ho vomitato, vissuto momenti di panico assoluto. Qualcuno mi ha salvato con acqua e bicarbonato. Sono arrivati i blindati a 60 all’ora. Ho pensato: “Ci ammazzano” e mi sono incazzato. Le regole erano saltate e tutti iniziammo a lanciare sassi». Poi la violenza, il blindato incendiato, poco dopo la morte di Carlo Giuliani. «Ho fatto fatica a tornare a Genova», conclude Cacciari. «Il G8 è stato uno spartiacque nella mia vita militante, ho toccato con mano la dinamica del potere quando dai fastidio davvero, mi sono sbarazzato di ogni ingenuità e ho deciso che dovevo impegnarmi di più». La violenza di quel pomeriggio tra piazza Alimonda e piazza Tommaseo l’ha fotografata solo chi l’ha vissuta. Antonio Musella, 30 anni, napoletano della rete meridio-
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In apertura Antonio Musella, 30 anni, di Napoli ▲ Tommaso Cacciari, 33 anni, di Venezia ▶▲ Timothy Ormezzano, 36 anni, di Torino ▶▶ Diego Repetto, 36 anni, di Camogli
Massimiliano Clausi
Diana Bagnoli
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del Carlini, 120 per 70 centimetri, sequestrato dopo le cariche in via Tolemaide, fu usato dai carabinieri come prova del reato di resistenza contro un gruppo di manifestanti fermati, un falso come le molotov trovate in corso Italia e portate alla Diaz dalla polizia. Lo racconta Timothy Ormezzano, 36 anni, torinese. «Mi mostrarono uno scudo di plexiglas trasparente con una maniglia verde e scrissero nel verbale che era mio. Non era vero. Poi mentre raggiungevo il carcere di Pavia, capii che diversi di noi erano accusati di essere proprietari dello stesso scudo». In mano Timothy, semmai, aveva una telecamera per realizzare un documentario. «Sentivo che dovevo essere lì quel venerdì. Filmai molto già in mattinata. Poi finii nella zona di piazza Alimonda pochi minuti dopo la morte di Giuliani. La gente correva e gridava: “Hanno ucciso un ragazzo”. Filmavo e scappavo. Mi trovai nella fiumana che risaliva corso Gastaldi, fui assalito da dieci agenti, manganellato, preso a calci e arrestato contemporaneamente da polizia e carabinieri, che mi tiravano
Elio Colavolpe [emblema]
nale Sud ribelle, allora studente dell’Università di Napoli l’Orientale, racconta che «quando si è diffusa la notizia che era morto un manifestante, ho avuto paura di morire. La polizia c’inseguiva rastrellando tutti, scappavo e mi sentivo le ali ai piedi. Arrivato al Carlini dall’amplificazione sentii la voce di un compagno annunciare che, dopo la morte di un ragazzo, il G8 era sospeso, cosa che fu assolutamente temporanea e, a posteriori, di scarsa rilevanza. Intorno a me le reazioni a quella notizia erano polarizzate: c’era chi gioiva e chi era del tutto indifferente. In quel momento provai un dolore che non riesco ancora oggi a descrivere e piansi». Eppure, anche per Musella la giornata era iniziata con «la gioia e l’entusiasmo, la consapevolezza e la determinazione alla partenza dallo stadio» e si rivede ancora «ricoperto di protezioni e gommapiuma, con il casco bianco e l’adesivo di Pulcinella con il bastone, simbolo delle mobilitazioni napoletane del marzo 2001 contro il Global forum». Intanto erano iniziati gli arresti di massa e uno degli scudi
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E forse mi manca l’entusiasmo», conclude riflettendo la posizione di centinaia di persone che non sono mai più scese in piazza. Sabato sera il G8 era finito. Il peggio sembrava passato e molti manifestanti si preparavano alla partenza. Anche Sara Bartesaghi Gallo, di Lecco, allora ventenne, studentessa dell’Accademia di Brera. «Andai alla Diaz per ritirare il mio zaino e tornare a casa, ma all’improvviso arrivarono. Non capivamo neppure chi entrava, c’era un grande subbuglio, io scappai per le scale, i poliziotti mi raggiunsero, mi picchiarono e mi trascinarono al piano terra. Mi sanguinava la testa e fui portata in ospedale. Persino lì eravamo circondati da poliziotti e agenti in borghese minacciosi. Eravamo terrorizzati. Una ragazza straniera era in stato di incoscienza e io, tra le poche a parlare italiano, chiedevo che ci lasciassero andare e traducevo le dichiarazioni (false) che avevano fatto firmare agli stranieri. Nella notte finimmo tutti a Bolzaneto», la pagina più nera del G8, il luogo dove furono perpetrate violenze che emersero solo la settimana successiva quando i fermati cominciarono a uscire dalla carceri italiane e denunciare. «Grazie al processo si è arrivati a una ricostruzione complessiva – commenta Sara – ma preferisco raccontare quello che ho visto: siamo stati tenuti prima all’aperto poi in una stanza con le braccia alzate per ore. Uno con un braccio ingessato fu costretto a stare nel centro della stanza, a mo’ di tortura. Si divertivano a farci ripetere i nostri nomi, ci minacciavano e ci facevano ascoltare suonerie fasciste dai cellulari. Nelle stanze accanto si udivano urla agghiaccianti. C’erano punizioni sottili, per esempio mi tennero nuda nella sala dell’infermeria con gente che andava e veniva. In quei momenti ti senti impotente, hai la sensazione che possano fare di te quello che vogliono». Ci vollero tre giorni perché Sara riemergesse dal nulla e i genitori sapessero dove era finita. In questi anni ha testimoniato ai processi Diaz e Bolzaneto, «ne ho parlato il più possibile anche se in Italia temevo delle ritorsioni. Ora sono più serena ma se vado a una manifestazione mi metto in fondo o di lato per avere una via di fuga e mi sento sempre a disagio con chi veste una divisa, compreso il controllore del metrò: mi viene il cuore in gola anche se ho il biglietto. Oggi mi rendo conto che quest’esperienza mi ha fatto conoscere persone bellissime e mi ha tolto tante illusioni. Pensare che un umano possa godere della sofferenza dell’altro è atroce». Cacciari si è laureato in Storia, fa il portiere di notte e altri lavori precari, partecipa alle lotte contro la precarietà, per il reddito e il diritto alla casa, è impegnato al Morion e Sale Docks. Musella vive da precario, passa da un lavoro di consulente sul welfare a una prestazione a progetto come esperto ambientale, è attivo nei movimenti in difesa dei beni comuni con il centro sociale Insurgencia. Dopo il G8 Ormezzano ha abbandonato le riprese e scelto di fare il giornalista, oggi è un freelance specializzato in sport, anche quest’anno sarà a piazza Alimonda, ma con suo figlio. Repetto pochi mesi dopo Genova si è laureato in Fisica, ha fatto ricerca in Germania, oggi vive e lavora in Spagna e ha preso un anno sabbatico per stare con i suoi due figli, di 18 e 2 mesi. Bartesaghi si è diplomata a Brera, ha lavorato come scenografa in Italia, oggi vive in Francia dove fa la costumista di teatro e ha un figlio di un anno e mezzo.
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Luana Monte [buenavista]
chi di qua, chi di là». Vinsero i carabinieri. Portarono Ormezzano all’ospedale Galliera per otto punti al sopracciglio, poi al comando provinciale a forte San Giuliano, proprio il giorno in cui c’era Gianfranco Fini. «Fini non l’ho visto. Noi eravamo una cinquantina. Senza diritti. Ci facevano sfilare nudi da un ufficio a un altro. Ci deridevano e mi chiamavano Rocky per il labbro nero e i lividi. Ci riempivano di calci. In sedici fummo anche tenuti in piedi per una notte in uno stanzino. Il giorno dopo, al momento di salire sulla camionetta per andare al carcere di Pavia, chiesi di andare in bagno. Mi dissero di farmela addosso. A Pavia fui messo in isolamento. Ne sono uscito dopo due giorni». Da allora Timothy ha cercato di dimenticare: «Ho chiuso il G8 in un cassetto. Non ho mai voluto rilasciare interviste e mi infastidisce che in rete ci siano ancora articoli su di me. L’unico impegno è stato tornare ogni 20 luglio a piazza Alimonda, seguire i processi del G8 e raccogliere video nella speranza di ritrovare le immagini del mio pestaggio». Le sue riprese sono sparite, la telecamera sequestrata e mai restituita. Quanto alla giustizia, nonostante una denuncia dettagliata, il videomaker non ha ottenuto nessun risarcimento e su forte San Giuliano non è mai stato aperto un fascicolo. Le cariche e gli arresti continuarono peraltro nella giornata di sabato e furono pestati, come venerdì a piazza Manin, anche quelli con le mani dipinte di bianco. Lo ricorda Diego Repetto, 36 anni, camoglino, che faceva servizio civile in una cooperativa di commercio equosolidale: «Se chiudo gli occhi mi viene in mente il grande corteo di sabato da Quarto a Marassi. In corso Italia fummo caricati con i blindati a 30 all’ora. Scappai verso il mare. Ci hanno catturato e fatto sfilare con le mani alzate. Intorno c’erano decine di persone sanguinanti, visi stravolti, ancora sorpresi. Anche se non ho preso neppure una manganellata, da dieci anni ho un incubo ricorrente: sono inseguito dalla polizia e – aggiunge Diego con amarezza – quando vedo polizia e carabinieri ho paura. Poi mi è rimasto un senso di sconfitta perché il G8 alla fine è stato cassonetti incendiati, black bloc e la morte di Giuliani. Si è vanificato il lavoro di un anno e i nostri messaggi non sono passati, come quello, per esempio, che il G8 non ha niente di democratico perché nessuno viene eletto». Repetto da allora si è ritirato a vita privata: «Ho meno tempo per l’impegno sociale.
Lucio Cavicchioni [buenavista]
Antonello Nusca [buenavista]
Antonello Nusca [buenavista]
rio per la spazzatura campana e, dal 2008 è direttore del dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Il suo ruolo non è stato modificato neppure dopo essere statocondannato in primo grado. nel giugno 2010. per istigazione al falso di Colucci. Vincenzo Canterini è in pensione, ma era stato promosso in un organismo internazionale per il contrasto della prostituzione in Romania. Alessandro Perugini, numero due della Digos genovese e responsabile della polizia a Bolzaneto, ha risarcito il ragazzo di Ostia picchiato in zona questura ed è diventato vicequestore di Alessandria. Dei 45 imputati per le violenze avvenute a Bolzaneto, 44 sono stati ritenuti responsabili e condannati in appello nel marzo scorso a risarcire le vittime. Nessuno è stato costretto a dimissioni. Medici e secondini continuano a fare il loro lavoro nelle carceri. Marco Poggi, l’infermiere della polizia penitenziaria che per primo ha rotto il muro del silenzio denunciando apertamente le violenze avvenute in quei giorni, ha dovuto rinunciare al lavoro per alcuni anni. (a.f.) Carlo Cerchioli [buenavista]
I principali responsabili dell’assalto alla scuola Diaz sono stati promossi, se si esclude il prefetto Augusto La Barbera morto nell’autunno del 2002. L’allora vicecapo della polizia Ansoino Andreassi è stato promosso a vicedirettore del Sisde poi è andato in pensione. L’allora capo della Digos Spartaco Mortola che fece da scout per i poliziotti la notte della cosidetta perquisizione è diventato vicequestore e poi questore, nonostante la condanna in primo grado per aver istigato al falso l’allora questore genovese Colucci insieme allora capo della polizia De Gennaro. Francesco Gratteri, allora capo del Servizio centrale operativo (Sco), è diventato il numero uno dell’antiterrorismo (l’ex Ucigos), poi questore a Bari e dal gennaio 2007 è direttore della direzione anticrimine. Giovanni Luperi, braccio destro di La Barbera, è capo del dipartimento analisi (ex Sisde) oggi Aisi ed è capo anche della task force antiterrorismo europea. L’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, dopo aver fatto il capo di gabinetto del ministero dell’Interno con il governo Prodi, è stato commissario straordina-
Francesco Acerbis [buenavista]
Tutti promossi
Roberto Arcari [contrasto]
Lucio Cavicchioni [buenavista]
Elio Colavolpe [emblema]
Elio Colavolpe [emblema] Dino Fracchia [buenavista]
Carlo Cerchioli [buenavista]
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L’omicidio di Carlo Giuliani, avvenuto a piazza Alimonda venerdì 20 luglio 2001, fu archiviato già nel maggio del 2003. Il carabiniere Mario Placanica fu prosciolto per legittima difesa e non furono avviate altre inchieste nonostante abbia detto più volte di non esser stato lui a sparare. I familiari di Carlo si sono poi rivolti alla Corte di Strasburgo. L’ultima sentenza, quella della Grande Chambre, nel marzo 2011, ha decretato che le autorità italiane indagarono a fondo sui fatti e gestirono bene l’ordine pubblico. «Dieci anni – ha commentato Haidi Giuliani, la madre della vittima – per ottenere niente. Come disse Licia, la moglie di Pino Pinelli: “Ho fatto tutto quello che potevo, è lo Stato a essere sconfitto perché non ha saputo indagare su se stesso’’». La sentenza d’appello del processo Diaz, a maggio 2010, ha ribaltato quella assolutoria di primo grado con la condanna a 98,3 anni di carcere per 25 dei 28 poliziotti indagati, con l’accusa di calunnia, falso ideologico, arresto illegale e lesioni. Tra loro figurano i massimi vertici della polizia fra cui Giovanni Luperi, oggi capo del dipartimento di analisi dell’Aisi (ex Sisde) e l’ex direttore dello Sco, oggi capo dell’antiterrorismo, Francesco Gratteri. I poliziotti hanno iniziato le procedure per il ricorso in Cassazione, ma a causa di lungaggini burocratiche si rischia la prescrizione. I manifestanti (oltre cento costituitisi parti civili, tra cui 71 feriti su 93 arrestati)
Marco Becker [buenavista]
Aspettare giustizia sono stati risarciti con qualche migliaio di euro circa. Il processo Diaz ha avuto un’appendice: a giugno 2010 è stato condannato sempre in appello (con rito abbreviato e a porte chiuse) l’allora vertice della polizia, oggi capo dei servizi segreti Gianni De Gennaro (un anno e quattro mesi) accusato di aver inquinato il processo sull’assalto alla scuola facendo pressioni sull’allora questore di Genova, Francesco Colucci, perché dicesse il falso in udienza. Sia De Gennaro che l’allora capo della Digos genovese Spartaco Mortola hanno fatto ricorso in Cassazione nell’aprile scorso, mentre il processo in rito ordinario contro Colucci, accusato di falsa testimonianza, è ancora in corso. Per le violenze avvenute nella caserma di Bolzaneto, luogo deputato al controllo dell’identità dei fermati durante il summit, sono state condannate in secondo grado nel marzo 2010, 44 persone, tra carabinieri, poliziotti, agenti di polizia penitenziaria e personale medico, con pene variabili tra gli otto mesi e i dieci anni. I reati sono ora tutti prescritti tranne i falsi della penitenziaria. I rispettivi ministeri devono risarcire oltre dieci milioni di euro alle vittime che per ora non hanno ricevuto un solo euro. Il processo ai manifestanti, accusati di devastazione e saccheggio, si è concluso nell’ottobre del 2009 con la condanna in secondo grado a 99,1 anni per dieci dei 25 imputati e un risarcimento di 23mila euro. Tutti
hanno presentato ricorso in Cassazione. Alcuni poliziotti, tra cui un dirigente della Digos genovese, Alessandro Perugini, accusati del pestaggio del minorenne di Ostia non lontano dalla questura, sono stati condannati nel maggio 2010, hanno risarcito la vittima e non hanno fatto ricorso in Cassazione. Aspettano invece il terzo grado di giudizio Antonio Cecere, Luciano Beretti, Marco Neri e Simone Volpini, i quattro poliziotti del reparto mobile di Bologna accusati di falso ideologico nell’arresto di due cittadini spagnoli, Antonio Sesma Gonzales e Luis Alberto Lorente Garcia, a piazza Manin, dopo che i manifestanti sono stati prosciolti dall’accusa di resistenza. In questi anni solo quattro manifestanti picchiati in piazza Manin e in corso Italia sono stati risarciti in sede civile per le ferite riportate durante i cortei. Per il resto sono ormai prescritte centinaia di violenze commesse dalle forze di polizia. Sulle detenzioni e i maltrattamenti a forte San Giuliano, sulle manganellate in un cortile senza via d’uscita su corso De Stefanis e altre violenze ampiamente documentate da foto e filmati, non si è mai indagato. Molti avvocati che hanno raccolto le prime denunce e seguito inchieste e processi per anni non sono mai stati pagati, nonostante le forze dell’ordine siano state riconosciute colpevoli e condannate anche al risarcimento delle spese legali. (a.f.)
