E il mensile novembre 2011

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E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO V - N°11- NOVEMBRE 2011 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

Indignati.Marx.Vietnam.Natalia Aspesi.Vandana Shiva NOVEMBRE 2011

Vietnam/La guerra infinita Natalia Aspesi si racconta Il Gange di Vandana Shiva

E-IL MENSILE NOVEMBRE 2011 • EURO 4,00

hanno scritto: Enrico Bertolino Carlo Boccadoro Roberta Carlini Margherita Dean Giulio Giorello Niccolò Mancini Alberto Riva Cecilia Strada hanno fotografato e illustrato: Franco Brambilla Giulio Di Sturco Zhang Lin Hai David Alan Harvey Emmanuel Pierrot Laila Pozzo Livio Senigalliesi Van Sac

Indignarsi è giusto



l’editoriale

debitore insolvente Questo mese mettiamo insieme gli indignados con gli ospedali psichiatrici giudiziari, con i paesini abbandonati, con il Gange e con la guerra del Vietnam, di cui dirà meglio di me il direttore più avanti. Che cosa hanno in comune tra di loro tutte queste parti del mondo, queste storie, queste atrocità? Ce lo spiega, pensate un po’, il vecchio Carlo Marx, riscoperto dagli economisti di ogni filone. Il comune denominatore è – proprio come spiegava Marx – il profitto. O meglio quella malsana idea, anzi ideologia, secondo la quale tutto al profitto si deve piegare. Al profitto di pochi, (l’un per cento, dicono gli indignati) costruito sulla pelle, come dice la nostra copertina, del restante 99 per cento del mondo. E tenuto ben stretto, per nulla redistribuito. Questo comune denominatore spiega la crisi economica (ricchezza non redistribuita uguale stagnazione), spiega la crisi ecologica di cui il Gange è simbolo, spiega il furore con cui si fanno le guerre che, come ci dice il Vietnam, non finiscono quando cessa il fuoco. Questo comune denominatore però spiega solo in parte come mai le persone, i cittadini (ma esistono ancora, les citoyens?) non vedono, non sentono e per questo non parlano. Non si accorgono di cose banali, come questa, che quasi nessuno ha fatto notare a proposito del metodo occidentale di affrontare la crisi economica: i tagli allo stato sociale (scuola, sanità, pensioni...) per poter salvare le banche e la finanza. Dobbiamo pagare i debiti, dicono. In realtà i governi e gli Stati occidentali stanno scegliendo quali debiti pagare e quali no. Stanno cioè attuando quella che in termini legali si chiama “bancarotta preferenziale”. Un reato penale che prevede cinque anni di reclusione come pena. Perché, dice Wikipedia, lede principalmente la par condicio creditorum, ossia quella particolare forma concorsuale che il fallimento prevede a garanzia della totalità dei creditori. Perché anche le Costituzioni, che sono contratti sociali, sono debiti. Anche i soldi dei contributi per le pensioni, delle tasse per i servizi da erogare (scuola, sanità, trasporti...), sono debiti. Ma questi debiti, le istituzioni occidentali, hanno scelto di non pagarli. Per questo continuiamo a pensare che indignarsi sia giusto. E alle questioni di ordine pubblico, che in Italia hanno preso il sopravvento (cronache e commenti su www.peacereporter.net), applicherei una riflessione del nostro Nicola Sessa: «Il bersaglio non è un solo governo e gli indignados, per definizione, non possono e non devono sopportare il cappello di alcun partito. Magari, un giorno scopriremo che un corteo silenzioso, sobrio, senza musica e alcol spaventerebbe maggiormente i vampiri che ci guardano dall’alto». Del resto, se in tutto il mondo si è consapevoli dei limiti della cosiddetta democrazia rappresentativa occidentale (questo dicono gli indignados, ovunque), come potrebbe essere diverso qui, dove è sempre più evidente il suo clamoroso fallimento in ogni angolo delle istituzioni e da qualunque lato si provi a guardare i vari emicicli? A differenza del resto del mondo, in Italia c’è questo. E c’è la disperazione di poter cambiare le cose derivata da sessantacinque anni di immobilismo politico. Per questo in molti si sentono consapevolmente, volontariamente, al di fuori, esclusi da questo modello. Per questo continuiamo ostinatamente a credere che ci sia molto bisogno di buona informazione. Anzi, di informazione. Perché c’è bisogno di ricostruire diritti. E questo, senza polemica ma con affetto, lo diciamo a quei pochi che ancora non hanno capito perché diavolo Emergency abbia sentito il bisogno di fare un giornale: perché cura persone. E le persone si curano costruendo diritti. Maso Notarianni


in questo numero 5 le storie indignate Ricominciare, in Grecia di Margherita Dean

Modello “15 Maggio” di Federica Sasso

Hip hop ribelle di Luciana De Michele

Siamo maggioranza di Gabriella Saba

Un esercito per la pace di Fiammetta Martegani

This is the time di Federica Sasso foto di Reed Young

12 il revival

Tutti a casa di Karl Marx, ovviamente. Cui guardano in tanti – persino vescovi e uomini di finanza – perché aveva capito come sarebbe andata a finire (e forse anche come uscire dalla crisi)

51 il dossier

110 il racconto

La guerra infinita Avviso ai lettori: queste immagini, scattate da Livio Senigalliesi, vi turberanno. Mostrano gli effetti dell’agent orange in Vietnam, dicono che c’è una guerra silenziosa che continua a passare sui corpi e sulle vite a distanza di cinquant’anni. Accanto, le testimonianze dei veterani americani che a E raccontano che non è mai finita neanche per loro, e la mappa dei Vietnam di domani che si chiamano Bosnia, Falluja e Gaza

di Alberto Riva illustrato da Franco Brambilla

Senza fine, dappertutto di Gianni Mura foto di Doan Cong Tinh e Van Sac

Gli anni del Vietnam di Antonio Marafioti

di Roberta Carlini

Arancio indelebile

14 il reportage

Il soldato ignaro

Ore di paese In Alta Irpinia per scoprire perché l’Italia conta tanti borghi abbandonati e come ci si potrebbe tornare. Con un paesologo e poeta a far da Virgilio di Luciano Del Sette foto di Gianluca Cecere

26 l’incontro

Regina di cuori Ovvero Natalia Aspesi, giornalista di scintillante intelligenza e lunga esperienza di mondo, autrice di una posta imperdibile in cui bacchetta, consola e fa pensare di Fabrizio Ravelli foto di Laila Pozzo

34 il fumetto

Utopia Olivetti Storia dell’ingegnere che credeva fosse possibile coniugare industria e cultura, produzione e bellezza. Cominciando da Ivrea scritto da Marco Peroni disegnato da Riccardo Cecchetti

44 le cronache

Fuori dal diritto Millecinquecento persone sono detenute nei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani. Oggi il Parlamento ha deciso che chiuderanno di Egle Mugno foto di Gianluca Pulcini

foto e testo di Livio Senigalliesi di Antonio Marafioti

Ho perso l’innocenza di Antonio Marafioti foto di Vo Anh Khanh

Tutti i Vietnam di domani di Alberto Tundo foto di Doan Cong Tinh e Duong Thanh Phong

80 il portfolio

Su quelle sponde Quelle del Gange, dove c’è l’essenza dell’India e dove si leggono tutti i rischi del futuro. Perché il fiume è stato avvelenato dagli scarichi e strozzato dalle dighe. Per questo, spiega Vandana Shiva, il movimento per salvare il Gange può salvare l’India foto di Giulio Di Sturco con un testo di Vandana Shiva

98 il viaggio

Dietro le ramblas Il capostipite è stato, naturalmente, Vázquez Montalbán con il suo Pepe Carvalho. Ma Barcellona è generosa con gli scrittori e regala strade, luoghi e atmosfere noir. Ben lo sanno Alicia Giménez-Bartlett, Marc Pastor, Francisco Gonzáles Ledesma di Michele Primi foto di Mattia Insolera

L’uomo della cucina Le quattro di notte, un rumore di cucchiaino che sbatte contro la tazza. Sarà un opossum. No, è qualcuno che ha nostalgia di casa

120 domani

Rete di Arturo Di Corinto Design di Claudia Barana Cinema di Barbara Sorrentini Libri di Alessandra Bonetti Documentario di Matteo Scanni

La giusta causa di Massimo Rebotti Musica di Carlo Boccadoro Teatro di Simona Spaventa

126 le pagine

di Emergency

le rubriche 24 Spiriti liberi di Giulio Giorello 25 Lessi di Neri Marcorè 42 Televasioni di Flavio Soriga 46 Mad in Italy di Gianni Mura 78 Polis di Enrico Bertolino 79 Il capitale di Niccolò Mancini 104 Un fisico bestiale

di Bruno Giorgini

106 .eu di Stefano Squarcina 108 Pìpol di Gino&Michele 109 Decoder di Violetta Bellocchio 118 Buen vivir di Alfredo Somoza 119 Parola mia

di Patrizia Valduga

124 La posta del cuore

di Claudio Bisio

il nostro osservatorio 40 Buone nuove 48 L’Italia è una Repubblica

fondata sul lavoro

76 Cessate il fuoco 96 Casa dolce casa

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in copertina foto di Emmanuel Dunand [afp/getty images]



con noi Antonio Marafioti Roberta Carlini

E - IL MENSILE NOVEMBRE 2011

www.e-ilmensile.it Direttore responsabile Gianni Mura Condirettore Maso Notarianni Art director Federico Mininni Caporedattori Angelo Miotto ◆ Assunta Sarlo Redattori Gabriele Battaglia ◆ Christian Elia ◆ Luca Galassi

Alessandro Grandi ◆ Antonio Marafioti ◆ Enrico Piovesana Valentina Redaelli ◆ Nicola Sessa Stella Spinelli ◆ Alberto Tundo Photoeditor Marta Posani ◆ Germana Lavagna Videoeditor Claudia Pozzoli Segreteria di redazione Silvina Grippaldi ◆ Elena Recalcati Hanno collaborato Khaled Abdullah Ali Al Mahdi ◆ Claudia Barana ◆ Massimo Basili ◆ Violetta Bellocchio ◆ Enrico Bertolino ◆ Claudio Bisio ◆Carlo Boccadoro ◆ Alessandra Bonetti Franco Brambilla ◆ Vito Calabretta ◆ Roberta Carlini ◆ Casa delle donne per non subire violenza Bologna ◆ Riccardo Cecchetti ◆ Gianluca Cecere ◆ Anna Cola Luciana De Michele ◆ Margherita Dean ◆ Luciano Del Sette ◆ Arturo Di Corinto Giulio Di Sturco ◆ Emmanuel Dunand ◆ Elfo ◆ Maurizio Galimberti ◆ Gino&Michele Giulio Giorello ◆ Bruno Giorgini ◆ Guido Guarnieri ◆ David Alan Harvey ◆ Mattia Insolera ◆ Von Anh Khanh ◆ Paolo Lezziero ◆ Niccolò Mancini ◆ Neri Marcorè Fiammetta Martegani ◆ Maddalena Masera ◆ Adescalco Marangoni ◆Egle Mugno Annamaria Palo ◆ Marco Peroni ◆ Felix Petruška ◆ Duong Thanh Phong ◆ Emmanuel Pierrot ◆ Laila Pozzo ◆ Michele Primi ◆ Gianluca Pulcini ◆ rassegna.it ◆ Fabrizio Ravelli ◆ Alberto Riva ◆ Sergio Ronchi ◆ Gabriella Saba ◆ Van Sac ◆ Borislav Sajtinac Federica Sasso ◆ Matteo Scanni ◆ Livio Senigalliesi ◆ Vandana Shiva ◆ Alfredo Somoza Flavio Soriga ◆ Barbara Sorrentini ◆ Simona Spaventa ◆ Stefano Squarcina Cecilia Strada ◆ Gino Strada ◆ Supertotto ◆ Dieter Telemans ◆ Susanna Teodoro Doan Cong Tinh ◆ Patrizia Valduga ◆ Mattia Velati ◆ Reed Young ◆ Zhang Lin Hai

Livio Senigalliesi

Fotogiornalista, ha iniziato nei primi anni Ottanta seguendo le lotte operaie e studentesche, l’immigrazione, la lotta alla mafia. La passione per la fotografia intesa come testimonianza l’ha portato in Medio Oriente e Kurdistan durante la guerra del Golfo, nella Berlino della divisione e della riunificazione, a Mosca durante i giorni che sancirono la fine dell’Urss, a Sarajevo durante l’assedio più lungo della storia. Ha seguito il conflitto nell’ex Jugoslavia e documentato le conseguenze di guerre e genocidi in Africa e Sudest asiatico. Negli ultimi anni si è concentrato su due temi: gli immigrati nel Sud Italia e le vittime civili dei conflitti. Suo il reportage dal Vietnam.

Agenzie fotografiche ed editori VII ◆ Afp ◆ Agence Vu ◆ BeccoGiallo ◆ Blob Creative Group ◆ Buenavista ◆ Contrasto Getty Images ◆ Magnum Photos ◆ Reuters ◆ Schoeni Art Gallery ◆ Sergio Bonelli Editore

E - IL MENSILE già PeaceReporter Redazione e amministrazione via Vida, 11 - 20127 Milano - Tel 02 801534 - Fax 02 26809458 segreteria@e-ilmensile.it Edito da Dieci dicembre Scarl via Vida, 11 - 20127 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Presidente Maso Notarianni Amministratore delegato Rosanna Devilla Amministrazione Annalisa Braga Responsabile IT Stanislao Cuzzocrea Concessionaria pubblicità Poster pubblicità & p.r. Srl Sede legale e Direzione commerciale: via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma Sede commerciale: viale Gran Sasso, 2 - 20131 Milano Tel 06 68896911 - Fax 06 58179764 - poster@poster-pr.it Stampa Nuovo Istituto Italiano Arti Grafiche Spa via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Distribuzione M-dis Distribuzione Media Spa via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano - Tel 02 25821 - Fax 02 25825306 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione, via F. Argelati, 35 - 20143 Milano Servizio abbonamenti e arretrati Picomax Srl viale Sondrio, 7 - 20124 Milano Tel 02 77428040 - Fax 02 76340836 Arretrati 8 euro

Nata a Milano, laureata in Architettura, ha ascoltato, visto e vissuto la sua passione totale per la fotografia alla corte dei re e delle regine (Douglas Kirkland, Sarah Moon, Joyce Tenneson). Oggi gira il mondo inseguendo storie ed emozioni da descrivere. Ha ritratto Natalia Aspesi nella sua casa di Milano.

Alle biblioteche carcerarie che ne facciano richiesta verrà attivato un abbonamento omaggio

www.peacereporter.net

Luciano Del Sette

Giornalista, vive e lavora a Roma. Scrive per il manifesto e per il suo settimanale Alias. È autore e conduttore di programmi per Radio3 Rai. Per noi è stato nell’Alta Irpinia.

www.emergency.it

Giornalista freelance, quando non scrive si occupa con continuità di due webmagazine: www.sbilanciamoci.info (ovvero: l’economia com’è e come può essere) e www.ingenere.it (sempre economia, ma anche molto altro, da un punto di vista di genere). Ha pubblicato per Laterza L’economia del noi, storie dall’Italia che condivide, che poi è diventato un blog (www.economiadelnoi.it). Per molti anni ha lavorato al manifesto, di cui è stata vicedirettore fino al 2003. Su E spiega come e perché Marx aveva previsto tutto.

Federica Sasso

Ligure, ma anche un po’ milanese. Giornalista. Ha scritto per Diario e ha collaborato ai video realizzati da Luben Production. Ora vive a Brooklyn e da lì ha lavorato per il programma radio “America24” e come ricercatrice per documentari. Dal 17 settembre ha passato parecchio tempo con i ragazzi di Occupy Wall Street.

Laila Pozzo

Resp. trattamento dati (D. Lgs. 30.06.2003, n.196) Gianni Mura

La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC

Giornalista, classe 1981. Inizia a scrivere nel 2006 per Calabria Ora. Nel 2008, dopo un master in Relazioni internazionali a Milano, si trasferisce a Roma nella redazione di Inter Press Service. Dal luglio 2009 inizia a collaborare con PeaceReporter seguendo soprattutto la politica estera e interna degli Stati Uniti. Qui ha intervistato due veterani del Vietnam e ricostruito gli anni di quella guerra.

Fabrizio Ravelli

Scrive per la Repubblica da una trentina d’anni. Ha fatto cronaca giudiziaria a tempo pieno per otto anni. Poi l’inviato, scegliendo di non specializzarsi, così era molto più vario e divertente il panorama dei fatti e delle persone. Ha scritto per lo più di cronaca italiana, ma anche (malvolentieri) di politica. E poi occasionalmente di esteri, comprese tre guerre: ex Jugoslavia, Kosovo, Iraq. Gli piacciono le storie della gente, e i dubbi più che le certezze. Ha intervistato Natalia Aspesi.

Giulio Di Sturco

Fotografo, 32 anni, vive a Bangkok, in Thailandia. Ha studiato fotografia all’Istituto europeo di design a Roma e ha pubblicato i suoi lavori dal Nord America e dal Sudest asiatico su numerose testate italiane e internazionali. Dal 2008 collabora con alcune delle più importanti organizzazioni umanitarie. Nel 2009 ha vinto il World Press Photo Award nella categoria Arti e intrattenimento e il Sony World Photography Award nella categoria Temi contemporanei. Ha firmato il portfolio sul fiume Gange.

Gianluca Cecere

Napoletano, 42 anni, fotografo. Si muove tra il reportage sociale e la ricerca personale. È rappresentato dall’Agenzia Laif. Ha fotografato i paesi abbandonati dell’Irpinia.


Ricominciare, in Grecia

storia raccolta da

Margherita Dean

Ghiannis Fraghiadakis ha 35 anni ed è insegnante di greco moderno. Durante l’occupazione di piazza Syntagma, ha fatto parte del gruppo che si occupava dei viveri per occupanti e manifestanti.

Ho sempre creduto nella cittadinanza partecipata: ero un ragazzino quando mi attivai nel mio quartiere, qui ad Atene, per salvare un piccolo parco che il Comune voleva cedere ai privati. Io credo che, per cambiare le cose, uno debba prima cambiare se stesso e questo è stato il mio punto di partenza: che senso ha lamentarsi dell’ingiustizia quando non si fa nulla per combatterla? Ho visto, nella mia vita da adulto, la società in cui vivo trasformarsi, assuefarsi e, alla fine, accettare la deriva morale che, in parte, spiega quello che oggi sta succedendo al mio Paese. Lo Stato clientelare, le mazzette, il boom economico: nell’estate del 1999, le spiagge erano piene di persone che giocavano in Borsa. Poche settimane dopo la Borsa crollò. Furono tantissimi a rovinarsi, ma la gente dimentica in fretta. Arrivava l’euro, alle porte c’erano le Olimpiadi e tutti vollero credere che la Grecia fosse fuori dal guado degli ultimi.

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Qualcosa stava cambiando. So di aver nostalgia di quell’Atene che pareva vivere per strada, di quelle abitudini quotidiane che erano piccoli riti preziosi: ritmi più lenti per passeggiare, chiacchierare nelle piazze, bere qualcosa insieme ai vicini di casa, magari incontrati per caso pochi attimi prima. Ecco, tutto questo non c’era più e tutti si erano chiusi nel privato; tra il quieto vivere e l’ignorare volutamente i problemi credo che la distanza sia stata minima. Il risveglio è stato brusco. Choc, spavento, la consapevolezza di una fine senza che ancora fosse, e sia, visibile una prospettiva. Credo, poi, che si sia manifestato un senso di colpa, anche indiretto, per non aver fatto nulla prima, per aver assistito silenti mentre il sistema politico che ha gestito il Paese dal 1985 demoliva ogni senso di moralità democratica. È stato come se ci avessero detto, in tutti questi anni: «Noi governanti abbiamo organizzato cinquantadue feste e ora voi ne pagate le spese». Solo che noi abbiamo partecipato solo a due delle cinquantadue feste. Adesso siamo arrivati a un milione di disoccupati, alla demolizione non solo dello stato sociale ma del settore pubblico nel suo insieme, additato come il grande colpevole. Che dire, allora, di un’economia che non produce più nulla da anni? Quello che, tuttavia, trovo sia il vero problema è la perdita dei diritti: tutti, quelli dei lavoratori, quello alla pensione, alla sanità e all’istruzione pubbliche. Sono questi i motivi per cui, a maggio, mi sono precipitato in piazza Syntagma: «Finalmente qualcosa si muove», ho pensato. Un po’ sospettoso però lo ero: mi sono sempre occupato di politica e l’assemblea popolare fece fatica, inizialmente, a delineare un discorso unitario e, soprattutto, fortemente politico. Eppure, è politica chiedere democrazia diretta, anche se non siamo stati capaci di esigere che cambi la legge elettorale che premia il bipolarismo greco ormai sfinito. È politica chiedere di conoscere tutti i dettagli del debito: cose credo, non innocue, come quanto dobbiamo a chi e da quando. Questi sono esempi, ma era commovente partecipare, ogni sera per più di due mesi, all’assemblea popolare delle piazze di Atene, dei quartieri, di moltissime città in provincia. Pareva che la gente si fosse di nuovo impossessata delle città. Eravamo insieme, uniti nonostante le divergenze. Siamo stati sconfitti: il 29 giugno, il Parlamento ha votato a favore del programma economico a medio termine. Nonostante la nostra lunga protesta in piazza Syntagma. Io credo però che sia il tempo di riprendere la lotta. A Syntagma ma anche, e soprattutto, nei quartieri e ricostruire quella rete di solidarietà che oggi, più che mai, serve a tutti noi.

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Indignados

storia 36 - Ghiannis Fraghiadakis, Atene


storia 37 - Monica Lopez, tra Madrid e New York

Modello “15 Maggio” Ho deciso di venire a New York giovedì 15 settembre alle due di notte. Ho visto che il prezzo del volo corrispondeva esattamente alla cifra che avevo messo da parte, e alle 10 del mattino dopo ero all’aeroporto. Qui c’erano già due amici del comitato audiovisivi del “15 Maggio”, arrivati da Madrid per aiutare a organizzare il centro media del gruppo nato per gestire la manifestazione del 17 settembre. Prima di partire ho chiesto in che cosa consisteva davvero occupare Wall Street, se pensavano che ci sarebbe stata molta gente. Ma nessuno sapeva che cosa sarebbe successo, perciò mi sono detta «ok, vado e poi vediamo». Mi sono laureata in Giornalismo, poi ho fatto un master in Fotogiornalismo per poi rendermi conto che in Spagna è impossibile trovare lavoro. Ad aprile ero pronta a partire per Londra, ma in quei giorni è stato sequestrato in Libia un amico fotogiornalista, Manuel Brabo, così mi sono fermata un po’ più a lungo a Madrid e ho partecipato alle manifestazioni per il

suo rilascio. Proprio in quel periodo sono iniziate le proteste degli indignados. Ricordo benissimo il giorno in cui sono arrivata in piazza Cibeles con addosso la maglietta “Manuel Brabo libero subito”. Pensavo che sarebbe stata la solita manifestazione, invece quando ho visto che lì con me c’erano migliaia e migliaia di persone ho capito che non potevo più partire. Da quando è iniziato l’accampamento in Puerta del Sol sono stata in piazza per tre settimane. Mi sono inserita nella commissione audiovisivi che grazie a internet e ai video in diretta dalla piazza raccontava al mondo cosa stava succedendo. Dopo un mese abbiamo deciso di

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storia raccolta e fotografata da

Federica Sasso


Stati Uniti ci sia qualcuno che inizia ad alzare la voce contro gli squilibri economici è il segno che anche in questo Paese c’è chi riflette e non è soddisfatto. È da lì che nasce l’occupazione. A me non piace l’idea di dormire al freddo; è la mia prima volta a New York e dall’aeroporto sono arrivata direttamente in piazza, senza riuscire a vedere nient’altro. Di sicuro preferirei fare la turista. Ma il modello del 15 Maggio è importante perché è un’ottima strategia per dare visibilità alle nostre richieste. Così, vedendo i ragazzi accampati qui, anche in America la gente si chiederà «ma perché se ne stanno al freddo?». Se qualcuno si ferma e viene a chiedere informazioni possiamo spiegare il nostro punto di vista e magari quella persona tornando a casa lo racconterà ad altri. È un processo lentissimo di cui probabilmente noi non vedremo il risultato, però stiamo continuando a gettare semi. E il 15 ottobre è stata un’altra giornata di grande attività a livello mondiale. L’hanno chiamata “Global Revolution”, una protesta pacifica per chiedere la fine di un sistema capitalistico che non funziona. Stati Uniti e Spagna comunque sono davvero diversi. Per esempio, qui i ragazzi hanno avuto la lucidità di dire «ci accampiamo, ci servirà del cibo, dobbiamo trovare dei soldi». Noi non ci avevamo neanche pensato, mentre loro hanno raccolto subito duemila dollari. Questo descrive bene anche la mentalità di chi vorrebbe essere qui ma, non potendo, contribuisce con una donazione online. In Spagna è stato tutto più improvvisato, con gli abitanti del quartiere che ogni mattina ci portavano cioccolata calda e churros alla Puerta del Sol, ci prestavano le coperte e ci chiedevano di cosa avessimo bisogno. Segnali, tecnologici o tradizionali che siano, che ci ricordano che l’unione fa la forza. Perché alla fine tutto si riduce a questo.