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La denuncia Uno, Vittorio Agnoletto, era il portavoce del Genoa Social Forum; l’altro, Lorenzo Guadagnucci, è un giornalista che subì la mattanza alla scuola Diaz: sono gli autori di un importante libro-inchiesta L’eclisse della democrazia (Feltrinelli 2011) che denuncia la sospensione dei diritti costituzionali durante il G8 di Genova del 2001 e mette a nudo i tentativi di bloccare i processi, chiusi in appello con le condanne di altissimi dirigenti della polizia e dei servizi, tutti rimasti ai loro posti.
Giacomo, 22 anni «Allora, io sono un capo scout. O meglio lo ero. Non sono battezzato, ma ero in un gruppo aperto di mente e quindi mi hanno fatto capo. Dopo due anni, lasciamo perdere perché, mi hanno detto di non farlo più. Ho visto che di lì a sei mesi ci sarebbero state le elezioni a Milano e mi son detto: è un segno del destino. Così ho mandato una mail e ho iniziato. Prima avevo pensato: ok, mi iscrivo a un partito, ma poi non sapevo quale scegliere. Gli scout dicono che vogliono formare buoni cittadini, anche per la politica dovrebbe essere la stessa cosa, no? Onestamente devo dire che la possibilità di vincere ha contato qualcosa nella scelta di impegnarmi. Ora i miei amici mi dicono: Giacomo, avevi ragione. All’inizio ci si vergognava un po’ tutti: io a dare i volantini e i passanti a prenderli. Ora parlano tutti con tutti. Abbiamo persino organizzato una mazurka per Pisapia, i giovani, sai, fanno piuttosto presa sulle vecchiette. Questa cosa di impegnarsi l’ho sempre sentita, ma non mi era mai capitato con la politica. La molla è stata la possibilità di fare concretamente delle cose. L’anno prossimo per la tesi andrò all’estero, ma impegnarsi per Gorla – che è il mio quartiere, di cui vado orgoglioso – non è una cosa sfigata. Quello che non mi dimenticherò è l’atmosfera del
comitato, gente dai venti ai settanta con tutti che vogliono imparare da tutti. Alla prima riunione, eravamo in otto, ho esordito dicendo: “Salve, sono qui per fare manovalanza”. Invece abbiamo fatto anche tante discussioni e nessuno ci ha fatto sentire delle merde perché non abbiamo vissuto gli anni Settanta. Prima ero un po’ aggressivo, adesso ho imparato a discutere, a essere paziente. Il fatto di dover tirare in mezzo la gente è stato, come dire, formativo. Se non si sente aggredita, la gente è anche disposta a parlare. Non mi piacciono i movimenti troppo conflittuali, sono un po’ ‘vecchio’ forse. Al comitato mi sono sentito ben accolto. Si sentiva che si sta remando tutti nella stessa direzione. Il primo motivo che mi ha spinto a impegnarmi nella campagna è l’immigrazione, i metodi che sono stati usati in questa città finora mi hanno disgustato. Un quartiere come questo è pieno di stranieri, non puoi continuare a considerarli altro da te, prima o poi questa cosa va presa in mano. E poi, prima di decidere, mi sono chiesto: ma io vivo bene qui? Preferisco vivere in una Milano diversa piuttosto che andar via. La cosa che non digerisco sono quelli che mi dicono che tanto sono tutti uguali. Oh, rispondo, io voto solo da tre anni, come fa a essere tutto sempre uguale? Quest’anno ha votato anche mio fratello più piccolo e si è emozionato. Come me».
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Io partecipo
di
Massimo Rebotti
foto
Eugenio Marongiu
Quando Giuliano Pisapia ha vinto le elezioni i giovani in piazza del Duomo a festeggiarlo erano tantissimi. Qualcosa di mai visto a Milano, dicevano un po’ tutti quella notte, stropicciandosi gli occhi. Ragazzi e ragazze, sicuramente tutti bambini dieci anni fa quando c’è stata Genova. Il Movimento dei movimenti e una campagna elettorale per il sindaco di una città non sono cose paragonabili. Da una parte temi planetari e la contestazione giovanile verso i grandi del mondo, da questa i problemi di una città o di un quartiere e un contesto che più istituzionale non si può: candidati, partiti e voti da contare. Eppure, qualcosa che si somiglia c’è: lo slancio disinteressato, una passione per le battaglie concrete, la fiducia di poter cambiare le cose. Vista con gli occhi di chi ha vent’anni adesso perfino dentro una campagna elettorale si può ritrovare un filo sottile con quanto successe dieci anni fa.
Victoria, 25 anni «In zona esisteva già un tessuto di associazioni. Noi ci siamo posti il problema del luogo. Sembra una cazzata, ma le sedi dei partiti erano tutte negli scantinati. Noi abbiamo voluto un negozio che c’era già. Con la vetrina, sulla strada. Un posto dove la gente andasse comunque. Sono figlia di argentini, ho vissuto in Argentina negli anni del liceo. Lì ho fatto politica nel partito comunista. Tornata in Italia pensavo di cercarmi un partito, ma è stata una grande delusione e ci ho sofferto. In Argentina la militanza in un partito è una cosa più spontanea, anche per stare insieme. Quindi in Italia niente partito, ma l’urgenza di fare qualcosa mi è rimasta. E così mi sono messa a fare il doposcuola per i bambini delle medie di un grande quartiere di case popolari, il Molise-Calvairate. Facevo un viaggio pazzesco per andarci, abitavo dall’altra parte della città. Quando ho visto che Pisapia si candidava, quello che mi ha colpito è che non fosse un politico di professione. Ho proprio sentito che si metteva al servizio della città, non so come spiegarti, ho sentito che per lui la candidatura era un sacrificio e che aveva deciso di farlo. Senti, io ci ho visto della nobiltà nella scelta. Per me Giuliano Pisapia è come un contenitore, con alcuni valori come pilastri. In questa
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candidatura, ognuno è riuscito a proiettare quello che desidera. Io desidero che i cittadini tornino ad avvicinarsi alla politica e che sentano le istituzioni come qualcosa che li riguarda. Il cambiamento è stato nel metodo, ma non si tratta di forma. Pisapia ha passato dei mesi ad ascoltare. Veniva e ascoltava. Non è che Milano faccia schifo, Milano è cara. È tarata sui quarantenni ricchi. E poi è soffocata, non solo per l’aria. Ha un problema culturale e ti mette a disagio. Mi sono appassionata alla campagna per il sindaco perché è la cosa più vicina. È vero, ho studiato Relazioni internazionali, ma i problemi del territorio non sono argomenti sfigati. Ci fossero state le elezioni politiche non mi sarei impegnata in questo modo (sono nove mesi che ci sto dietro, praticamente una gravidanza). L’ho fatto perché è una faccenda vicina, è come dipingere casa propria. Il difficile viene adesso quando si scateneranno gli opportunisti. È vero, hanno partecipato molti giovani, ma quasi tutti delle scuole del centro. Una volta sono andata, per la campagna elettorale, a fare un dibattito in una scuola in periferia. C’era una ragazza con il velo che mi ha fatto una domanda su cosa proponesse Pisapia per gli immigrati. Mentre parlavo un gruppetto dal fondo si è messo a fare u-uh u-uh e a gridare slogan sull’orgoglio nazionale. Insomma, anche dopo sarà dura».
L’Italia è una Repubblica a cura di
9 maggio, Marsala (Tp)
16 maggio, Altopascio (Lu)
9 maggio, Cabras (Or)
17 maggio, Verona
È precipitato dalla finestra dell’ospedale Borsellino mentre stava aggiustando un circuito elettronico. La vittima si chiamava Angelo Vitello, 37 anni, ingegnere.
Un operaio, Ettori Loi di 42 anni, è morto dissanguato in un’azienda agricola. Mentre spostava una pompa sommersa è stato colpito da uno spigolo tagliente della leva, che gli ha reciso la carotide.
9 maggio, Aspra (Pa)
Si chiamava Nino Argirò, 49 anni. L’operaio è morto mentre stava effettuando lavori di manutenzione a una pala meccanica nel garage della sua casa. È rimasto schiacciato dal mezzo.
9 maggio, San Gimignano (Si) L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra il 9 maggio e il 10 giugno. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.
Ragioniere di 57 anni, Stefano Russo è morto in un incidente stradale. Nel tragitto tra lavoro e casa ha perso il controllo della sua moto.
Aveva appena concluso il servizio come vigile e stava rientrando a casa. Giancarlo Svizzero, 46 anni, non è sopravvissuto a un incidente stradale.
17 maggio, Niscemi (Cl)
Sulla strada statale si è verificato uno scontro frontale tra un autocompattatore della nettezza urbana e un furgone. Ha perso la vita Diego Uscio, operatore ecologico di 59 anni.
18 maggio, Tarquinia (Vt)
Loreno Giubbilei, agricoltore di 54 anni, stava lavorando sul trattore in campagna. Il mezzo si è ribaltato e l’ha schiacciato.
Stava lavorando sulla via Aurelia come autotrasportatore. G.S., romano di 43 anni, è morto quando il suo tir si è ribaltato mentre effettuava una curva.
10 maggio, Arnad (Ao)
19 maggio, Spigno Saturnia (Lt)
10 maggio, Modica (Rg)
20 maggio, Serra de’ Conti (An)
11 maggio, Sestu (Ca)
20 maggio, Sossano (Vi)
11 maggio, Formia (Lt)
21 maggio, Roma
Stava mettendo alcune reti di protezione a un masso. È caduto da circa 10 metri all’interno di un cantiere. Si chiamava Mario Mascaro, era un operaio trentacinquenne di Aosta.
Francesco Spadaro, agricoltore di 67 anni, è morto in seguito al ribaltamento del trattore su cui stava lavorando.
Operaio edile di 38 anni, Ulisse Cara è caduto dal tetto di un capannone. Era impegnato nella ristrutturazione dell’edificio quando è precipitato da un’altezza di circa 5 metri.
Giuseppe Esposito, operaio di 37 anni, è caduto nel vuoto per 12 metri. Stava installando pannelli fotovoltaici in un cantiere quando ha perso l’equilibrio.
Antonio Tedesco, agricoltore di 80 anni, è morto a seguito del ribaltamento del proprio trattore. Stava lavorando su un terreno di sua proprietà.
Aveva 37 anni e lavorava in un’azienda informatica. Alessandro Olivi è morto in un incidente stradale mentre andava al lavoro.
Paolo Mussolin, 26 anni, operaio in un cantiere. Ha perso la vita in un incidente stradale mentre andava a lavorare. La sua moto si è schiantata contro un’auto.
12 maggio, Craveggia (Vb)
Stava lavorando nel cantiere per la costruzione della nuova metropolitana B1. Bruno Montaldi, operaio di 41 anni, è morto in un quartiere centrale della capitale. L’ipotesi più probabile è che sia stato avvelenato dalle esalazioni provenienti da un pozzo di azoto liquido.
13 maggio, Rimini
Faceva l’operaio e stava lavorando nella sala macchine di un’imbarcazione. Domenico Settipani, 58 anni, è rimasto vittima di un’esplosione che ha colpito il peschereccio.
13 maggio, Bologna
Aveva 34 anni e faceva l’autotrasportatore. È rimasto schiacciato mentre stava sistemando un impianto idraulico proprio sotto il furgoncino.
16 maggio, Giugliano (Na)
Marco Limoncino, 35 anni, stava lavorando come agricoltore quando è rimasto schiacciato dal proprio trattore, che si è ribaltato. L’incidente è avvenuto in un tratto stradale dissestato.
16 maggio, Villa Collemandina (Lu)
Faceva il muratore. È deceduto in un incidente stradale alla guida del suo furgone. Si chiamava Domenico Gagliardi, aveva 46 anni.
Faceva il capotecnico di una funivia. Il trentacinquenne Graziano Bonzani stava lavorando su un escavatore quando il mezzo meccanico si è rovesciato e lo ha schiacciato.
Abdelouaheb Imed, 33 anni, pescatore di origini tunisine è caduto in mare nel corso di una battuta di pesca notturna ed è annegato.
Geometra di 41 anni, Marzio Stefanelli è precipitato dal tetto del capannone su cui stava lavorando. La causa dell’incidente è stata il crollo di una parte della copertura in plexiglas.
Un operaio di 51 anni è stato schiacciato da un mezzo all’interno di un cantiere edile in cui stava lavorando. Era originario di Crispano, nel napoletano.
Enzo Becchelli, 56 anni, è deceduto per il ribaltamento del trattore su cui stava lavorando. Era insieme al padre, rimasto gravemente ferito.
23 maggio, Augusta (Sr) 23 maggio, Velletri (Rm)
23 maggio, Serramanna (Vs) 23 maggio, Prevalle (Bs)
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fondata sul lavoro 24 maggio, Piombino (Li)
2 giugno, Rombiolo (Vv)
24 maggio, Bardonecchia (To)
3 giugno, Settimo Torinese (To)
25 maggio, Trescore Balneario (Bg)
3 giugno, Montichiari (Bs)
Alessandro Salassa, 58 anni, faceva l’autotrasportatore. È morto in un incidente stradale, restando coinvolto in un rogo all’interno di una galleria.
Incastrato nella trebbiatrice mentre tentava di metterla in moto: così è morto un contadino di 52 anni, Luigi Terzi.
26 maggio, Olivetta San Michele (Im)
Paul Marius Severin Vaiana, 46 anni, era impiegato come elettricista al casinò di Montecarlo. È morto in un incidente stradale tra casa e lavoro.
27 maggio, San Casciano Val di Pesa (Fi)
Mentre montava un impianto elettrico su un tetto, Davide Bandinelli è caduto ed è morto sul colpo. Aveva 42 anni.
27 maggio, Terni
Un operaio di 52 anni, Enrico Sperandei è morto nello stabilimento ThyssenKrupp di Terni. L’ipotesi più probabile è che il decesso sia avvenuto a seguito di una caduta da un’impalcatura di circa 15 metri.
28 maggio, Riccia (Cb)
Agricoltore di 62 anni, è rimasto schiacciato in un incidente con la macchina imballatrice. Si chiamava Francesco Di Maria.
29 maggio, San Vittore (Fr)
Un incidente stradale sulla A1 tra Caianello e Cassino è costato la vita a due operai che si recavano al lavoro su un pulmino, tamponato da un tir proveniente dalla corsia opposta.
30 maggio, Campi Salentina (Le)
Marilena Miggiano, barista di 19 anni, è morta in un incidente mentre tornava a casa a bordo della propria auto.
30 maggio, Foligno (Pg)
Stava lavorando sul proprio trattore quando si è ribaltato e l’ha schiacciato. La vittima si chiamava Raffaele Badolato, 45 anni.
Jostadin Ivnov Mirchev, autotrasportatore bulgaro, è deceduto nella fase di scarico di alcuni mobili. L’uomo è stato schiacciato da pannelli e armadi.
Stava scaricando lastre di ferro dal proprio furgone. Franco Pedretti, autotrasportatore palermitano di 56 anni, è rimasto schiacciato.
4 giugno, Pontecagnano (Sa)
Angelo Campanelli, 29 anni, faceva l’operaio sulla SalernoReggio Calabria. È stato ucciso nel ribaltamento di un rullo compattatore.
6 giugno, Borgo Isonzo (Lt)
Si chiamava Yonut Mihalache, era un operaio di 25 anni. È morto dopo essere precipitato dal tetto di un capannone industriale in provincia di Latina.
6 giugno, Vipiteno (Bz)
Senza vita all’interno di un pozzo nero. Così sono morti due addetti dell’impresa di manutenzione Euro Alpe. Thomas Steger e Martin Geiser avevano rispettivamente 33 e 46 anni.
6 giugno, Avezzano (Aq)
Era alla guida di una gru che azionava la pompa del calcestruzzo all’interno di un cantiere. Ha urtato i fili della tensione restando folgorato. La vittima, Georghe Purcariu, era un lavoratore romeno di 55 anni.
6 giugno, Marina di Carrara (Ms)
Georghe Peteleu, operaio romeno di 43 anni, è stato schiacciato dal camion che stava riparando. Il mezzo si è mosso all’improvviso.
6 giugno, Borno (Bs)
Un operaio di 36 anni, Sandro Pisanu, ha perso la vita in un incidente stradale mentre stava andando a lavorare.
Luigi Dell’Olio, autotrasportatore 51 anni, è morto schiacciato dal proprio camion contro un muro. L’uomo era sceso per un controllo.
30 maggio, Gabicce Mare (Pu)
6 giugno, Chioggia (Ve)
Un camionista polacco di 60 anni, G.L., è rimasto vittima di un incidente stradale.
31 maggio, Tertenia (Og)
Ugo Conchedda, 62 anni, faceva l’agricoltore nella campagna sarda. L’ha schiacciato il suo trattore.
31 maggio, Lecce
Un uomo di 72 anni, Dionigi Paladini, è morto incastrato nella benna del proprio trattore.
1 giugno, Avella (Av)
Era titolare di un’azienda edile. Francesco Napolitano, 54 anni, è stato travolto dal crollo dei materiali che stava comperando per la propria attività.
Stava pescando quando la sua imbarcazione è affondata. Il cinquantaduenne Luigi Vianello è rimasto bloccato all’interno della cabina di pilotaggio.
6 giugno, Caslino d’Erba (Co)
Una cinghia si è staccata dalla pressa su cui stava lavorando e lo ha colpito alla testa. Così è morto Sergio Gerosa, imprenditore di 58 anni.
7 giugno, Calcara di Crespellano (Bo)
Faceva l’operaio e stava tornando dal lavoro in bicicletta. Un cingalese di 27 anni è stato travolto da una moto che l’ha ucciso sul colpo.
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9 maggio - 10 giugno morti sul lavoro
Maurizio Galimberti
Era in servizio sulla via Aurelia. L’autotrasportatore cinquantenne Franco Paolucci è rimasto vittima di un incidente stradale durante l’orario di lavoro.
mad in italy di
Gianni Mura
facciamo pace? La rubrica del mese scorso mi ha portato un discreto numero di reazioni. Negative e variate: di garbata disapprovazione la maggior parte, e sfumate, tipo “è vero che i ciclisti non dovrebbero pedalare sui marciapiedi, ma è legittima difesa”. Più una minoranza di insulti e insinuazioni (schiavo di Letizia Moratti, possessore di suv). Un po’ ci sono abituato. Scrivendo di sport, basta dir bene di una squadra che si è accusati di prendere soldi da Moratti (Massimo), o da Berlusconi, o da Agnelli. Se segnalo un ristorante che serve piatti di capretto o di maiale, mi becco dell’assassino. Se parlo di un vino, senza ovviamente raccomandare di berne una bottiglia, c’è chi mi rinfaccia tutti i morti del sabato sera. Farò un lungo giro prima di tornare ai ciclisti carnivori, cioè aggressivi. E parto da questo mensile. Che si propone di diffondere una cultura di pace. Che è contro la guerra, ogni guerra. Guerra è l’opposto di pace, e viceversa. Ma pace è di più. Da Wikipedia: “La pace è una condizione sociale, relazionale, politica o legata ad altri contesti caratterizzata da condivisa armonia ed assenza di tensioni e conflitti”. La condivisa armonia e l’assenza di tensioni mi spingono a dire con la massima serenità che a Milano e in Italia, tranne che in oasi a me sconosciute, non si vive in pace. Esiodo, che non era un pirla, associava la pace (eirene) a eunomia (il buon governo) e a dike (la giustizia). Io, che non ho mai escluso di esserlo (un pirla, non Esiodo), associo l’assenza di pace alle polveri sottili del fanatismo. Una volta si diceva così, poi sono diventati d’attualità altri termini (talebani, integralisti) ma resto legato a fanatico, agli inizi solo religioso (deriva da fanum, tempio) e poi spalmato su altri totem non necessariamente religiosi ma politici, sportivi, razziali, comportamentali. Si fa gruppo tra romanisti, ciclisti, vegetariani, astemi, praticanti di arti marziali, chi è fuori dal gruppo non merita rispetto né attenzione. Le guerre (grandi, piccole, medie, giuste, ingiuste, sante e perfino umanitarie che siano) non scompariranno da un giorno all’altro né mai, se prima non arriviamo a traguardi più abbordabili, a essere noi portatori di pace, uomini e donne, giovani e anziani. Noi nei piccoli gesti quotidiani, noi nel tenere a bada l’aggressività, noi nel ricordare i diritti ma anche i doveri, noi che usciamo di casa come se fuori ci fosse la giungla amazzonica, noi che abbiamo blindato anche i sorrisi, noi che a forza di chiedere sicurezza non siamo più sicuri di nulla, noi che spesso confondiamo il fare con il sopraffare, noi bellicosi anche se tecnicamente non belligeranti. Prendetelo come un discorso un po’ così, tra una guerra e un marciapiedi. Un caro saluto a chi pedala in pace, nella speranza che eirene, eunomia e dike tornino a farsi vedere dalle nostre parti.
U
Dioniso guida le Ore, bassorilievo romano dell’Età imperiale, I secolo, Parigi, Museo del Louvre
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Casa dolce casa a cura di Stella
Spinelli
illustrazione
Guido Guarnieri
18 maggio, Finale Ligure (Sv)
Uccisa a colpi di accetta mentre era in vacanza con il marito nel campeggio gestito dalla figlia e dal genero, nell’entroterra di Finale Ligure. Rosanna Piattino, 65 anni, pensionata di Cornigliano, è stata uccisa da un amico di famiglia, Matteo Giordano, che per trent’anni aveva lavorato nel campeggio come giardiniere e che viveva lì in un bungalow. Tutti lo descrivono come un uomo mite e tranquillo, che non aveva mai dato segni di squilibrio. Eppure il 18 maggio alle nove e mezza di mattina ha aggredito Rosanna nel bar del campeggio San Martino, in località Manie, sulle alture di Varigotti, e l’ha uccisa sul colpo. Poi, è salito sulla sua Apecar ed è andato a costituirsi ai carabinieri della stazione di Spotorno.
24 maggio, Vignola (Mo) Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dall’11 maggio al 10 giugno. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2010 sono state 127.
Anna Teresa Urbaniak, 48 anni, faceva la badante a Vignola. È stata uccisa con dieci coltellate. Il suo corpo è stato ritrovato a lato del percorso ciclo-pedonale Sole, vicino al fiume Panaro il 6 maggio. A finire in carcere il 24 maggio per omicidio volontario a sfondo sessuale è un amico della vittima, Francisco Celio Silva Santos, 35 anni, brasiliano. A dare l’allarme, l’anziano vignolese che non ha visto rientrare la donna, il 28 aprile. Anna si era allontanata in bicicletta per andare dalla sorella, quando è stata aggredita. Il suo corpo era stato nascosto sotto alcuni teli e scoperto dopo una settimana. Gli investigatori, coordinati dalla pm Claudia Ferretti, sono convinti di avere indizi forti a carico del fermato.
28 maggio, Pavona (Rm)
Maria aveva 37 anni ed è morta nel bagno di casa sua. A ucciderla un colpo in pieno volto partito dalla pistola del marito, dieci anni più vecchio, guardia giurata. La coppia abitava a Pavona, Roma. L’uomo ha raccontato agli inquirenti che lo sparo è partito accidentalmente dall’arma mentre la stava pulendo, ma gli inquirenti non hanno creduto a questa versione e lo hanno arrestato.
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29 maggio, Trevenzuolo (Vr)
«Lei da sola non riusciva a fare più niente, ad aiutarla c’era sempre lui, per qualsiasi cosa. Erano legatissimi, forse è per questo che ha voluto finirla così». A parlare è Urbano, il fratello di Renzo Busato, 69 anni, omicida-suicida per disperazione. È lui che, incapace di sopportare il dolore della moglie malata di Alzheimer, non più autosufficiente, ha deciso di ucciderla per poi togliersi la vita, impiccandosi nel cortile di casa. A scoprire la tragedia il figlio Federico, 38 anni. La donna, Nidia Trevisani, 68 anni, è stata soffocata nel suo letto.
2 giugno, Manfredonia (Fg)
Ha ucciso la moglie e poi si è suicidato tagliandosi le vene dei polsi. Questa la dinamica dell’omicidiosuicidio avvenuto tra le 13.15 e le 13.30 in un appartamento di Manfredonia, in provincia di Foggia. L’uomo, Filippo Trotta, 78 anni, ha ammazzato la moglie, Maria Gelsomino, di 73, da tempo malata di Alzheimer. Poi si è tolto la vita. È stata una figlia della coppia che, non vedendo arrivare i genitori a casa sua per il pranzo, si è allarmata e ha scoperto i corpi. L’anziana è stata strangolata con una sciarpa mentre era a letto. Secondo la testimonianza del medico di famiglia, ultimamente le condizioni di salute di Maria si erano ulteriormente aggravate.
Due anni dopo a Bari
Trent’anni di carcere. Ha ricevuto una pena persino più alta di quella che aveva richiesto la Procura, Alessandro Angelillo, 35 anni, che l’11 luglio 2009 uccise la sua ex fidanzata. Si chiamava Anna Costanzo, aveva 50 anni, e faceva la truccatrice al Teatro Petruzzelli di Bari. L’omicidio avvenne nella casa di Anna, in una palazzina del quartiere San Girolamo. La donna si era rifiutata di ritornare insieme ad Alessandro e lui l’ha aspettata e uccisa tentando di strangolarla per poi affogarla nella vasca da bagno. Per depistare le indagini, poi, si sarebbe collegato sul profilo Facebook della donna inserendo un messaggio in cui si faceva credere che l’estetista quella notte aspettasse tre uomini conosciuti da poco.
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Il buio oltre
Gabriele Battaglia
foto Ian Teh [agence yu/blobcg]
Di qua luci e frastuono, di là oscurità e silenzio. Dandong, Cina remota, è il luogo d’arrivo di un viaggio con vista sull’altra Corea. Da guardare con il binocolo
Alessando Digaetano [luz]
la muraglia
Sono in fila al binario quattro della stazione di Pechino dopo aver perso il treno che, ieri sera, doveva portarmi ad Haerbin. Mi aspettano dieci ore di viaggio senza posto prenotato, al limite mi siedo in corridoio. Le stazioni cinesi sono organizzate come gli aeroporti, senza averne i pregi. Si entra solo con il biglietto, facendo passare i bagagli allo scanner. Dopodiché ci si dispone per l’imbarco: un lungo corridoio con tutte le uscite numerate, dove si attende finché il treno non arriva. Non si può accedere prima al binario. Non ci sono le comode poltrone degli aeroporti, per cui si sta in piedi, seduti sul proprio bagaglio o sdraiati per terra. Poi, quando si aprono le porte, si corre e si sgomita. Vado nel Dongbei, il Nordest cinese che comprende le tre province di Liaoning, Jilin e Heilongjiang. È l’ex Manciuria, una delle terre più contese del pianeta, poi rust belt industriale della Cina di Mao. Se l’Impero di Mezzo ha la forma di una gallina, il Dongbei è la sua testa. Sul treno, di fianco a me, gente abbronzata di provincia, forse lavoratori migranti. Qualcuno dorme, uno russa pesantemente, un altro si è appena svuotato il naso sulla moquette del corridoio. Il capotreno passa tra i sedili, vi si arrampica sopra e sistema i bagagli che, secondo lui, non sono disposti in maniera adeguata. I lacci del mio zaino penzolano giù. Lui li sistema con determinata perizia. Il mio vicino di posto si sveglia, per prima cosa si lucida le scarpe, poi mi offre delle fave di soia secche. Il suo amico spara musica da un cellulare-lettore mp3; mi chiedono dove vado, un altro si lamenta con il capotreno perché non c’è aria condizionata. È un vero scompartimento cinese. Mi offrono nell'ordine: la testa di un’oca del Jiangsu, piccantissima, occhio compreso; un cetriolo; una specie di würstel confezionato, a base di carne di maiale e di pollo, popolarissimo su tutti i treni cinesi; dei bastoncini piccanti in pacchetto, che contengono, tra le altre cose, peperoncino rosso, glutammato e non meglio precisate spezie; una birra Qingdao. Accetto tutto e in cambio posso offrire solo dei litchi – i frutti succosi ricoperti dalla buccia rossa – e la mia penna, con cui ci si scambia i numeri di telefono e si segnano i punteggi mentre si gioca a carte. Intanto tutti scatarrano e sputacchiano, così il Qi – il soffio vitale che pervade ogni essere – torna a circolare. Haerbin, dove Russia e Cina si incontrano. In realtà la
Cina sembra avere ingoiato e ruminato la Russia. Ci sono la chiesa ortodossa di Santa Sofia, il quartiere di Dàolıˇ Qu¯, la sinagoga vecchia e quella nuova, ma tutto porta il segno del Dragone ruspante. Due inservienti lavano i tappeti stesi fuori dall’hotel. Uno dei due praticamente non fa altro che urlare ai passanti che inavvertitamente rischiano di calpestarli. Ma non potrebbero mettere un cartello o qualche forma di barriera, che so, un nastro? Pragmatici ma non certo efficienti i cinesi. Di fronte al portone di Santa Sofia coppiette di cinesi si fanno fotografare in abiti da matrimonio, c’è anche un gazebo di società cinesi che organizzano nozze chic all’estero, per i nuovi ricchi. Nella fattispecie a Milano. I ritrattisti espongono una brutta riproduzione di Putin. All’inizio del Novecento, qui c’erano ventimila ebrei, scampati ai pogrom russi. Oggi, la sinagoga vecchia ospita un ostello della gioventù, una pizzeria takeaway, un caffè in stile indiano. Quella nuova è un museo ebraico con interessanti foto d’epoca. Le didascalie ribadiscono con insistenza quanto sia stata ospitale la popolazione di Haerbin verso i fuggitivi. Quanto a Dàolıˇ Qu¯, è il vecchio quartiere russo, oggi attraversato dalla pavimentata Zhongyang Dajie, una via commerciale dove commessi-ragazzini si mettono all’ingresso dei negozi e attirano i clienti battendo le mani a ritmo. Nella tratta tra Haerbin e Mudanjiang scorre dai finestrini un paesaggio vagamente appenninico, intervallato dalle consuete ciminiere di mattoni rossi. Arrivo in una città sovradimensionata, brutta, con i piedi nell’antichità rurale e la testa in una modernità tutta neon. Ma che bello girare tra le bancarelle nei vicoli, mangiare due focacce per 2,5 yuan, sedersi a fare due chiacchiere con un vecchietto che, non so come, ha capito che sono italiano, e finire in una piazza con luci esagerate e un bombardamento di musica assordante. La Cina profonda è diversissima da Pechino e Shanghai, qui ancora la presenza dello straniero si nota. Al ristorante i camerieri vengono tranquillamente a fare domande sugli affari miei, i vicini di tavolo brindano volgendo i bicchieri al mio indirizzo e la gente mi dice «hello» per strada. Ordino dei semplici spinaci, ma siccome devono guarnirli per forza, aggiungono noccioline e peperoncino. Compro un sacchetto di litchi da una vecchietta. Per facilitare la comunicazione, lei fa un movimento della mano. Solo che i numeri sono gestualmente diversi dai nostri e non ricordo più se quelle dita riunite verso l’alto indichino il sette o il nove. Mollo dieci yuan e prendo il resto. Erano sette. In treno da Mudanjiang a Yanji provo a scrivere, ma tutti sbirciano. Un laowai, un forestiero, che tira fuori il computer in treno è molto, ma molto più interessante di una qualsiasi studentessa cinese. In treno ci sono sia i controllori – che sono anche inservienti e uomini delle pulizie – sia la polizia e, come al solito, l’unico che viene controllato sono io. Approccio standard: «Buongiorno, dove va? Di che Paese è? Posso vedere il suo passaporto?». E ancora: «Lei parla il cinese veramente bene! È solo? Se ha bisogno di qualcosa, chieda pure». Credo si tratti più di un’esibizione del