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Indignados

lasciare Puerta del Sol perché l’occupazione non era più necessaria, il movimento aveva messo radici e poteva continuare anche senza accampamento. Ora facciamo un’assemblea generale tutte le domeniche e ogni commissione di lavoro ha la sua assemblea settimanale durante la quale si stabilisce il piano per i giorni a venire. Io continuo a filmare e realizzare servizi che carico sul sito, in pratica sto facendo per il “15M” quello che dovrei fare per una testata giornalistica. A New York sono venuta per dare una mano alla creazione del centro media. Io e i miei colleghi di Madrid siamo attivisti ma anche giornalisti e operatori, così la mattina del 17 settembre abbiamo deciso di trovarci molto presto per preparare le videocamere e l’attrezzatura. Sui siti si leggeva che quel giorno erano attese ventimila persone per l’occupazione di Wall Street, ma in realtà non ce n’erano né ventimila, né diecimila, né mille. C’era pochissima gente. Ci siamo chiesti «e adesso che cosa succede, che facciamo?». Alla fine invece le cose si sono svolte esattamente come in Spagna. Su un’altra scala, perché questo è un Paese diverso, ma i passi sono gli stessi. La notte del 17 mi sembrava di avere dei déjà vu, era uguale alla notte del 15 maggio a Madrid: tutti seduti per terra, con gli occhi sgranati, chiedendosi gli uni gli altri «che cosa dobbiamo fare?». Ci domandano consigli su come gestire un’assemblea e solo così ho capito quanto abbiamo imparato noi spagnoli in questi mesi. Mi rendo conto di tutto il lavoro che dovranno fare qui a Manhattan per strutturare il movimento e far sì che resista oltre l’occupazione. Però stanno reagendo molto bene. Sta nascendo una realtà nuova e non importa quante persone ci siano ogni giorno a Liberty Plaza, il nome con cui è stato ribattezzato Zuccotti Park di Lower Manhattan. Quello che conta è che i mezzi di comunicazione se ne sono accorti e vengono qui raccontare cosa succede. E non si tratta solo di New York: siamo a Wall Street, il centro nevralgico da cui è partita la crisi che conosciamo e che ha rovinato le vite di molti. Il fatto che negli

Monica Lopez ha 25 anni e vive a Madrid, dove si è laureata in Giornalismo. Fa parte del comitato audiovisivi del movimento di indignados che il 15 maggio scorso si è accampato in Puerta del Sol, a Madrid, e che ora continua a tenere alta l’attenzione sulla politica spagnola. A settembre è arrivata a New York per sostenere l’occupazione di Wall Street e condividere con i manifestanti americani l’esperienza del “15 Maggio”.


storia 38 - Malal Almamy Tall, Dakar

Hip hop ribelle Tutti mi chiamano Fou Malade, “pazzo malato”: vi sembrerà una provocazione esagerata, una cosa da rapper, ma la verità è che mi sento portavoce e difensore di tutti i malati mentali. Coloro che, come i rapper, vivono la strada, ai margini della società, senza mescolarsi. Sono venuto al mondo a Saint-Louis trentasette anni fa, ma sono cresciuto a Guediawaye, banlieue di Dakar. A vent’anni la mia passione per il rap è diventata ufficiale. Ho cantato con famosi artisti senegalesi, come Viviane e Youssou N’Dour. Dal 2003 sono usciti tre album, che ho inciso da solo e con il mio gruppo, Bat’haillons Blin-D. Nei miei testi denuncio sempre il disagio sociale, il disinteresse e la corruzione della classe politica senegalese. Parlo anche di malati mentali e detenuti, ma uso l’arma dell’ironia. Il mio pubblico è costituito soprattutto dai giovani delle periferie, tra i quali regna disoccupazione, frustrazione, e, spesso, delinquenza. È nella mia banlieue che ho visto i miei fratelli piccoli diventare criminali e finire in galera. Per questo dal 2005 mi sono impegnato al fianco dei detenuti del carcere di Dakar. Ho organizzato concerti, lavorato sulla formazione musicale e sensibilizzato contro la lunga durata della detenzione preventiva. Quando poi alcuni detenuti sono usciti dalla prigione, li ho seguiti fino a produrre i loro album. In seguito ho proseguito la mia opera nelle scuole, dove ho introdotto l’hip hop come strumento per l’apprendimento. Oggi sono presidente dell’associazione Ghip-hop, (Guediawaye hip hop), che riunisce gli artisti della mia banlieue e promuove iniziative a sfondo sociale. In Senegal si comincia già da un po’ di tempo a parlare delle elezioni del prossimo febbraio: Abdoulaye Wade, il presidente in carica, vuole ricandidarsi per la terza volta, nonostante questa operazione sia anticostituzio-

nale. E intanto carovita e disoccupazione aumentano, i black-out di elettricità sono sempre più frequenti. Il malcontento cresce, i giovani delle periferie iniziano ad agitarsi. Capisco che bisogna fare qualcosa. Il momento giusto arriva un giorno di gennaio. Sono nella mia stanza a canticchiare le parole di una mia canzone – “Voglio trasformare il ghetto in un paradiso... ci riguarda tutti, si perde a non fare nulla” – quando mi capita sottomano il manifesto di “Y’en a marre” (Siamo stufi, in francese), il movimento nato il giorno prima su iniziativa del gruppo rap Keur Gui e del giornalista Fadel Barro. Finito di leggere non ho dubbi, e corro da loro: «Sono dei vostri!». Adesso sono il responsabile artistico di Yem, ho lavorato all’inno del movimento e alla canzone che incita i giovani a iscriversi alle liste elettorali. Ora ne sto elaborando un’altra sul tipo di cittadino senegalese che vorremmo formare: che si indigni e si mobiliti per la difesa dei diritti. Questo è Yem, un movimento popolare, non violento, che oltre all’azione politica si propone di creare un nuovo concetto di cittadinanza attiva. Ho contribuito a fondarlo perché l’idea dei promotori coincideva con la mia convinzione che l’hip hop possa creare coscienza e mobilitare la gente. Lo abbiamo fatto dando la parola ai giovani. Impegnandomi in Yem sto realizzando il mio sogno: far capire che l’hip hop è capace di qualcosa, in un contesto in cui da sempre la figura del rapper è stata relegata in secondo piano, vittima di stereotipi negativi: il vagabondo, il criminale. Benvenuti dunque nella mia follia. Il resto della storia devo ancora scriverla: lo farò nei prossimi mesi, e non certo da solo.

A

storia raccolta da

Luciana De Michele

Malal Almamy Tall, Fou Malade il suo nome d’arte, è un rapper senegalese, cresciuto nella periferia di Dakar. Oggi milita nel collettivo Y’en a marre (Siamo stufi) nato per promuovere la mobilitazione e l’idea di cittadinanza, alla vigilia delle elezioni presidenziali alle quali si presenta, per la terza volta, Abdoulaye Wade.


Siamo maggioranza

storia raccolta da

Gabriella Saba

Francisco Figueroa Cerda è laureato presso l’Università del Cile in Comunicazione sociale, sta per consegnare la tesina per ottenere il titolo di giornalista. Nato a Santiago, vive nell’elegante quartiere di Las Condes. Tra i suoi filosofi politici di riferimento, Gramsci e Lenin. Di Allende ha detto: «È un simbolo di eroismo e democrazia, il rappresentante di un’etica ormai perduta». È attualmente uno dei portavoce del movimento studentesco.

Non so ancora bene cosa farò da grande. Se il giornalista o l’accademico. Ho 24 anni e sono laureato in Comunicazione sociale. Inoltre, da due anni sono vicepresidente della Fech, Federación de Estudiantes Universidad de Chile, quella di cui è presidente Camila Vallejo. A differenza di Camila, io però non sono jotoso (membro della Gioventù comunista), ma faccio parte di un collettivo politico che si chiama Izquierda autónoma: un movimento che cerca di promuovere una riflessione, all’interno della sinistra, per affrontare le nuove condizioni di lotta nel XXI secolo. Il nostro obiettivo è creare un’alternativa politica al governo di destra e alla Concertación, l’alleanza di centrosinistra che ha governato il Paese per vent’anni prima di Sebastián Piñera. Non è che mettiamo in discussione i partiti, però. In realtà, vorremmo diventare noi stessi un partito. Il movimento studentesco ha molte anime e tra quelle ci siamo anche noi. È una grande forza che si preparava da tempo. È stato bello e inaspettato che l’80 per cento dei cileni ci abbia appoggiato, ma a pensarci bene c’erano tutte le condizioni perché le nostre proteste avessero quel consenso. Gli studenti si stavano preparando da tempo. C’erano state altre mobilitazioni nel 2011 e, prima ancora, nel 2006: non hanno portato a niente ma hanno permesso una accumulazione di esperienze che ora possiamo sfruttare. Il fatto è che c’è un gran malessere in Cile e la nostra

lotta per una istruzione equa lo ha interpretato. Questo Paese è ingiusto e il sistema elettorale permette che una minoranza potente abbia una rappresentazione eccessiva. Quanto all’istruzione, sapete che di tutti i fondi investiti nella scuola, otto pesos su dieci vengono sborsati dalle famiglie? E che queste investono circa il 40 per cento del loro budget per pagare i licei e le università ai figli? La maggior parte si indebita per molti anni. Il sistema scolastico è strutturato in modo da escludere la mobilità sociale. Se hai soldi vai nei buoni licei e nelle buone università che ti permettono di accedere a posti di lavoro ben remunerati. Io sono di classe medio-alta e ho avuto la possibilità di frequentare un liceo privato, ma molti cileni non possono farlo. La gente ci ha appoggiato non solo perché questo sistema è iniquo, ma anche perché lo è tutto il resto: basti pensare alla sanità, che ripropone esattamente lo stesso meccanismo di classe. E ci ha appoggiato, anche, perché si è stufata di partiti che funzionano come agenzie di collocamento, che sono dei carrozzoni clientelari. La verità è che il cosiddetto Patto di transizione si è svuotato e adesso bisogna passare a una fase nuova. I nostri padri non hanno avuto la possibilità di protestare, prima perché c’era la dittatura e poi perché, una volta finita quella, è rimasta una sorta di paura ereditata che si è mischiata a uno spaventoso individualismo: l’idea che ognuno poteva farcela da solo, lottando con le sue forze. Sarà per questo che il nostro è uno dei Paesi più infelici dell’America Latina, quello con il più alto numero di malattie psichiatriche. Questo movimento, queste proteste, che hanno portato in piazza fino a duecentomila persone alla volta, hanno fatto sentire meno sola tanta gente che lotta ogni giorno per garantire ai figli una scuola decente, una vita dignitosa e che ha però stipendi inadeguati. Hanno parlato molto, sui giornali, della creatività della protesta: i balletti, i flash mob, le maratone teatrali. Sono stati spontanei per la maggior parte, ma erano anche il modo per lanciare il messaggio che siamo una maggioranza trasversale e non una minoranza legata a un partito o a una parte politica. I partiti, in tutto questo, ci sono entrati ben poco. Alla fine, siamo riusciti a cominciare un dialogo con il governo ma adesso ci troviamo a un punto morto. Data la congiuntura politica, nel breve termine non ci aspettiamo che vengano accolte tutte le nostre richieste (in sintesi, chiediamo la fine del lucro e un’istruzione gratuita e di qualità), ma che si apra un processo che permetta di soddisfarle. Non sarà facile. Ed è per questo che continuiamo a mobilitarci.

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Indignados

storia 39 - Francisco Figueroa Cerda, Santiago del Cile


storia 40 - Yossi Atia, Tel Aviv

Un esercito per la pace storia raccolta da

Fiammetta Martegani

Yossi Atia è nato nel 1979 a Gerusalemme. Dopo i tre anni di servizio militare obbligatorio e un diploma in Cinema presso la Sam Spiegel School, dal 2005 si è trasferito a Tel Aviv, dove insegna Etica e politica del cinema e alterna la sua produzione artistica tra videoart e docufiction.

Ero nell’esercito e mi chiedevo che cosa ci facessi lì. Anche il mio amico Itamar Rose si faceva la stessa domanda. Con il tempo abbiamo capito che la percezione che il nostro Paese ha dei suoi soldati dipende molto dalla rappresentazione mediatica. E abbiamo pensato che con lo stesso linguaggio – quello televisivo – potevamo provare a decostruire tutto il meccanismo ideologico sottostante. Mentre studiavamo Cinema presso la Sam Spiegel School di Gerusalemme, Itamar e io abbiamo iniziato ad andare in giro per le strade di Gerusalemme, Tel Aviv, fino ad arrivare a Tayibe, per realizzare una serie di documentari nei quali non ci limitiamo a fare interviste, ma interagiamo direttamente con i nostri concittadini, quelli che alla fine, attraverso il voto, determinano gli equilibri politici.

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Dopo venticinque cortometraggi insieme, ormai siamo conosciuti come “Yossi e Itamar, la strana coppia”. «Sareste anche simpatici, se non foste di sinistra», ci ha detto una volta un ragazzo durante un incontro in un liceo. Da allora per me l’impegno nelle scuole è diventato una priorità, non soltanto come artista, ma soprattutto come cittadino. Lavorando a stretto contatto con le persone, mi sono reso conto di come io stesso sia il primo a dare per scontati alcuni tratti tipici del nostro “essere israeliani”. E ho capito che per fare un lavoro davvero critico sulla nostra società bisogna provare a “entrarci dentro”, come cerco di fare nei miei documentari. In questa chiave è stato molto interessante sostenere e seguire il movimento nato quest’estate: dalle proteste del “popolo delle tende”, in due mesi, siamo riusciti a organizzare manifestazioni di 450mila persone in tutto il Paese. Su una popolazione di sette milioni e mezzo di abitanti non sono affatto pochi. Mi interessava capire quali sono i diversi volti del movimento, che cosa li spinge veramente a scendere in piazza guidati dal motto “Il popolo esige giustizia sociale”. E perché proprio adesso. Anche grazie al documentario che sto girando, Horrible Bosses, ho scoperto che ognuno è animato da motivazioni diverse: il diritto all’istruzione; l’opposizione alla sempre più massiccia privatizzazione di servizi; qualcuno addirittura confessa di partecipare solo perché «è divertente». Il mio stato d’animo oscilla tra picchi di estremo ottimismo e pessimismo, a seconda dei giorni. Ma va benissimo così, visto che di solito, pensando alla politica israeliana, ho solo pensieri negativi. Qualcosa qui si sta finalmente muovendo. Anzi, siamo di fronte a un grande cambiamento. Per la prima volta il nostro popolo mette al primo posto la “giustizia sociale”, qualunque cosa essa rappresenti, rispetto alla “politica della sicurezza”, che per sessant’anni è stato l’unico vero motore di questa nazione. Finora Israele è rimasto bloccato nell’ombra del suo passato, incapace di progettare il futuro. Siamo sempre stati talmente preoccupati di difenderci “per non morire” che, negli anni, ci siamo dimenticati la pratica del vivere e del convivere: al nostro interno e con i palestinesi. Ho la sensazione che a partire dalla seconda Intifada il nostro esercito, da forza di difesa – “Israeli Defence Forces” – si sia trasformato in “Israeli Revenge Forces”, una sorta di esercito della vendetta, nei confronti della popolazione civile palestinese. Se è giusto, come credo, che l’esercito continui a far parte della nostra memoria collettiva e nazionale, oggi è giunto il momento di fondarne uno nuovo, un “Israeli Peace Forces”: un esercito per la pace. È questa per me la vera urgenza, la base su cui costruire una “giustizia sociale”, che sia davvero per tutti.

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Indignados

storia 41 - Justin Strekal, New York

This is the time storia raccolta da

Federica Sasso foto Reed Young

Justin Strekal, 22 anni, vive a Cleveland, Ohio. Ha collaborato alla campagna elettorale di Barack Obama e lavorato alla Casa Bianca come stagista durante questa presidenza. Si è battuto per la diffusione delle energie alternative in Ohio. A dicembre avrebbe dovuto laurearsi in Scienze politiche e Comunicazione presso la Cleveland State University. Ma le cose non andranno così perché ha deciso di rimandare tutto per accamparsi a Wall Street.

Penso proprio che resterò qui fino al 4 dicembre, a meno che la polizia non riesca a sgomberarci definitivamente. Non sono preoccupato per il freddo. La mia ex ragazza mi ha regalato un cappello caldissimo, nel sacco a pelo ho una coperta in più e se piove o nevica mi copro con qualche sacco della spazzatura. This is the time, è arrivato il momento di fare qualcosa e l’inverno non sarà un ostacolo. Quando ho letto su Adbusters che ci sarebbe stata una manifestazione contro Wall Street, mi sono detto: «È un’ottima idea, se riesco li raggiungo», ma non credevo che l’occupazione sarebbe durata più di tre giorni. Immaginavo che la polizia avrebbe sgomberato la piazza o che solo una decina di persone sarebbero state tanto determinate da accamparsi davvero. Quando avevo quattordici anni, ho partecipato alle manifestazioni contro l’invasione dell’Iraq e, ricordando com’era andata in quell’occasione, dubitavo che ci sarebbe stata una vera e propria occupazione. Però, quando Occupy Wall Street ha superato la soglia della seconda settimana, ho deciso di ritirarmi dai corsi dell’università e venire a New York. Mi sarei dovuto laureare a dicembre ma in America non vedevamo una mobilitazione simile da molto, molto tempo. La stavamo aspettando, e io volevo esserci. Sono cresciuto con una mamma single che ha sempre cercato di rendere il mondo un posto migliore. Ci sono foto in cui lei mi tiene in braccio davanti alla Casa Bianca durante le proteste contro la prima invasione dell’Iraq. Crescendo mi sono interessato sempre più alla politica e alla fine ho deciso di studiarla. In passato ho anche lavorato per Environment Ohio, un’associazione impegnata a promuovere la diffusione di energie rinnovabili, ed ero ai seggi durante le elezioni del 2004 e del 2006, ma questa è decisamente la cosa più radicale che abbia mai fatto. Ed è arrivata al momento giusto. Per undici mesi ho lavorato alla campagna elettorale di Barack Obama e subito dopo la sua elezione sono stato alla Casa Bianca come stagista per altri quattro

mesi. Lì potevo leggere le email che la gente inviava al presidente: “Stanno per sfrattarmi perché non riesco a pagare il mutuo”, “Non riesco a sostenere le spese mediche”, e così via. Ed eravamo solo nel 2009. Oggi la situazione, rispetto ad allora, è peggiorata e le riforme finanziarie approvate non sono sufficienti. La gente non è protetta, le uniche forme di tutela che funzionano davvero sono quelle pensate per le corporation, che a loro volta proteggono i politici finanziando le loro campagne elettorali e promettendo che, se non saranno eletti, potranno riciclarsi come consulenti delle aziende guadagnando cifre enormi. Il presidente è solo una piccola parte del sistema e io, alla fine dei conti, non sono così deluso da Obama. A dirla tutta, non sono rimasto piacevolmente sorpreso ma non mi aspettavo nemmeno che avrebbe cambiato il mondo. Penso che in questo mondo non esistano cause singole ma catene di eventi e mi sembra che Occupy Wall Street stia diventando un pezzo rilevante della nostra realtà. La protesta si sta espandendo in tutto il Paese e, quando sono partito da Cleveland, i miei amici mi hanno detto: «Grazie, stai andando lì anche per noi». I media stanno tentando in tutti i modi di dare una definizione del movimento mettendolo in una bella scatolina con l’etichetta, ma ognuno di noi è qui per ragioni diverse. Secondo me, ci siamo riuniti perché ne abbiamo bisogno. La gente in America ha bisogno di ritrovare una sola voce per dire ai politici che devono prendersi cura di noi. Cercherò di contribuire al movimento in ogni modo, soprattutto provando a comunicare il nostro messaggio in modo positivo. Qui la gente è arrabbiata ma la protesta non è astiosa o pessimista e, se lo diventasse, rischierebbe di estinguersi. Tanto per citare il nostro presidente, dobbiamo ripeterci: «Yes we can», possiamo restare qui e cambiare il mondo.

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Tutti a casa di Karl di

Roberta Carlini

Inteso come Marx, che ora piace ai vescovi e persino a chi maneggia i soldi. Perché sul capitalismo ha visto lungo. Leggere per credere (e capire come uscire dalla crisi) Tempo di crolli, tempo di Marx. Negli uffici della casa editrice angloamericana Verso, punto di riferimento del pensiero radicale e marxista contemporaneo, lo considerano ormai un effetto collaterale dei cicli economici: a intervalli più o meno regolari, in coincidenza delle crisi finanziarie, torna l’interesse per il filosofo di Treviri. «Nel 1998 pubblicammo un’edizione ‘lusso’ del Manifesto di Marx, con introduzione di Eric Hobsbawm, che andò letteralmente a ruba in una libreria di Wall Street e diventò quasi un oggetto cult», racconta Sebastian Budgen, editor della Verso. Ma stavolta, nella crisi con le maiuscole – Grande Recessione, è il suo nome ufficiale – c’è qualcosa di nuovo anche nella riscoperta di Marx. Non solo il fatto che provenga da ambienti inaspettati, come quell’Ubs il cui capo economista ha scritto su Bloomberg: «Diamo a Marx una chance per salvare l’economia mondiale». E neanche solo il fatto che George Magnus, autore di quella frase sorprendente – perché dettata dal quartier generale della finanza mondiale – vada ad aggiungersi a economisti un po’ pentiti e filosofi alla riscossa, a intellettuali e prelati (l’arcivescovo di Monaco dal pulpito ha invocato il diavolo marxista sin dall’inizio della crisi). E non basta nemmeno il fatto che nel nuovo sdoganamento generale si riscoprano addirittura gli amori di Marx, oggetto di un nuovo filone editoriale rosa-rosso che fruga nel cassetto delle lettere tra Karl e Jenny. No, la questione è più seria. «Il punto è: tutti si accorgono che la crisi è sistemica e dunque c’è bisogno di spiegazioni sistemiche», dice Budgen. Famiglie sul lastrico, un’intera generazione a rischio disoccupazione, nuovi poveri in fila per l’assistenza, indignati in piazza, Paesi in vendita, euro ed Europa in tilt... Se qualcuno ancora pensa che questa sia una crisetta passeggera, dovuta all’inceppamento di qualche marchingegno finanziario, si accomodi pure. Per tutti gli altri, ci sono fiumi di pagine che si rifanno ai filoni dell’economia critica: marxiana, keynesiana, post keynesiana. Ma mentre Keynes è stato ripescato, a torto o a ragione, sin dall’inizio della crisi (a ragione, per invocare l’intervento pubblico di fronte ai fallimenti privati; a torto, nell’invenzione di un keynesismo “bancario”, consistente solo nel salvataggio delle banche), la popolarità di Marx fatica un po’ di più a risollevarsi dalle nostre parti. Paradossalmente il marxismo fiorisce molto di più laddove i partiti comunisti e il

movimento operaio sono stati meno forti, a partire dal mondo anglosassone: stranezza sottolineata da Giorgio Cesarale, giovane filosofo marxiano italiano, in una rassegna intitolata Marx sugli scaffali di Barnes & Nobles (pubblicata sull’Almanacco di filosofia 2011 di Micromega). Budgen la spiega così: è successo che «a un movimento comunista più forte hanno fatto seguito reazioni anticomuniste più aggressive, nella cultura e nei media». È in lingua inglese infatti che prevalentemente si scrive su Marx e con Marx oggi: «Libri che spesso acquistano una grande popolarità», spiega Budgen, «anche perché ci sono autori che hanno abbandonato il linguaggio ermetico ‘da mandarini del marxismo’ per usare uno stile più aperto, che mescola semplicità, rigore scientifico e mancanza di arroganza». Un esempio è nei testi di David Harvey, best seller della saggistica e star della rete: il suo corso sul Capitale, messo online gratis nel 2008, è stato scaricato da 250mila persone. E Harvey non si propone un’impresa modesta: vuole spiegare la natura della circolazione del capitale come la medicina fa con quella del sangue in un unico corpo, dice nella premessa al suo ultimo libro, L’enigma del capitale (Feltrinelli 2011). Libro che si è meritato anche una recensione, critica ma rispettosa, sul Financial Times, che ha scritto a proposito del lavoro di Harvey quel che molti, dalle parti del pensiero più ortodosso, pensano del marxismo: l’interpretazione di quel che è andato male è molto più efficace delle proposte sul da farsi. «Marx si sbagliava sul comunismo, ma è stato profetico sul capitalismo», concorda sulla Bbc il filosofo inglese John Gray. «In particolare, ha compreso che quest’ultimo distrugge la sua stessa base sociale, la classe media». Impoverita e indebitata, protagonista e vittima della bolla finanziaria che è esplosa con i mutui subprime, ma che viene inserita, nelle letture marxiste, in un ciclo ben più lungo. Più che secolare, nella ricostruzione di Giovanni Arrighi, l’autore del celebre saggio Il lungo XX secolo, che analizza cicli ricorrenti nella storia, dalla Genova del Cinquecento a oggi: l’economia si espande materialmente fino al suo massimo poi, quando la produzione materiale raggiunge il limite, i profitti si spostano verso la finanza, il cui boom, che appare come il clou del successo e invece è la fase terminale di un ciclo, spesso coincide anche con uno spostamento di ege-


monia mondiale. “Negli anni Novanta”, ha scritto Arrighi con Beverly Silver (in un testo contenuto nel volume Capitalismo e disordine mondiale, manifestolibri 2010), “si aveva l’impressione di una nuova primavera, invece eravamo già all’autunno del ‘secolo americano’: quel che lo differenzia dalle fasi finali dell’epoca d’oro delle città-stato italiane, o dell’Olanda nel Settecento, o dell’Inghilterra dell’Ottocento è la biforcazione tra potere economico, in declino, e potere militare, la cui forza senza precedenti è stata a sua volta finanziata con debiti”.

«Eh sì, la storia economica è un po’ più lunga, non ci si può fermare all’ultimo scorcio». Giorgio Lunghini è uno dei pochi economisti che insegnano anche Marx (è un po’ più frequente incontrare Il Capitale sui banchi di Filosofia, ma nei corsi di Economia è una rarità). Anche lui invita a uno sguardo non limitato all’ultimo scorcio di secolo, come quello della globalizzazione trionfante che aveva fatto parlare molti di “fine della storia”. Invece, «era l’esito della crisi del sistema fordista», un andare dei capitali alla ricerca di nuovi sbocchi e nuovi profitti. Ma se la domanda non tiene dietro all’offerta, si genera una crisi di sovra-produzione: troppe merci per la capacità d’acquisto del mondo. «Il terzo libro del Capitale spiega perfettamente quel che sta succedendo», conclude Lunghini, che nella geografia teorica degli economisti è considerato più un keynesiano che un marxista, ma che ricorda: «Che cosa disse Einaudi di Keynes all’epoca? Che era un bolscevico». E infatti un po’ da keynesian-bolscevico sono le proposte di Lunghini per uscirne fuori, elencate nell’articolo Se governa la finanza (sbilanciamoci.info, ottobre 2011): redistribuzione del reddito, eutanasia del rentier e parziale socializzazione dei mezzi di produzione. Il ritorno alla questione dei salari, alla loro centralità, è diretta conseguenza di queste letture della crisi. «L’idea che il salario non è solo un costo, ma anche domanda; che la distribuzione del reddito nasce da un conflitto; e che una cattiva distribuzione non è solo iniqua, ma può far saltare il capitalismo»: queste le lezioni di Marx da tenere a mente, secondo l’economista Anna Maria Simonazzi. Senza dimenticare tutto il filone della critica all’economia politica, all’idea dello scambio come elemento centrale e connaturato all’uomo, del valore d’uso contrapposto al valore di scambio: critica che per Simonazzi – cofondatrice del sito inGenere.it – può alimentare molte correnti di pensiero e ricerca, dagli studi di genere nell’economia al filone ambientalista. Insomma, e più in generale, nella critica all’ideologia per cui il mercato capitalistico ci garantisce una risposta ai bisogni umani di fronte a risorse scarse: non sempre i bisogni diventano merce e sono soddisfatti, non sempre le merci vanno incontro ai bisogni. È da un marxista doc come Ernesto Screpanti, professore di Economia politica a Siena, che in tanto revival viene una precisazione critica: «Marx va riletto e anche riscritto. E va affrontata – come gran parte del pensiero marxista sta facendo – la questione del marxismo del Novecento della sua copertura teorica di disastri politici». Ciò detto, Screpanti riprende in mano anche un altro Marx: «La teoria della crisi è importantissima e spiega cosa sta succedendo oggi. Ma c’è una parte di Marx che è stata trascurata, è quella più libertaria, del teorico che mette insieme democrazia radicale e autogestione». Se è convinto che «da questa crisi si esce solo uscendo dal capitalismo», la strada da studiare per il dopo, per il marxista Screpanti, non è nel collettivismo che ha fallito, ma in un mix di mercato e cooperazione. Meno Stato e più Comune (di Parigi).