xìnyòngkaˇ carta di credito
rìjì diario
hóngjia¯o peperoncino rosso
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proprio savoir faire con gli stranieri piuttosto che di una reale volontà di controllo. I sedili sono pensati per il cinese medio, adatti alle gambe corte. Io non so dove mettere le mie. In compenso le spalliere sono abbastanza alte rispetto allo stacco del sedile da terra. La guida si chiama Zhang Qian, viene a prendermi in stazione con un cartello. C’è scritto il mio nome cinese: Chen Ying. Andiamo a Chang Bai Shan, la montagna sempre bianca a metà tra Cina e Corea del Nord, un massiccio vulcanico con tanto di lago in cima, cascate e acque calde termali. La gita è tipicamente cinese: un susseguirsi di tappe forzate e di tempi calcolati al millesimo, con Zhang che strilla come un’aquila per richiamare tutti all’ordine, farci scendere dal pullman o risalire. In tutta la giornata percorriamo solo poche centinaia di metri, quelli che portano a una specie di belvedere sulle cascate, senza possibilità di procedere oltre. Provo a uscire dal sentiero pavimentato, ma vengo sgridato aspramente da un guardiano. La cosa peggiore è che il solerte Zhang si sente anche in dovere di fare l’intrattenitore sul pullman e urla in un microfono per interminabili ore, a volte canta pure, sia all’andata sia al ritorno. Provo fastidio, ma tutti gli altri hanno l’aria di aspettarsi proprio quel tipo di animazione. Credo che lo faccia per contratto e ha un’energia incredibile. Sul minibus che mi porta da Yanji alla stazione di Hedong, le donne parlano coreano e il bigliettaio pure. Zhang Qian mi ha affidato a Yue Yue, una ragazzina che guadagna così qualche yuan mentre impara l’in-
glese. Sarebbe meglio parlare in cinese, ma l’assecondo per non offenderla. Poi, sul minibus, si addormenta. Ventuno ore di treno. Che la Cina avesse bisogno di infrastrutture si sapeva. Ma adesso lo sperimento sulla mia pelle. Per fare tre, forse quattrocento chilometri in linea d’aria ci vogliono ventuno ore. La campagna che vedo dal finestrino è verde e rigogliosa, sembra la Pianura Padana quando si approssima alle colline dell’Oltrepò. Prati e dossi, qua e là intervallati da villaggi per nulla degradati, anche se ci sono ovunque tracce di una vecchia industrializzazione mal pensata. Passeggio lungo il fiume Yalu, a Dandong, dove migliaia di cinesi se la spassano felici nelle tipiche attività all’aria aperta di tutti i parchi del Celeste Impero: suonano, cantano, giocano a scacchi e májiàng, la dama cinese, fanno volare gli aquiloni, mangiano. Degli anziani mi invitano sotto una pagoda dove, a turno, si esibiscono nelle arie dell’Opera di Pechino. Più in là, altri arzilli vecchietti suonano strumenti a percussione tradizionali in una drum session scatenata. Ce n’è uno, piccolo e magro, che dà il ritmo mentre pesta senza requie su un enorme tamburo e ci salta intorno. Gronda sudore ma va avanti per un quarto d’ora. Si ferma giusto per una sigaretta e poi riattacca come prima. La Zhongguo Guoji Luxing She, l’agenzia viaggi di Stato, organizza comitive di turisti per andare dall’altra parte, in Corea del Nord. Il gentilissimo impiegato, («Chiamami Jackie»), mi dice che il viaggio standard prevede tre notti. Per il visto bisogna darsi da fare una settimana prima. «Puoi andarci anche da solo ma costa di più. Ti consi-
Fabbrica addio
glio di rivolgerti a questa agenzia di Pechino, è di una mia amica, qui organizziamo comitive di cinesi». «Che cosa mi lasciano fotografare?», chiedo. «A Pyongyang anche la gente, ti consiglio invece di non fare scatti dal treno. Ai turisti cinesi spesso alla frontiera controllano le foto. A voi no». «Ma se volessi unirmi a una di queste comitive cinesi?». «Temo non sia possibile, vai a Pechino dalla mia amica». Esce all’improvviso da dietro un albero, mi tira un sasso che però cade in acqua abbastanza lontano dalla barca. Non saprò mai se avesse intenzione di prendermi sul serio.
«Bie paizhao (non fotografare)», urla il barcaiolo mentre sto cercando di scattare la seconda. È questo il momento più teso del mio weekend con vista sul Paese dei reietti, la Corea del Nord. I soldati sono sbucati fuori dal terrapieno a 15 metri da noi, nel punto più vicino alla rete che divide il loro Paese dalla Cina. Il barcaiolo cinese mi ordina di fotografare solo «Zhong Guo (la Cina)» alla nostra destra. La Corea del Nord è meglio lasciarla perdere. C’è un “non detto” in questo luogo, il monte della Tigre, pochi chilometri fuori Dandong. Ufficialmente si viene a visitare la parte più orientale della Grande Muraglia, costruita da un imperatore Ming e orgoglio della nazione, nonostante sia stata inadatta a fermare le invasioni come tutti gli altri suoi spezzoni sparsi per la Cina e le altre grandi muraglie in giro per il mondo, dalla Maginot al Vallo di Adriano. Di fatto, la gente viene qui per buttare un occhio dall’altra parte, in Corea del Nord, pochi metri più in là. La torre in alto sul colle è un perfetto belvedere sul regno di Kim Jong-il, sui campi coltivati al di là della recinzione.
Ciminiere di mattoni rossi, ovunque. Il tratto fondamentale del paesaggio del Nordest cinese sono i resti dell'industrializzazione che fu. Lì c'era il carbone, la benzina da mettere nel motore dello sviluppo, e le tre province del Dongbei furono i luoghi prescelti per trascinare la Cina nella modernità. Quando negli anni Ottanta il baricentro della crescita si è spostato a sud, nelle Zone di sviluppo speciale volute da Deng Xiaoping, l'industria pesante del Nordest è entrata in crisi. La ristrutturazione delle grandi industrie di Stato, voluta dal premier Zhu Rongji nel 1997, ha lasciato in eredità a questi luoghi almeno un quarto dei 30-40 milioni di esuberi che hanno devastato la vecchia classe operaia del Dragone. Il primo tentativo di porvi rimedio è stato il “progetto del fiume Tumen”, una zona di libero scambio tra Cina, Mongolia, Russia, le due Coree e il Giappone, patrocinata dal programma di sviluppo delle Nazioni Unite, che ha prodotto molti disastri ambientali e poco sviluppo. A partire dal 2003, le autorità cinesi hanno fatto da sé, lanciando la “rivitalizzazione del Nordest”, figlia del progetto di “società armoniosa” voluta dal presidente Hu Jintao e dal premier Wen Jiabao: grandi spese infrastrutturali, diversificazione industriale, finanziamenti al settore privato, turismo e istruzione. E il Nordest ha ricominciato a camminare. Non senza contraddizioni, valga per tutti il disastro ecologico per la fuoriuscita di petrolio che proprio un anno fa ha devastato il mare di Dalian, capoluogo del Liaoning e una delle maggiori località turistiche cinesi. Oggi, a ricordare sessant'anni di industrializzazione accelerata e piena di contrasti restano quelle ciminiere di mattoni rossi.
chàhù bollitore del tè
chuán barca
Cháoxia¯n Corea del Nord
zhàoxiàngjı¯ fotocamera
E se scendi lungo il torrente che alimenta il fiume Yalu, la Corea è lì, a dieci metri, la tocchi quasi. Sei qui per la Muraglia, ci mancherebbe, ma i cinesi ti forniscono tutto l’occorrente per guardare in direzione opposta: binocoli, barche, un sentiero – una mezza strada ferrata tra le rocce – che conduce a una pagoda a strapiombo sul fiume. Qui, è possibile ripararsi da sole o pioggia mentre in completo relax si stringe l’inquadratura su contadini, soldati e contadini-soldato che stanno qualche metro più in là. Se arriva qualche sassata però è colpa tua. Loro, i cinesi, te l’avevano detto di concentrarti sulla Grande Muraglia. Di nuovo a Dandong. Non sarà una guerra o qualche mossa politica americana a battere Kim Jong-il. Sarà il lavoro ai fianchi, instancabile, di qualche centinaio di migliaia di cinesi dall’altra parte del fiume, che ogni giorno, sbattono in faccia l’opulenza della nuova Cina ai dirimpettai. Di qui, miliardi di neon e lampadine, di là il buio. Di qui, il frastuono del parco, di là il silenzio. In mezzo, la cortina di ferro nel cuore dell'Asia è una sorta di Disneyland per turisti. Coppie di sposini con tanto di abito bianco si fanno immortalare sullo sfondo del tetro stabilimento che sta sull’altra riva e del nuovo ponte dell’Amicizia. Di fianco c’è il moncone di quello vecchio, per percorrerlo si paga e arriva fino a metà guado. Fu bombardato
e distrutto dagli americani. Ora è un monumento inquadrato dalle Nikon e dalle Canon del nuovo ceto medio cinese, sfondo di un ritratto in cui esibire abiti tipici coreani che si possono noleggiare in loco. Per i cinesi nuovi e vecchi, quelli dall’altra parte del fiume sono semplicemente pazzi. O scimmie in gabbia da guardare con il binocolo, a modico prezzo. Eppure sono Paesi fratelli, se non fosse che da questa parte “arricchirsi è glorioso”.
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un atto rivoluzionario
pìpol di
Gino&Michele
foto Olivia Parker [gallery stock]
La democrazia. Ci si accorge che c’è davvero quando improvvisamente, magari senza preavviso apparente, la gente decide di cambiare. Votando finalmente come te. Allora la democrazia ti sembra la cosa più bella e importante del mondo. E lo è naturalmente comunque. Ma quel giorno lo è di più… *** È un testo che ha 2.500 anni. È il discorso di Pericle agli ateniesi (461 avanti Cristo), citato in La guerra del Peloponneso di Tucidide. “Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così. (…) Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso. Qui ad Atene noi facciamo così. (…) ”. Andate a cercarlo su internet, è attualissimo. È stato letto in piazza del Duomo a Milano nelle manifestazioni a sostegno del sindaco Giuliano Pisapia. *** Secondo fonti storiche attendibili provenienti da archivi britannici e sovietici, l’Olocausto provocò la scomparsa di un totale che va dai 13 ai 19 milioni di esseri umani. Sei milioni di ebrei, dai tre ai sei milioni di slavi, dai due ai quattro milioni di prigionieri di guerra, un milione e mezzo di prigionieri politici, dai duecento agli ottocentomila tra rom e sinti, quasi trecentomila portatori di handicap, molte decine di migliaia di omosessuali, duemila Testimoni di Geova. *** “Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”. George Orwell. *** José Martí, il più grande poeta cubano, è vissuto nell’Ottocento. La celeberrima canzone Guantanamera (la contadina di Guantanamo), si basa su una sua poesia. Martí scrisse anche questi versi importanti: “Cultivo una rosa blanca/en junio como enero/para el amigo sincero/que me da su mano franca./ Y para el cruel que me arranca/el corazón con que vivo,/cardo ni ortiga cultivo;/cultivo la rosa blanca”. (“Coltivo una rosa bianca in giugno come in gennaio per l’amico sincero che mi porge la sua mano franca. E per chi mi fa soffrire e mi stanca questo mio cuore per cui vivo, non coltivo né cardi né ortiche: coltivo la rosa bianca”). *** “Se puniamo ogni comandante che si comporta da stupido, non ce ne resta uno sopra il grado di centurione!”. Gracco in Spartacus
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il capitale di
Niccolò Mancini
foto Massimo [emblema]
Viegi
che brutta borsa Il lento inesorabile declino che sembra travolgere l’Italia a livello economico e culturale ha sempre più evidenti riscontri anche in ambito finanziario dove la marginalità del nostro Paese non è opinione di “pochi comunisti” per dirla con il premier, ma è testimoniata da alcuni inequivocabili numeri che mostrano la fotografia di un Paese in forte difficoltà. Se sono cronaca quotidiana la carenza di infrastrutture, la fuga dei cervelli, la scarsità di ricerca, l’erosione o l’assenza del risparmio, meno si parla del giudizio impietoso sul sistema Italia che arriva dai mercati finanziari dove la marginalità del nostro Paese si traduce in perdite, o nella migliore delle ipotesi minori guadagni, per chi decide di investire nelle azioni o nelle obbligazioni delle società italiane. E sono proprio i titoli di Stato, forse la forma di investimento più diffusa tra i risparmiatori, a dare la misura della nostra débâcle, come stanno a testimoniare i rendimenti vicini al 5 per cento sui titoli con scadenza a dieci anni, un interesse che il nostro Stato è costretto a riconoscere per invogliare all’acquisto gli investitori rispetto al 3 per cento circa che invece possono permettersi di offrire Germania, Francia, Olanda, Gran Bretagna e i Paesi del Nord Europa. E come ben sappiamo, la spesa per interessi pesa, e molto, sui conti dello Stato, al punto che a breve il governo dovrà varare una manovra di almeno 40 miliardi di euro per cercare di rimettere i conti in carreggiata con buona pace di chi ipotizza fantasiosi tagli delle tasse. Se dalle obbligazioni statali il giudizio è impietoso, se possibile ancora peggiore è la sentenza di piazza Affari che da dieci anni a questa parte risulta essere la borsa peggiore tra quelle dei Paesi industrializzati con una perdita costante di capitalizzazione. A poco sono serviti i tre scudi fiscali varati da Giulio Tremonti che hanno visto rientrare, “ripuliti”, nel nostro Paese circa 150 miliardi di euro, che hanno evidentemente trovato altre forme di investimento alternative ai mercati finanziari. Anche nel caso delle borse i numeri sono impietosi e ci dicono che dal 2000 a oggi piazza Affari perde quasi il 60 per cento contro il progresso di quasi il 2 per cento della Germania e il calo di circa il 10 per cento dello Standard & Poor’s 500, il principale indice americano.
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vittime
Cessate il fuoco a cura di
Antonio Marafioti foto Ammar Awad [reuters/contrasto]
Siria
Il 25 maggio agenti vicini al presidente Bashar alAssad hanno riconsegnato il corpo del tredicenne Hamza Ali al-Khateeb alla sua famiglia. Secondo le ricostruzioni della vicenda il giovane sarebbe stato arrestato dalle forze di sicurezza siriane a Jiza, un villaggio vicino Dar’a, il 29 aprile scorso. Da allora si erano perse le sue tracce, fino alla riconsegna del cadavere che presentava diversi segni di violenza sul corpo. In un video pubblicato su internet una voce fuori campo illustra le sevizie inflitte sul corpo di Hamza che testimoniano una fine brutale: il volto viola con evidenti tumefazioni, incisioni su tutto il corpo, ustioni profonde e ferite di arma da fuoco che, secondo le prime analisi, non avrebbero causato subito la morte del ragazzo. Questo particolare convaliderebbe l’ipotesi della tortura. La voce narrante del video ha evidenziato anche la rottura del collo, delle mascelle e delle ginocchia e l’amputazione del pene. La fine di Hamza, già rinominato “il martire bambino”, ha scatenato ulteriori manifestazioni di rabbia nei confronti di Assad.
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Etiopia
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Libia Algeria Etiopia Somalia Sudan Uganda Nigeria Rep. Centrafricana Costa d’Avorio
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Un gruppo di ribelli etiopi dell’Ogaden National Liberation Front (Onlf) ha accusato l’esercito di Addis Abeba di aver ucciso oltre cento civili nel corso di un’operazione militare durata dal 10 al 15 maggio. In un comunicato diramato pochi giorni dopo, l’Onlf ha fatto sapere che “l’esercito etiope, insieme ai suoi coscritti locali, ha sparato a vista sui civili tra Fiq e Dagabur, nella valle del Fafan”. Le rivendicazioni del gruppo ribelle non possono essere verificate in modo indipendente a causa del divieto imposto ai giornalisti stranieri di entrare nella regione. I funzionari governativi hanno respinto gli addebiti e accusato a loro volta i ribelli di voler creare allarme nella regione.
Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dall’11 maggio al 10 giugno, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi. Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.peacereporter.net
Yemen
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Yemen
L’11 maggio le forze di sicurezza yemenite hanno ucciso nove persone e ne hanno ferite oltre cento, durante una manifestazione pacifica che si stava svolgendo nella capitale Sana’a. La folla – diecimila yemeniti – stava raggiungendo la sede del Consiglio dei ministri per chiedere le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, al potere da trentatré anni, ed è stata presa di mira dai cecchini della guardia repubblicana appostati sui palazzi vicini all’edificio governativo. Il 3 giugno il presidente Saleh è sfuggito a un tentativo di omicidio dopo che il palazzo presidenziale è stato bombardato con proiettili di artiglieria pesante.
Pakistan
Sono almeno 78 le vittime accertate di una giornata di violenze nel distretto montuoso del Dir, nella regione di Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan. Il 2 giugno un commando di circa trecento talebani ha attaccato la caserma dell’esercito a Shaltalo, provocando la morte di ventisette militari e sei civili coinvolti nella battaglia. Il vice ispettore generale di polizia, Jameel Qazi, ha reso noto che durante l’attacco i miliziani indossavano le divise delle truppe Nato e degli eserciti afgano e pakistano. Dopo essere penetrati all’interno del perimetro della caserma, i ribelli avrebbero aperto il fuoco con armi di grosso calibro e sparato granate a razzo provocando, fra l’altro la distruzione di una scuola. Nel corso della controffensiva gli uomini in divisa hanno ucciso quarantacinque miliziani.
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.eu di
Stefano Squarcina
italiche fobie Fa rabbia a tristezza vedere un Paese del G8 che si rifiuta di promuovere e proteggere i diritti civili dei propri cittadini, che decide di non conformarsi agli standard più elevati in termini di diritti fondamentali codificati in convenzioni internazionali, ignorando in tal modo anche i valori di riferimento dell’Unione europea. Questo Paese è l’Italia, dove i partiti di maggioranza hanno affossato per l’ennesima volta una proposta di modifica del codice penale, presentata dalla deputata Paola Concia, che cercava di introdurre l’aggravante di omofobia per i reati commessi a scopo discriminatorio e, di fatto, a carattere razzista. Tra i valori fondanti dell’Unione europea, esplicitamente contenuti nel Trattato di Lisbona e nella Carta Ue dei Diritti Fondamentali, parte integrante della legislazione europea, c’è il divieto di discriminazione basato sull’orientamento sessuale delle persone, rafforzato da varie risoluzioni del Parlamento europeo. Lo stesso fa la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, rafforzata dal Protocollo n.12 della stessa, per non parlare del Comitato dei ministri, dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa o del Congresso delle autorità locali che in diverse decisioni e raccomandazioni hanno chiesto alle autorità pubbliche degli Stati membri di prendere misure urgenti e adeguate per combattere l’omofobia in Europa. «L’omofobia è una flagrante violazione della dignità umana ed è incompatibile con i principi dell’Unione», ha detto la vicepresidente della Commissione europea, Viviane Reding, in occasione del 17 maggio, Giornata mondiale contro l’omofobia, la quale ha anche affermato che «purtroppo, ancora oggi, gay, lesbiche, bisessuali e transgender (Lgbt) in alcuni Paesi europei sono troppo spesso vittime di esclusione, intolleranza, atti di odio e di reati a sfondo razzista». L’Italia è da tempo sotto osservazione per il preoccupante e squallido aumento di attacchi omofobi, alcuni di gravità inaudita, che chiedono un intervento urgente del legislatore per proteggere l’integrità fisica, morale e psicologica delle vittime. Siamo un Paese dove si può insultare, molestare o pestare una persona Lgbt, senza che questa si possa appellare all’aggravante dell’omofobia. Nulla a che fare con la civiltà del diritto della quale i nostri legislatori sarebbero i custodi.
E
aria di festa polis di
Enrico Bertolino
foto Mauro [lapresse]
Scrobogna
Che si stia vivendo un momento storico lo dicono i fatti: la sinistra che vince, Bersani che sorride, il premier che non ci riesce più senza mostrare almeno quindici rughe. Milano nella mani di un signore gentile e timido, ma molto determinato; Napoli nelle mani di un signore determinato e forte ma altrettanto gentile; a Cagliari un trentacinquenne sindaco. E poi anche i referendum. Insomma ce n’è abbastanza per restare a bocca aperta, come davanti a un arcobaleno, a una cascata o a un’alba sui monti. La gente, che pareva quasi narcotizzata dall’indifferenza, è tornata a pensare e, cosa ancor più importante, a non tenersi più opinioni e pensieri solo per sé, ma a esternarli, se necessario anche in piazza e soprattutto civilmente. La vera festa non è dunque nelle sedi dei partiti, anche perché lì dentro la gente non ci entra più da tempo, ma nelle case, nei bar e ritrovi e persino nei capannelli improvvisati agli angoli delle strade. Il vento nuovo di cui si parla tanto non spira certo nelle buie sale congressi degli alberghi, dove a sinistra ci si ingegna per cavalcare la vittoria mentre a destra non ci si rassegna a commentare una sconfitta. Un motto calcistico dice: “Chi vince festeggia, chi perde si giustifica”, ed ecco che scatta l’eccezione. Nel centrodestra ci si assolve, (come spesso accade anche davanti alla giustizia), come se la sconfitta fosse di altri, come se i candidati sindaci si fossero scelti e proposti da soli; insomma, in poche parole le ultime elezioni amministrative non sono mai esistite, e invece di dare un “in bocca al lupo” ai neoeletti, si manda un bell’anatema ai cittadini. Li avete voluti? Speriamo che non vi capiti niente di brutto. A questo punto manca solo la catena di Sant’Antonio. “Caro elettore del centrosinistra, questa lettera potrebbe portarle sfortuna”. Anni fa tale Veltroni Walter ne ricevette una e non ne mandò dieci copie ai compagni di partito – Dario Franceschini, Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Enrico Letta – e oggi si ritrova a scrivere libri e a partecipare ai congressi. Scherzi a parte, ora dopo aver giustamente festeggiato, dopo essersi impegnati per sostenere la causa in cui si crede e per difendere il diritto dei cittadini a partecipare alla vita di un Paese che è anche e soprattutto il nostro Paese, è tempo di buttare le bottiglie vuote negli appositi raccoglitori della differenziata per il vetro (dando così un primo importante segnale di cambiamento), di riporre i paramenti arancioni, le bandiere, i fischietti e le vuvuzelas. È tempo di ricominciare a pensare a voce alta, di aiutare i neosindaci con i propri comportamenti (la vecchia e mai troppo rimpianta educazione civica ). Solo così l’aria di festa che ha risvegliato una sinistra dormiente potrà diventare una brezza costante e non rimanere una semplice corrente (nel meteo è sempre proveniente dai Balcani, per cui un po’ comunista) che, come sappiamo noi di una certa età, quando la senti ti dà sollievo, ma il giorno dopo rimani bloccato. E star lì immobili per altri diciassette anni per un colpo d’aria fresca sarebbe un vero peccato.
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un fisico bestiale di
Bruno Giorgini
foto Ivo Saglietti [zeitenspiegel/prospekt]
Il massacro di Srebrenica è la foto con cui Ivo Saglietti ha vinto il terzo premio nella sezione Contemporary Issues del World Press Photo 2011. Racconta il fotografo: «Ogni anno a Srebrenica si svolge una cerimonia durante la quale vengono restituiti alle famiglie i resti delle vittime del massacro in cui nel 1995 morirono più di ottomila musulmani bosniaci. Ho visto queste due figure bianche, madre e figlia, in mezzo a una marea di bare: è uno scatto che racconta tutto. Per ironia della sorte questa foto non è mai stata pubblicata. Misteri del mondo editoriale. Ma poco importa. Io voglio continuare a raccontare storie. Le mie storie».
geometrie di distruzione Scrive Simone Weil: “La geometria è figlia della rivolta operaia”. Frase misteriosa e chiara insieme. A Rijeka (Fiume) nel 1991 l’oscurità è totale. Nel golfo le navi da guerra dell’armata jugoslava, l’esercito che fu di Tito contro i nazisti, puntano i cannoni contro la città ribelle. Le distanze al buio si deformano, per andare a Opatija (Abbazia) pochi chilometri diventano infiniti. Sono scomparsi anche i ristoranti, finché una lama di luce compare sotto una porta, si viene accolti in una stanza dove il cibo viene offerto, ma per dormire non se ne parla, conversare ancor meno, tutti tacciono. Ma il giorno non illumina, il corso principale è livido, corto, stretto, claustrofobico, impaurito, non ci passa anima viva con le vetrine vuote. Nel ’94 i confini sono del tutto incerti, i posti di blocco sorgono improvvisi, Slovenia, Croazia, Bosnia, chi spara a chi, ma soprattutto chi sbarra la strada a chi. Un percorso sulla carta di pochi chilometri diventa tortuoso, la linea retta, regina della geometria euclidea, si annichila una geometria contorta con qualche filo spinato dove è meglio non impigliarsi. La stanza è senza finestre, tu ti muovi guardingo, rasenti i muri, parli a bassa voce, il tuono sarà tuono o colpo di cannone. Invece di camminare in avanti, rinculi sempre all’indietro, non osi voltare le spalle. Mostar, 1996. Sulla Neretva dove c’era un ponte che non è più. A pranzo con un colonnello americano. Il colonnello non vuole saperne di Mostar. Racconta che ogni settimana prende l’aereo, atterra alla base di Vicenza, e poi va a visitare le “bellezze italiane”, la torre di Pisa, il Duomo di Milano, Verona con la scala di Giulietta e Romeo, Venezia dove affitta una gondola. «Sa sono texano, e senza la guerra queste bellezze d’arte non avrei mai potuto vederle, costa troppo venire in Europa da civile. La geometria delle città d’arte, che vuoi che sia, ci metto un’ora o poco più». A Sarajevo la geometria dei palazzi, l’urbanistica squarciata, una stanza bruciata qua, un’altra là, enormi buchi neri, intorno alcune finestre intoccate, non sono stati i colpi di obice, ma i vicini nella pulizia etnica, un appartamento viene invaso e saccheggiato – gli abitanti scacciati, se non uccisi – e poi dato alle fiamme. Nei giardinetti pullulano le croci, i morti non si potevano seppellire al cimitero, troppo pericoloso arrivarci. Fin dal tempo antico comprendere significa geometrizzare, ma Dario, giornalista croato che ha studiato a Bologna, seduto alla solita trattoria sulla Neretva, dice, quasi disperato: «Non so, non so come sia potuto succedere, pensa che alla sera seduti qui eravamo certi che non potesse arrivare la guerra da noi mostarini, in pace l’un l’altro da secoli, i più colti e tolleranti, invece… Invece alle cinque del mattino mi sono svegliato sotto le bombe, scappando in mutande. Stavo a Mostar est, la parte della città cristiano croata, e sono corso qui in Mostar ovest, che dicono musulmana ma è solo bosniaca. Perché?».
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Fotografia di Elisabeth Cosimi
AFGANISTAN, Lashkar-gah / Il Centro chirurgico per vittime di guerra di Lashkar-gah offre cure gratuite e di elevata qualità alla popolazione della regione di Helmand.
EMERGENCY è un’organizzazione indipendente. Se esistiamo dipende anche da te. Sostieni i nostri ospedali, i medici e gli infermieri che da 17 anni offrono cure alle vittime della guerra, delle mine antiuomo e della povertà. Fai una donazione online su www.emergency.it o un versamento sul c/c postale n° 28426203 intestato a EMERGENCY ONG ONLUS. Dal 1994 EMERGENCY ha impiegato nei suoi programmi umanitari almeno il 90% dei fondi raccolti, curando oltre 4 milioni e mezzo di persone in 16 paesi.
EMERGENCY
w w w. e m e r g e n c y. i t
I fantasmi di
Andrea Camilleri
illustrazioni
Shout
Queste pagine Pubblichiamo l’ultimo capitolo del racconto inedito di Andrea Camilleri. Se vi siete persi i primi, li trovate sul sito www.e-ilmensile.it. Buona lettura.
Andrea Camilleri È nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925. Dall’età di 24 anni ha lavorato come regista e sceneggiatore per il teatro e la tv. Dal 1977, per vent’anni, ha insegnato regia all’Accademia nazionale di arte drammatica. Nel ‘78 l’esordio nella narrativa, ma è nel 1992 con La stagione della caccia (Sellerio) che diventa un autore di successo. Nel 2010 ha ricevuto il Premio letterario Piero Chiara alla carriera, l’ultimo di una serie.
quattro Quello stisso doppopranzo il sindaco tinni ’na confirenza stampa. Spiegò che l’eminenti esorcista don Agazio Palinferro, che s’attrovava a Montelusa per il caso dei fantasmi, aviva voluto vidiri nelle prime matinate a Turi Persica e già dal primo esami si era fatto pirsuaso che Turi non era posseduto da un demonio, ma che si trattava di un caso di delirium tremens dovuto all’eccesso di vino. Pertanto Turi era stato arricovirato in una clinica palermitana per disintossicarisi. Le cose stavano a ’sto punto quanno il quarantino rapprisintanti di comercio Anastasio Consatore, che almeno tri volte alla simana sinni partiva per Palermo coll’urtimo treno delle novi di sira, arrivò tardo alla stazioni. Il treno sinni era già ghiuto da tri minuti. E non c’erano cchiù corse. Era amico del capostazione e quello, per acconsolarlo, lo ’nvitò a la sò casa a vivirisi un bicchieri di vino. I bicchieri addivintaro dù buttiglie. Anastasio tornò da sò mogliere che era mezzannotti passata. Raprì il portoni e sintì che il cori gli cadiva ’n terra. Aviva davanti a un fantasma della categoria tradizionali, quella col linzolo. Fici ’na gran vociata e sinni scappò pisciannosi d’incoddro. Fatti ducento metri si firmò. Lui e sò mogliere Virginia, che aviva vintisei anni ed era ’na vera biddrizza, bitavano da suli in una palazzina in vicolo dell’Annunziata. Gli vinni un sospetto tirribili. E se il fantasma era arrinisciuto ad approfittarisi di sò mogliere, povira ’nnucenti nelle mani di un mostro che ne avrebbi potuto fari quello che voliva? Armatosi di coraggio, tornò narrè. Del fantasma manco l’ùmmira, sempri che i fantasmi abbiano l’ùmmira. Il portoni era ristato aperto. Chiusa era inveci la porta di casa. Tentò di rapriri con la chiavi ma c’era il paletto. «Cu è?», spiò la voci scantatissima di Virginia. «Anastasio sugnu». Virginia gli raprì, completamenti nuda e gli si ghittò trimanti tra le vrazza. «Maria, che scanto che mi pigliai! Un fantasma, spuntato ’mproviso dintra alla nostra cammara di letto, mi voliva fari fari la cosa!». Anastasio aggiarniò. «Che cosa?». Virginia arrussicò. «La stissa cosa che mi fai fari tu il sabito notti». «Ci arriniscì?». «No, la biata Virgini e tu m’aiutastivu!». «Trasemo dintra e contami come fu». Trasero dintra. «Pirchì non hai la cammisa di notti?». Virginia s’ammostrò miravigliata. Si taliò. Raprì e chiuì la vucca senza diri nenti. Arrussicò novamenti.