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di

Luciano Del Sette

foto

Gianluca Cecere

Ore di paese


Nascere, crescere, restare, andarsene. Forse tornare. Perché la città ha deluso, perché c’è bisogno di un posto in cui traslocare lavori e passioni. L’Alta Irpinia, per esempio, o una borgata piemontese. Senza nostalgia del bel tempo che fu, guardando al futuro


“Nella banda del paese erano trentasei. In pochi anni ne partirono dodici. Il maestro prima cadde in depressione. Poi emigrò anche lui”. Franco Arminio, Le vacche erano vacche e gli uomini farfalle. “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. Cesare Pavese, La luna e i falò. “Ottavio Panno partì per l’America con la nave Bolivia e tornò in Italia dieci anni dopo con la nave Taormina”. Franco Arminio, Le vacche erano vacche e gli uomini farfalle. “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Cesare Pavese, La luna e i falò. Nascere, crescere, restare, andarsene, sono i quattro infiniti che si ripetono, da sempre, nella vita di chi è venuto al mondo dentro la realtà microcosmica di un paese. Lo sapeva bene Cesare Pavese, che dalla sua Santo Stefano Belbo, Langa del Piemonte, se ne andò a Torino per praticare il mestiere di scrittore. Lo sa bene Franco Arminio, che nella sua Bisaccia, Alta Irpinia, Campania, è invece rimasto. Fa due mestieri, Franco: il maestro elementare perché ama insegnare ai bambini, il paesologo perchè ama star dietro a un sogno cominciato anni fa. Nel tempo che gli resta, riempie pagine e pagine di prosa e poesia. Cinquant’anni tondi, la barba a compensare i capelli caduti in fretta, Arminio lo puoi incontrare mentre si arrampica per le vie di Lacedonia, Andretta, Cairano, Calitri, Laviano, Conza, Apice, Aquilonia. Si arrampica, si ferma, osserva, scrive, parla con la gente, mette mano alla macchina fotografica e alla videocamera. Ogni tanto prende fiato, sdraiandosi sui gradini di una chiesa o sul ciglio di un muretto. Guarda un po’ te che domandi e un po’ i tetti delle case. Dice: «La paesologia non va confusa con la paesanologia che tesse le lodi dei paesi, li mitizza, li trasforma in luoghi ideali. La paesologia non è una scienza, non dà formule o ricette. Ti invita a considerare i luoghi per quello che sono, porcate edilizie comprese; per ciò che erano e non saranno mai più, per tornare ad averne rispetto. Il paesologo è uno che vive nella terra dove è nato, uno che preferisce i paesi della bandiera bianca a quelli della bandiera arancione». Quando gli chiedi cosa voglia dire, lui risponde: «Lo capirai nel corso del viaggio». La lista dei paesi è lunga. Franco la riduce a una decina: quelli che servono, appunto, per capire, o almeno per tentare di farlo.

▲ Aquilonia,

le case provvisorie costruite per i terremotati del 1930 ▶Il bar Centrale di Vito ad Aquilonia

Le panchine vuote

Mentre, dal finestrino dell’auto, cerchi il cartello che indica Lacedonia, e intanto prendi confidenza con i panorami dell’Alta Irpinia, vigne, ulivi, campi, montagne di confine con la Basilicata, ti torna alla mente una frase di Arminio: «Non è vero che soltanto le città cambiano. Cambiano anche i paesi. Se un vecchio muore, un posto sulle panchine della piazza rimane vuoto e la piazza non è più la stessa». E ancora: «I paesi sono diventati muti. Una volta c’erano i versi delle vacche e delle galline, i richiami della gente, gli strumenti del fabbro e del falegname, il motore dei trattori». Nella piazza di Lacedonia ci sono gli alberi, e sotto la loro ombra le panchine, e sulle panchine i vecchi. Nascere, crescere, restare, andarsene. Non se ne è andato Antonio Pignatiello, contadino pensionato, ottantaquattro primavere. Resterà qui ad aspettare di fare i conti definitivi con la sua età. Resterà qui, in un paese di duemila abitanti rispetto ai settemila iscritti all’anagrafe nel 1950. È pro-

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Qui, Paraloup Paraloup, che nell’antico gergo dei pastori vuol dire “guardarsi dal lupo”, è un villaggio di sedici baite, a 1.400 metri d’altezza sopra Cuneo, oggi completamente abbandonato. Qui era nata la prima banda partigiana, all’indomani dell’8 settembre 1943. Qui oggi un gruppo di architetti sta conducendo un progetto di recupero con l’intenzione di ridurre al minimo l’opera di ripristino e di preservare invece il più possibile le tracce visibili delle rovine rimaste. Le prime tre baite sono state già restaurate e altre due saranno pronte entro la prossima primavera. «L’idea è quella di tornare a far rivivere la borgata e di ripopolarla in chiave non solo turistica: di farne un luogo che possa sostenersi da solo, dove si possa lavorare e vivere del proprio lavoro, assegnando almeno due baite a pastori e creandovi un laboratorio caseario». A parlare è lo storico Marco Revelli che sostiene il progetto attraverso la Fondazione intitolata a suo padre Nuto, l’autore, tra l’altro, de Il mondo dei vinti, “l’enciclopedia contadina del Novecento”, secondo la definizione di Corrado Stajano. La Fondazione ha sede a Cuneo, nella casa dove Revelli abitava, rimasta esattamente com’era a eccezione delle stanze da letto, riadattate alle nuove esigenze e soprattutto all’archiviazione di un’enorme mole di materiale. «Abbiamo un’attività intensa e molti progetti in corso», spiega Revelli. «Presentiamo libri, collaboriamo con scuole e con l’università, anche quest’anno organizzeremo i corsi della nostra Scuola per la buona politica e il concorso letterario Scrivere altrove, riservato ai nuovi cittadini, gli immigrati e i figli di genitori immigrati». Nel luglio scorso la Fondazione ha organizzato il Festival del ritorno ai luoghi abbandonati, nella borgata di Paraloup: in quei giorni è stato proiettato il documentario Il popolo che manca. Gli autori, i due giovani registi Andrea Fenoglio e Diego Mometti, sono tornati nei luoghi de Il Mondo dei vinti, intervistando i discendenti dei contadini di allora: ne è scaturito un racconto di nuovo valore documentaristico e poetico. Ma il progetto, come sottolinea Revelli, va al di là del documentario: è un grandissimo lavoro di ricerca, testimoniato ora anche in un cofanetto di cinque dvd e da un sito (www.ilpopolochemanca.it). Niccolò Nisivoccia


La non scienza La “non scienza” della paesologia viene esercitata da Franco Arminio anche nel ruolo di scrittore, poeta, autore di documentari, promotore di battaglie civili contro l’installazione delle discariche in Alta Irpinia, la chiusura dell’ospedale di Bisaccia e della Irisbus di Valle Ufita. Il suo ultimo libro, appena pubblicato, si chiama Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del sud Italia (Mondadori). Nel 2009, con Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia (Laterza) e nel 2011, con Cartoline dai morti (Nottetempo), ha vinto il Premio Stephen Dedalus. La sua bibliografia è composta, tra gli altri titoli pubblicati, da L’universo alle undici del mattino e Poeta con la famiglia (Edizioni d’If), Viaggio nel cratere (Sironi), Circo dell’Ipocondria (Le Lettere), Nevica e ho le prove. Cronache dal paese della cicuta (Laterza). Con DeriveApprodi ha pubblicato nel 2011 il cofanetto composto dal libro Le vacche erano vacche e gli uomini farfalle e dal dvd Di mestiere faccio il paesologo, regia di Andrea D’Ambrosio. A sua firma, i documentari Un giorno in edicola, 2009, e Giobbe a Teora, 2010.


prio Antonio, mani sul bastone, berretto in testa, voce sottile, a elencarti le ragioni di questo abbandono. Prima fra tutte, ma soltanto in ordine di tempo, il miraggio delle Americhe, a bordo dei transatlantici. Un secolo e mezzo fa. Poi altre migrazioni, negli anni Cinquanta del Novecento, in cerca di lavoro al Nord: le fabbriche di Torino e della Germania, le cucine e i cessi dei ristoranti svizzeri, le miniere del Belgio e dell’Inghilterra. Abbandono, esodo, anche oggi senza sosta. Vanno via i giovani, cercando un futuro dentro le aule di un’università che, nel migliore dei casi, dista tre ore di viaggio; alle catene di montaggio della Fiat di Melfi, Basilicata, e a quelle della Irisbus di Valle Ufita, provincia di Avellino, settecento dipendenti, che Sergio Marchionne, storia recente, ha deciso di chiudere. E il terremoto? Antonio trova un sorriso ironico quando dice che a Lacedonia quello del 1980 è stata poca cosa di cui hanno approfittato in molti. L’altro, era il 1930, ha fatto seicento morti, e certo la gente se n’era andata via, ma poche centinaia di metri in basso, dentro le case nuove. Adesso, Antonio sembra parlare a se stesso, quasi sussurra: «Gli orti in paese non ci sono più, stanno lontani, mi mancano le forze per andarci. Neanche le galline nel cortile di casa possiamo più tenere, con queste nuove regole dell’Europa». Diceva Arminio: «Per i vecchi, la propria fine non è serenità dell’attesa. È semplicemente rassegnazione». Mentre torni all’auto, lo sguardo coglie per caso su un muro, in mezzo a tanti, due annunci funerari. Invitano a raccogliersi nel cordoglio per la morte del concittadino Raffaele Bellofatto, avvenuta in Belgio, e di un’anziana concittadina deceduta a Novara.

In inverno, il silenzio

Hanno facce cotte dal sole e prese a calci dalla fatica. Indossano gli abiti della festa e provano a sorridere. Sono uomini, donne, bambini, in ritratti color seppia incollati su fogli protocollo a righe compilati con bella grafia. Permessi di espatrio, concessi a chi andava molto lontano, in cerca di fortuna, e datati seconda metà dell’Ottocento. Sono custoditi dentro bacheche di legno e vetro. Te li mostra il responsabile della biblioteca comunale di Andretta. Assecondi il fiume delle sue parole, sarebbe offensivo arginarlo, perchè qui lo “straniero” non è presenza di tutti i giorni. Andretta somiglia a un deserto di umanità. Pensi sia colpa dell’ora, il primo pomeriggio. A contraddirti provvede Antonietta Di Feo, settantenne nata ad Andretta, da anni residente a Napoli, professione tabaccaia. Viene al paese per le ferie. «In questa via, quando ero bambina, non si contavano le famiglie. Siamo rimasti in cinque persone, durante l’estate. Negli altri mesi, soprattutto in inverno, c’è il silenzio». Perché? Seduta nel salotto dove ti ha invitato a entrare (la tavola coperta da una cerata, il televisore, le foto ai muri, la vetrina della credenza con i piatti e le tazzine buoni), Antonietta scuote la testa. Il terremoto, azzardi? Non c’entra. O, almeno, non ha avuto tutta questa importanza. Se vuoi vedere le memorie del terremoto del 1980, se vuoi avere la prova che anche il terremoto sia stato causa di abbandono, devi andare a Conza della Campania.

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◀ Donne

a Cairano Antonietta Di Feo torna ad Andretta per le ferie ▲ Il paesologo Franco Arminio ▼ Nella biblioteca di Andretta vecchi permessi di espatrio e passaporti ▼▼ L’unica superstite del bar La Bella di Aquilonia, figlia degli ex proprietari ◀▼


Nel frattempo, nei giorni precedenti, hai superato tanti cartelli d’ingresso e ti sei inerpicato lungo le vie di tanti paesi; hai girato intorno a tante rotatorie messe lì come se fossero un elemento urbano indispensabile, cui sacrificare una fontana o il verde di un’aiuola. E hai chiesto informazioni sulla strada giusta a tanta gente. Tra quella gente, mentre cercavi di capire come entrare nel centro di Cairano nonostante i divieti di accesso, ti eri rivolto a una signora appena uscita da un’auto targata Belgio. Bei vestiti, anelli alle dita, parlava perfettamente italiano: mettendoci, però, tutte le erre arrotate necessarie a far capire che lei, ormai, non era di qui, che era tornata a Cairano in visita ai parenti. A Conza della Campania Nuova arrivi seguendo i cartelli, la trovi subito. Sembra uno di quei villaggi costruiti in Brasile per gli operai con famiglie che lavorano nelle multinazionali. Case tutte uguali, allineate, la cupola sproporzionata di una chiesa a sovrastarle. Ma Conza della Campania dov’è? Una ragazza in bicicletta si ferma, scioglie l’enigma. L’auto fatica su una strada mal asfaltata. Ai due lati, case come macerie, porte chiuse da travi, finestre sventrate, balconi sbilenchi; vegetazione che sta avviluppando i mattoni, il legno, la pietra. Cammini in mezzo a un silenzio definitivo. L’unico grido arriva dai cartelli che annunciano a caratteri cubitali il pericolo di crolli. Li sfidi, i cartelli. Con cautela entri nelle case, sali le scale, guardi dentro le stanze. Conza è un cimitero della memoria personale e collettiva. Dentro ogni abitazione ci sono letti, vestiti, mobili, cucine a gas, frigoriferi, coperte, trapunte, lenzuola, mangiati dalla sporcizia. Il terremoto, la fuga. L’abbandono. Ma ciò che incute stupore e disagio, è vedere che, tra quelle cose inservibili, sono rimasti quaderni di scuola degli anni Sessanta, vecchie foto di famiglia, libri, un cestino per il cucito, lettere, cartoline. Nessuno è venuto a riprenderseli, quasi a voler chiudere con un passato reso cancellabile dalle scosse della terra. La faccia di Gianni Morandi ai tempi di Fatti mandare dalla mamma sorride dalla copertina di un quaderno.

Tornare, ma come?

Nascere, crescere, restare, andarsene. Nel caso di Aquilonia, occorre aggiungere un quinto infinito: tornare. Qui, in questo paese dissanguato della sua gente come altri, fu il terremoto del 1930 a distruggere. Il governo fascista fece edificare un quartiere di cui rimangono in piedi alcune abitazioni. Sono minuscole e anguste, coibentate con materiali di fortuna da chi ci vive ancora, per difendersi dal caldo e dal freddo. La piazza di Aquilonia è anomala rispetto a tutte le altre viste fin qui: molto ampia; non solo panchine, ma anche spazi di ritrovo sotto gli alberi; una chiesa, alcuni edifici di inizio Novecento a seguirne il perimetro. Enzo e e Virginio Tenore sono tornati. Il primo in part time: assessore comunale alla Cultura, architetto in quel di Napoli. Il secondo a tempo pieno: ingegnere edile e musicista percussionista. Gira il territorio con il suo gruppo, i Folska, che fa cover e brani di propria composizione, tra repertorio popolare e ska. Si chiamava Virginio anche il nonno dei due Tenore. Titolare dell’emporio del paese, dava a credito, sulla parola, le stoffe e i tessuti necessari per i corredi di nozze. Lo pagavano dopo la mietitura del grano. Quando la porta della casa di Virginio senior si apre, è come se, di colpo, si materializzasse un’immagine opposta a


â—€ Conza

della Campania, la parte vecchia, sventrata dal terremoto

â–˛ Calitri,

interno di una casa in rovina â–ś Conza della Campania, la parte vecchia, distrutta dal sisma Pagina successiva, Aquilonia di notte


quella di Conza della Campania. Tutto è conservato e protetto. Alcuni pezzi si potrebbero vendere, ricavando un bel po’ di quattrini. A nessuno della famiglia è mai venuto in mente. La casa ha bisogno di restauri. Si faranno, quando si potrà. Virginio, l’ingegnere musicista, è la guida che ti porta a conoscere chi è rimasto e chi è tornato. Sono rimasti i vecchi, al bar Centrale di Vito e al bar Remo. Giocano a carte, officiando il rito della “passatella”: birra di mano in mano, fino a berne quantità considerevoli. È rimasta Carolina, 77 anni, la cuoca ufficiale delle feste e delle ricorrenze in paese, prima che aprissero i ristoranti. Portava l’occorrente e cucinava «anche per centocinquanta persone», ricorda, dentro un garage attrezzato con forni e fornelli. Michele e Gaetano erano i due calzolai del paese. Gaetano continua a esercitare nell’ingresso di casa, il fratello rassetta e fa da mangiare. In paese li chiamano P’cacchie, perché sono piccoli e sempre appiccicati l’uno all’altro. Nel tinello di casa siede un altro Gaetano, il più anziano del paese, quasi cento primavere. Ha trascorso vent’anni a Roma. Un giorno ha deciso di tornare. La moglie lo ascolta con sorridente pazienza quando sgrana i ricordi della Città Eterna. Silvio, quarantenne con la faccia da Zucchero “Sugar” Fornaciari, ha fatto dietrofront da San Pietro in Casale, Bassa Bolognese. Lavora nell’edilizia e ha l’aria di un gatto sornione cui piace tirar tardi non soltanto il sabato sera. Patrizia è figlia di emigranti, ha vissuto in Sud Africa. Da lì, un giorno, ha sentito il richiamo di Aquilonia. Si occupa di iniziative culturali e fa la traduttrice per alcune aziende satellite della Fiat. La promessa di rivedersi con Franco Arminio si fa rispettare proprio ad Aquilonia, dopo che, una sera, in piazza, hai appena finito di parlare con una ragazza bella faccia, montatura degli occhiali anni Settanta. «Noi giovani ci riuniamo ogni tanto per confrontarci su cosa si potrebbe fare se decidessimo di tornare». Aquilonia la ami? La ragazza bella faccia aveva esitato un istante, per poi ammettere di non saperlo. Nascere, crescere, restare, andarsene, tornare. Al termine del viaggio, provi l’azzardo di un’immagine: un cordone ombelicale mai tagliato, nonostante la costruzione di una vita altra e altrove, i terremoti che mettono in ginocchio, l’estinzione delle voci, gli orti lontani, le rotatorie, le porcate edilizie. Che futuro hanno, Franco, i paesi che battono bandiera bianca invece di quella arancione? La risposta ha il suono di un’ostinata speranza: «Il futuro è nei paesi veri, con tutte le loro contraddizioni, ma anche con tutte le loro risorse. E una di queste risorse continua a essere, nonostante tutto, la buona terra che hanno intorno. Nelle città, la terra non esiste. Tantissimi paesi stanno in alto, dove l’aria è ancora pulita. A Milano, Roma, Torino, fra meno di trent’anni, non si respirerà più. E allora bisogna cominciare, i giovani devono cominciare, a organizzare adesso il trasloco di strutture, di servizi, di idee. Questo non significa rinunciare alla cultura, alle tecnologie, alle passioni personali, ai contatti con il mondo. Bisogna soltanto traslocare tutto. Trovando nella vita semplice, direi felicemente sobria, di un paese, il nuovo e giusto equilibrio. Il successo che le città promettevano ha smesso da lungo tempo di portare felicità». Un paese ci vuole. Parola di Franco Arminio e di Cesare Pavese.

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spiriti liberi

[2011, sergio bonelli editore]

di

Giulio Giorello

filosofi con la Colt Capitano: “Portobelo era uno dei più importanti centri di raccolta di tutto l’oro, l’argento e di altri materiali preziosi che i Conquistadores razziavano alle popolazioni del Messico e del Perù. Poi i galeoni cambiarono rotta e il porto divenne un ammasso di mura sbrecciate che la foresta ingoia giorno dopo giorno”. Tex: “Non mi dispiace affatto che le tracce dell’arroganza dei Conquistadores siano destinate a finire in polvere”. Commenta il fotografo Timothy O’Sullivan: “Oltre che possedere dei buoni muscoli, Tex ha anche un buon cervello!”. È l’avventura narrata nei numeri 250-252 di Tex mensile (poi riuniti nel volume Giungla crudele, Mondadori 2000): il nostro eroe si è improvvisato scorta di O’Sullivan (personaggio storico, 1840-1882), in trasferta con una spedizione Usa (1870) nel Darién, che avrebbe il compito di individuare il luogo ove aprire un canale tra Atlantico e Pacifico. Ormai bisogna scartabellare tra gli albi di Tex per trovare una così vigorosa demolizione dell’ideologia di morte di cui ogni impero si nutre, spesso invocando la Civilizzazione, il Progresso o perfino la Pace. Ma diamo un occhio allo sceneggiatore di questa straordinaria vicenda: si è firmato Guido Nolitta, ma questo non era che il nom de plume di Sergio Bonelli, il grande editore di fumetti scomparso nel settembre scorso. Chi è cresciuto (ed è invecchiato) con gli albi di Tex, creati da Gian Luigi, padre di Sergio, può rimanere meravigliato che Tex sia diventato un filosofo così riflessivo, tra l’altro coinvolto, suo malgrado, in un intrigo dove ben più esiziali degli Indios bravos della giungla colombiana si rivelano i politici indegni e corrotti. Alla fine, il fallimento: O’Sullivan non riuscirà a riportare alcuna fotografia e Tex smaschererà il “volto del traditore” in un compagno dei tempi andati, diventato assassino nell’interesse del proprio partito (anche la connessione tra i due oceani aspetterà: il Canale di Panama verrà ufficialmente inaugurato solo nel 1920). “Nolitta” ci lascia così uno sconsolato apologo sugli splendori (pochi) e le miserie (molte) di quell’Occidente di cui andiamo tanto fieri. Del resto, nel 1975 aveva dato vita a un personaggio nostro contemporaneo, un ex pilota dell’aviazione che si era rintanato a Manaus (Brasile) a vivere la sua “tranquilla” esistenza tra ragazze procaci e bevute di cachaça, salvo che a provocarlo venivano neocolonialisti avidi, capitalisti senza scrupoli, generali affamati di dominio. E lui – spesso battuto e sconfitto – a negare ostinatamente quei “sogni di gloria” sporchi di sangue: Mister No, primo eroe “nichilista” del fumetto! Nichilista ovviamente perché contro l’oppressione esercitata sui nativi, lo sfruttamento cieco delle risorse, la distruzione dell’ambiente, ma altrettanto deciso nella resistenza. E noi speriamo di ritrovare un giorno Guido/Sergio nell’Isola che non c’è, quella dei pirati di Capitan Uncino, dove c’è posto anche per tutti i suoi appassionati… filosofi con la Colt.

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l’anima? già venduta lessi di

Neri Marcorè Adescalco Marangoni

illustrazione

Lessi la storia universalmente nota di Dorian Gray ai tempi del liceo e come tutti, credo, rimasi colpito dall’invenzione letteraria di Oscar Wilde: un bellissimo e giovane aristocratico si dice disposto a vendere la sua anima pur di mantenere la sua attuale condizione estetica. Sarà il quadro che lo ritrae in tutto il suo splendore, e che egli nasconde in soffitta, a invecchiare e imbruttire per lui, mostrando i segni delle sue perdizioni e di ogni genere di delitto che da ora in poi commetterà. È il ritratto, il manifesto della vanità, l’antico mito di Narciso proiettato nella modernità, la quale, forse proprio in concomitanza con questo romanzo, si apre all’avanzata della civiltà dell’immagine, dell’apparenza fine a se stessa, come simbolo “morale”, se è vero che la discrezione, la ritrosia, non curare il proprio aspetto, essere brutti è giudicato talvolta immorale. Si potrebbe quasi azzardare che qui etica ed estetica coincidono, per certi versi, secondo criteri che ognuno può valutare soggettivamente; ma evidentemente ci sono dei parametri oggettivi per giudicare decadenti e discutibili questi nostri tempi se, per esempio, a teorizzare la funzione e il valore della bellezza, siamo passati dalle opere del drammaturgo inglese alle dichiarazioni televisive di una prostituta barese. Al di là dell’accostamento strumentale, la questione non è, ovviamente, ritenere uno più meritevole o autorevole dell’altra – ognuno svolge il lavoro per cui è più portato e tutti i mestieri hanno pari dignità, sulla carta, così come tutti gli individui. L’aberrazione risiede nel modello che si è fatto largo e si è imposto negli ultimi anni, di cui la signora in oggetto non è che una rappresentante, per cui la bellezza viene spacciata per capacità, la furbizia per competenza, l’inciucio per intraprendenza, la volgarità per schiettezza, l’onestà per noiosa mancanza di virtù, la correttezza per fesseria, il rispetto delle regole per atteggiamento sfigato e rinunciatario. Per arrivare ti devi vendere tua madre, all’occorrenza, e se vuoi circondarti di bellezza devi pagare. Vanno bene gioielli, mazzette, appalti truccati o posti in parlamento, non occorre nemmeno vendersi l’anima, sostanzialmente perché risulta già ipotecata da tempo. Alla società che lo avrebbe condannato ed espulso come un virus, Gray celava il suo vero aspetto perché tutto sommato una coscienza ancora ce l’aveva, la stessa che a un certo punto, stanca di una vita corrotta e senza sostanza, lo induce ad accoltellare il proprio ritratto nella speranza di una seconda, migliore esistenza. Invece sopraggiunge la morte, che restituisce a entrambi la forma autentica. Se il romanzo ha perso di modernità, questo non è avvenuto da molto: fino agli sgoccioli del secolo scorso personaggi illustri che finivano al centro di uno scandalo spesso preferivano il suicidio al peso della vergogna. Ora il mosaico delle proprie miserie non viene occultato, ma addirittura sbandierato in segno di autenticità e umanità. Sarà pure un passo di allontanamento dall’ipocrisia, secondo alcuni, ma quel che non si riesce a comprendere è come sia stato possibile reagire a tali manifestazioni in modo così diverso nel giro di pochi anni: dai fischi al consenso, dal moto di schifo all’ammirazione.