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«Aspetta che mi staio arricordanno», disse. «Contami come fu». «Stavo dormenno – fici Virginia – E tutto ’nzemmula m’arrisbigliai pirchì sintivo friddo. Raprii l’occhi e vitti al fantasma ai pedi del letto. Agghiazzai, ’no scanto che non si po’ diri, non potivo manco fari voci. Allura il fantasma s’avvicinò, sollivò la coperta, m’affirrò per un vrazzo e mi fici susiri. Po’, con un colpo sulo, mi sfilò la cammisa di notti. Maria, che vrigogna! Sdisonorata sugno!». «E po’ che capitò?». «Mi… mi… mi vasò!». «Unni?», spiò Anastasio con una speci di ruggito lionino. «Ccà», fici Virginia pudicamenti abbascianno l’occhi e indicanno la minna mancina. «E po’?». «E po’ mi lassò. Forsi dovitti sintiri che tu stavi raprenno il portoni. Scomparse accussì come era vinuto».
I fantasmi
Anastasio Consatore appartiniva all’opposizioni. «Vestiti, mentri io mi cangio i pantaluna ca si vagnaro. Cadii in una pozzanghira». «E unni ghiemo?», spiò Virginia. «Dal giomitra Attanasio».
Shout Alessandro Gottardo è nato a Pordenone nel 1977. Dopo il liceo artistico a Venezia, ha frequentato il corso di illustrazione all’Istituto europeo di design di Milano. Ha vinto diversi premi, in particolare negli Stati Uniti, tra cui le medaglie d’oro e d’argento della Society of Illustrators di New York e la medaglia d’oro della Society of Publication Designers. I suoi lavori sono comparsi su varie testate internazionali tra cui: The New York Times, The Washington Post, Time, The New Yorker, The Economist, Esquire, Le Monde, Guardian.
L’indomani matino a mezzojorno l’opposizioni, nella pirsona del giomitra Attanasio che aviva allato ad Anastasio Consatore, tinni ’na confirenza stampa. Alla quali, per semplici curiosità, annò macari il commissario Bennici. La signora Virginia non era prisenti pirchì aviva la fevri in conseguenzia dello spavento pigliato. Il giomitra disse che nella nuttata era capitato un fatto gravissimo. Un fantasma aviva tintato di usari violenza alla signora Virginia Consatore e sulo il timpistivo, coraggioso ’ntirvento del marito aviva evitato il pejo. Allura il giornalista romano addimannò la parola e principiò: «Ma se i fantasmi non hanno corpo, come avrebbe potuto…». Il giomitra l’interrompì. «La sua osservazione è giusta. Ma vede, io ho detto fantasma per intenderci. Un fantasma non avrebbe potuto prendere per un braccio la signora, denudarla e baciarle la…». «Basta accussì», ’ntirvinni torvolo Anastasio Consatore. Nella testa di tutti i mascoli prisenti passò la stissa pricisa ’ntifica dimanna: che le aviva vasato il fantasma? «Ma se non è un fantasma, allora…», fici il giornalista milanisi. «Allora – disse il giomitra – si tratta di un farabutto che voleva approfittarsi della signora spacciandosi per fantasma. E questo significa che non c’è sicurezza per i cittadini! Significa che questa giunta non è in grado di fronteggiare l’emergenza fantasmi e le sue dirette e indirette conseguenze. Non c’è che una strada da percorrere: le dimissioni immediate del sindaco!». E annò avanti accussì per una mezzorata. Ma ’ntanto il commissario sinni era nisciuto. Aviva sintuto quello che gli ’ntirissava. E si era fatta un’idea precisa. Quella sira stissa Anastasio sinni dovitti partiri per Palermo e Virginia, che si scantava a ristare sula, annò ’n casa di sò soro cchiù granni che era vidova e senza figli. E fu lì che l’annò ad attrovari, alle deci di sira, il commissario Bennici. E quanno accomenzò a parlari con Virginia, vosi che la soro ristasse nella cammara. «Signora, sono vinuto a disturbarla a ora accussì tarda pirchì non volivo che qualichiduno mi vidiva trasire ccà». «A mia la cosa non mi fa né cavudo né friddo! Io fimmina onesta, sugno! E lo sanno tutti!», sclamò, risintuta, Virginia. «Signora, lei forsi non si fa capace che un tintativo di violenza carnali è cosa seria assà e il mio doviri sarebbi stato di convocarla immediatamente in commissariato. Le ho voluto sparagnare tutte le chiacchiere che si sarebbero scatinate». «Grazii – fici sostinuta Virginia – ma io ho contanto già a mè marito e al giomitra Attanasio...». «Ma io, signora mia, ci sono andato alla confirenza stampa! Non è questo che voglio sapiri!». «E che cosa voliti sapiri, allura?». «Lei ci va ’n chiesa?». Virginia strammò, non s’aspittava quella dimanna. «Certo!». «E si confessa con patre Allotta?». «Qualichi volta. Ma mi spiega che ci trase patre Allotta?». «Mi sono sempri spiato pirchì il parrino, doppo aviri stabilito col sinnaco che avrebbi fatto fari ’na missa sullenni e ’na processioni, il jorno doppo cangiò idea». «E arriniscì a darisi ’na risposta?». «Sì. Che qualichiduno annò a confissarisi e a dirigli che non era il caso né di diri la missa né di fari la processioni pirchì il fantasma non era un fantasma». Si taliaro occhi nell’occhi. E allura Virginia disse a sò soro: «Per favori, mi lassi cinco minuti sula col commissario?». Per tanticchia non parlaro, sempri taliannosi. Po’ Virginia si misi a chiangiri.
«Annai a confissarimi con patre Allotta pirchì mi pariva che facenno fari la missa e la processioni io saria caduta in doppio piccato mortali». «Ho capito tutto. Ma pirchì il sò amanti si travistì da fantasma col linzolo?». «L’idea gli vinni doppo che spuntò il fantasma del moschitteri. Accussì potiva viniri a trovarimi di notti senza che nisciuno l’arracconosciva». Ripigliò a chiangiri alla dispirata. «Se vossia l’arresta, succedi ’no scannalo e io sugno consumata, Anastasio mi ghietta fora di casa!». «La cosa si può aggiustari», fici Bennici. «E così il fantasma col lenzuolo scomparirà per sempre. A poco a poco non se ne parlerà più. I giornalisti, non avendo più notizie da dare, se ne ripartiranno... La signora Virginia Consatore mi ha giurato e spergiurato che non vedrà più il suo amante. E del resto l’ho avvertita: se il fantasma sarà visto di nuovo, manderò in galera a tutti e due».
I fantasmi
«Lei è stato bravissimo», disse il questori. «Oltretutto la soluzione resterà sconosciuta e non ci saranno ripercussioni politiche. Ma rimane, come dire, a piede libero il fantasma del moschettiere. E se quello ricompare, siamo daccapo a dodici». «Avrei un’idea», fici Bennici. E gliela disse. Se il punto di partenza per arrivari alla soluzioni del caso del fantasma col linzolo era stato il rifuto di patre Allotta di mantiniri la promissa, il punto di partenza per il primo fantasma era stata ’na dimanna che Bennici si era fatta. «Ma quante sono le pirsone a Vigàta che possono aviri ’n casa un costumi di moschitteri?». E fu proprio la parola costumi a farigli fari la pinsata risolutiva. Quann’è che uno si metti ’n costumi? A Carnivali. Il Carnivali a Vigàta non si fistiggiava strate strate. O almeno, i picciliddri sì. Ma i granni facivano un viglioni in maschira al circolo e basta. Nel doppopranzo annò dal fotografo Agnello che fotografava tutto quello che capitava a Vigàta, matrimoni, vattii, funerali, balli... «Ce l’hai i nigativi dei viglioni di carnivali dell’urtimi cinco anni?». «Sissì». «Stampamilli». «Ma sunno ’na quantità! Chi paga?». «La questura». Li ebbi doppo tri jorni. E sinni stetti tri jorni e tri notti a taliarisi e a ritaliarisi le fotografie. Nisciun costumi di moschitteri. Però il sò occhio di sbirro notò ’na poco di cose. Per esempio che mentre le fimmine cangiavano costume ogni anno, i mascoli si rimittivano lo stisso tutti l’anni. Il sinnaco era sempri vistuto da Zorro, il giomitra Attanasio con una tuta da operaio russo... Sulo il dottori Alessio Marchitella, che era un quarantino scherzevole, allegro e amicionaro, cangiava ogni anno costumi. ’Na vota Napoleoni, ’na vota zuavo papalino, ’na vota bersaglieri... Nell’urtimo carnevali, quello dell’anno passato, il dottori però non compariva in nisciuna fotografia. L’annò ad attrovari nel gabinetto medico. «Perché non partecipò al veglione di carnevale dell’anno scorso?». «La sera avanti mi venne un febbrone da cavallo». «Il costume l’aveva già pronto?». «Naturalmente». «Un costume da moschettiere?». Il dottori si misi a ridiri. «Lo sa che lei è veramente bravo, commissario?». «Una sola domanda: perché se lo mise quella notte?». «Volevo fare uno scherzo a un amico... Poi ci ho preso gusto e me la sono spassata anche col giornalista. E ora come la mettiamo?». «La mettiamo che lei quel costume non se lo mette più. E mi dà la sua parola d’onore». Accussì i fantasmi scomparero da Vigàta. Ma nisciuno seppi che il merito era stato tutto del commissario Bennici.
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decoder di
Violetta Bellocchio
diavolo d’un teenager buen vivir di
Alfredo Somoza
foto Eduardo [ap/lapresse]
Verdugo
estamos hasta la madre!
Il Messico dei Maya, degli Aztechi e della Rivoluzione, una delle più antiche nazioni americane, rischia la dissoluzione. Il crollo del Partito della Rivoluzione, che nel bene e nel male aveva governato il Paese per settant’anni, ha dato vita a una transizione che non riesce a chiudersi e che ha provocato forte instabilità. A questo si sommano le conseguenze dell’adesione al Nafta, insieme a Usa e Canada, nel 1994 che ha generato miseria nelle campagne e una nuova ondata di migrazioni verso le città. In questo Messico in affanno, il narcotraffico, che come fenomeno organizzato nel Paese risale soltanto agli anni Novanta, sta occupando parti importanti del territorio e della vita economica, alimentando una vera e propria guerra allo Stato e tra i messicani. Dal 2006 le vittime dei sicari dei narcos, che spesso ammazzano gente a caso per seminare il terrore, sono stati quarantamila. Una situazione di emergenza che coinvolge anche gli Stati Uniti, Paese verso il quale i narcos esportano eroina, meta-anfetamine e cocaina e dal quale si riforniscono di armi e dove riciclano i soldi sporchi per un valore di 35 miliardi di dollari annui. Lo Stato messicano ha già praticamente dichiarato la resa davanti allo strapotere dei cartelli della droga, ma ora è il tempo della società civile. Un poeta messicano, Javier Sicilia, dopo che suo figlio Juan Francisco è stato ucciso dai narcos, ha scritto una lettera aperta-manifesto rivolta al potere politico dal titolo Estamos hasta la madre! (non ce la facciamo più), che denuncia gli errori del governo nella lotta ai narcos e chiede di debellare la corruzione che lega i criminali alla polizia e ai politici. L’appello di Sicilia ha risvegliato la coscienza di un Paese ammutolito, testimone passivo dello scontro militare. Dall’appello si è passato alla marcia per chiedere, anzitutto ai politici ma anche ai cittadini, di impegnarsi per porre fine al conflitto. Sono partiti in cinquecento da Cuernavaca, 90 chilometri a sud di Città del Messico, nello Stato di Morelos dove nacque Emiliano Zapata nel 1879. Quando la carovana è arrivata allo Zócalo, la piazza centrale della capitale, erano già ottantacinquemila, la più grande manifestazione mai organizzata contro il narcotraffico e le politiche sbagliate del governo per combatterlo. Decine di migliaia di cittadini hanno urlato forte e chiaro “basta” a una guerra che sta eliminando una generazione e dalla quale non se ne esce soltanto con le armi, ma comprendendo le radici dei problemi sociali che spingono i giovani a farsi tentare dal crimine, tagliando ogni collusione tra malavita e Stato e dando protagonismo alla società civile, finora presente nelle cronache soltanto come vittima.
C
Popolare al cinema dagli anni Sessanta in poi, ma già allora un classico della letteratura moralista, il filone adolescenti fuori controllo ha poche regole-chiave. La legge viene infranta senza apparente ragione, però il colpevole ha sempre un volto preciso; se di colpevoli ce n’è più di uno, si cerca la personalità dominante che ha istigato le altre. Il diavolo. Quando un gruppo di ragazzi aggredisce due carabinieri a un posto di blocco fuori Grosseto, il cattivo designato è Matteo Gorelli, 19 anni, operaio. È l’unico maggiorenne, quindi deve essere stato lui a portare tutti a un rave party, deve essere stato lui a tirare il primo pugno, deve essere lui a tacere durante gli interrogatori. Poi però Gorelli cambia professione, passando da operaio a studente: allora diventa un leader in classe e un figlio modello in casa, e non si parla più dell’altra aggressione in cui è stato coinvolto un anno fa. Questa storia non ha bisogno di foschi presagi, ma di un bravo ragazzo colpito da un raptus. Uno che in prigione crolla e chiede perdono. Il caso opposto ci fu a Londra nel 2009, quando Ian Baynham venne ucciso da tre teenager mentre passeggiava con il suo compagno. La capobanda fu trovata in Ruby Thomas, ex allieva di un liceo privato. Lì il diavolo aveva preso la forma di una scolaretta borghese, e quindi depravata e indifferente («Dopo il massacro si è rifatta il trucco! Non ha mai buttato via quelle scarpe macchiate di sangue!»). Poi saltò fuori che lei abitava lontano dai quartieri alti, che aveva dei precedenti pesanti, che suo padre alternava la prigione all’ospedale psichiatrico. Non importa. Per chi raccontò il processo, Thomas rimase sempre “la ragazzaccia della privata”, tanto quanto Gorelli è “il pentito del rave”. Naturalmente per alcuni colpevoli non si fanno tutti questi sforzi. Due settimane prima di Grosseto, quattro giovani romeni ammazzano di botte un uomo a Ventimiglia. Hai detto romeni? Oggi chiudiamo in fretta. Scrivi: «Quattro romeni ubriachi...».
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parola mia di
Patrizia Valduga
la banalità del Dna Molte parole della medicina entrano nell’uso comune, perlopiù banalizzate o sfigurate dall’uso giornalistico. Nel Dna, l’acido nucleico che trasmette i caratteri ereditari, ormai si trova di tutto: libertà, ottimismo, amicizia, gelosia, tradimento, balbuzie, musica, dipendenza da alcol e droga, volontà di smettere di fumare, emicrania, dieta perfetta, violenza... Ho letto che nel Dna di ognuno di noi c’è la moto, e ho letto che c’è anche il non saper guidare; la paura dei ragni è in quello delle donne e la giusta cottura della pasta in quello degli italiani. La guerra è nel Dna dei primati? Non è ancora stato accertato. Però: l’unità è nel Dna della nostra costituzione, la litigiosità è nel Dna della sinistra, la mancanza di rispetto per il Parlamento è nel Dna del centrodestra, la secessione è nel Dna della Lega Nord, il successo è nel Dna dell’Inter, il territorio è nel Dna dei prodotti Dop, la maratona di Sant’Antonio è nel Dna di Padova, il pesto genovese è nel Dna della Liguria… “Chirurgico” (“attinente alla chirurgia” che significa “opera della mano”), attraverso l’abuso della “precisione chirurgica”, adesso è in uso come sinonimo più pregnante di “preciso”: «È una voce come sempre misurata, quasi chirurgica», dice di un letterato un cronista letterario. L’adrenalina è sempre “pura” o “allo stato puro”; film, libri, complessi rock ne fanno grande uso. Riporto questa perla, tra il lapalissiano e il tautologico: «L’adrenalina che sale è un’emozione indimenticabile». Dalla psicoanalisi è arrivata cent’anni fa la parola “rimozione”: tutti dicono di aver rimosso, ma la rimozione è un meccanismo inconscio e chi ha rimosso non può sapere di aver rimosso. Trovo significativo che in pubblicità non ci sia più niente che “tolga” la sporcizia: oggi la si “rimuove”. Non senza raccapriccio, segnalo infine l’uso giovanilistico di “sclerare” e “sclerato”, e auguro loro brevissima vita.