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Conversazione con Natalia Aspesi di

Fabrizio Ravelli

foto

Laila Pozzo


Regina di cuori


Un’intera parete della cucina di Natalia Aspesi è occupata dalla gigantografia di un famoso scatto di Bruce Weber. C’è la duchessa del Devonshire che, indossando un sontuoso abito da sera di Schiaparelli, distribuisce il pastone alle galline. Posso immaginare (non gliel’ho chiesto) che Natalia un po’ si riconosca in questo spirito, e cioè il piacere di tenere insieme il lusso e la vita rasoterra, con umorismo. Lei che ha conosciuto la povertà, la cronaca nera, i fasti della moda, la guerra, il cammino delle donne, il declinante cattivo gusto, l’arte e la letteratura, i tormenti del cuore di una sterminata platea. E che pure ha il vezzo, lei strepitosa giornalista, di dichiararsi ignorante, smemorata, una che vive alla giornata. In casa, fra librerie colorate, le due scrivanie (una per leggere e una per lavorare) e il bellissimo terrazzo, mostra una sua foto da bambina. «Ero una bambina biondissima, con la frangetta, pettinata come adesso. Quasi bianca di capelli. Che ha avuto una prima infanzia bruttissima, perché a un certo momento ho avuto la pertosse, per cui non camminavo più. Ho avuto un’infanzia senza padre, perché mio papà è morto che io ero molto piccola, e prima era malato quindi non me lo ricordo. Con una mia sorella e la mia mamma, che era una maestra elementare qui a Milano, in periodo fascista. E lei era una delle rare maestre antifasciste, come tutta la sua famiglia. Quindi noi eravamo delle piccole italiane, come tutte, ma magari con una scarpa nera e una marrone, oppure con la gonna sbagliata». Apposta, immagino. «Di sicuro. Ci mettevano sempre in ultima fila, perché davamo fastidio. Siamo cresciute molto poveramente. Vivevamo del suo stipendio di maestra, che poi era appunto mille lire al mese: era stato decurtato. Io ho comprato quel quadro che vedi, La vera alla patria, perché la mia mamma, poveretta, era stata costretta a dare la sua vera. Lei Mussolini lo chiamava quel schifùs, anche perché l’aveva costretta. Ma mentre le sue amiche ricche si erano rifatte la vera di ferro esternamente, e d’oro all’interno, lei aveva quella di ferro che le avevano dato, e aveva sempre il dito nero. Era disperata, io ho i miei ricordi d’infanzia di questa mamma che era sempre incavolata contro Mussolini, e con gli zii che erano tutti antifascisti, però nessuno fece qualche azione perché erano tutti vigliacchissimi». E che bambina eri? «Non me lo ricordo. Credo una bambina qualsiasi, forse molto timida. Poi ero bruttina, quindi quando si giocava al dottore venivo poco visitata, e mi incazzavo moltissimo. Ma ti dirò, non ho ricordi. È strano, ma io ho sempre vissuto alla giornata. Se mi chiedi anche del lavoro, io mi trovo degli articoli che dico: “Ma l’ho scritto io?”. Non mi ricordo neanche di esser stata

in quel posto, di aver parlato con quelle persone. Ho sempre cancellato. Cancello tutto, e vivo alla giornata. Questo l’ho fatto sempre. È un mio modo inconscio, non programmato, di vivere. Anche col mio compagno, l’Antonio, siamo insieme credo da 37 anni. Lui mi dice: “Ti ricordi quella volta?”. Io faccio finta di ricordarmi». Tu hai cominciato a lavorare prima di far la giornalista. «Io ho cominciato a lavorare verso i diciotto anni. Siccome non avevamo soldi, io non ho fatto il liceo. Sono andata al liceo artistico delle suore Orsoline, perché durava quattro anni anziché cinque. Finito quello, la mia mamma pensava di farmi fare la professoressa di disegno. Andai a fare una supplenza e ci resistetti due giorni perché i ragazzini io li detestavo. Per cui ho detto: “No, mamma, qualunque altra cosa”. E allora sono andata via dall’Italia, in Svizzera e poi in Inghilterra a far la cameriera. Avevo vent’anni, ormai. In Svizzera, a Losanna, e in Inghilterra facevo la au pair. Avevo due bambini e facevo anche i mestieri, non lontano da Londra, sul mare».

“Poi un mio vecchio ex fidanzato che lavorava alla Notte, di cognome faceva Panin, ma il nome non me lo ricordo, mi ha detto: ‘Ma tu che scrivevi così delle belle lettere, perché non provi a collaborare?’.”


E poi hai fatto l’impiegata, no? «Sono stata sei mesi qua e sei mesi là e, quando sono tornata, sapevo un pochino le lingue, così sono entrata in un ufficio di una ditta che vendeva macchine per fare il formaggio, a fare la corrispondente in lingua straniera. Però prima ancora, me lo dimenticavo, ero andata a disegnare tessuti da questa Rosa Scalini che era una molto brava. Poi un mio vecchio ex fidanzato che lavorava alla Notte, di cognome faceva Panin, ma il nome non me lo ricordo, mi ha detto: “Ma tu che scrivevi così delle belle lettere, perché non provi a collaborare?”. Allora mi sono presentata a questo ragionier Chiappe, che si occupava del personale, e mi ha detto: “Guardi che lei non sarà mai assunta”. Ho lasciato il formaggio, perché avrei dovuto andare in Germania, ho cominciato a fare questa cosa e mi sono accorta che mi piaceva molto. Il primo pezzo che

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ho fatto è stata una storia delle api, non so perché. Il secondo, mi hanno mandato a Bellagio a una mostra di cani, e lì ho capito che mi piaceva pazzamente guardare, parlare, e poi scrivere. Ero collaboratrice di un tale Brambilla, capocronista. Facevo anche il giro degli alberghi, per scrivere quali celebrità arrivavano e partivano». Donne non ce n’erano. «No, alla Notte no e neanche al Giorno quando poi ci sono entrata. E ci sono entrata perché l’Adele Cambria, che era la star di allora, fu l’unica a licenziarsi perché avevano licenziato il direttore Baldacci. Tutti i maschi, quieti. Lei, per solidarietà col direttore, se ne andò. E restò questo buco, che ci voleva la femmina per far vedere che il Giorno era meglio del Corriere della Sera, più moderno. Il Corriere neanche immaginava o ipotizzava che una donna potesse fare la giornalista lì. Così sono entrata al Giorno, con il nuovo direttore Italo Pietra. Ma sempre per vie basse, di poveri: una mia amica faceva la segretaria. Siccome non trovavano nessuna disposta


ad andare lì – lo chiesero anche alla Fallaci che gli fece una pernacchia – la mia amica fece vedere un articolo che avevo scritto, mi pare al festival di Sanremo, forse un’intervista a Celentano, non so, e mi assunsero come impiegata. Però facevo la giornalista. Così, sette mesi dopo, siccome dicevano che avevo un bel sedere, ma questa era solo una voce che circolava, non mi vollero in redazione. Perché ero un turbamento: lì c’erano ancora i giornalisti con l’impermeabile come Humphrey Bogart. E allora mi fecero inviata, e non misi mai piede in redazione. Fui fortunatissima, avevo la proibizione di entrare in redazione. Mai fatto un giorno di redazione in nessun giornale». E hai scoperto che ti piaceva fare la cronista, guardare, parlare con la gente. M’è capitato di lavorare con te, e ho visto che tu sei una che riempie il taccuino. «Sì, anche se poi non lo so leggere. Agli inizi, al Giorno, ho fatto moltissima cronaca nera. Andavo dalle mogli degli assassini, o presunti tali. Allora si faceva seriamente: partivo con la macchina, l’autista, io e il fotografo, roba da sciuri. E quindi anche il fotografo mi aiutava. Poi la mia fortuna è stata che cominciavano un po’ i problemi sociali, si cominciava a parlar di ospedali, di aborti, mi ricordo che avevo fatto una serie sulle maestre di montagna. Tutti temi che i veri giornalisti non volevano fare, perché tutto ciò che riguardava le donne era basso. Così lo facevo io. A poco a poco sono diventati grandi temi, l’aborto, per esempio, o il lavoro delle donne. Anche se la prima e vera passione è stata la cronaca nera. Io ero bravissima a piangere con la mamma, con la moglie, tenevo la mano e spargevo lacrime». E non erano poi lacrime finte, magari. «Un po’ mi commuoveva l’innocenza. La mamma che diceva: “Mio figlio, si immagini”. E invece aveva

appena squartato due o tre persone. Mi ricordo, andai nella casa di questo padre sindacalista di sinistra, il cui figlio terrorista rosso aveva ammazzato qualcuno, e questo padre attonito non ci poteva credere. Io facevo queste cose qui. E partendo dal fatto che ero, e sono ancora, timidissima, mentre andavo da questi qua pensavo: “Speriamo che si rompa la macchina, o che io vomiti e mi senta male, o all’autista gli venga l’infarto”. Poi arrivavo e mi scoppiava il desiderio di sapere, e allora la mia timidezza finiva». Ma non è invece utile la timidezza per stare a sentire la gente? «Sì, di sicuro mi è stata utile, perché riuscivo a mettermi nei loro panni. Certo, cercavo di portar via delle notizie. Ma partecipavo davvero all’innocenza, allo stupore, o al dolore di queste persone. E poi prendevo anche delle cantonate tremende. Mi ricordo che mi avevano mandato a intervistare una signora che era sospettata di aver ucciso il marito. Mi trovai davanti a questa specie di adolescente, con delle manine così, delicate, un fiore proprio. E feci un’intervista a questa donna. Insomma, venne poi fuori che non solo aveva ammazzato il marito, ma l’aveva segato in numerosi pezzi e messo in valigia. Trovarono questa valigia ripiena del cadavere, ed era stata lei. Io invece avevo fatto un grande pezzo: ‘Questo fiore di donna, giovane e innamorata, disperata’. E solo dopo avevo pensato: “Come avrà fatto, con quella manine?”». E in quei tempi eri l’unica donna in un quotidiano. «Nei quotidiani non ce n’erano. Io sono stata la seconda, dopo la Cambria, al Giorno. Subito dopo da noi sono venute la Donata Righetti, la Maria Pezzi. Il Corriere ha tardato, solo qualche anno dopo è arrivata la Giulia Borgese».

“Sono stata in Vietnam nell’ultimo mese di guerra. Non sapevo neanche dove fosse, ero frivola. E lì, ho incontrato la Fallaci, che mi ha fatto una scenata: ‘Dov’è il fiume tale?’. ‘Boh’, dico io. E lei: ‘Ecco chi mandano a fare queste cose importanti!’. ‘Sì – dico io – hai proprio ragione’. ”


Ce n’erano nei settimanali, per dire la Cederna e la Fallaci. «Sì, e non solo loro. Ce n’erano anche altre molto brave». E da chi pensi di aver imparato? «Dalla Camilla Cederna: non solo ho imparato, ma lei mi ha insegnato. Due maestre ho avuto. Una Camilla, che era una donna di una generosità pazzesca. Mi diceva: “Guarda, tu magari quella parola lì non la ripeti, la prossima volta”. Io ascoltavo, perché poi tutto ciò avveniva con gentilezza e garbo, e imparavo a memoria i suoi pezzi. E talmente imparavo a memoria, che poi mi obbligavo a non dire le cose che mi venivano in mente. Mi aveva colpito che lei usava l’espressione nel ramo, e quindi mi sforzavo di trovare un altro modo per dirlo. L’altra maestra, che è venuta dopo, – era una mia coetanea mentre Camilla aveva qualche anno più di me – è stata Lietta Tornabuoni. Mi ha insegnato che non si poteva scrivere quel che si voleva, come facevo io. Che ogni parola andava controllata, che ogni nome doveva essere verificato. Lei mi ha insegnato la precisione, e l’amore per le parole. Mi ha insegnato che non dovevi scrivere ‘la punta dell’iceberg’, ma dovevi trovare qualcos’altro. E quando questa cosa l’ho afferrata, poi era un vero piacere scegliere le parole». Grande giornalista, la Tornabuoni. «Secondo me Lietta è stata grandissima, e non abbastanza apprezzata, anche per sua colpa, per il suo orgoglio incredibile. Eravamo sorelle. E io le dicevo: “Guarda che questi stronzi ti trattano male, telefona, protesta”. Si faceva pagare pochissimo. Per orgoglio, per aristocrazia. Ed era una che si dedicava agli altri: a sua madre, al fratello pittore, a Oreste Del Buono che la moglie aveva cacciato di casa. Alla fine, quando è stata sola, non ha avuto più voglia di vivere». Come hai cominciato a occuparti di moda? «Sono stata io a impormi, a Repubblica. A dire alla redazione – e stava cominciando il prêt-à-porter, le prime sfilate a Milano – che era una faccenda interessante. Ci han pensato su tanto, perché gli sembrava una cosa volgare, la moda. Dopo di che mi hanno detto: “Fai”. E lì mi sono divertita moltissimo, perché ho capito che allora, oggi non più, la moda era una fonte di creatività, di personaggi e di vita fantastica. Di quei personaggi Giorgio Armani è stato uno dei primi. C’erano già i romani che andavano a sfilare a Firenze. E poi la Krizia a Milano. Ma è stato con Armani che il prêt-à-porter poteva diventare importante, alla portata di tutti. Gli altri sono venuti dopo. Anche Valentino, che faceva l’alta moda, ha poi fatto il prêt-à-porter. Mi ricordo le prime sfilate di Armani, tutte di pantaloni e camicie uguali ma di colore diverso. I giornalisti italiani l’avevano snobbato, e l’America l’ha scoperto. Prima di lui, i grandi sarti facevano sfilate precluse anche ai giornalisti, non vedevi nemmeno le fotografie. L’anno dopo, le sartine potevano copiare certi modelli. Improvvisamente, la moda era diventata pronta a essere indossata, e mostrata, e pubblicata in fotografia, e pubblicizzata: lì iniziò anche la pubblicità, che poi è stata quella che ha impedito di parlare di moda, perché devi solo dire che


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tutto è meraviglioso. E infatti io ho smesso la prima volta che una tizia, non so che cosa avessi scritto, mi ha detto: “Tolgo la pubblicità al tuo giornale”. Basta, fine, ho deciso di non farla più». E di guerra ti sei mai occupata? «Sono stata in Vietnam nell’ultimo mese di guerra. Mi ricordo, non sapevo neanche cosa fosse e dove fosse. E il giornale, non so per quale bizzarria, decide di mandarmi. Non ho avuto neanche il tempo di leggere qualcosa, ero frivola. E lì, appena arrivata ho incontrato la Fallaci, che mi ha fatto una scenata: “Dov’è il fiume tale?”. “Boh”, dico io. E lei: “Ecco chi mandano a fare queste cose importanti!”. “Sì – dico io – hai proprio ragione”. A parte che avevo appena conosciuto l’Antonio, per cui era stata una disperazione abbandonarci. Così sono stata lì un mese, l’ultimo mese, a Saigon. E le cose di guerra non si raccontavano, a parte qualcuno che poi è morto. Noi stavamo chiusi in albergo, ci veniva a prendere il settore americano, ci portavano e ci dicevano cosa stava succedendo. Poi ci veniva a prendere il settore vietcong, altro giro, mi ricordo ancora un capo che mi ha regalato una borsa. E allora decidevo che volevo vedere qualcosa davvero. Prendevo un taxi: “Mi porti al fronte!”. Andavamo in un villaggio, e non succedeva niente: c’era il mercato, la gente in giro. Poi tornavo indietro, e mi dicevano che quel paese non c’era più. E si passava il pomeriggio in piscina. Altra cosa che non ho fatto, perché mi faceva orrore: c’erano giornalisti che andavano nei mercati, a comprare le cose che la gente abbandonava e vendeva per poco. L’unica cosa che ho fatto, l’ultima settimana, è andare tutti i giorni a prenotare l’aereo per il ritorno: non avevo nessuna voglia di restare lì coi vietcong, magari due anni. L’ultimo volo Air France l’ho preso e sono tornata». Da molti anni tieni una seguitissima Posta del cuore sul Venerdì di Repubblica. «Sì, e mi piace ancora tantissimo. E devo dire che, dopo tanti anni di giornalismo, dandomi delle arie, nessuno sapeva chi ero. Adesso mi riconoscono, perfino a Londra, e non so come mai. Vado in paesini di due case, nel Salento, e c’è qualcuno che mi ferma. E a parte questo, una cosa di cui sono orgogliosa è vedere questa montagna di lettere scritte benissimo. I colleghi mi dicono che le riscrivo. No, io casomai le accorcio ma non tocco una parola. E mi citano magari delle robe di cultura che io non so cosa siano, ma vado a vedere sull’internet. Di questa rubrica, e del rapporto con i lettori sono proprio orgogliosa. Pensa che la Mondadori sta per pubblicare un libro di un architetto di Bologna, che mi aveva scritto una lettera, e poi ha continuato con lettere finte, cioé di cose vere ma vissute da amici e conoscenti. Io certe lettere palesemente finte le cestinavo, tipo quello che scrive: ‘Ho visto la mamma sotto la doccia e l’ho scopata’. Ma succede che qualche lettera, che riconosco come finta, la pubblico lo stesso perché racconta una cosa del tutto verosimile e autentica».

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Alla fine, si tratta sempre della stessa cosa: dar retta alla gente, stare ad ascoltare. «Mi ricordo che quando l’ho cominciata qualche collega mi diceva: “Ma come, fai una cosa simile?”. E io: “Scusa, ma tu se sei becco sei contento, o vorresti che qualcuno ti desse una mano?”. Rubriche così ce n’erano sui femminili, però sempre moraliste. Io cerco di non esserlo. E impiego molto tempo. Adesso, per esempio, arrivano molte lettere di uomini traditi, che raccontano la loro sofferenza di uomini traditi. Stupidamente si pensa che siano solo le donne a soffrire, ma non è così». Negli anni, hai visto i mutamenti delle donne, degli uomini, delle famiglie. «Diciamo che il mutamento più grosso da parte degli uomini è stato nella difficoltà, nell’incapacità di accettare la libertà delle donne: di piantarli, oppure di voler lavorare. Ho ricevuto molte lettere di uomini incattiviti contro il genere femminile. Adesso c’è questa scoperta del dolore degli uomini, non più espresso con l’odio verso le donne, o il desiderio di vendetta, ma quasi con comprensione di quello che è successo e di presa di responsabilità».

Natalia Aspesi Nata a Milano in una famiglia antifascista, Natalia Aspesi ha cominciato a fare la giornalista a trent’anni, prima alla Notte, poi al Giorno, come inviata. Arrivata a Repubblica come critica cinematografica, si è occupata anche di moda e costume. Dai primi anni Novanta sul settimanale Il Venerdì di Repubblica cura la rubrica “Questioni di cuore”, da cui ha tratto l’omonimo libro Questioni di cuore. Amori e sentimenti degli italiani all’ombra del Duemila (Tea, 1995). Negli anni Ottanta per Rizzoli ha pubblicato Lui! Visto da Lei. Nel 2007 è stata protagonista del documentario Natalia Aspesi. Giornalista per caso di Mietta Albertini.

E le donne? «Le donne hanno un desiderio di libertà fortissimo. Di liberarsi, oltre che dalla famiglia, anche dall’amore. Mica tutte, ovvio. Ma c’è una voglia di essere se stesse, di smettere di essere la moglie di, la compagna di, adattandosi a tante cose. Ci sono più cinquantenni e oltre, piantate o vedove, che scoprono come la condizione di donne sole sia piacevole. E ci sono quelle che vogliono ancora un uomo. E lì, devo rispondere ogni volta che a cinquant’anni sì, può capitare, ma insomma ci vuol molta pazienza». C’è qualcosa nel tuo mestiere che avresti voluto fare e non hai fatto? «Mah, forse avrei voluto essere più brava nelle interviste. Io leggo – sui giornali inglesi o americani, non su quelli italiani – un approccio molto ampio nelle interviste, che io per esempio non ho. Ho dei limiti. Però del lavoro che ho fatto sono soddisfatta perché è quello che io potevo fare. Io ho dei grandissimi limiti, innanzitutto di cultura perché non ho studiato, poi di interesse. A me certe cose non mi interessano minimamente. Io voglio fare solo le cose che mi interessano. E sui giornali italiani escono tante sciocchezze. Ma guardate quelli stranieri. Per esempio l’Herald Tribune, giornale serissimo: l’altro giorno c’era un pezzo sugli ultimi butteri della Maremma. Bellissimo. Poi io leggo i pezzi sulle mostre italiane sull’Herald Tribune, perché noi non li facciamo. È che non si fa più questo mestiere. L’ideale è il sondaggio. C’è il sondaggio che dice che gli uomini portano lo slip? Facciamo un pezzo. Oppure l’anniversario. Però devo dire che io i giornali li leggo pochissimo, quasi niente. Basta che uno dica uno stronzata, e gli fanno un’intervista. Ma perché io devo leggere cosa pensa Stracquadanio?».

B

www.e-ilmensile.it Sul nostro sito il backstage di questa intervista


Utopia Olivetti testo Marco

Peroni

illustrazioni

Riccardo Cecchetti

Industriale di fama internazionale, intellettuale, politico, riformatore, urbanista, editore. Adriano Olivetti fu questo e molto altro ancora. Credeva in una società di tipo nuovo, al di là del capitalismo e del socialismo. Attorno alla sua Ivrea, “l’Atene degli anni Cinquanta”, costruì una comunità concreta in cui industria e cultura, profitto e solidarietà, produzione e bellezza si tenevano per mano. Per più di un decennio, in questo piccolo angolo di mondo il confine tra sogno e realtà parve sul punto di dissolversi.







Buone nuove 15 settembre, mondo

Il numero di bambini sotto i cinque anni che muoiono ogni anno è sceso da oltre 12 milioni nel 1990 a 7,6 milioni nel 2010. Rispetto al 1990, dunque, sopravvivono circa dodicimila bambini in più ogni giorno. A rilevarlo sono i nuovi dati del rapporto 2011 “Levels & Trends in Child Mortality” presentati da Unicef e Oms. La velocità del calo nel tasso di mortalità infantile è in costante aumento, raddoppiando dall’1,2 per cento l’anno nel periodo 1990-2000 al 2,4 per cento nel periodo 2000-2010. Siamo tuttavia ancora lontani dagli Obiettivi del Millennio che prevedono una riduzione di due terzi del tasso di mortalità infantile sotto i cinque anni entro il 2015.

15 settembre, Malaysia

a cura di Gabriele

Battaglia

illustrazioni Massimo

Basili

13 settembre, Italia

Il ministero della Difesa e quello dei Trasporti vengono condannati a un maxi risarcimento di oltre cento milioni di euro a favore dei parenti delle vittime della strage di Ustica. Il Tribunale civile di Palermo stabilisce che lo Stato non fu solo negligente ma anche colpevole di occultamento della verità. Si tratta del più ingente indennizzo accordato ai parenti delle vittime dell’incidente avvenuto il 27 giugno di trentuno anni fa, quando un DC-9 della compagnia Itavia si inabissò nel mare a nord di Ustica, con 81 persone a bordo. Oltre al riconoscimento dei danni per la perdita dei propri cari, il tribunale garantisce ai familiari delle vittime anche quelli psicologici, provocati dai ripetuti tentativi di nascondere la verità messi in atto dai ministeri.

14 settembre, Congo

Il parlamento della Repubblica democratica del Congo vota a favore dell’istituzione di una corte che giudichi le violazioni dei diritti umani avvenute a partire dal 1990. Secondo i dati del governo, quello del Congo, con i suoi sette milioni di vittime, è il conflitto che ha provocato il maggior numero di morti al mondo dalla fine della Seconda guerra mondiale. L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani stima che, ancora oggi, avvengano circa venti stupri a settimana nella sola provincia del Kivu meridionale.

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Il primo ministro Najib Razak annuncia l’abolizione dell’Atto sulla sicurezza interna (Isa), in vigore da oltre cinquant’anni, e di altre leggi d’emergenza che nel corso del tempo hanno causato l’arresto di migliaia di persone e limitato la libertà d’espressione.

16 settembre, Australia

Sui passaporti australiani ci si potrà definire maschio, femmina o X. Prima era possibile solo registrare il cambio di sesso in caso di operazione. Le nuove linee guida introdotte dal dipartimento degli Esteri vogliono combattere la discriminazione nei confronti dei transessuali che, in alcuni Paesi, potrebbero essere incarcerati se il sesso indicato sul documento non corrispondesse al loro aspetto. «La maggior parte delle persone dà per scontato di poter viaggiare liberamente e senza timore di discriminazione», ha detto il ministro della Giustizia Robert McClelland. «Questa misura estenderà le stesse libertà agli australiani con diversità di genere».

20 settembre, Italia

L’ennesima, soporifera, edizione di Miss Italia si risolve in un flop televisivo. Nelle prime due serate, il programma è stato visto da due milioni e 853mila telespettatori con share del 16,20 per cento, cioè 600mila telespettatori e cinque punti e mezzo di share in meno rispetto all’anno precedente.

21 settembre, Benin-Congo

Benin e Repubblica del Congo siglano un accordo per arrestare il traffico di bambini tra i due Paesi. Si calcola infatti che siano circa 1.800 i bambini del Benin costretti a lavorare in Congo come servitori domestici o nei settori del commercio e della pesca. «Se compiono il minimo errore sul lavoro, questi bambini vengono privati del sonno e tenuti senza cibo


per giorni. Sono trattati come schiavi». È questo il commento di Marceline Pambou, che coordina il Movimento delle madri per la pace, la solidarietà e lo sviluppo.

27 settembre, Italia

Il mercato degli agricoltori a chilometro zero conquista anche la copertina di Topolino. «Il calo di vendite dei suoi supermercati – riferisce la Coldiretti – spinge Paperone a fare un giro al mercato degli agricoltori dove fanno la spesa anche i suoi nipoti». «I prodotti a chilometro zero sono coltivati nelle terre intorno a Paperopoli – gli spiegano Qui, Quo e Qua – così si evitano lunghi viaggi inquinanti per il trasporto e frutta e verdura sono più buone perché appena colte». Tra i produttori c’è, ovviamente, anche Nonna Papera che, oltre a vendere, dà ai clienti consigli di cucina e di giardinaggio. Paperone e il suo rivale Rockerduck cercano quindi di sfruttare l’idea del farmer’s market a livello industriale ma forzando eccessivamente i ritmi naturali: il risultato sarà un prodotto scadente e i consumatori torneranno ad acquistare al mercato contadino». In Italia, in tempo di crisi, gli acquisti diretti dai produttori agricoli sono cresciuti del 30 per cento.

27 settembre, Bolivia

Il presidente della Bolivia, Evo Morales, sospende il progetto di costruzione di una grossa arteria stradale che avrebbe attraversato terre della foresta amazzonica abitate da indigeni. La decisione arriva dopo una marcia di protesta durata quaranta giorni, conclusasi con duri scontri tra indios e polizia. A questo punto, il presidente ha dichiarato di «voler lasciar decidere la gente» e ha sospeso il progetto in attesa che continui il dibattito a livello nazionale.

27 settembre, Italia

Il Comune di Napoli è il primo a recepire la volontà popolare emersa dal referendum del 12 giugno e crea Abc, Acqua bene comune, azienda pubblica che gestirà le risorse idriche del capoluogo partenopeo. Si tratta di un soggetto giuridico collettivo che raccoglie il plauso del Forum italiano dei movimenti per l’acqua e del Comitato acqua pubblica Napoli, i quali auspicano che l’esempio sia seguito da altri comuni italiani.

30 settembre, Nicaragua

A Managua viene inaugurato il Parco per l’infanzia felice. Montagne russe, trenini e giostre rientrano in un progetto avviato nel 2009 e finalizzato al riconoscimento del “sano divertimento” come diritto inalienabile dei bambini. Il parco è anche concepito come misura di welfare per le famiglie che non possono permettersi di pagare per lo svago dei figli.

3 ottobre, Italia

Pene severe in primo grado per i vigili che picchiarono Emmanuel Bonsu, il giovane ghanese di Parma che il 29 settembre del 2008 fu ammanettato, trasportato nella cella del comando e quindi picchiato perché scambiato per il “palo” degli spacciatori in un parco cittadino. Il ragazzo ne uscì con un occhio tumefatto, zoppicante, con diverse lesioni certificate dal referto ospedaliero e con una busta, quella che conteneva i suoi documenti, sulla quale c’era scritto “Emmanuel negro”. Sette anni e nove mesi con interdizione in perpetuo dai pubblici uffici è la pena più consistente, comminata a Pasquale Fratantuono, l’agente che compariva in una sorta di foto-trofeo insieme a Bonsu dopo il pestaggio. La vicecomandante del Corpo all’epoca dei fatti, Simona Fabbri, è stata invece condannata a sette anni e sei mesi di carcere per aver apposto la propria firma su verbali falsi. A scalare, altre sei condanne da sei anni e otto mesi a tre anni e quattro mesi. Il Comune di Parma è stato invece giudicato estraneo ai fatti.


televasioni di

Flavio Soriga

illustrazione

Borislav Sajtinac

bon ton a tarda sera

[siae]

Un’era sta finendo, in questo affannato Paese, e non possiamo sapere quando accadrà davvero ma dovrà accadere, per forza, perché sono caduti persino l’Impero romano e l’evo dei feudi e dei vassalli e lo straordinario potere di Napoleone e lo smisurato Impero britannico. Perché tutto passa e si possono solo dividere i finali in sanguinari e drammatici e ragionevoli e indolori, ma prima o poi sarà solo un ricordo questo tempo grigio che abbiamo dovuto vivere, e persino i volti che l’hanno accompagnato in tv, e certe mezze tacche che hanno occupato l’informazione e ci hanno imposto la loro voce serva e vibrante di collere finte e ben pagate. Un giorno dovremo esercitare il ricordo e dire «Ah, sì, c’era anche quello, che andava in onda tutti i giorni, che orrore». Ci sarà poi da chiedersi com’è stato possibile che in questo scenario si sia potuto continuare, nonostante tutto, a fare buona televisione, com’è buono davvero il programma di Stefano Bollani e Caterina Guzzanti, gente che viene dalla musica e dal teatro, quindi figurati se può fare la tv. E invece la fa, la domenica notte su Rai Tre (“Sostiene Bollani”), e sovvertendo molte delle regole che la tv si è data: parlano di cose importanti, Bollani e Guzzanti, di musica classica e di quella popolare, di ouverture e jazz, di Franz Liszt e George Gershwin, e con una certa educazione, o buon gusto, piuttosto gozzaniano, di gente bene educata, appunto, il che sarebbe vagamente reazionario, in generale, come il darsi del lei dei due conduttori, e invece in Italia è già tutta una rivoluzione, questo bon-ton da tarda sera. In ogni caso, si metta in pace chi stia pensando di andare a vedere la prossima puntata: quando questa rivista sarà in edicola il programma sarà già finito. Magari però ritorna, chissà. Intanto si possono rileggere le parole, politicamente dense, chiare, sociologicamente illuminanti, psicologicamente rivelatrici, di un volto noto della tv popolare, Simona Ventura, che così ha spiegato le sue non-scelte politiche, annunciando un suo piccolo desiderio per il futuro (uh!): «Mi piacerebbe fare una seconda serata politicamente scorretta. Io sono sempre stata molto equidistante. Non sono né di sinistra né di destra perché non devo ringraziare né a destra né a sinistra per quello che ho fatto, ma solo le persone che hanno creduto in me». Ecco, la gratitudine come motore di ogni scelta politica possibile, questo è un tema su cui i futuri studiosi di quest’evo al tramonto discetteranno a lungo, attoniti e vagamente divertiti. Che i posteri abbiano pietà di noi. (“E adesso che farò, non so che dire, e ho freddo come quando stavo solo, ho sempre scritto i versi con la penna, non ordini precisi di lavoro”. Pierangelo Bertoli, A muso duro)

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Fuori dal diritto di

Egle Mugno

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Gianluca Pulcini

In Italia sono sei e rinchiudono 1.500 persone. Quattrocento dovrebbero essere già fuori. Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono un territorio dimenticato in cui ogni dignità è annullata. Il Parlamento ha fatto un passo verso la chiusura, ma ancora non basta Un uomo di 58 anni, rinchiuso da otto nell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa, una notte va in bagno e con un lenzuolo trasformato in corda si uccide. Poche ore prima aveva saputo che la sua pena era stata prorogata ancora una volta e che, nonostante da tempo fosse stato giudicato non più “socialmente pericoloso”, sarebbe rimasto rinchiuso lo stesso. Maurizio, 30 anni, nel 2004 viene arrestato per aver guidato contromano con il motorino. Finisce in un Opg dopo aver dato segnali di psicosi. Di proroga in proroga sono passati sei anni. Per lui non c’è nessuna cura e la sua attesa sembra senza fine. I manicomi sono stati aboliti davvero? Il 27 settembre il Senato ha approvato all’unanimità la relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino, testo che impegna il governo a chiudere definitivamente gli ospedali psichiatrici giudiziari, strutture nate nel 1975, in seguito alla riforma penitenziaria, per sostituire i vecchi manico-

mi giudiziari. In Italia attualmente ce ne sono sei e ospitano 1.500 internati: ad Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mantova). Si tratta di centri che accolgono persone che hanno commesso un reato ma sono ritenute mentalmente inferme. Una via di mezzo tra un carcere e un ospedale, un limbo dove il detenuto o – più correttamente – l’internato sconta la sua pena e contemporaneamente affronta un percorso riabilitativo per superare i disturbi psichici che lo hanno reso pericoloso per se stesso e per la società.

L’ispezione

Nel luglio 2010, i membri della commissione d’inchiesta hanno ispezionato a sorpresa le sei strutture, con una videocamera, scoprendo che in questi luoghi il tempo si è fermato e che assomigliano pericolosamente ai manicomi fascisti degli anni Trenta. Nella relazione finale si legge che “gravi e inaccettabili sono le carenze strutturali


e igienico-sanitarie rilevate in tutti gli Opg, a eccezione di Castiglione delle Stiviere”; che “tutti presentano un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale”; che “la dotazione numerica del personale sanitario appare carente in tutti gli Opg rispetto alle necessità clinico-terapeutiche dei pazienti affidati a tali istituti. Le modalità di attuazione osservate negli Opg (di contenzione o coercizione fisica) lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della persona, sia per quanto attiene alle azioni meccaniche, sia talora per i presidi farmacologici di uso improprio rispetto alla finalità terapeutica degli stessi”. Il rapporto parla di edifici sporchi, abbandonati, con gravi carenze strutturali e igieniche, celle claustrofobiche, personale medico quasi inesistente, agenti penitenziari che spesso sopperiscono all’assenza di operatori qualificati, internati sedati con psicofarmaci. L’immagine di un uomo chiuso in cella, legato mani e piedi a un letto di metallo con un foro centrale per far cadere feci e urina direttamente in un pozzetto ricavato nel pavimento, è sconvolgente. Altri flash agghiaccianti: nei bagni alla turca bottiglie d’acqua da bere depositate nel water d’estate per mantenerle fresche, d’inverno per evitare che i topi risalgano dalle fogne. I “mai” che scandiscono il racconto di Francesco Cordio, il regista del documentario girato per la Commissione, raccontano meglio di ogni altra cosa l’abisso di degrado in cui è dovuto entrare: «Ho lavorato in molte situazioni gravi e deprecabili, ma mai in un posto come questo. Non ho mai provato nulla di simile. Sono luoghi orribili, ho faticato a riprendere le cose che avevo davanti, preferivo guardarle attraverso la telecamera». Ignazio Marino lo definisce «un viaggio nell’Ottocento» mentre per il presidente Napolitano questi uomini sono «vittime di contenzione e di un degrado indegno anche di un Paese appena appena civile». Albertina Soliani, una delle senatrici della Commissione d’inchiesta, è netta: «Gli Opg, nonostante la legge Basaglia del 1978, sono rimasti un territorio dimenticato, un cono d’ombra. È il momento per affrontare la questione in via definitiva, dopo questa risoluzione il governo non ha più alibi». La questione è nota da tempo. Già nel 2005, Gil Robles, primo commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, dopo una visita agli Opg italiani aveva detto con chiarezza che per ogni internato andava chiesta una perizia psichiatrica approfondita e che per nessuna ragione i malati-detenuti sarebbero dovuti restare rinchiusi per mancanza di strutture esterne in grado di prendersene cura. Robles, già sei anni fa, sollevava il problema delle “proroghe” che attualmente non è stato ancora risolto. Capita spesso che persone accusate in passato di reati minori, come furti o rapine, a causa di una perizia psichiatrica sbrigativa finiscano internati negli Opg per un periodo ben più lungo della pena stabilita.

Dimenticati

Questo è il caso di Davide, 32 anni, cinque dei quali passati nell’Opg di Reggio Emilia, che un giorno, a Udine, tenta una rapina prendendo una coppia in ostaggio; le forze speciali intervengono e li liberano senza fare feriti. In base alla perizia psichiatrica che segue il suo arresto, durata sette minuti, è giudicato affetto da psicosi delirante. Davide viene internato di nuovo, per due anni che poi diventeranno sette. Di storie simili se ne potrebbero raccontare tante, purtroppo. A Napoli,

un detenuto-paziente, internato per essersi presentato davanti una scuola vestito da donna, venne condannato a due anni. Ne sono passati venticinque, lui è ancora lì. Questo accade perché fuori non c’è nessuno – non la famiglia né la struttura sanitaria territoriale – che sia in grado di prendersi cura di lui. Un’agente penitenziaria in servizio presso l’Opg di Napoli lo conferma: «Per il 40 per cento degli internati la pericolosità sociale è venuta meno. Il problema è che i magistrati di sorveglianza non sanno dove mandarli e prorogano all’infinito la loro permanenza». Infatti sono quattrocento, un quarto del totale, gli internati giudicati “dismissibili” fin da subito perché non più socialmente pericolosi che però si trovano ancora rinchiusi. La questione è stata sollevata nuovamente, nel 2008, dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani e degradanti del Consiglio d’Europa, dopo una visita in Italia: «Alcuni pazienti sono stati trattenuti nell’Opg più a lungo di quanto non lo richiedessero le loro condizioni, altri, invece, oltre lo scadere del termine previsto dall’ordine d’internamento». Il governo italiano si giustifica: «La legge non prevede un limite per l’esecuzione di misure di sicurezza temporanee non definitive». Strano, perché la certezza della pena, la definizione della durata del periodo da scontare per un reato, è uno dei fondamenti di ogni democrazia moderna. In questo caso, evidentemente, si tratta di un optional.

Obiettivo abolizione

«Un decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri del 2008 impone la chiusura degli Opg a favore di strutture territoriali a carico del Sistema sanitario nazionale», spiega la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni, autrice del libro-inchiesta Matti in Libertà – L’inganno della Legge Basaglia, la quale ricorda che «se da un lato la risoluzione votata all’unanimità è un importante passo avanti, dall’altro non è stata presentata nessuna denuncia ai danni del ministero della Giustizia e di quello della Sanità, colpevoli di non essere intervenuti concretamente in tutti questi anni». Sullo stesso punto insiste il comitato Stop Opg, composto da venticinque associazioni che da tempo si battono per la chiusura di queste strutture. «Il nostro obiettivo non è il miglioramento degli Opg, ma la loro abolizione perché sono una risposta sbagliata e incivile, proprio come lo erano i manicomi. Noi continuiamo a fare pressione su governo, regioni, Asl e dipartimenti di salute mentale responsabili di organizzare la presa in carico delle persone internate, come previsto dalle norme e da diverse sentenze della Corte Costituzionale». Nessuno sa quanto tempo dovrà passare prima che il governo si decida a chiudere definitivamente gli Opg e a restituire dignità ai malati e alle persone che ci lavorano. Quanto si dovrà aspettare perché le istituzioni pongano fine all’inferno in cui vivono centinaia di invisibili. Un inferno che un agente di polizia penitenziaria che deve bastare, da solo, per trenta internati, riassume così: «Non dormono mai e c’è chi grida senza motivo. Io accorro, vado a vedere se sta male. Certo che sta male, ma dentro e io non so cosa fare, non posso fare nulla. Ormai quelle voci me le sento dentro, me le porto a casa. Le sembra giusto?».

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mad in italy di

Gianni Mura

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Elfo

il mio ex voto Ex appeal potrebbe essere il titolo della rubrica. Non c’entra il sex appeal (né il Tex, ciao Bonelli), né il mex con la sua meravigliosa umanità e quei nomi incredibili di paesi, come Tzintzuntzan. Né il lex con la dea bendata né il sax con Charlie Parker. Dal sax potremmo scendere o salire verso il fax appeal o il tax (Robin o Tobin?) o il max (conoscete le canzoni di Max Manfredi?). Ma in questo caso, scendendo o salendo, perderemmo di vista l’ex. Ex escort, ho letto su più d’un quotidiano. Escort è uno di quei vocaboli importati che poi diventano importanti. Mimetizzano, mascherano, occultano. Non ricordo le generalità della persona in questione, l’ex escort. Non sono fondamentali. Ma come fa una escort a diventare ex escort? Restituisce la tessera? Cambia indirizzo, in senso lato? Apre un bar? Si fa monaca o volontaria in Africa? Ex è una paroletta corta ma molto usata, anche da sola. «Sono uscito con la mia ex» è il massimo del non detto. Si sottintende un rapporto sentimentale, ma senza precisare se si tratta di ex moglie, ex fidanzata, ex fiamma, ex flirt, e poi nessuno vieta di uscire con l’ex suocera, l’ex cognata, l’ex badante, e per dirla tutta se uno esce, mettiamo, con l’ex moglie, e se tutto torna a filare d’amore e d’accordo, una volta riformata la coppia può costui presentarla come un’ex ex? Un’ex ex, foneticamente, sembra l’inizio della schedina del Totocalcio. Non c’entra, qui gli ex non si schedano ma si considerano, scandiscono, soppesano e talora si frullano. Importante è lo spazio. Duralex è una marca di bicchieri (molto resistenti). Dura lex (sottinteso: sed lex) è una delle prime cose imparate al ginnasio. Dura l’ex è più problematico e ambiguo. Può significare che l’ex (moglie, fidanzata, amante) ha un brutto carattere. Oppure che resiste nel tempo. Dall’ambiguità si prova a uscire andando verso altri ex. Ex ministro, ex manicomio, ex allenatore, qui è tutto chiaro. È una carica, un lavoro, una funzione dismessa. Ex cathedra in origine si riservava al solo papa, adesso si adatta a qualunque pirla. Ex abrupto lasciamo stare. Ex aequo vale alla pari, ma foneticamente un ex aequo è un ex giusto, quindi un ingiusto. Oppure un ex cavallo. Mentre ex novo non significa usato, né ex libris carta da macero. Si arriva ad ex voto: oggetto votivo offerto a una divinità. Questo dicono i vocabolari, e quanti ne abbiamo visti nei santuari. Ingenui quadretti con il disegno di un braccio, una gamba, una barca salvata dall’affondamento, un trattore rovesciato senza danni alle persone. Spesso con la scritta pgr (per grazia ricevuta). Gli ex voto erano una delle passioni di Dino Buzzati già ai tempi del Deserto dei tartari, un libro che i lettori di Le Monde hanno piazzato al ventinovesimo posto tra i capolavori del Ventesimo secolo (in testa, se interessa, c’è Camus con Lo straniero). Il deserto del tartaro è invece la réclame di uno studio dentistico. Abbastanza incisivo. Ma ex voto potrebbe anche essere un’astensione dalle urne o meglio un cambiamento nell’orientamento del votante. Chiusura teatrale. E tu chi sei? «Il Pd» Ah, quello che aveva ingaggiato Calearo? «Sì» (detto con qualche esitazione, ndr). E allora eccoti il mio ex voto.

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conosciamoci meglio Care lettrici e cari lettori, arrivati all’ottavo numero, noi di E-il mensile sentiamo il bisogno di conoscere meglio voi che ci leggete, di avere le vostre opinioni sul giornale, di raccogliere ogni suggerimento utile a migliorarlo. Abbiamo chiesto all’istituto di ricerca Ipsos di realizzare un’indagine, attraverso un breve questionario cui vi chiediamo di rispondere. Basta collegarsi al sito, www.e-ilmensile.it, per trovare le istruzioni. Tutte le informazioni saranno trattate confidenzialmente e solo a fini statistici. Grazie per il contributo: il vostro giudizio sarà per noi prezioso perché vogliamo continuare a costruire insieme e sempre meglio il nostro mensile.

www.e-ilmensile.it Sul nostro sito le istruzioni per compilare il questionario


L’Italia è una Repubblica a cura di

14 settembre, Sellia (Cz)

20 settembre, San Martino di Lupari (Pd)

14 settembre, Bovino (Fg)

21 settembre, Camerino (Mc)

Domenico Pupo, operaio di 56 anni, è morto dissanguato dopo essere caduto su un pezzo di legno appuntito che gli ha tranciato l’arteria femorale.

Un agricoltore di 64 anni è morto mentre effettuava lavori di fresatura nel suo uliveto dopo aver urtato con il mezzo un blocco di cemento.

Fidenzio Ruffato, operaio di 61 anni, è rimasto schiacciato da una gru nel cantiere in cui stava lavorando.

Operaio di 49 anni stava effettuando lavori di riparazione sopra un capannone, quando è scivolato e ha perso la vita.

15 settembre, Monte San Savino (Ar) 22 settembre, Madonna di Campiglio (Tn) Boscaiolo di 38 anni, Gennaro Gragnaniello è rimasto schiacciato sotto una macchina semovente.

15 settembre, San Marzano sul Sarno (Sa) L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra il 14 settembre e il 9 ottobre. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.

Carlo Livello, operaio 49 anni, è morto dopo essere caduto da un’impalcatura alta otto metri.

15 settembre, Trevico (Av)

L’operaio Josef Pircher stava scaricando materiale per la realizzazione di una funivia, quando è rimasto schiacciato da un portarulli in metallo. Aveva 58 anni.

23 settembre, Borgaro (To)

È rimasto folgorato dalla scarica elettrica di una saldatrice. La vittima è Marinel Linguraru, romeno di 24 anni.

Francesco Chiavuzzi, 68 anni, stava dando fuoco alle stoppie nel terreno di sua proprietà. Ha accusato un malore a causa delle esalazioni ed è precipitato in fondo a un burrone.

23 settembre, Muccia (Mc)

16 settembre, Reggio Emilia

23 settembre, Capovalle (Bs)

È morto sul colpo Palushi Jahir Baci, operaio kosovaro di 42 anni, travolto da un macchinario durante le operazioni di scarico di un autocarro.

18 settembre, Torino

Folgorato mentre lavorava all’impianto elettrico di un ristorante. La vittima è Bratu Daniel Jinga, romeno di 32 anni.

19 settembre, Trapani

Vincenzo Di Girolamo, netturbino di 52 anni, caduto dall’autocompattatore battendo la testa lo scorso 26 agosto, è morto dopo molti giorni in ospedale.

Vito Gentile, 56 anni, è stato investito da un camion in retromarcia carico di materiale edile.

È rimasto schiacciato dal proprio trattore mentre trasportava legna. Domenico Beltrami aveva 86 anni.

24 settembre, Lamezia Terme (Cz)

Pasquale Gaetano, agricoltore di 50 anni, ha avvertito un malore mentre era alla guida del suo trattore. È caduto sul terreno restando travolto dal mezzo.

26 settembre, Albignasego (Pd)

Operaio bosniaco di 54 anni, Goran Kovacevich è morto dopo la caduta da un’impalcatura.

27 settembre, Foggia

19 settembre, Pianezza (To)

Agricoltore di 65 anni, Angelo Agostino è morto travolto dai tubi di un ponteggio che stava sistemando in un terreno agricolo di sua proprietà.

Antonio Di Gennaro, 47 anni, stava caricando rifiuti su un camion. Quando il mezzo si è mosso, la vittima ha aperto lo sportello tentando di entrare per innescare il freno, ma è rimasto schiacciato contro un palo della luce.

19 settembre, Montelupone (Mc)

27 settembre, Ventimiglia (Im)

Giovanni Florio, autotrasportatore di 62 anni, è rimasto schiacciato da un castello di balle di paglia.

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Operaio di 43 anni, Nicola Dalmasso è rimasto folgorato dal contatto con un trasportatore di corrente.

28 settembre, Palazzolo dello Stella (Ud) Valmiro Pitton, 71 anni, è precipitato dal tetto di un capannone su cui stava lavorando.

28 settembre, Pignataro Maggiore (Ce) Schiacciato da una pressa all’interno dell’azienda in cui stava lavorando. La vittima è Lorenzo Borrelli, operaio di 33 anni.


fondata sul lavoro Alberto Broggi, 61 anni, è caduto da un’impalcatura all’interno del cantiere dove lavorava.

29 settembre, Val Venosta (Bz)

È rimasto schiacciato dal trattore su cui stava lavorando. Così è morto Paul Paulmichl, 21 anni.

30 settembre, Carpenedolo (Bs)

Hicham Tallabi, operaio marocchino di 32 anni, è morto travolto da un blocco di cemento da 75 quintali.

30 settembre, Pegli (Ge)

Un giardiniere di 29 anni è precipitato al suolo mentre stava eseguendo lavori di potatura sugli alberi.

1 ottobre, Serranova (Br)

3 ottobre, Corteno Golgi (Bs)

Pietro Savardi, artigiano di 54 anni, è morto dopo esser stato colpito dai contrafforti in cemento del montacarichi che stava riparando.

3 ottobre, Giugliano (Na)

Alessandro Coviello, 55 anni, è morto per le esalazioni che si sono sprigionate dal mosto all’interno della cantina in cui stava lavorando.

3 ottobre, Sanguineda di Vergato (Bo) Carlo Zanni, agricoltore di 79 anni, è rimasto asfissiato mentre bruciava le sterpaglie nel terreno di casa sua.

5 ottobre, Bollengo (To)

Agricoltore di 69 anni, Giovanni D’Amico, è morto schiacciato dal suo trattore.

Giulio Annese, 33 anni, titolare della ditta, è rimasto schiacciato da alcune lastre di marmo che stava caricando su un camion con un muletto.

1 ottobre, Caprese Michelangelo (Ar)

5 ottobre, Rompeggio di Ferriere (Pc)

Paolo Mearini, 67 anni, stava bruciando le sterpaglie di un castagneto quando è stato investito dalle fiamme.

1 ottobre, Mondovì (Cn)

Bernardino Rossi, 67 anni, stava scaricando balle di fieno da un rimorchio, quando ha perso l’equilibrio ed è caduto da un’altezza di alcuni metri.

1 ottobre, Sarule (Nu)

Salvatore Pirisi, allevatore di 69 anni, stava caricando alcuni vitelli su un camion quando uno di questi lo ha travolto, scaraventandolo a terra. È morto in seguito a un trauma cranico.

Stavano pascolando un branco di ovini, quando sono stati caricati da un toro di un altro allevatore. Così sono morti Sergio Bisi, 64 anni e Filippo Preli, 60 anni.

7 ottobre, Torino

Ioan Puscas, operaio romeno di 41 anni, è morto cadendo da un’impalcatura alla Pinacoteca Agnelli.

8 ottobre, San Giorgio La Molara (Bn) Mario Belpeiro, agricoltore in pensione di 70 anni, è rimasto schiacciato dal tronco della quercia che stava potando.

2 ottobre, Berzola Langhirano (Pr)

8 ottobre, Grottaminarda (Av)

3 ottobre, Barletta (Bt)

9 ottobre, Denno (Tr)

Mario Chiastra, agricoltore di 88 anni, è stato schiacciato dal trattore che stava guidando nel terreno di sua proprietà.

Il crollo di una palazzina ha provocato la morte di quattro operaie che lavoravano in un laboratorio nello scantinato dell’edificio. Matilde Doronzo, 32 anni, Giovanna Sardaro, 30 anni, Antonella Zaza, 36 anni e Tina Ceci, 37 anni, venivano pagate quattro euro l’ora. Insieme a loro, ha perso la vita la giovanissima figlia del titolare del laboratorio di maglieria.

3 ottobre, Lotzorai (Og)

Romano Perino, agricoltore di 78 anni, è morto schiacciato dal suo trattore.

Un dipendente di IrpiniAmbiente, Franco Di Napoli, è rimasto schiacciato dal compattatore di rifiuti durante l’attività di raccolta. Aveva 48 anni.

Un’operaia, Paola Moro, 70 anni, è morta investita da un trattore nel magazzino ortofrutticolo in cui lavorava.

9 ottobre, Colle di Massa Martana (Pg) Un muratore di 58 anni è stato schiacciato dall’escavatore che stava manovrando.

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14 settembre - 9 ottobre morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

28 settembre, Casciago (Va)


--- 12 MESI 2012 ---

Gli autori più amati solo su Smemoranda 2012, l’unica agenda letteraria!

Introduzione: Margherita Hack e Viviano Domenici Racconti:

Enrico Brizzi / Rossana Campo / Cristiano Cavina / Piero Colaprico / Sandrone Dazieri / Elasti / Chiara Gamberale / Raul Montanari / Gino e Michele / Paolo Nori / Aldo Nove / Tiziano Scarpa

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La guerra infinita

Vietnam La guerra infinita Doan Cong Tinh


Van Sac

Senza fine, dappertutto Avviso: le foto che partono dalla prossima pagina possono colpire i lettori più sensibili. È una formula di rito. Secondo noi colpiranno anche i lettori più insensibili, perché raccontano la storia di una guerra che non ha fine. La raccontano con le immagini di bambini nati deformi, cerebrolesi, senza occhi, senza braccia. Nati da pochi anni in Vietnam, vittime di guerra pure loro, a distanza di decenni dall’illusoria fine del conflitto. L’agent orange, un cocktail a base di diossina, sparso su fiumi e risaie – si cominciò nel 1961, fanno cinquant’anni esatti – non solo cancellò il verde delle foreste che proteggevano i vietcong, ma continua a inceppare i meccanismi del Dna e a spezzare vite umane. In un modo automatico e perverso l’ecocidio ha portato al genocidio. Era stata, quella in Vietnam, l’ultima guerra senza l’informazione embedded. La più documentata da giornalisti e fotografi. Mentre è il silenzio ad accompagnare le sofferenze dei bambini e delle loro famiglie. Abbiamo deciso di rompere quel silenzio. La realtà è questa. Orrenda, ma è questa. Tanto vale guardarla in faccia, nelle facce. Al diavolo il proverbio dell’occhio non vede cuore non duole. Vogliamo che l’occhio veda e che il cuore dolga. L’agent orange ha colpito anche chi lo spargeva, come leggerete nelle testimonianze che abbiamo raccolto da due ex militari Usa. E si studiano armi sempre più sofisticate: le mine fatte per essere raccolte dai bambini (i “pappagalli verdi” di Gino Strada), le bombe cosiddette intelligenti, le armi al fosforo, vietate ma usate lo stesso, in spregio a ogni convenzione. Armi che non uccidono, armi pensate per portare via un pezzo di corpo umano. Chi muore è seppellito, chi sopravvive e non è autosufficiente è un costo sociale. Tutte le guerre sono ignobili. Quelle lampo, quelle religiose, quelle preventive, quelle umanitarie. Sapete come la pensiamo, a E. E quelle che non finiscono mai e di cui non si parla mai? Ditelo voi, se siete arrivati in fondo a un inferno in bianco e nero. Non abbiamo censurato le foto (e so già che saremo criticati per questo) perché l’orrore non si maschera e perché sia sempre più difficile dire: io non lo sapevo. g.m.