P
Giovani menti di
Alessandra Bonetti
Tv al plasma, letto giapponese, una bella macchina da pagare in ventisette rate e in tasca tre sigarette e quattro euro. Questo è quello che possiede Marcello Zanzini alla vigilia del suo trentesimo compleanno. È il consumismo facile e fragile dei nostri giorni quello che Massimo Cuomo racconta con ironia nel suo romanzo d’esordio, Malcom. Il precariato economico dei lavori con contratto a termine e quello affettivo fatto di colpi di fulmine e facili tradimenti. “Le donne e i capelli cadono, solo gli amici restano”, “Prima di amare gli altri, devi amare te stesso”: massime esistenziali che scorrono sulla schermata di Skype, banalità evanescenti come il giallo in cui si ritrova implicato il giovane Zan, pagine che non sveleremo per il piacere del lettore, ma che avremmo preferito chiudessero il libro, senza quell’happy end tremendamente melò. Una consolazione estranea alle storie di Drugs, antologia di nove scrittori italiani che si confrontano con un unico tema: le dipendenze. Alle droghe, all’alcol, alle sigarette, ai farmaci, alle sostanze dopanti, a tutte quelle stampelle artificiali che ci permettono di tirare avanti. A dar voce alla solitudine, alla paura, all’ansia, all’euforia del vivere contemporaneo non ci sono solo i giovani. C’è una madre che confessa alla figlia di non averla mai voluta, un padre che perde il controllo per uno sciopero dei tabaccai, un vecchio che arrotonda la pensione facendo il corriere della cocaina. Uno spaccato di vita che porta a interrogarsi sul ribaltamento dei ruoli e la mancanza di certezze, eredità che lasciamo ai nostri figli. L’alternativa ce la offre Matched, il primo volume di una saga-tormentone che promette di diventare “il nuovo Twilight”. L’ambientazione è un imprecisato futuro governato da una fantomatica Società che regola e organizza la vita dei cittadini: dal cibo, consegnato a casa secondo i bisogni nutrizionali di ognuno, agli accoppiamenti solo fra persone geneticamente compatibili, alla morte che arriva dolce al compimento degli ottant’anni. A rompere l’ordine, arrivano le domande di una ragazza di diciassette anni che vuole essere libera, anche di sbagliare. Un inno contro l’omologazione per giovani (ma non solo) menti. Massimo Cuomo, Malcom, edizioni e/o, 18 euro, 336 pp. Divier Nelli (a cura), Drugs, Guanda, 16,50 euro, 400 pp. Ally Condie, Matched, Fazi editore, 18,50 euro, 350 pp.
Teatro
di
Simona Spaventa
Una centrale idroelettrica adagiata tra le montagne del Trentino e il lago di Garda. Quasi uno scenario da idillio pubblicitario, se non fosse per la suggestione postmoderna dell’architettura industriale. E, soprattutto, per la programmazione teatrale tutt’altro che consolatoria e accomodante, quanto di più lontano ci sia dal nazionalpopolare che passa in tv. Parliamo della Centrale Fies, a Dro, cuore pulsante di uno dei festival più battaglieri dell’estate italiana, Drodesera (www. centralefies.it). In piedi da trentun anni e, in questi ultimi, diventato una folgorante fucina per le forze più nuove e originali del nostro teatro. Ricerca, anche la più estrema e temeraria, che diventa realtà produttiva, per un festival che osa rischiare. E di questi tempi non è poco. Succederà anche questo luglio con un cartellone dal titolo provocatorio – Caracatastrofe – comun denominatore per ventisette spettacoli nel segno del presente e delle sue inquietudini. Nuove strade da percorrere, ai confini tra teatro, danza e performing art, sono quelle imboccate dai sette gruppi giovani che, da quattro anni, hanno a Dro la loro factory dove sperimentare e che al festival presentano le loro ultime creazioni. A iniziare dagli Anagoor, che ripropongono il loro dittico tecno-visionario sul Giorgione (Rivelazione + Tempesta) per poi debuttare con la prima nazionale di Fortuny, esplorazione teatrale attorno a un altro artista, Mariano Fortuny. Mentre Teatro Sotterraneo indaga la risata nella conferenza-spettacolo Homo ridens, i sempre più lanciati Pathosformel si mettono alla prova con due nuovi studi, entrambi per un unico corpo in scena in rapporto con l’inanimato: un giocatore di basket e la sua palla (An Afternoon Love), il corpo umano e il vento (Alcune primavere cadono d’inverno). Oltre alle ultime frontiere della nuova scena, il festival resta palcoscenico per gruppi già affermati della ricerca. Tornano i Motus, Virgilio Sieni, l’Accademia degli Artefatti che con Gli Orazi e i Curiazi esplora Brecht, e arrivano i Ricci/Forte con una novità su Chuck Palahniuk, Imitation of Death. Sul fronte internazionale, straordinario il lavoro con gli adolescenti dei belgi Ontroerend Goed, che in Teenage Riot portano in scena le inquietudini e il disagio di quindici ragazzi ribelli. Festival Drodesera, Centrale Fies, Dro (Tn), dal 22 al 30 luglio
diend&dna
Libri
Domani
Luci sulla centrale
Rete
Rodrick Rules
Più verde nei computer
Cinema
di
Il tempo delle medie di Barbara
Sorrentini
Greg Heffley frequenta la prima media e racconta sul “giornale di bordo” la sua battaglia quotidiana per sopravvivere a un’età critica e di passaggio. La sua storia è al centro del fenomeno letterario Diario di una schiappa, preceduto soltanto dalla saga di Harry Potter e dove – al posto di maghi, incantesimi e della polverosa scuola di Hogwarts – ci sono ragazzini impacciati, bulletti e smorfiose nel corridoio di un classico campus americano. Nato su un blog di letteratura nel 2004 per opera di Jeff Kinney e cliccato da migliaia di internauti ogni giorno, nel giro di tre anni Diario di una schiappa è stato pubblicato in sei volumi da quaranta Paesi (in Italia da Il Castoro), tradotto in trentacinque lingue e venduto in più di cinquanta milioni di copie. Da un fenomeno di tali proporzioni inevitabile pensare al cinema, tant’è che i film in uscita tra luglio e agosto sono due: Diario di una schiappa e Diario di una schiappa. La legge dei più grandi. Il giovane Greg proviene da una famiglia benestante, ha un fratello maggiore che lo terrorizza con gli scherzi e uno più piccolo che lo priva delle attenzioni materne. Apparentemente non gli manca nulla per essere felice, ma dal suo diario emerge un malessere esistenziale e una crisi d’identità non molto diversa da quella che attraversano i suoi coetanei di tutto il mondo. La vicenda di Greg è una descrizione del passaggio, traumatico, dall’infanzia all’età adulta, quando ci si sente ancora fragili e le aspettative esterne sembrano inarrivabili; quando cambiano il fisico, la voce, gli interessi e non manca un po’ di nostalgia per quando si era piccoli. La sfida del film di Thor Freudenthal è quella di mettere in scena con estrema fedeltà visiva e di contenuto le pagine di un libro scritto a mano e illustrato da vignette stilizzate. Le vignette sottolineano sogni e pensieri, mentre il volto espressivo del giovane attore Zachary Gordon e la voce fuori campo che dipana il racconto autobiografico, compongono la colonna emozionale del film. Il cuore della storia è l’amicizia tra Greg e Rowley, il compagno di classe, pel di carota e cicciottello, che tutti deridono. Anche Greg viene lasciato in disparte e sbeffeggiato dai bulli, ma il suo sguardo superiore invece che vittimistico o, per meglio dire, vittimistico con ironia, rende partecipe chi guarda. Lo spettatore adulto noterà l’assenza di una trama robusta, sostituita da brevi episodi buffi che permettono una maggiore indagine delle infinite sfumature di sentimenti, pensieri e stati d’animo che un’età così enigmatica produce. Diario di una schiappa, dal 27 luglio Diario di una schiappa. La legge dei più grandi, dal 5 agosto
Arturo Di Corinto
Apple e Facebook inquinano. Secondo l’ultimo rapporto di Greenpeace, presentato in occasione della Giornata della Terra 2011, sono ancora troppe le web companies che usano l’energia proveniente dal carbone per il funzionamento dei propri data center. Secondo la ricerca degli ambientalisti, meglio fanno Google e Yahoo, da tempo impegnate a tagliare le emissioni nocive derivanti dall’uso di combustibili fossili. La ricerca ha valutato le compagnie su parametri differenti: uso di energia pulita e di carbone, trasparenza energetica, scelta dei siti e contromisure adottate per mitigare gli effetti dei propri consumi. Secondo Gary Cook di Greenpeace le società dot-com globali devono giocare un ruolo importante nel passaggio a fonti di energia sicure e rinnovabili per evitare disastri come quello di Fukushima, e perché, ha aggiunto, «crediamo che gli utenti dei loro servizi non vogliano contribuire al riscaldamento globale e all’inquinamento da polveri di carbone quando caricano un video o modificano il loro status su Facebook». Il problema ovviamente non è solo usare energia pulita ma offrire servizi energeticamente efficienti, soprattutto nel cloud computing. E comunque non basta. È ora di fare una seria riflessione e mettere in campo alternative sostenibili anche per la produzione e lo smaltimento di tecnologie, soprattutto computer e telefoni cellulari. Si tratta del problema ambientale del futuro. Per produrre un computer occorrono 1.500 litri d’acqua, 22 chili di sostanze tossiche e 240 di petrolio, una sorta di bomba ecologica. Quali sono le alternative? Secondo la studiosa italiana Giovanna Sissa il rimedio consiste in tre “erre”: riduzione, riuso, riciclo. Riduzione del numero di apparecchiature immesse sul mercato, conseguente riutilizzo delle stesse e un corretto riciclo delle componenti. Non è un’utopia. A Roma, la cooperativa Binario Etico se ne occupa da anni. www.binarioetico.it
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Design
Forma e contenuto
Muri di gomme di Raul
Pantaleo
I “mattoni” sono vecchi pneumatici riempiti di terra e servono per costruire scuole in Palestina. Ci sono, a volte, progetti che appassionano per inventiva e intelligenza, ma anche per la capacità di essere simbolo di un futuro possibile e possibilmente migliore. È il caso della scuola primaria realizzata, per conto della onlus Vento di Terra, dal gruppo di giovani architetti milanesi ARCò, nel villaggio beduino Jahalin di Al Khan Al Ahmar, a Gerusalemme est. L’area è situata all’interno dei Territori occupati ed è una di quelle zone che viene spesso isolata dal resto della Cisgiordania. L’istruzione dei minori in questi Paesi è fortemente penalizzata dalle limitazioni di movimento che gli abitanti subiscono ogni giorno. Pensare a un edificio scolastico in un contesto del genere significa sommare a queste difficoltà socio-politiche anche i vincoli in campo edilizio. Esiste in queste zone il divieto assoluto di costruzione per manufatti a carattere permanente; c’è quindi la necessità di utilizzare tecniche costruttive provvisorie. E che siano veloci e semplici. Il gruppo ARCò ha optato per un sistema piuttosto singolare e innovativo utilizzando, appunto, vecchie gomme riempite di terra. Nei Territori i pneumatici usati si trovano facilmente. E hanno diverse qualità: costi contenuti, rapidità di realizzazione, elevate prestazioni statiche e termiche. Le gomme riempite di terra compattata non hanno bisogno di fondamenta; vengono posizionate a file sfalsate come pesanti mattoni fino a comporre le pareti che, intonacate, costituiscono la struttura portante dell’edificio. La scuola delle gomme, con una superficie coperta di 350 metri quadrati, è costata circa centomila euro. Ha iniziato l’attività didattica nel settembre 2009 ospitando cento bambini e bambine della comunità dei beduini tra i sei e gli undici anni. Per il suo alto valore socio-educativo è stata inserita nel programma scolastico del ministero dell’Educazione palestinese. Prima di essere un luogo per i ragazzi Jahalin, questa costruzione è un atto politico per rivendicare il diritto alla dignità e allo studio. È sicuramente una risposta provvisoria, ma dimostra come l’architettura possa essere strumento di crescita sociale. In questo caso un muro di gomme su cui far rimbalzare le discriminazioni e le ingiustizie. www.scuoladigomme.org
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Luisa Zanzani
Architettura
di Claudia
Barana
Considerati tra i venti designer emergenti che contribuiranno a un cambiamento del mondo futuro, Andrea Trimarchi e Simone Farresin – studio FormaFantasma – hanno incentrato la loro ricerca sul ruolo del design e degli oggetti intesi «come mezzi per mettere in discussione l’esistente, creare un dibattito o suggerire una visione utopica». Di conseguenza, gli oggetti non sono presentati come singoli pezzi, ma all’interno di collezioni, impeccabili per la composizione formale, che sviluppano tematiche politiche come l’identità e l’eredità culturale che l’uomo – o la storia – lasciano in un luogo. Le lampade e i contenitori, i vasi o le scope vanno quindi osservati soprattutto per la ricerca che esprimono. Attraverso la reinterpretazione delle forme, l’inconsueto utilizzo di materiali (come le farine e le resine vegetali) o il metodo di produzione che coinvolge artigiani e piccole imprese. In Autarchy (al Zuiderzee Museum di Enkhuizen fino a febbraio 2012) è presentata una nuova comunità rurale in cui si realizzano ciotole e utensili miscelando scarti agricoli e farine, scope raffinate dalle spighe intatte. Nella collezione Botanica (2011), si immagina un mondo antecedente la scoperta del petrolio in cui la sperimentazione dei due designer è rivolta ai polimeri naturali ricavati da resine vegetali o derivati animali, per produrre vasi e lampadari in uno stile, come dicono gli autori, “pre bachelite”. Scenari immaginati in cui il pensiero utopico di nuovi spazi abitati prende concretamente forma attraverso gli oggetti proposti e diviene così un futuro tangibile e possibile. Progetti in cui non si prescinde dall’intreccio storico e geografico. Ne è chiaro esempio Colony, presentato alla Gallery Libby Sellers di Basilea in collaborazione con il Textielmuseum di Tilburg: attraverso la capacità narrativa del tessuto e della decorazione di tre copertearazzi, i due designer riportano alla luce le tracce dell’influenza coloniale italiana nel Nord dell’Africa. www.formafantasma.com
Boccadoro
Giunto alla soglia dei settant’anni Paul Simon continua a stupirci a ogni uscita discografica: dopo il bellissimo Surprise realizzato cinque anni fa assieme a Brian Eno, questo nuovo album vede riunito il songwriter americano con il suo storico produttore Phil Ramone che ancora una volta allestisce ambienti sonori caldi e confortevoli intorno alla voce di Simon, sempre splendida e immune dal passare del tempo. Altrettanto inossidabile sembra essere la sua vena compositiva, che migliora e si affina sempre più intrecciando composizioni che uniscono complessità e naturalezza in maniera inconfondibile. In questo recentissimo So Beautiful or So What Simon distilla tutte le precedenti esperienze discografiche in uno squisito elisir che profuma di Africa, Brasile, America, Blues, Gospel, Folk assieme a molti altri stili diversi che si incontrano all’interno di un suono complessivo delicato, raffinato e sobrio, che va gustato diverse volte per comprenderne appieno la ricchezza espressiva, il cui gusto migliora esponenzialmente a ogni riascolto. Musicisti fidati come Vincent Nguini e Gil Goldstein si mescolano a nomi nuovi come Steve Shehan e Jim Oblon creando un sound intimo e ricco di dettagli mentre le melodie di Simon, sempre più sofisticate e ormai lontanissime dal mondo pop-rock, scorrono insieme a testi che si interrogano in egual misura su mortalità, spiritualità e umanità, sempre viste da una prospettiva laica che lascia spazio al dubbio. Ormai incurante delle classifiche e dei suoni alla moda che impazzano nel suo Paese, Paul Simon è insieme a Randy Newman, Bob Dylan, Joni Mitchell e pochissimi altri, uno degli artisti per il quale la parola “genio” non sia sprecata.