La guerra infinita

Gli anni del Vietnam «Mettiamoci d’accordo sul diciassettesimo». Vjaceslav Molotov, vecchio leone bolscevico e ministro degli Affari esteri sovietico, era uno che di patti scellerati se ne intendeva parecchio. Fu lui nel 1939 a sottoscrivere un accordo di non aggressione con la controparte nazista Joachim von Ribbentrop. Nel 1954 durante la conferenza di Ginevra di pacificazione tra i vietminh, i vincitori, e la Francia, gli sconfitti, si propose come mediatore dell’intesa che poneva fine alla colonizzazione francese in atto dal 1883. Dopo 74 giorni di lavori senza esito, la Repubblica popolare cinese si fece avanti con il suo diplomatico più raffinato, Chu En-lai. Ministro degli Esteri formatosi a Parigi, Chu, ideò con il rappresentante francese, Pierre Mendès France, una soluzione “onorevole” volta a evitare ogni possibile influenza statunitense nel Sudest asiatico. Mendès aveva di fronte Pham Van Dong, capo delegazione del Vietminh. Dopo aver concordato di dividere il Paese in due zone, le parti tentarono di tirare, come una coperta, il confine che avrebbe separato il Nord dal Sud. Dong, forte di una vittoria schiacciante, voleva che il confine fosse fissato al tredicesimo parallelo, il che avrebbe assicurato ai comunisti il controllo di due terzi del Paese. I presenti lo convinsero ad ac-

cettare il sedicesimo. Ma non era ancora sufficiente per la Francia che voleva una demarcazione lungo il diciottesimo. Molotov propose allora il diciassettesimo. Ciò che avvenne in Vietnam dopo quella divisione è una storia scritta, letta, riletta e fatta di bugie, giochi di potere, di corruzione, di morte e di distruzione. Gli Stati Uniti penetrarono di fatto nel Sudest asiatico già durante gli anni Cinquanta quando la temperatura politica dentro e fuori il Paese era segnata dalle teorie del senatore Joseph McCarthy e dalla sua caccia ai comunisti. Il presidente democratico Harry Truman cominciò ad aiutare con enormi forniture militari le forze militari francesi nella guerra contro Ho Chi Minh e il suo generale Vo Nguyen Giap. L’azione era ispirata dalla “teoria del domino”, secondo la quale se l’Indocina fosse caduta in mano ai comunisti, anche gli altri Paesi del Sudest asiatico avrebbero fatto la stessa fine. L’amministrazione repubblicana di Dwight Eisenhower continuò a evitare un attacco diretto contro il Vietnam, fuori da un’azione concertata con gli alleati. Nel 1960 alla Casa Bianca s’insediò il giovane presidente democratico John Fitzgerald Kennedy, specialista di politica estera e persuaso dall’idea che la Nuova frontiera, da lui ideata, do-


Arancio indelebile testo e foto di Livio Senigalliesi [buenavista]

30 aprile 1975: le truppe nordvietnamite entrano a Saigon. Finisce così la guerra del Vietnam. Ma non per tutti. Sono quattro milioni le persone che subiscono gli effetti dell’agent orange, il defoliante alla diossina che l’aeronautica Usa riversò lungo il confine con il Laos e la Cambogia. Ancora oggi loro, i loro figli, come i reduci, devono convivere con gravi patologie. E chiedono giustizia


di

Erri De Luca

foto

Nicolas Henry

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La guerra infinita

vesse passare dal contenimento del comunismo in Sudamerica e nel Sudest asiatico. Kennedy guardava con apprensione alla formazione del Fronte nazionale di Liberazione del Vietnam del Sud, che venne soprannominato Vietcong, “comunista vietnamita”. I vietcong sposarono con tutte le forze quella causa di liberazione che i loro padri avevano portato avanti combattendo, e vincendo, per i quindici anni precedenti non solo contro la Francia, ma anche contro il Giappone che aveva occupato l’Indocina durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1960 i vietcong iniziarono a mobilitare la popolazione contadina contro lo strapotere di Ngo Dinh Diem, uomo fantoccio degli Stati Uniti che, insieme al fratello Ngo Dinh Nhu, varò riforme ultrapuritane e di stampo cattolico che provocarono diverse reazioni nelle frange più progressiste della popolazione e che avevano come bersaglio i buddisti, a partire dai monaci. La mattina dell’11 giugno uno di loro, Quang Duc, 66 anni, si diede fuoco in pieno centro a Saigon. Gli Stati Uniti si convinsero allora a rovesciare il governo vietnamita, attraverso un piano che vide coinvolti l’ambasciatore Usa a Saigon, Henry Cabot Lodge, i generali di Diem ribelli e l’agente della Cia, Lucien Conein. Il primo novembre i generali deposero e uccisero i fratelli Diem dopo che questi si erano arresi. Tre settimane dopo, il presidente Kennedy fu assassinato mentre sfilava lungo le strade di Dallas a bordo della sua Lincoln. Era il 22 novembre 1963. Lindon B. Johnson, a differenza del suo predecessore, non era avvezzo agli affari di politica estera. Il suo sogno era quello di continuare il New Deal di Franklin Delano Roosevelt con la sua Great Society: un piano di riforme per la giustizia sociale e l’uguaglianza economica e razziale. In Vietnam Johnson confermò l’appoggio di Washington al nuovo governo golpista, sperando di poter così chiudere la guerra in breve tempo. Sul fronte opposto Ho Chi Minh cercò, nel 1963, l’aiuto della Cina di Mao Tze Dong e dell’Unione sovietica di Nikita Kruscev che però non voleva uno scontro più ampio che potesse compromettere il disgelo con gli Stati Uniti. Preso atto della posizione sovietica, i nordvietnamiti si spostarono sull’asse cinese. La Repubblica popolare inviò armi e rifornimenti ai nordvietnamiti attraverso il Sentiero di Ho Chi Minh, una strada che passava attraverso il Laos meridionale e la Cambogia nordorientale. Questa ramificazione di percorsi nella giungla fu il vero punto debole degli Stati Uniti che fin dal 1961 cercarono di distruggerla con le incursioni chimiche delle operazioni Ranch Hand. All’inizio del 1964 il generale sudvietnamita Nguyen Khan rovesciò la giunta militare responsabile della caduta di Diem. Gli Usa in quel periodo versavano al Vietnam due milioni di dollari al giorno. Nel 1964 si iniziò a parlare di americanizzazione della guerra.


Nguyen Van Lahn giace da ventidue anni su una stuoia in una stanza buia come una caverna e dalla sua bocca spalancata escono urla che lacerano il silenzio. Gli hanno legato le mani con uno straccio per evitare che si graffi e la madre Le Thi Mit lo accarezza cercando in ogni modo di calmarlo. Siamo nel folto della giungla, nel villaggio di Cam Nghia, provincia di Quang Tri, appena a sud della Zona demilitarizzata che durante la guerra divideva il Vietnam del Nord da quello del Sud. Ci si arriva

percorrendo una strada di terra rossa che si arrampica tra le colline coperte da una vegetazione lussureggiante. Abbandonato il fuoristrada si prosegue a piedi. Il sole e la natura circostante rendono la passeggiata gradevole, ma giunti alla meta la situazione diventa di colpo angosciante. Nguyen Van Lahn ha un fratello pi첫 piccolo, Van Truong di sedici anni, che striscia verso la soglia della baracca e guarda atterrito gli estranei che hanno invaso la sua solitudine domestica. Porta sempre una mano


sugli occhi, come se non volesse vedere e continua a rivoltarsi su se stesso senza trovare pace. La guerra del Vietnam si è conclusa nel 1975 ma i fratelli Nguyen, nati dopo la fine del conflitto, ne sono ancora vittime. La malattia mentale da cui sono afflitti e le deformità fisiche sono conseguenza dell’agent orange, l’erbicida dall’alto contenuto di diossina che gli aerei statunitensi hanno nebulizzato tra il 1961 e il 1971 sul delta del Mekong e nella zona degli Altopiani centrali ai confini con il Laos.

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La guerra infinita

I controversi episodi che si verificarono nel Golfo del Tonchino, durante l’estate di quell’anno, diedero a Johnson l’opportunità di penetrare in forze in Indocina. Il 3 agosto i cacciatorpedinieri statunitensi Maddox e C. Turner Joy stavano perlustrando il Golfo del Tonchino quando entrarono in un banco di nebbia che mandò in tilt i loro strumenti di bordo. Credendo di essere attaccati da imbarcazioni nemiche, iniziarono a sparare siluri. Il Maddox non aveva fatto alcun “effettivo avvistamento” scrisse nel suo rapporto il comandante del cacciatorpediniere, William Herrik. Johnson, però, aveva già ordinato sessantaquattro incursioni contro le basi di pattugliamento marino del Vietnam del Nord. Successivamente il presidente tentò di ottenere l’appoggio unanime del Congresso, ma Wayne Morse, senatore dell’Oregon, ed Ernest Gruening, senatore dell’Alaska, si rifiutarono di appoggiare la risoluzione del Tonchino che, in pratica, concedeva a Johnson il potere di fare la guerra. Dopo la sua rielezione, il 3 novembre 1964, e dopo una serie di attacchi dei vietcong, Johnson diede avvio alle operazioni Flaming Dart e Rolling Thunder: un centinaio di aeroplani bombardarono un deposito di munizioni nordvietnamita. I raid, che sarebbero dovuti durare otto settimane, si prolungarono fino al novembre del 1968. I B-52 devastarono il Nord del Paese con un milione di tonnellate di esplosivo: il triplo rispetto a quelle sganciate in Asia, Africa ed Europa durante il secondo conflitto mondiale. La mattina dell’8 marzo 1965, tremila e cinquecento marines sbarcarono a Danang, con lo scopo di sorvegliare la più grande base aerea statunitense in Vietnam. Questo primo aumento di truppe, insieme a tutto il piano degli Usa, non fu rivelato pubblicamente. Era una delle tante bugie che Johnson propinò al popolo americano durante il conflitto. A giugno inviò altri quarantamila soldati e chiese uno stanziamento di 700 milioni di dollari per la guerra. L’11 maggio il regime di Khan fu ribaltato da Nguyen Van Ky e Nguyen Van Thieu. William Westmoreland, comandante delle forze di combattimento americane in Vietnam, chiese a Washington altre centomilamila unità come “rimedio temporaneo” agli attacchi. Il 28 luglio, dopo un lungo giro di consultazioni con le più alte personalità della politica statunitense il presidente comunicò alla nazione: «Ho chiesto al comandante, generale Westmoreland, che cosa gli servisse per far fronte a questa crescente aggressione. Me lo ha detto. E noi soddisfaremo le sue necessità. Non possiamo essere sconfitti con la forza delle armi. Rimarremo in Vietnam». Era l’inizio dell’escalation. La tattica di Westmoreland era divisa in tre fasi: proteggere le basi aeree e logistiche americane vicino a Saigon, dare avvio a operazioni di Search and Destroy per schiacciare il nemico e, infine, rastrellare gli ultimi comunisti


Quarantacinque milioni di litri di una miscela altamente tossica furono usati per defoliare le foreste lungo il Sentiero di Ho Chi Minh, rifugio dei Vietcong. Lo scopo dell’operazione Ranch Hand era quello di distruggere la coltre verde della foresta con i diserbanti, individuare il nemico e colpirlo dall’alto con bombe sganciate dai B-52. Le Thi Mit, madre dei fratelli Nguyen, ha cinquantotto anni e un volto distrutto da una vita fatta di dolore e povertà. Ricorda i tempi della guerra: «Gli aerei passa-

vano più volte spargendo una nuvola giallastra dall’odore acre. Ci sentivamo soffocare. Gli occhi lacrimavano. Dopo alcuni giorni le foglie degli alberi iniziavano a cadere. Nessuno ci aveva avvisato della pericolosità della sostanza e per anni abbiamo continuato a bere l’acqua dei pozzi e a mangiare i prodotti della terra. Si trattava di sopravvivere». Alla fine della guerra i coniugi Nguyen ebbero un figlio, Van Phu. Morì all’età di quattro anni a causa delle malformazioni. Poi arrivarono i suoi fratelli,


anche loro malati. Stessi sintomi. La loro mente è distrutta. Non parlano, non sentono. Non possono stare né seduti né in piedi. Non chiedono mai nulla, nemmeno da mangiare. Dice Le Thi Mit: «Viviamo di un piccolo sussidio mensile del governo. Mio marito Van Loc lavora nei campi e così riusciamo a mangiare. I ragazzi li imbocco, uno dopo l’altro. Così da più di vent’anni. Ma questa non è vita. Vi ringrazio di essere venuti. È necessario che tutto il mondo sappia».

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rimasti, per vincere la guerra. La missione Usa in Vietnam si dotò di tutti i vantaggi possibili, a partire dalle costruzioni logistiche fino alle armi dei soldati che venivano consegnate in lotti da un milione di tonnellate al mese. Le armi più criticate furono le bombe a grappolo, quelle al fosforo e quelle al napalm. Queste ultime bruciavano vivi coloro che ne venivano esposti. L’immagine di Kim Puch – oggi ambasciatrice per la pace dell’Unesco – che, ancora bambina, correva nuda per le strade del suo villaggio bombardato nel 1972 con il corpo devastato dal napalm, è una delle più emblematiche della guerra. Nel maggio del 1966, il dittatore Ky attuò una dura repressione dei buddisti in tutto il Paese: dieci tra monaci e monache si immolarono per la causa. Johnson si dimostrò meno tollerante e obbligò Ky a indire elezioni e a promulgare una Costituzione. Thieu diventò presidente e Ky, in virtù di un accordo segreto, fu nominato suo vice. Anche i comunisti ebbero problemi, dissidi sulle tattiche da adottare in combattimento con l’alleato cinese. I nordvietnamiti spingevano per la grande soluzione, Mao consigliava loro di continuare con la guerriglia. Con il progredire della guerra, molti soldati statunitensi cominciarono a manifestare un sentimento di ripulsa nei confronti dell’impegno militare in Indocina. Alcuni di loro parteciparono a missioni di estrema crudeltà contro i civili. Quella più tristemente nota è il cosiddetto massacro di My Lai che si consumò il 16 marzo del 1968 e provocò l’uccisione indiscriminata di almeno 340 civili, fra i quali anche anziani, donne e bambini. Il tenente William Calley Jr., responsabile del plotone d’attacco, fu processato e condannato all’ergastolo. Dopo una duplice riduzione di pena, il presidente Nixon gli concesse gli arresti domiciliari. All’inizio del 1966 Johnson aumentò le truppe a duecentomila unità, provocando accese proteste da parte degli studenti contro la leva obbligatoria. Due giovani si diedero fuoco davanti al Pentagono e alla sede delle Nazioni unite. Quell’anno la guerra costò 21 miliardi di dollari. Per farvi fronte Johnson ricorse a un aumento delle tasse, una mossa che pagò in termini di consenso: il 46 per cento degli statunitensi considerava ora la guerra un “errore”. Il 31 gennaio del 1968, approfittando di una tregua concessa durante il Tet, il capodanno lunare, le forze nordvietnamite e vietcong attaccarono contemporaneamente, e con estrema ferocia, oltre cento centri abitati in tutto il Vietnam del Sud. Hué fu occupata dai vietcong per venticinque giorni e devastata. Il colpo più indigesto per l’establishment statunitense fu l’attacco all’ambasciata americana di Saigon da parte di quarantamila vietcong, nel corso del quale persero la vita quattro soldati statunitensi. La lotta per la riconquista della capitale fu spietata. In quella circostanza il generale Nguyen Ngoc Loan, capo della


Il dramma dei fratelli Nguyen non è purtroppo un caso isolato. I numeri sono impressionanti. Secondo le stime diffuse dalla Croce rossa vietnamita sono quattro milioni le persone che dal termine del conflitto subiscono gli effetti dell’agent orange. Cinquecentomila sono i casi più gravi che vengono curati in centri specializzati come il Tu Du Hospital di Ho Chi Minh City, una struttura moderna costruita agli inizi degli anni Novanta. Nel Peace Village, il reparto specializzato nella cura delle vittime della diossina, operano tre medici e ventiquattro infermiere specializzate.

Il 90 per cento dei bambini affetti vengono abbandonati alla nascita dalle famiglie e passano tutta la vita nell’ospedale. Per i casi più gravi non c’è speranza di miglioramento e sono condannati a una lunga degenza. Per gli altri si tenta un recupero che permetta loro di vivere una vita quasi normale e di svolgere un lavoro. Miss Truong Thi Ten, una delle infermiere specializzate con maggior esperienza, ci guida alla visita del reparto iniziando da una sorta di dark room dove vengono conservati in flaconi di formalina i feti nati morti o deceduti subito dopo la nascita a causa delle gravi malformazioni.


Abbiamo davanti agli occhi una terribile galleria degli orrori che mostra la gravità del problema, ciò che il mondo non dovrebbe o non vorrebbe mai sapere: una strage silenziosa che continua dagli anni Settanta e che miete ogni anno migliaia di vittime innocenti che non hanno nulla a che fare con la guerra combattuta dai loro padri o dai nonni più di quaranta anni fa. Girando tra le corsie s’incontrano bambini di ogni età. Vengono dalle aree del delta del Mekong, dalla provincia di Kontum e dalle altre province ai confini con Laos e Cambogia. Recenti prelievi effettuati sulla popolazione delle

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polizia nazionale vietnamita, uccise a sangue freddo, con una pistolettata in testa un prigioniero che i suoi uomini avevano portato al suo cospetto. La scena immortalata dal fotografo della Associated Press, Eddie Adams, e ripresa dalla telecamera dell’operatore vietnamita della Nbc, Vo Suu, fece il giro del mondo. Le opinioni sull’operato del presidente precipitarono. A differenza del 1963, quando otto americani su dieci lo sostenevano, ora Johnson aveva l’appoggio di tre americani su dieci. Fin dall’inizio della sua amministrazione il leader democratico optò per la politica della “sincerità ridotta al minimo”: i reali esiti del conflitto dovevano essere nascosti al popolo per non creare agitazione. Con la popolarità ai minimi storici il presidente preparò il suo discorso più duro: «Non accetterò la candidatura del mio partito per un altro mandato come vostro presidente». Una disfatta su tutti i fronti di un presidente che aveva ancora schierati nel Sudest asiatico cinquecentocinquantamila soldati. Intanto la diplomazia statunitense era riuscita a dare avvio alla prima conferenza di pace a Parigi, che si aprì ufficialmente il 10 maggio 1968. Gli Stati Uniti volevano il ritiro totale delle truppe comuniste dal Sud, mentre Hanoi voleva un nuovo governo a Saigon in cui fossero presenti anche i vietcong. Il 5 novembre 1968, Richard Nixon viene eletto presidente. Dopo l’insediamento cercò subito l’approccio diplomatico con Urss e Cina anche se, dall’altra parte, non disdegnò l’uso di sistemi più eccentrici come la famosa “teoria del pazzo” che consisteva nel far credere ai nordvietnamiti, allo scopo di intimorirli, di essere pronto anche ad azioni estreme pur di vincere la guerra. Per sbloccare una situazione ormai in stallo da mesi il presidente ideò con il consigliere per la Sicurezza nazionale, Henry Kissinger, un piano di attacchi sulla Cambogia allo scopo di neutralizzare le basi nordvietnamite. Il 17 marzo del 1969 fu avviata l’operazione Menu che sarebbe durata per i successivi quattordici mesi. Nixon e Kissinger la tennero coperta da una totale segretezza: avevano attaccato un Paese neutrale. L’intrigo fu svelato a maggio dal New York Times e gettò parecchio discredito sull’amministrazione. Nixon puntava ora sulla nuova teoria della vietnamizzazione del conflitto. Sotto gli auspici di una progressiva deescalation, il 4 agosto le parti si incontrarono di nuovo a Parigi ma Ho Chi Minh diede una risposta negativa alle offerte di Nixon. Fu il suo ultimo “freddo rifiuto”. Il leader comunista si spense il 2 settembre all’età di settantanove anni. La sera del 30 aprile 1970, Nixon informò il Paese dei bombardamenti segreti sui santuari comunisti in Cambogia. Violente manifestazioni scoppiarono in tutti gli Stati Uniti. Alla Kent State University dell’Ohio il governatore James Rhodes fece intervenire la guardia nazionale che il 4 maggio del 1970, sparò sulla


zone affette, sulle vittime, sugli animali e nella falda acquifera confermano che la concentrazione di diossina continua a essere altissima. A causa del disastro ecologico, la contaminazione continua anche ai nostri giorni attraverso il ciclo alimentare. La diossina, assunta attraverso il cibo o il latte materno, entra in circolo, raggiunge gli organi bersaglio e provoca tumori o alterazioni del Dna, una catena di infinite sofferenze dal devastante impatto sociale. Nguyen Duc e Viet giunsero al Tu Du Hospital appena

nati, ventiquattro anni fa. I due gemelli provenivano dal distretto di Sa Thay, provincia di Kontum, uno dei luoghi più contaminati dal micidiale erbicida. Uniti all’altezza della pelvi – un bacino, due gambe, un pene – all’età di otto anni vennero operati e divisi. Duc ebbe un destino favorevole. Grazie alle cure superò gli handicap fisici, riuscì a studiare e a inserirsi nello staff dell’ospedale. Il fratello Viet tutt’ora vegeta letteralmente nel letto, curato dalle infermiere e dalla madre Lam Thi di cinquantadue anni.


Nell’aula adibita allo studio incontro una giovane che scrive con il piede: Pham Thi Thuy Linh, ha dodici anni ed è nata senza braccia. Scrive e lavora al computer usando i piedi. Ha una scrittura molto ordinata, bellissima. Se si troveranno i soldi per le protesi il suo futuro sarà diverso. La catastrofe ambientale e sociale è ancora evidente in alcune aree rurali altamente inquinate dalla diossina come la Valle di A-Luoi, a ovest di Hué, nei pressi della frontiera con il Laos.

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folla uccidendo quattro studenti. L’episodio infiammò il Paese: studenti e insegnanti scioperarono e oltre centomila manifestanti marciarono su Washington. Anche l’élite culturale dimostrò in modi diversi il suo disprezzo nei confronti di Nixon. Lo scrittore Arthur Miller, invitato alla Casa Bianca, declinò con un telegramma in cui scrisse: “Quando i fucili sparano, le arti muoiono”. Meno per il sottile ci andò Grace Slick, cantante dei Jefferson Airplane che, durante un ricevimento al palazzo presidenziale, tentò di sciogliere, senza riuscirci, 600 microgrammi di Lsd nel tè del presidente: «Un Nixon sotto acido avrebbe sicuramente preso decisioni più intelligenti», disse l’artista. Nixon sapeva di dover velocizzare le intese per la firma di un accordo. Kissinger incontrò per la prima volta Le Duc Tho a Parigi il 21 gennaio 1970 senza Thieu che venne sempre tagliato fuori dai meeting. Mentre era impegnato ad appoggiare le forze sudvietnamite che tentavano di distruggere il sentiero di Ho Chi Minh in Laos, Nixon fu colpito dallo scandalo. A partire dal 13 giugno 1971 il New York Times iniziò a pubblicare i Pentagon Papers, documenti segreti che svelavano la vera faccia della guerra. Il presidente ordinò indagini, illecite, su Daniel Ellsberg, funzionario della Difesa sospettato di aver passato le carte al quotidiano. Gli “idraulici”, la squadra investigativa di Nixon, ampliarono le indagini fino a raggiungere il comitato nazionale del partito democratico nel complesso edilizio del Watergate. Nell’ottobre del 1972 Nixon, preoccupato per l’esito delle future elezioni, decise di accettare la proposta di Le Duc Tho: sarebbe stato firmato un cessate il fuoco, che prevedeva il ritiro delle truppe americane, lo scambio dei prigionieri e altre questioni militari. I problemi del Vietnam li avrebbero risolti i vietnamiti. Kissinger doveva convincere Thieu ad accettare l’accordo, ma il generale si lasciò prendere dal panico. Nixon era ancora dell’idea di non voltargli le spalle e, forte della rielezione di novembre, dispose l’operazione Linebacker 2, tremila incursioni aeree in undici giorni, con quarantamila tonnellate di bombe sganciate: 1.623 civili morti fra Hanoi e Haipong. Quello fu l’ultimo, insensato, attacco. Il 27 gennaio del 1973 Nixon firmò gli accordi di pace che non erano variati di una sola virgola rispetto a ottobre. Si sarebbe ritirato dopo la liberazione dei quattrocento prigionieri ancora in mano ai vietcong. Dopo il disimpegno statunitense, le forze comuniste iniziarono la campagna di Ho Chi Minh, che si chiuse con la presa di Saigon il 30 aprile 1975. In quelle ore, gli statunitensi lasciarono per sempre il Sudest asiatico a bordo degli ultimi elicotteri in partenza dalla capitale. La polvere che ricadde a terra dopo il loro passaggio, coprì i corpi di cinquantottomila soldati statunitensi e oltre tre milioni di vittime vietnamite. Antonio Marafioti


Qui la vita degli abitanti – gruppi minoritari di etnia Pa Co – è molto difficile. Un grande cartello all’entrata del villaggio di Dong Son ricorda il pericolo di contaminazione: vietato coltivare e bere l’acqua dei pozzi. «È proibito portare anche gli animali al pascolo. Viviamo del solo contributo dello Stato», dice Quynh Bay, un ex combattente. «Questa è una zona maledetta, non c’è futuro. Dai tempi della guerra la terra è malata e ogni famiglia ha almeno un bambino disabile». Sua figlia, la piccola Ho Thi Nga, di sette anni, non parla, non sente, si regge a mala pena sulle gambe.

A Bien Hoa, centinaia di chilometri più a sud, stessa situazione, stessa sofferenza. Da qui partivano gli aerei statunitensi impegnati nell’operazione Ranch Hand. Tutta l’area è tuttora pesantemente contaminata. Così pure il vicino Lago di Dong Nai dove gli aerei scaricavano i residui di erbicidi rimasti nei serbatoi al termine di ogni missione. Ed i risultati li si può constatare visitando il locale Centro per i bambini vittime della diossina. Su una popolazione di cinquecentomila abitanti ci sono mille vittime di gravi malformazioni e lesioni cerebrali irreversibili.


L’agent orange è l’erbicida che gli Stati Uniti impiegarono tra il 1961 e il 1971 per portare avanti la campagna Ranch Hand: un programma di irrorazione delle foreste del Vietnam condotta dagli aerei C-123 Provider e dagli elicotteri UH-1 Iroquois. Veniva chiamato così perché sui barili da 55 galloni dentro i quali veniva trasportato – neri e senza alcuna scritta che ne rivelasse il contenuto – era presente una striscia arancione di 7 centimetri di spessore. Il suo uso in Vietnam aveva l’obiettivo di defoliare i luoghi di combattimento per privare i vietcong della copertura naturale dei boschi e delle foreste. L’uso dell’erbicida ha causato pesanti danni fisici alla popolazione vietnamita e agli stessi soldati statunitensi. L’agent orange è, infatti, una miscela di due componenti chimici: l’acido diclorofenossiacetico e il triclorofenossiacetico. Nella produzione dell’agent orange viene usata anche la diossina. È quest’ultimo elemento che rende il prodotto altamente dannoso per l’uomo. Diversi studi condotti dal 1970 fino a oggi hanno dimostrato che l’esposizione all’erbicida può provocare gravi disturbi. Il Dipartimento Usa per gli Affari dei veterani li ha riassunti nell’elenco delle malattie che si presume siano relative all’esposizione all’agent orange/diossina. Tra le patologie ci sono la cloracne, il linfoma non-Hodgkin, il sarcoma dei tessuti molli, i tumori alle vie respiratorie, il cancro alla prostata, il diabete di tipo 2 e la leucemia linfatica cronica. Oltre ai danni diretti, i ricercatori hanno rilevato la possibilità di spina bifida sui figli dei maschi contagiati. Per i figli delle donne esposte si aggiunge il rischio di contrarre altre diciotto malattie. Tra il 1961 e il 1971 i velivoli statunitensi irrorarono il 10 per cento della superficie del Vietnam del Sud con circa 75 milioni di litri di 15 tipi di erbicidi differenti. L’agent orange fu il più usato: 45 milioni di litri furono spruzzati su 3.181 villaggi. Diversi studi scientifici dimostrano che furono esposti all’erbicida dai 2 milioni 100mila ai 4 milioni 800mila cittadini vietnamiti. Per saperne di più: www.vn-agentorange.com, www.vava.org

Queste immagini Venti scatti documentano le terribili conseguenze sulla popolazione civile del defoliante alla diossina nebulizzato dall’aviazione Usa lungo il Sentiero di Ho Chi Minh durante il conflitto con il Vietnam. Le conseguenze della guerra chimica di ieri per pensare criticamente ai danni irreparabili causati all’uomo e alla natura dalle guerre attuali. Le immagini sono disponibili in pannelli per esposizioni. Per richiederle: contatti@liviosenigalliesi.com

Il costo umano, sociale ed economico è altissimo. Per le famiglie, dove i figli sono visti come forza-lavoro, dover mantenere tre o quattro bimbi gravemente malati e non autosufficienti è insostenibile. A questo segue il dramma dell’abbandono delle stesse vittime e l’emarginazione sociale. Il Vietnam è un Paese in forte espansione economica. Guarda al mercato internazionale e al futuro, ma deve fare i conti con questa pesante eredità. Di fronte all’ampiezza del disastro, la questione di fondo resta quella delle responsabilità. Una svolta si è avuta

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La guerra infinita

Dieci anni di diossina


con la creazione ad Hanoi, il 10 gennaio 2004, della Vietnam Association for Victims of Agent Orange/Dioxine. Non appena creata, l’associazione delle vittime ha presentato alla Corte di giustizia del distretto di New York una querela contro le trentasei imprese che hanno fabbricato il composto chimico per l’esercito americano. Tra le società, le più note sono Monsanto e Dow Chemical. Le motivazioni giuridiche sono molte: violazioni delle leggi internazionali, crimini di guerra, fabbricazione di prodotti pericolosi, danni sia involontari sia

intenzionali, arricchimento abusivo. I querelanti richiedono danni e interessi per le lesioni personali subite, i morti, le nascite di bambini malformati e anche per la necessaria decontaminazione dell’ambiente. Per ora il ricorso, esaminato unicamente dal punto di vista dell’ammissibilità, è stato rigettato dal tribunale statunitense. I querelanti hanno subito presentato ricorso in appello, perché il loro obiettivo è non solo ottenere riparazione per le sofferenze subite, ma anche vedere la comunità internazionale, e in particolare gli


Per le vittime dell’agent orange il governo degli Stati Uniti non ha mai previsto indennizzi. Il primo febbraio del 1973, durante i negoziati di pace con il governo di Hanoi, il presidente americano, Richard Nixon, scrisse una lettera segreta al primo ministro nordvietnamita Pham Van Dong promettendo tre miliardi 250 milioni di dollari ripartiti in cinque anni per la ricostruzione del Paese e l’assistenza alla popolazione. Washington non versò mai quella cifra. Gli unici fondi usciti dalle casse dello Stato sono stati quelli previsti dal bilancio federale nel 2007 e nel 2009: in entrambi i casi il Congresso ha approvato una spesa di tre milioni di dollari per le operazioni di bonifica e assistenza sanitaria, per la sola area di Danang. Neanche un dollaro, invece, è stato stanziato dagli Usa per risarcire le vittime, dirette e indirette, della contaminazione. Il governo vietnamita ha invece avviato un programma di assistenza per i contagiati. Un comitato formato da rappresentanti del ministero della Salute e da quelli del Lavoro, degli Invalidi di guerra e degli Affari Sociali valuta periodicamente l’ammissibilità di alcuni soggetti a un programma di indennizzo da 300mila dong vietnamiti (20 dollari) al mese. La spesa annuale di questo piano varia dai 500 milioni al miliardo e 200 milioni di dollari. Da esso sono esclusi gli ex combattenti dell’esercito di Saigon. Nel 2004 la Vietnam Association for Victims of Agent Orange/ Dioxine (Vava) guidò una class action legale contro la Dow Chemical, una delle aziende produttrici dell’erbicida. Il 10 marzo del 2005 il Tribunale di New York rigettò la domanda sostenendo, tra l’altro, che l’uso degli erbicidi non costituiva una violazione al diritto internazionale perché non veniva impiegato come un veleno contro le persone. Anche il ricorso in appello e quello alla Corte Suprema ebbero esito negativo. Negli Stati Uniti, invece, era andata meglio a un gruppo di veterani che vent’anni prima, nel 1984, avevano citato in giudizio le aziende produttrici che si accordarono poi per un pagamento extragiudiziale di 180 milioni di dollari. È l’unico risarcimento che i veterani abbiano ottenuto. Il 6 febbraio 1991, il Congresso aveva approvato l’Agent Orange Act, una legislazione che ha posto le basi dell’assistenza sanitaria ai reduci da parte del dipartimento degli Affari dei veterani. Una relazione del 2009 stilata per i membri del Congresso ha appurato che sono le Ong, le associazioni private e le fondazioni, i maggiori finanziatori di progetti rivolti alle vittime dell’agent orange in Vietnam. Il maggior contribuente in tal senso è la Ford Foundation che, tra fondi propri e raccolti da altre associazioni, ha devoluto alla causa 18 milioni 600mila dollari tra il 2008 e il 2009. Il 25 luglio scorso Bob Filner, deputato democratico della California, ha presentato il Victims of Agent Orange Act, un disegno di legge che punta al riconoscimento dell’assistenza sanitaria a tutte le vittime del contagio. La proposta prevede che “il termine ‘vittime’ comprenda qualsiasi persona che sia un cittadino vietnamita, vietnamita-americano, o veterano degli Stati Uniti, che è stato esposto all’agent orange, o i discendenti di questa persona, e chi ha una malattia o una disabilità associata a tale esposizione”.

Stati Uniti, riparare a una scandalosa dimenticanza della storia “ufficiale”. Ancora oggi, pochissimi fra i turisti che si recano al Museo della guerra americana di Ho Chi Minh City sanno che quei due feti deformi sotto formalina, nella teca circondata dalle foto in bianco e nero di Larry Burrows, non fanno parte di un passato da archiviare con i suoi orrori, ma del presente.

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La guerra infinita

Quei crimini mai ammessi


Il soldato ignaro Dai tubi del suo elicottero spruzzava l’erbicida senza sapere cosa fosse. Al ritorno dalla guerra un cancro, l’indifferenza, nessun indennizzo. Un veterano racconta a terapie per gli attacchi di panico e a un trattamento intensivo per i miei polmoni. Nel 1987 ho imparato la meditazione buddista in Birmania e Thailandia. Una scelta che mi ha portato a vivere come un monaco e a riprendere in mano la mia vita. Oggi riesco a respirare meglio e a fare i miei esercizi spirituali».

di

Antonio Marafioti

Ralph Steele ha conosciuto l’orrore della guerra in Vietnam a diciannove anni. Infanzia e adolescenza a Pawley’s Island, South Carolina, nel 1968 è stato ˜ Tàu, qualche arruolato nell’esercito e spedito a Vung chilometro a nord di Long Thanh, dove ha prestato servizio nel campo aereo di Bearcat. Per un anno ha lavorato sugli elicotteri che irroravano di agent orange le foreste del Vietnam del Sud. Questo gli ha provocato infermità fisiche e mentali che è riuscito a superare solo in parte. Oggi, a sessantun’anni, insegna meditazione Theravada. Che tipo di problemi le ha provocato il contatto con l’agent orange? «Al mio ritorno dal Vietnam mi è stata diagnosticata una neoplasia che, fortunatamente, si è rivelata benigna. Ho avuto anche problemi ai polmoni e bronchiti molto violente. Ma tutto questo nel mio dossier medico di fine servizio è stato fatto ricadere sotto la voce ‘disabilità’. Qui negli Stati Uniti difficilmente vengono diagnosticate malattie correlate all’esposizione all’agent orange. Nel mio caso avrebbero dovuto scriverlo perché io con quella merda ho avuto a che fare ogni giorno per un anno intero della mia vita: durante la guerra ero stato assegnato al servizio di volo sugli elicotteri. Nei primi sei mesi ero addetto alla riparazione delle apparecchiature di navigazione. Poi ho iniziato a volare come artigliere. Una delle mie missioni era spruzzare l’agent orange sulla vegetazione». Dopo si è ammalato? «Ho iniziato ad avere problemi ai polmoni, non riuscivo più a respirare. In ospedale mi hanno detto che era solo asma. Ho accettato la diagnosi, ma quattro anni fa ho rischiato di morire per un blocco respiratorio. Sono stato ricoverato all’unità di terapia d’emergenza dove mi hanno salvato, ma dove hanno ignorato il problema. Così ho fatto tutto da solo. Sono stato per un mese in India: lì mi hanno sottoposto

Il governo ha mai riconosciuto la sua malattia? «Ragioni politiche non permettono di diagnosticare le malattie legate all’agent orange. C’è un reparto speciale in ogni ospedale al quale ci si può rivolgere per sapere se si è affetti dai sintomi legati all’esposizione. Io ci sono stato, era un labirinto burocratico. Prima mi hanno fatto compilare tanti moduli e poi mi hanno affidato a un avvocato che ha cercato di capire se avessero potuto accettarmi come un veterano colpito dall’agent orange. In altre parole i signori della guerra hanno l’ultima parola in merito. Puoi essere a un passo dalla morte, avere tumori di diversa natura ma, allo stesso tempo, nessuna possibilità che ti venga riscontrato un problema collegato al contatto con l’erbicida». Lei, quindi, non ha mai ricevuto alcun indennizzo per le sue infermità. «Non per quelle provocate dal contatto con l’agent orange. Nei primi anni Settanta ci volevano liquidare con una somma così piccola che ho deciso di non accettarla, per far sì che andasse a quei veterani con problemi ancora più gravi dei miei. Ho cercato di farcela da solo perché il governo non ha ancora fatto nulla per me. Ultimamente ho letto che il dipartimento per gli Affari dei veterani potrebbe iniziare a curare e a risarcire chi è stato colpito dall’agent orange, ma finora non è accaduto». Lo scorso luglio un deputato della California, Bob Filner, ha presentato un disegno di legge che prevede una copertura sanitaria e sussidi per tutte le vittime dell’agent orange, compresi i civili vietnamiti. Pensa che verrà approvato dal Congresso? «È molto difficile. In realtà un senatore repubblicano dell’Oklahoma si è già messo di traverso al progetto per bloccarlo. Secondo me il governo continua a proteggere tutte quelle industrie che hanno prodotto il disserbante per la guerra in Vietnam: a partire da Dow Chemical e Monsanto». Voi soldati eravate messi al corrente di cosa fosse la sostanza che spargevate dagli elicotteri? «Assolutamente no. Ci mettevano sugli UH-1 (nella foto in alto, ndr) e ci dicevano di spruzzare questo liquido dai tubi. Nessuno ci ha mai detto cosa fosse quella sostanza, né che fosse chimica, tanto meno come proteggerci. Abbiamo preso atto


Quali ripercussioni psicologiche ha avuto su di lei la guerra? «Oltre al cancro, mi è stata diagnosticata una violenta forma di Post-traumatic Stress Disorder (Ptsd – Disturbo post-traumatico da stress). Avevo sempre fortissime emicranie e in passato ho avuto problemi di stress mentale, di gestione della rabbia e mi sentivo sempre sotto pressione». La sua dipendenza dall’eroina era collegata al Ptsd? «Sì. I miei problemi con l’eroina sono cominciati in Vietnam, in realtà. Al fronte molti miei compagni facevano uso di droga e iniziai anche io. Al mio ritorno a casa ero giovane e stressato, la droga era la mia cura. Dovevo calmare i nervi e l’eroina mi aiutava quotidianamente a non impazzire e a evitare di uccidere qualcuno. È stato un processo molto intenso: vivere negli Stati Uniti una volta tornato dal Vietnam non era una cosa facile. Essere un soldato, e in più di colore, a quel tempo significava non essere accettati. Oggi la gente accoglie a braccia aperte le persone che tornano dalle nuove guerre. Quando tornavamo noi le braccia erano conserte. Dal momento in cui partivi, venivi considerato parte di quella guerra. Al ritorno ero disperato e troppo piccolo per affogare i miei dolori nell’alcol. Sono rientrato in patria a vent’anni e qui l’età minima per bere è ventun’anni. Ero abbastanza maturo per andare in guerra, ma non abbastanza per entrare in un bar e farmi un drink. C’erano tante tensioni ed erano tutte diverse l’una dall’altra. Per superarle ho iniziato a drogarmi». Molti hanno denunciato un forte razzismo nei confronti dei soldati di colore in Vietnam. Lei lo ha subito? «Assolutamente sì. Nonostante la mia fosse un’unità piccola – quindi meno esposta alle differenze di razza – fra bianchi e neri non correva buon sangue. Noi non piacevamo a loro e loro non ci piacevano, ma indossavamo la stessa uniforme e quando la tensione cresceva lavoravamo insieme perché nessuno voleva morire. Eravamo un corpo speciale composto da statunitensi e australiani e ognuno di noi vedeva nell’altro solo un soldato. Alcune volte però si verificavano episodi molto crudi come quello di un soldato del Mississippi che credeva che i neri avessero la coda e ogni volta che ne vedeva uno uscire dalla doccia scoppiava in un pianto a dirotto. Non avevo mai visto niente del genere in vita mia». Come è stato tornare a casa? «Sono tornato quasi un anno dopo il congedo dall’esercito. Il razzismo era radicato in tutto il Paese. L’unica mia protezione erano i miei diritti.

autore sconosciuto

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Ne ero consapevole e sono riuscito a proteggermi. Molti altri ragazzi però non ne sono stati capaci. Laggiù, in quell’inferno, il comandante non sosteneva i suoi soldati, anzi li spingeva a superare quella linea che divide la ragione dalla pazzia. Finché non perdevano il controllo e, con esso, tutto il resto. Quando non era la guerra, era quell’ufficiale che ci tormentava. Non so come quell’uomo riuscisse a tornare a casa dalla moglie e dormire sonni tranquilli. Era così arrabbiato e malvagio. Alcuni, dopo, hanno perso le mogli e i figli perché tornati dal fronte erano psicologicamente a pezzi. Ecco perché sono uscito dall’esercito nel dicembre del 1970. Per cercare di mantenere una stabilità ed evitare di impazzire». Si è mai chiesto per cosa stesse combattendo? «Sicuramente stavo combattendo per il mio Paese. Quando sei un ragazzo di diciannove anni, nel Paese di qualcun altro e guardi la bandiera del tuo di Paese, pensi che sia l’unica cosa alla quale riesci a essere legato. Non hai nient’altro a cui fare riferimento. Guardare quella bandiera tiene alta la tua motivazione e l’amore profondo per la tua nazione. Poi, quando torni, trovi altre persone che cercano di umiliarti in tutti i modi, a volte solo per il colore della tua pelle». Qual è il suo peggior ricordo della guerra? «Aver perso tanti amici in una piccola guerra che non ho mai capito cosa fosse veramente». Durante il suo primo anno di guerra, il 1968, si è consumato il massacro di My Lai. Almeno 347 innocenti sono stati uccisi da uomini dell’esercito statunitense. Che cosa ha pensato quando l’ha saputo? «In guerra capitano tanti episodi del genere. Come veterano credo di riuscire a capire e sostenere l’ufficiale che diede quel comando. Perché so che può aver vissuto dei momenti molto duri e non importa che abbia commesso una leggerezza. Era un soldato. Non si possono capire veramente situazioni come quelle senza averle vissute in prima persona. Ognuno può pensare ciò che vuole, ma chi non è stato un soldato in guerra non sa cosa essa sia. Ci sono molte azioni durante le quali gente innocente viene uccisa. E questo è vergognoso. Vengono commessi tanti errori e se scorri le pagine dei libri di storia ne vedrai tante. I militari di oggi, paragonati a quelli del Vietnam, sono addestrati a uccidere esseri umani in modo molto più preciso di quanto lo fossimo noi. Sono diventati delle macchine di morte implacabili. Noi eravamo addestrati per colpire al corpo, oggi si addestra per sparare in faccia». Pensa ancora a quei momenti o li ha rimossi? «Vanno e vengono, ma non sono più intensi come lo erano durante quel periodo. Sono diventate come nuvole nel cielo». Mi descrive la guerra in poche parole? «Un errore orribile e una vacca da mungere. In quegli anni nel nostro Paese poche persone hanno fatto un sacco di soldi».

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La guerra infinita

di ciò che facevamo solo dopo alcuni mesi, quando vedevamo che foreste immense e tutta la vegetazione che avevamo infestato mesi prima erano andate completamente distrutte. È un ricordo molto triste».


Ho perso l’innocenza Un diabete da cui non è guarito, un figlio disabile precocemente scomparso e i ricordi che non se ne vanno. Dopo il Vietnam Dan Shea è diventato un artista e un militante di Veterans for Peace

di

Antonio Marafioti

L’uomo nella foto qui sopra si chiama Dan Shea, è stato in Vietnam meno di tre mesi, da agosto a ottobre del 1968. Artigliere dei Marines, è stato spedito a diciannove anni nel Sudest asiatico dall’accademia di reclutamento di Portland, Oregon. Il resto del suo servizio lo ha prestato nella base di Subic Bay, Filippine, dove era incaricato di sorvegliare i bunker delle armi dell’esercito. Venne trasferito lì dopo che, nel corso di una missione Search and Destroy, aveva contratto la jungle rot, un’ulcera tropicale che lo colpì ai piedi impedendogli di camminare. Contagiato dall’agent orange, ha perso amici, un figlio e la fiducia nel suo Paese. Oggi è un artista e membro del direttivo dell’associazione Veterans for Peace. Che cosa ha causato sulla sua salute l’agent orange? È stato risarcito? «Mi sono ammalato di diabete di tipo 2 e il dipartimento per gli Affari dei veterani mi ha riconosciuto il 10 per cento di invalidità causata dall’erbicida e il 40 per cento per il Post-traumatic Stress Disorder (Ptsd – Disturbo Post-traumatico da Stress)». Qualcuno dei suoi parenti ha avuto problemi legati all’agent orange? «Il 16 dicembre 1977 è come se la guerra mi avesse raggiunto ancora, a casa mia. Mio figlio Casey è nato con vari difetti di nascita: palatoschisi, una malattia cardiaca congenita, addome a prugna e, subito dopo il parto, ha avuto un attacco cardiaco che ha richiesto un ricovero d’emergenza. Sapevamo tutti che questi problemi erano legati all’agent orange, ma ovunque ci rivolgessimo continuavano a negarlo e ancora lo fanno. Casey ha subìto un intervento chirurgico, riuscitissimo, per la palatoschisi, ma sapevamo che avrebbe dovuto affrontare ancora l’operazione più importante, quella al cuore. Mio figlio era affetto dalla tetralogia di Fallot, nota anche come “sindrome del bambino blu”. Il suo cuore non riusciva più

a ossigenare i globuli rossi e le sue gambe erano colpite da spasmi sempre più dolorosi che non gli permettevano neanche di giocare con la sorella. È rimasto sotto i ferri per dieci ore, durante l’operazione il suo cervello ha avuto un blocco di ossigenazione e mio figlio, che allora aveva quattro anni, è andato in coma per sette lunghe settimane. Siamo stati accanto al suo letto ogni giorno, per leggergli le storie. Abbiamo sperato in un miracolo, ma il 25 febbraio 1981 gli hanno staccato il respiratore e lo hanno messo fra le braccia di mia moglie che poi lo ha dato a me. L’ho stretto al mio petto, il suo piccolo corpo era così freddo. Ha fatto un respiro profondo, era il suo ultimo respiro. È morto fra le mie braccia. I periodi successivi della mia vita sono stati un incubo, ogni giorno pensavo al suicidio, ero vicino alla follia. L’amore di mia moglie e di mia figlia Harmony mi ha salvato». È sicuro che le condizioni cliniche di suo figlio fossero legate all’agent orange? «Anche se il dipartimento per gli Affari dei veterani non accetta che le patologie come quelle di Casey siano provocate dall’erbicida, ci sono molte storie di reduci che hanno avuto figli nati con problemi gravissimi e che sono morti. C’è un libro che racconta diversi episodi: Waiting for an Army to Die: The Tragedy of Agent Orange, di Fred A. Wilcox». Lo scorso luglio un deputato della California, Bob Filner, ha presentato un disegno di legge che prevede una copertura sanitaria e sussidi per tutte le vittime dell’agent orange, compresi i civili vietnamiti. Pensa che verrà approvato dal Congresso? «C’è sempre speranza finché teniamo alta la pressione sui governanti, anche se non ho grande stima di loro. Si tratta di vedere se il nostro governo punterà a far passare la legge, come una buona mossa di pubbliche relazioni, per far sbiadire dalla coscienza dell’America la vera tragica storia della guerra in Vietnam. Non ci fermeremo finché non riconosceranno le vittime e le risarciranno. I miei colleghi hanno lavorato tanto nella preparazione di questo progetto e hanno grandi speranze, ma ci vorranno ancora molti sforzi». Era al corrente che il vostro esercito usasse sostanze dannose per l’uomo? «Vedevo la pila di barilotti nel campo base, ma non sapevo che contenessero un prodotto chimico. Sono sicuro che i nostri comandanti a Washington conoscessero la verità, ma i soldati sapevano solo che ciò che spruzzavano serviva a distruggere l’erbaccia. La maggior parte, se non tutti, non


Quali effetti ha avuto il Ptsd su di lei? «Mi creda, la maggior parte degli effetti sto ancora cercando di scoprirli con l’aiuto del mio psicologo. Ho sofferto di rabbia e depressione. Determinate circostanze possono rendere il mio Ptsd ancora peggiore: a volte è una canzone, altre volte la notizia di un soldato statunitense ucciso al fronte o i rapporti sulla morte di civili innocenti, di bambini, in Afghanistan e Iraq. Per anni mi sono rifiutato di parlare della guerra, volevo solo riprendermi la mia vita. Se mi guardo indietro, però, posso vedere tutti i segni del Ptsd. Basta ripensare a quei giorni: quando sono stato mandato nelle Filippine, un mio amico, il sergente Frank Garcia, è stato rispedito in Vietnam ed è stato ucciso, a pochi giorni dal congedo. Quasi contemporaneamente ricevetti una lettera in cui mi si avvisava che mio fratello Michael, che aveva preso il mio posto a Danang, era stato ferito e rimpatriato in camicia di forza. Iniziai a bere più del solito. Mi volevano rispedire al fronte ma mi sono rifiutato, dopo mi hanno obbligato a imbarcarmi su una nave dove ho avuto uno scontro verbale con il mio nuovo comandante. Non me ne fregava più un cazzo e continuavo a non fare nulla di ciò che mi veniva detto. Sono stato fortunato a uscire dai Marines con quelle che loro chiamano ‘onorevoli condizioni’». Una volta congedato come ha vissuto? «Agli inizi del mio matrimonio ero sempre ubriaco, scoppiavo a urlare contro mia moglie e le lanciavo oggetti. Mi sentivo semplicemente perso e tramortito; avevo visto la guerra ma a casa, con la mia famiglia e gli amici, sembrava che nulla fosse cambiato. Non riuscivo a dormire. Mi svegliavo sempre e controllavo l’appartamento, le porte, le finestre. Sognavo di morire perché ricevevo tante chiamate dal fronte, pensavo di essere stato ferito. I miei sogni erano l’inferno. Quando Casey e Harmony sono entrati nella mia vita, sono diventato un uomo e un marito migliore. La mia esistenza era solo per i miei figli. Poi Casey è morto e la guerra è tornata a tormentarmi e non se n’è mai più andata». In che senso? «Nel 1991 George Bush senior ha cominciato a bombardare l’Iraq di Saddam Hussein e qualcosa dentro di me si è rotto. Si sono attivati ricordi, emozioni, timori, rabbia e depressione. Le notti erano più insonni perché ricominciavo a sognare la guerra, il Vietnam e il Medio Oriente. Pensavo a un’altra generazione di vittime, finché non ho incontrato Veterans for Peace, e ho trovato gente che capiva che cosa stessi passando. Non mi sentivo più solo,

Von Anh Khanh

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avrebbe neanche immaginato quanto tossica fosse la diossina per gli esseri umani e per gli animali, né avrebbe potuto intuire gli effetti futuri su se stessi, sui propri bambini e sull’ecosistema del Vietnam».


non ero pazzo, quello stress era una reazione normale alla guerra, una cosa che accade ai soldati che hanno combattuto e conosciuto il tradimento, che hanno visto i loro compagni uccisi da un altro essere umano, o un altro essere umano ucciso da un proprio compagno». Quando i reduci tornavano a casa erano spesso ignorati e addirittura odiati dalla gente. Molti, riferendosi ai vostri mali, vi gridavano: «Ve la siete cercata». Ricorda momenti del genere? «Personalmente non ricordo alcuna animosità. Al mio ritorno ho incontrato i pacifisti che mi hanno chiesto di partecipare alle discussioni sulla guerra. Erano sempre rispettosi e ascoltavano attentamente tutto ciò che avevo da dire. Solo dopo la prima guerra del Golfo ho saputo di conflitti tra veterani e dimostranti che li apostrofavano come “killer di bambini”. Soltanto quando ho cominciato a criticare la guerra sono stato attaccato dalla destra, alcuni di loro erano veterani ma la maggior parte erano ideologi ignoranti che mi davano del traditore solo perché parlavo di pace. Non avrei mai potuto prendere sul serio quegli idioti». La domanda più comune che si sono fatti i veterani del Vietnam è: «Per cosa abbiamo combattuto?». Se l’è fatta anche lei? «Io mi ero già fatto un’idea: per me eravamo andati laggiù, per i politici, uomini anziani desiderosi di sbandierare il loro machismo e alimentare i profitti di un’economia di guerra. L’ho imparato in Vietnam dai miei commilitoni che continuavano a dirmi di dimenticare tutto: una guerra per il Paese, mamma e papà, la torta di mele e la bandiera americana. “Fuck that shit!”, dicevano. “Spariamo, ci sparano, stiamo semplicemente provando a sopravvivere e proteggerci l’un l’altro, hai afferrato? Lo stesso vale per i vietnamiti”. Mi dicevano che quel Paese era dei vietnamiti e che loro lo stavano difendendo e che, per questo motivo, dai corridoi del potere ci avevano mandato in guerra. “Fuck’em all”. Fuck era parte del vocabolario di tutti, la prima e l’ultima parola di ogni frase». C’è un ricordo della guerra che proprio non riesce a dimenticare? «Cambiano continuamente. I ricordi della guerra sono nascosti dietro molti strati: escono negli incubi e svaniscono alla luce del giorno. Non so se sia peggiore il ricordo del sibilo della pallottola di un cecchino che mi è passata tanto vicino da bruciare la lanugine sul mio collo, o l’urlo del ragazzo della squadra seguente che poi se l’è beccata in pieno collo. Ero choccato mentre tagliavamo gli alberi nella giungla per permettere al medevac, il nostro elicottero, di portarlo via con un ponte aereo. Non ho mai saputo il suo nome, né se fosse morto. Che dire, poi, del colpo di mortaio che è esploso a pochi metri dai miei piedi, o quando durante una missione Search and Destroy in un villaggio ho sentito esplosioni di mine e urla di uomini scatenarsi l’una dopo l’altra? Non sono le cose che ricordo che mi spaventano, sono le cose che non ricordo».