[courtesy of universal music]
Mark Seliger
Paul Simon: So Beautiful or So What (Cd HearMusic/Universal), euro 18,90
La giusta causa
di Carlo
Uscire di casa di Massimo
Rebotti
Ogni sera la scena è la stessa, eppure ogni sera è diversa. «Arriviamo nel pomeriggio con il furgone grande e tutta l’attrezzatura. Alcuni di noi girano per il paese con il megafono per annunciare quello che succederà. Altri montano l’intelaiatura per lo schermo, scaricano l’impianto audio e il proiettore. Quando la sera scende, immancabilmente, ti chiedi se verranno oppure no, se avremo fatto la scelta giusta. Un po’ di apprensione c’è sempre. I primi che si avvicinano sono i bambini. Poi, piano piano, anche gli altri escono di casa. E quando è completamente buio – facciamo spegnere pure i lampioni – le voci si fermano e il film inizia». Elisabetta Antognoni, insieme a Nello Ferrieri, dieci anni fa ha fondato Cinemovel, un progetto che porta il cinema dove non c’è più o non c’è mai stato. All’inizio – e tuttora – la carovana gira per i villaggi e le cittadine africane (Mozambico, Marocco, Senegal, Etiopia): «Siamo in grado di proeittare dovunque». Da qualche anno lo schermo itinerante circola anche per l’Italia e in particolare nei luoghi sottratti alle mafie. «Mi ricordo la prima volta, a Portella della Ginestra. Abbiamo proiettato Placido Rizzotto, presente il regista Pasquale Scimeca, in un casolare confiscato a Cosa Nostra, trasformato in agriturismo e gestito da una cooperativa. È stata una serata incredibile. Vedere i film nei posti in cui determinati fatti si sono svolti ha una grande intensità, te ne accorgi solo quando lo fai». L’idea di portare il cinema, e certi film, nei beni sottratti alle mafie nasce dall’incontro con Libera e le cooperative di Libera Terra: «E funziona, la magia è la stessa che in Africa. L’unica differenza, se vuoi, è che qui le strade sono asfaltate». Libero cinema in Libera Terra è alla sesta edizione. Tutto il mese di luglio tra piazze, masserie, edifici e vigneti sottratti ai clan. Da Galbiate, provincia di Lecco, in una villa appartenuta a una potente famiglia della ’ndrangheta fino alla piazza di Pollica, il paese di Angelo Vassallo, il sindaco ucciso quasi un anno fa perché si opponeva all’aggressione ambientale del Cilento da parte delle cosche. Un percorso di luoghi, pellicole e ospiti scelto con cura per suscitare dibattiti ed emozioni. «Mi ricordo quando abbiamo proiettato I cento passi in Sicilia, alla villa comunale di Corleone. Uno poteva far finta di passare di lì per caso e molti, in effetti, si sono avvicinati allo schermo così. Alla fine del film è esploso un applauso. Liberatorio». www.cinemovel.tv
Claudio Caprara
Musica
Il piccolo genio
la posta del cuore di
Claudio Bisio
cuore@e-ilmensile.it
Anna Cola Susanna Teodoro
illustrazione
Caro Claudio, ci sono bambine che sognano l’abito bianco e un matrimonio da principessa fin da piccole, io non ero così, sono cresciuta sentendomi chiamare maschiaccio, anzi, è quella parola che è cresciuta con me, fino a trasformarsi nella parola “lesbica” che ho sempre portato con orgoglio. Però adesso le cose sono cambiate, dopo un’adolescenza piuttosto turbolenta e protratta fin oltre il lecito, finalmente “ho messo la testa a posto”, ho incontrato una donna meravigliosa, viviamo insieme e a tutti gli effetti siamo una famiglia. È da un po’ ormai che mi ritrovo a immaginarmela in abito bianco, mia dolcissima meringona, che si commuove mentre ci scambiamo gli anelli. Sogni a occhi aperti che purtroppo sono destinati a rimanere tali, perché lo Stato italiano non riconosce la nostra unione. Mi sono sentita ferita e offesa dalle parole di Giovanardi sulle (non) famiglie omosessuali, di fronte a un tale grado di inciviltà, ignoranza, e mi pare anche gratuita e semplice cattiveria, viene voglia di mollare tutto e andarsene in un Paese più civile, dove potremmo avere gli stessi diritti degli altri e formare una famiglia riconosciuta anche dalla legge. Poi però mi ritornano in mente le parole della mia maestra, che ai bambini delle elementari insegnava quale fortuna immeritata fosse nascere in un Paese libero (bene o male...) senza dover patire la fame o la guerra. Ho letto nello scorso numero della difficile situazione degli omosessuali in Uganda, penso alle lesbiche stuprate in Sud Africa e, finalmente, mi ricordo che i diritti vanno conquistati, nel nostro caso bisogna farlo con la visibilità, mostrando al pio Giovanardi e a tutti quelli come lui, quanti siamo e quanto siamo più forti delle loro parole d’odio. Laura A. P.S. ti sarei molto grata se questa mia letterina un po’ sciocca e un po’ no potesse essere pubblicata nel numero che andrà in edicola prima del Gay pride europeo di sabato 11 giugno. Grazie. Ovviamente e purtroppo la richiesta di Laura di essere pubblicata nel numero di giugno non ha potuto essere esaudita a causa dei tempi del mensile. Quando ci è arrivata la sua mail, il numero di giugno
era già chiuso. Mentre scrivo, il Gay pride di Roma ancora non si è svolto, ma sono sicuro che ci andrà un sacco di gente (me lo auguro) e che anche quello aiuterà a far cambiare il vento. Quando leggerete queste mie righe ci saranno anche già stati i referendum. Ecco, mai come questa volta scrivere con alcune settimane di anticipo sull’uscita della rivista mi pesa. Mi sento, ora, già nel passato. Questo vuol dire che sono tempi (finalmente) in cui soffia davvero un vento nuovo, e quando il vento parte non è che lo fa con grazia, con dei refoli prevedibili e calcolabili. No. Se ne sbatte dei metereologi, dei filosofi, dei politologi. Lui soffia, spinge, si insinua, incalza… a volte devasta. Ecco, dopo tanti anni di calma piatta, di bonaccia (e pensando ai gusti di alcuni nostri politici mai termine fu più appropriato) ora è tutto un risvegliarsi, un ribollire, un tumultuare. Davvero mi sembra di essere tornato indietro di un paio di decenni (forse tre). La serata in piazza Duomo di venerdì 27 maggio, con la sua pioggia devastante (mi si è pure allagata la cantina) ma che ci ha anche regalato un doppio arcobaleno e, soprattutto, la giornata del 30 maggio rimarranno nei nostri cuori per molto tempo. E quelle lunghe ore trascorse nella piazza centrale di Milano, al di là del valore politico, per molti di noi sono state un’occasione per rivedersi, conoscersi, riconoscersi. Ho visto davvero tanta bella gente, tante facce sorridenti, persino i vigili mi sembravano non solo urbani, ma anche più simpatici. Ecco, sono sicuro che l’11 giugno a Roma sarà (stato) altrettanto gioioso, allegro e importante, alla faccia dei parlamentari che in commissione hanno bocciato la proposta di legge contro l’omofobia presentata da Paola Concia. Per finire vorrei pubblicare un estratto della bella lettera di Benedetta che ricorda Vittorio Arrigoni. Claudio Il cuore, quello che si usa quando si deve perdonare gli altri, accettare le differenze, rinunciare a qualcosa di nostro, andare incontro al diverso... beh mi pare passato di moda! Ultimamente vedo solo il tripudio dell’egocentrismo, del cinismo, dell’indifferenza... tutte cose che con il cuore poco c’entrano. Una su tutte, che mi ha colpito tragicamente, il titolo di Libero sulla morte di Vittorio Arrigoni: “Lasciatelo là!”. Per ritrovare il cuore bisognerebbe fare come diceva lui: RESTIAMO UMANI
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Benedetta
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Cure gratuite ambulanti Kamel, 27 anni, partito dalla Tunisia, arrivato a Lampedusa e trasferito a Manduria, spera di avere un futuro in Europa. Faouzi, ventinovenne di Djerba, è a Manduria con il sogno di raggiungere l’Australia perché «parlo meglio l’inglese del francese e il cambio dinaro/ dollaro australiano è più favorevole». E poi i cittadini macedoni che abitano il campo nomadi di Arpinova e i lavoratori stagionali nel foggiano, arrivati in Puglia per la raccolta nei campi: sono questi i migranti che abbiamo curato con i nostri ambulatori mobili in Puglia, a Manduria e nell’area di Foggia. Nonostante si tratti di un diritto sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ribadito dalla nostra Costituzione, anche nel nostro Paese l’accesso alle cure per migranti, stranieri e poveri rimane spesso un principio espresso sulla carta che non sempre non trova applicazione nei fatti. I motivi sono tanti: la scarsa conoscenza dei propri diritti, la paura di essere denunciati se non provvisti del permesso di soggiorno,
di
Cecilia Strada
l’incomprensione della lingua, la difficoltà nel muoversi all’interno di un sistema sanitario complesso, il costo di alcune prestazioni sanitarie. È proprio partendo da questa doppia necessità – garantire a tutti l’accesso alle cure e ribadire con le nostre azioni i principi fondamentali della convivenza tra persone: uguaglianza, giustizia, solidarietà – che Emergency ha avviato il “Programma Italia”. Abbiamo iniziato nel 2006, aprendo a Palermo un Poliambulatorio per migranti e persone in situazione di bisogno, ne abbiamo aperto un secondo a Marghera (Venezia) nel dicembre 2010, e ora proseguiamo il nostro impegno con due ambulatori mobili, i Polibus. “Questo” e “Quello” – così abbiamo chiamato i nostri ambulatori mobili – sono due veicoli di 12 metri di lunghezza suddivisi in quattro aree, tre delle quali adibite ad ambulatorio e una a sala d’attesa. Gli ambulatori mobili nascono da una considerazione semplice: esistono zone, come le aree agricole, i campi nomadi
o i campi profughi, dove i bisogni sono concentrati e temporanei, spesso legati ai ritmi del lavoro stagionale. Si tratta di situazioni isolate, piccoli microcosmi emarginati, in cui, alla distanza fisica dalle città e dai centri di assistenza medica, si aggiungono le barriere linguistiche, la scarsa conoscenza del territorio, delle norme e dei propri diritti, i pregiudizi. Gli ambulatori mobili di Emergency intervengono in queste realtà per portare assistenza sanitaria – gratuita, come in tutte le nostre strutture – laddove ce n’è bisogno, in maniera tempestiva e efficace. Ad aprile, uno dei due Polibus è stato operativo nelle vicinanze del campo di Manduria, che ospitava circa 1.500 profughi arrivati da Lampedusa nel mese di marzo. Un medico, un infermiere e una mediatrice culturale di Emergency hanno visitato più di 110 pazienti, riscontrando principalmente patologie da raffreddamento, infezioni cutanee e piccole lesioni. Oltre a questi problemi fisici tutti i pazienti visitati lamentavano difficoltà psicologiche. Ovvi i motivi: un viaggio pericoloso dall’altra sponda del Mediterraneo, le precarie condizioni di vita e l’ancor più grande incertezza sul proprio futuro. L’intervento è terminato quando, a fine aprile, tutti i migranti avevano lasciato il campo di Manduria. Tra maggio e giugno l’ambulatorio mobile si è spostato nei dintorni di Foggia, dove è forte la presenza di migranti stagionali arrivati per la raccolta agricola. Siamo stati nei dintorni di Rignano e Cerignola, dove abbiamo visitato migranti provenienti da Senegal, Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea, Ghana, Nigeria e altri Paesi africani, e nel campo nomadi di Arpinova, un insediamento abitato principalmente da cittadini macedoni. Ogni giorno circa trenta persone – per la maggior parte intorno ai trent’anni di età e affette da patologie muscolo-scheletriche e cutanee – sono venute da noi per farsi visitare, attirati dal pullman rosso e bianco (difficile non notarlo) e rassicurati dalle parole di chi nei giorni precedenti era stato visitato da noi: «All’ambulatorio di Emergency ti trattano con rispetto e ti curano gratis». Dovrebbe essere questa la normalità, per tutti.
U
127
di
Gino Strada
illustrazione di Michael
Sowa
e la chiamano antipolitica Dopo le elezioni amministrative, i referendum. Buone notizie, la signora Italia resta sempre in rianimazione ma mostra segni di miglioramento, forse la nuova terapia lascia qualche speranza. Il farmaco non è nuovo, ma non se ne è mai fatto grande uso: si chiama “No-party”. Aumenta la convinzione che “se davvero si vuole che qualcosa cambi” bisogna darsi da fare a prescindere da quello che pensano o propongono i partiti politici. «Questa è antipolitica», sentenzierebbe qualche inossidabile politico “democratico”, qualcosa di assolutamente negativo, roba da rabbrividire. Mi confesso uno strenuo sostenitore e, per quanto mi è possibile, un militante dell’antipolitica. Perché provo un ripudio totale – roba da Articolo 11 della Costituzione, per capirci – per la politica così come ce l’ha fatta vedere, oltreché proposta, la casta che ha governato l’Italia – ogni tanto dandosi il cambio – negli ultimi decenni. Se “quella” è la politica, non posso che essere con l’antipolitica, non posso che sostenere qualsiasi cosa vada in direzione contraria. Se l’agire collettivo di tante persone – singoli individui, associazioni, mondo del volontariato, della cultura, della scienza e dell’arte – diventa sempre di più autonomo dai partiti, c’è la possibilità di riuscire a cambiare. Non si tratta banalmente di essere “contro i partiti”, è sufficiente lasciarli nel loro brodo, fare come se non esistessero. Occorre costruire iniziative ed elaborare proposte in modo libero: poi se qualche partito avrà commenti o critiche, fatti suoi. Quando i cittadini possono esprimersi, riemerge un’Italia diversa. Sei per il divorzio? Sei per il nucleare? Sei perché lo sporcaccione debba continuare a restare impunito, nonostante sia un delinquente abituale? Le risposte arrivano nette e inequivocabili. E questo dovrebbe spronarci a porre altre domande. Come vorrebbe il popolo italiano che venissero spesi i soldi delle proprie tasse? I fedeli servitori dello Stato che ci amministrano e rappresentano (ruolo per cui sono pagati più di dieci volte lo stipendio medio di un lavoratore italiano) hanno a disposizione un bel gruzzolo che deriva dalle tasse di noi cittadini. Non è poca roba, stiamo parlando di circa un miliardo di euro al giorno. E che cosa ne fanno? Non avrebbe senso chiedere consiglio ai cittadini, sapere come la pensano? I partiti se ne guardano bene, ma questo non significa che non si potrebbe fare. Sarebbe un “gioco” molto interessante: distribuire a tutte le famiglie italiane un piccolo foglio sul quale indicare pochi numeri: che percentuale delle tasse si vorrebbero dedicate all’istruzione, ai costi della burocrazia e della politica, alla sanità e all’ambiente, alla cultura e alle spese militari, e via discorrendo. Un gioco facile, dove il totale deve essere sempre cento, il cento per cento delle nostre tasse. E se si richiedesse a gran voce di rispettare quella “volontà popolare”, la signora Italia avrebbe la possibilità di fare un altro passo verso la guarigione.
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per inciso
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