Ha ucciso qualcuno? «Ecco appunto, questo non lo ricordo. E mi terrorizza». Ricorda qualcosa del massacro di My Lai. Che cosa ha pensato quando ha appreso la verità? «Ho sentito parlare di My Lai molto dopo la fine del conflitto. Ricordo che piansi e mi chiesi come qualcuno potesse commettere un simile crimine. Però non avevo ancora perso tutta la mia speranza nell’umanità: qualcuno lì si era rifiutato di uccidere uomini, donne e bambini innocenti. Come Hugh Thompson Jr., il pilota dell’elicottero che aveva deciso di risparmiare i civili. È una vergogna che soltanto William Calley sia stato condannato, mentre i ranghi superiori del Pentagono e della Casa Bianca che hanno dato gli ordini, sono sfuggiti alla giustizia». Dopo l’esperienza al fronte un soldato si fa un’idea degli uomini al potere. Vorrei conoscere la sua: John Fitzgerald Kennedy «Cattolico». Lindon B. Johnson «Codardo». Richard Nixon «Bugiardo». Ho Chi Minh «Liberatore». William Westmoreland «Pazzo». Chi sono i veterani? «Una famiglia». Che cosa pensa di aver perso in guerra? «Ho perso mio fratello Michael, il mio amico Frank Garcia, ho perso mio figlio Casey, ho perso la mia innocenza e la fede nel mio Paese. In una certa misura ho perso me stesso, non sono la stessa persona, non posso godere della vita come se niente fosse accaduto e stia ancora accadendo. Non mi sono mai sentito liberato dalla guerra perché non l’abbiamo fermata e la cultura della violenza continua a pervadere le nostre vite. È come se avessimo perso la nostra democrazia (ammesso che l’abbiamo mai realmente avuta) per un gruppo di criminali». Pensa ancora al Vietnam? «Ogni giorno. Ancora faccio difficoltà a dormire e anche se penso di essere riuscito a domare la mia rabbia, temo sempre che qualcosa dentro di me possa rompersi e riportare a galla tutto quell’inferno». La guerra in tre parole? «Morte, distruzione e pazzia».

e

Doan Cong Tinh


La guerra infinita

Tutti i Vietnam di domani La Bosnia, Falluja, Gaza. Uranio impoverito, fosforo bianco, bombe Dime. I teatri di guerra, le armi “nuove”, i loro effetti a lungo termine: «È tutto sotto i nostri occhi», dice Massimo Zucchetti, docente al Politecnico di Torino Non è la prima, non sarà l’ultima. La scia di morte, di malattie incurabili e malformazioni infantili lasciata in eredità dall’agent orange alla popolazione del Vietnam, non è la sola testimonianza degli effetti dell’uso delle “armi sporche” in un conflitto. La ricerca non si è mai fermata, anzi, ha ottenuto ingenti fondi da parte di molti governi interessati a sviluppare armamenti che presentano due caratteristiche “vantaggiose”: massimizzano la forza distruttrice e riducono il rischio di perdite dei propri soldati, sempre problematiche rispetto all’opinione pubblica. I nuovi Vietnam sono sotto i nostri

occhi. Secondo Massimo Zucchetti, ordinario di Impianti nucleari al Politecnico di Torino, del Comitato scienziate e scienziati contro la guerra, «l’inizio di tutto è stata la guerra in Iraq del 1991. Gli Stati Uniti impiegarono l’uranio impoverito, che riscosse un enorme successo: i carri armati iracheni venivano distrutti con praticamente zero perdite da parte dell’esercito Usa». I proiettili all’uranio sfondano le corazze e incendiano il

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di

Alberto Tundo


Duong Thanh Phong bersaglio, ma hanno come “effetto collaterale” la contaminazione del territorio con polveri radioattive. Che probabilmente sono state sparse anche in Somalia, durante la missione Restore Hope, primi anni Novanta, in Bosnia nel 1995 e in Kosovo nel 1999. Le conseguenze in ogni teatro sono state identiche. «In Bosnia e Kosovo, però – precisa lo studioso – i tumori e le malformazioni registrate sono state provocate dal bombardamento di impianti chimici e raffinerie e dal conseguente spargimento sul terreno delle sostanze cancerogene conservate all’interno». Le evidenze epidemiologiche e statistiche e gli studi scientifici testimoniano che, in Iraq, i principali danni, diretti e indiretti, sono stati causati dall’uranio impoverito. Per Zucchetti, «il crollo della sanità, dell’alimentazione, delle condizioni di vita hanno riportato il Paese all’Ottocento e quindi è chiaro che la popolazione si ammali e muoia più facilmente. L’uranio però lascia delle “impronte digitali”, cioè causa tipi di linfomi, leucemie e malformazioni riconoscibili. I dati parlano di patologie due, tre, quattro, cinque volte superiori rispetto alla media». Non solo: l’uranio impoverito è un agente mutageno, che cioè modifica il Dna delle persone esposte alle sue radiazioni. «Ci si ammala direttamente se gli agenti mutageni modificano il Dna delle cellule somatiche e allora si sviluppano tumori particolari come quello di Hodgkin e non Hodgkin. Se invece modificano quello delle cellule che usiamo per riprodurci, allora nasceranno bambini malformati». Tragedie simili sono comuni in un’altra città irachena, diventata suo malgrado il nuovo simbolo degli “effetti collaterali” della modernità bellica: Falluja. Il fosforo bianco non è considerato un’arma chimica, perché so-

litamente viene usato in campo aperto come tracciante ma lo diventa se è impiegato come arma d’offesa. «Le vittime si riconoscono per le terribili ustioni che riportano pur avendo i vestiti ancora integri, perché ha la capacità di essere aggressivo verso i tessuti molli», sintetizza Zucchetti. Il fosforo esplode in una nuvola e non lascia scampo a chiunque si trovi nel raggio di un centinaio di metri: può sciogliere un corpo fino alle ossa. Recentemente, si è scoperto essere anche mutageno, al pari dell’uranio impoverito. È stato usato dall’esercito Usa in Iraq, da quello russo in Cecenia, ma anche dagli israeliani durante l’operazione Piombo Fuso lanciata nella Striscia di Gaza nel dicembre 2008. Tra Cisgiordania, Gaza e il Libano, l’esercito israeliano ha testato un altro tipo di arma sviluppata dai centri di ricerca degli Stati Uniti, la bomba Dime (Dense Inert Metal Explosive). Questi ordigni hanno una specie di guscio esterno fatto di polvere di tungsteno che con la detonazione si polverizza, formando una nuvola densa che va a contenere l’esplosione. «Proprio per questo effetto contenimento è stata presentata come un’arma “umanitaria”, perché dovrebbe limitare i danni inferti alla popolazione civile. Peccato che queste bombe vengano lanciate in maniera casuale e abbiano una forza dirompente, causando il distacco degli arti e ferite davvero poco umanitarie». Ma soprattutto lasciano polveri di tungsteno che entrano nei tessuti e si depositano sulle piante e sul terreno. È stato detto che, a differenza dell’uranio impoverito, non sono radioattive. È vero: sono cancerogene.

O

L’altro Vietnam La guerra immortalata dall’altro lato del fronte. Gli scatti in queste pagine, i cui diritti sono stati concessi da Vietnam News Agency, svelano il punto di vista dei fotografi nordvietnamiti nelle zone di conflitto. Foto che documentano gli sforzi, i sacrifici e l’ostinazione dell’esercito di Hanoi contro l’avversario statunitense dal delta del Mekong fino alle zone più tortuose del Sentiero di Ho Chi Minh. Le immagini sono raccolte nel volume fotografico L’altro Vietnam, edito in Italia da National Geographic, Edizioni White Star.

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03/08/11 18:06


Cessate il fuoco a cura di

Antonio Marafioti

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foto Khaled Abdullah Ali Al Mahdi

Iraq Israele Palestina Nord Caucaso Turchia Siria

[reuters/contrasto]

Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dall’11 settembre al 10 ottobre, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi. Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.peacereporter.net

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210 93

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Messico Colombia

Libia Somalia Etiopia Sudan Nigeria Uganda Costa D’Avorio

Iraq

Il 13 settembre la polizia irachena ha trovato i cadaveri di ventidue pellegrini sciiti, uccisi a colpi di arma da fuoco nella provincia di al-Anbar, roccaforte sunnita a ovest della capitale Baghdad. Il gruppo viaggiava a bordo di un pullman partito da Kerbala, città santa sciita, e diretto in Siria. In base a una prima ricostruzione degli inquirenti, un commando di uomini armati, vestiti con uniformi militari e di polizia, aveva istituito un falso posto di blocco per poter intercettare il veicolo. Una volta fermato il mezzo, i terroristi hanno fatto scendere i passeggeri uomini e li hanno uccisi a pistolettate. Ancora non è stato accertato che cosa sia accaduto alle donne e ai bambini, otto persone in tutto, che erano a bordo del pullman.

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Somalia

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Il 4 ottobre un attentato suicida a Mogadiscio ha provocato la morte di almeno cento persone. Un kamikaze si è lanciato a bordo di un camion contro un complesso di edifici nei quali hanno sede diversi ministeri a quattro chilometri dalla capitale. La maggior parte delle vittime erano studenti che quel giorno erano stati chiamati a sostenere un esame negli uffici del ministero dell’Educazione. L’azione è stata rivendicata dal gruppo islamista Al-Shabaab, gruppo armato d’impronta qaedista.


4.438

vittime

97 3 799 378 107 86 27 64

Yemen Bahrein Afghanistan Pakistan Myanmar India Thailandia Filippine

Pakistan

Quattro bambini e l’autista dello scuolabus sul quale viaggiavano sono morti in un attentato a Mattani, un villaggio vicino Peshawar. Il 13 settembre scorso lo scuolabus della Khyber Model School, con a bordo scolari di età compresa tra i nove e i quattordici anni, stava attraversando una zona della città spesso teatro di scontri fra militanti islamici e milizie filogovernative. Durante il tragitto un commando di uomini armati ha prima fatto fermare il veicolo e poi ha sparato raffiche di mitra contro i passeggeri. La sparatoria, rivendicata dal gruppo islamista Teherik-e Taleban Pakistan (Ttp), sarebbe una ritorsione contro le comunità tribali locali giudicate colpevoli di cospirare contro i talebani.

Yemen

È di ventisei morti e almeno cinquecento feriti il bilancio degli scontri scoppiati nella capitale Sana’a il 18 settembre. Mentre i manifestanti erano in piazza per chiedere le dimissioni di Ali Abdullah Saleh, le forze di sicurezza hanno sparato sulla folla con armi automatiche e artiglieria antiaerea. Secondo il racconto di blogger che mantengono l’anonimato per ragioni di sicurezza, gli uomini in divisa avrebbero anche usato gas lacrimogeni e idranti per disperdere la folla riunita nella centrale “piazza del Cambiamento”, in cui da mesi è in atto il presidio. Alcuni testimoni hanno inoltre raccontato ai giornalisti che diverse persone sono state calpestate nella ressa provocata dall’intervento dei militari. Dopo i disordini il ministero della Difesa ha diramato una nota con la quale ha accusato i manifestanti di aver lanciato bombe incendiarie per provocare la reazione delle forze di sicurezza. Fonti governative sostengono che dietro il massacro si nasconda il partito di opposizione islamico Islah.


polis di

Enrico Bertolino

illustrazione

Supertotto

educazione cinica Una delle materie scolastiche che ho riscoperto e valorizzato negli anni, e che ovviamente non ho seguito adeguatamente a suo tempo, è di sicuro la mitica educazione civica. Insieme a religione, educazione fisica, scienze e applicazioni tecniche, era tra le ore più “bigiate”, bucate o marinate che dir si voglia. Se poi cadeva dopo un intervallo o come ultima ora prima dell’uscita, si faceva fatica a raggiungere il numero legale, un po’ come durante le votazioni scomode a Montecitorio. Probabilmente si è trattato di un errore di comunicazione, un peccato originale che risiede proprio nel nome assegnato a questa materia, così generico e dispersivo rispetto ai suoi contenuti che oggi, a distanza di anni, si stanno rivelando essenziali. La parola “educazione” già crea un muro di ostilità tra lo studente e l’insegnante – che spesso nel caso in questione era un supplente senza fissa collocazione – perché il fatto di educare rimanda troppo direttamente al concetto di scuola. Rinforzandola ulteriormente con un aggettivo – riferito alla forma fisica o alla civiltà dei comportamenti sociali – può diventare qualcosa di insopportabile agli occhi dei ragazzi. Una certa popolazione sedentaria e poco orientata alla pratica sportiva, per esempio, nasce proprio da inutili ore passate in palestra a correre appresso a un pallone o a cercare di salire su una pertica, venendo pure valutati a fine anno, sulla base di cosa ancora me lo devono spiegare. Nel caso di educazione civica, a differenza delle credenze popolari, non si insegnavano solo i segnali stradali o il rispetto delle precedenze agli incroci. Si insegnavano norme, attitudini e comportamenti idonei, o quantomeno consigliati, a chi fa parte di un nucleo sociale o di una collettività regolamentata dal vivere civile. Imparare a fare la fila, parcheggiare dove si può, camminare sui marciapiede o saper ascoltare con attenzione chi ci parla sembrano, o forse sono, semplici principi che si possono e si dovrebbero apprendere in famiglia. Eppure oggi sono diventate delle vere e proprie rarità nei rapporti tra le persone: tra concittadini in un’assemblea, sia essa di condominio o di partito, tra abitanti dello stesso Paese, dove sta diventando moda rispondere a una domanda posta con cortese determinazione esibendo il dito medio ai fotografi. L’educazione civica oggi sarebbe importantissima nelle scuole per parlare di diversità, per esempio, di come accettarla e farla diventare, come nella Firenze medicea, un valore aggiunto della società piuttosto che un problema di ordine pubblico. Forse, invece, la materia che oggi avrebbe più successo, tanto da farne magari un format televisivo o un talent show, potrebbe chiamarsi “educazione cinica”. Ovvero come dimostrarsi più furbi e forti con i deboli, evitando di confrontarsi con i forti; ovvero come evadere le tasse e accusare poi lo Stato di disservizi e gli altri di privilegi; ovvero come riuscire a farsi pagare duecento ore di straordinario per aver spalato la neve... a luglio a Palermo (fatto realmente accaduto e documentato dai giornali). Senza il benché minimo rimorso da parte del colpevole e – fatto ancora più preoccupante – senza che gli altri cittadini dicano nulla, diventando a loro volta complici. Tanto a fine anno non si viene valutati, purtroppo spesso nemmeno a fine legislatura.

J

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il capitale di

Niccolò Mancini

foto Emmanuel [vu/blobcg]

Pierrot

non fidarsi è meglio Da qualche tempo si parla di loro quasi quotidianamente e il loro ruolo è ormai noto anche a chi non segue l’andamento della Borsa e dei mercati in generale. Parliamo degli analisti finanziari, quegli esperti di bilanci che lavorano all’interno degli uffici studi di banche e istituzioni finanziarie, che hanno il compito di analizzare i bilanci di Stati o società emettendone, al termine, un giudizio positivo o negativo che quasi sempre ne condiziona il futuro andamento sui mercati. Nel caso di un giudizio sugli Stati, poi, a esserne condizionati saranno addirittura i tassi d’interesse che la stessa nazione oggetto del giudizio sarà costretta a riconoscere al mercato per convincere gli investitori ad acquistarne le obbligazioni legate al suo debito pubblico. Ne sappiamo qualcosa noi italiani, che proprio in questi ultimi mesi siamo diventati le vittime predestinate delle tre principali agenzie di rating, Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s, che hanno ripetutamente ridotto il nostro grado di affidabilità. E lo hanno fatto proprio al termine di una complessa analisi dei nostri conti da parte dei propri analisti, preoccupati dalle prospettive politiche, economiche e sociali di un Paese che detiene il terzo debito mondiale. I giudizi di questi analisti sono precisi e molto articolati anche se non sempre affidabili come testimonia la tripla A (massimo grado di affidabilità) con cui sono stati giudicati i conti del colosso bancario americano Lehman Brothers fino a poche settimane prima del suo clamoroso fallimento. E da errori è caratterizzata anche la strada di molti analisti impegnati a valutare gli andamenti aziendali, come ben ricorderanno gli azionisti di Parmalat che si sono visti azzerare i loro guadagni in poche settimane per avere seguito i giudizi lusinghieri sulla società di Collecchio espressi da molti importanti uffici studi. E che dire di quell’analista che, al contrario, consigliava di evitare l’acquisto di Bulgari individuando il suo giusto prezzo in poco più di 7 euro pochi giorni prima dell’offerta di acquisto da parte del big francese del lusso LVMH per 12,25 euro? Troppo spesso i giudizi espressi non rispecchiano l’oggettività fornita dai numeri di bilancio e dagli incontri con i vertici societari, ma seguono logiche commerciali che fanno sì che il lavoro degli uffici studio si traduca in commissioni a favore delle società di appartenenza a scapito della correttezza dell’analisi.

E


Su quelle

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sponde di

Vandana Shiva

foto Giulio Di Sturco [vii mentor program]

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Il Gange è molto più di un fiume. Rappresenta l’essenza stessa dell’India, ne racconta la vita spirituale, culturale, ecologica ed economica. Senza il Gange l’India non potrebbe materialmente sopravvivere, non sarebbe neanche nata, perché la nostra millenaria storia si è sviluppata attorno, dentro e grazie al Gange. Esistiamo grazie alla generosità del fiume. Io stessa, come miliardi di persone, sono nata su questo fiume. Ho imparato a parlare, a leggere, a sopravvivere su questo fiume. Anche i nostri morti, se ne vanno via con lui. Restando parte di una storia che il Gange scrive ogni giorno, con ciascuno di noi singolarmente e tutti assieme. E poi, ingannandoci, lo abbiamo tradito. Abbiamo cominciato a farlo quando ci siamo convinti che per essere più ricchi ci servivano più cose. Abbiamo avvelenato il Gange con gli scarichi industriali, che generano cose che non vivranno mai abbastanza per ripagarci della perdita del fiume. Lo abbiamo soffocato con megalopoli senza anima. Lo abbiamo strozzato con dighe e interventi che gli hanno imprigionato l’anima, per ottenere più elettricità. Per accendere una luce oggi, spe-


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Tehri, Uttarakhand. La quinta diga più grande del mondo. Con la sua costruzione, la vecchia città e settanta villaggi sono spariti, sommersi dall’acqua


gniamo il futuro. Il movimento per salvare il Gange e il flusso delle sue acque non è solo un movimento per salvare un fiume. Si tratta di un movimento per salvare l’anima travagliata dell’India, che è inquinata e soffocata da un consumismo crasso e dall’avidità, scollegato dalla sua esistenza in armonia con la natura e dalle sue fondamenta culturali. Per questo ci battiamo, per questo organizziamo i campi di lavoro con i giovani, sul fiume, per la democrazia dell’acqua. Per ricordare loro da dove veniamo e che non saremmo qui, oggi, senza il fiume Gange. E non ci saremo domani, senza il Gange. Capita qui, sul Gange, ma i nostri fiumi raccontano la storia dell’umanità. Per questo quella dell’acqua è una questione popolare. Il dibattito, se limitato alla dialettica pubblico-privato, gestione corretta o sbagliata, economica o no, è fuorviante. Si sbaglia approccio e si negano i diritti delle comunità interessate. Qualsiasi comunità, in qualsiasi parte del mondo, se interpellata sull’acqua, chiederà che venga tutelata e basta. Né comprata né venduta. Solo conservata, protetta. Anche perché non basta impedire la privatizzazione per salvare i fiumi, l’acqua e il futuro. Il primo passo della privatizzazione è l’inquinamento. Pochi che distruggono l’anima della terra per diventare più ricchi. Se non proteggiamo l’ambiente, pur impedendo la privatizzazione dell’acqua, come avete fatto con coraggio in Italia con il referendum, non la salveremo. E un fiume morto, pubblico o privato, non torna più. Credo che la consapevolezza lentamente cresca. Rispetto al 2003, quando ho scritto Le guerre dell’acqua, vedo un atteggiamento differente. Tante persone che all’epoca, quando denunciavo l’attacco all’acqua, mi accusavano di esagerare ora lottano con me. Ed è cambiata, lentamente, anche la consapevolezza politica. Il referendum in Italia, per esempio, oppure le costituzioni di alcuni Stati latinoamericani, che hanno inserito il diritto all’acqua come un punto fermo. E ancora la Dichiarazione dei diritti della Madre Terra, piuttosto che il lavoro delle Nazioni unite per arrivare, finalmente, al riconoscimento dell’accesso all’acqua come diritto umano. Tanta strada, tante lotte, sono state fatte. Ma non basta. Perché guardando queste foto, l’agonia del fiume Gange, si vede un mondo che muore, non solo un corso d’acqua.

< (Testo raccolto da Christian Elia) L’incontro con Vandana Shiva è avvenuto al festival musicale Rototom Sunsplash, a Benicassim, in Spagna, grazie agli organizzatori che da tempo affiancano ai concerti una serie di incontri di riflessione e dibattito.

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Benares (Varanasi), Uttar Pradesh. Preparativi per il Diwali (Festa delle luci), una delle piĂš importanti festivitĂ induiste


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Devprayag, Uttarakhand. Il luogo dove i fiumi Bhagirathi e Alaknanda confluiscono a formare il Gange


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La grande madre Il Gange scorre per 2.507 chilometri lungo il subcontinente indiano, dall’Himalaya centrale al golfo del Bengala. Cinquecento milioni di persone – l’8 per cento della popolazione mondiale, poco meno della metà di quella indiana – abitano lungo il bacino del Gange che si estende su una superficie di un milione di chilometri quadrati. Nella classifica mondiale dell’Onu sulla peggiore qualità dell’acqua, l’India occupa il terzo posto su 122 Paesi. Secondo il rapporto sul clima delle Nazioni Unite pubblicato nel 2007, il Gange rischia il prosciugamento entro il 2030 per gli effetti del surriscaldamento globale, dell’inquinamento delle sue acque e della costruzione di dighe, con un impatto devastante sull’economia, sulla vita sociale, sulle tradizioni culturali e spirituali indiane.

Benares (Varanasi), Uttar Pradesh. Un tratto della valle del Gange

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Boradi, Uttarakhand. Le rovine del villaggio distrutto con la costruzione della diga Tehri


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Kanpur, Uttar Pradesh. Una conceria in una delle città più inquinate dell’India


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Benares (Varanasi), Uttar Pradesh. L’immersione nel sacro fiume

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Casa dolce casa a cura di Stella

Spinelli

illustrazione

Guido Guarnieri

8 settembre, Luzzi (Cs)

Emilio Tolmino, autista di 55 anni, ha ucciso l’ex convivente, Adriana Sestito, di 30 anni, durante una lite scattata per motivi di gelosia. La coppia si era separata a luglio, ma lui non accettava la fine della storia. L’omicidio è avvenuto a casa di Tolmino, che dopo ha telefonato ai carabinieri confessando tutto. La donna, di origini argentine ma di nazionalità italiana, è stata uccisa con tre colpi di pistola calibro 7,65.

8 settembre, Roma

Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dall’8 settembre al 4 ottobre. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2010 sono state 127.

Era solo con la madre, pensionata di 69 anni, nella loro casa di via Sisto IV a Roma e, al termine di un litigio, l’ha uccisa in bagno colpendola alla testa con la bilancia. Alessandro, 32 anni, l’omicida, ha chiamato prima un amico dicendogli di aver litigato con la madre e poi la polizia per denunciare l’accaduto. «Ho visto il diavolo», ha detto agli agenti del commissariato Aurelio che, entrati in casa, hanno trovato la donna distesa a terra ormai priva di vita. Il giovane ha problemi psichiatrici.

9 settembre, San Lorenzo in Campo (Pu)

Si chiamava Gabriella Petrolati, la donna di 42 anni uccisa a coltellate nella casa dove, fino a poco tempo prima, viveva con il suo ex compagno Alessandro Ghilardi, di 37 anni. È stato lui, durante un litigio, a sferrare i colpi mortali. In seguito si è presentato spontaneamente dai carabinieri.

11 settembre, Santa Maria di Sala (Ve)

Franco Manzato, camionista di 48 anni, ha sgozzato la seconda moglie moldava, Elena Para, di 35. Il 23 luglio 2000 l’uomo aveva già provato a uccidere la prima moglie, che rimase gravemente ferita, con numerosi colpi di forbici al torace, alle braccia e al viso.

12 settembre, Padriciano (Ts)

Ha ucciso la moglie accoltellandola al torace in un raptus di ira e gelosia. Giulio Sinisig, di 47 anni, ha confessato ai carabinieri di aver accoltellato la moglie Tiziana Rupena, 48 anni. I rapporti tra i due erano diventati burrascosi, tanto che ormai non vivevano più insieme. Domenica mattina, però, Sinisig si è recato a casa della donna e l’ha colpita a morte. La vittima era madre di due figli nati da una precedente relazione.

27 settembre, Manoppello (Pe)

Valentino Di Nunzio, 27 anni, lo aveva già annunciato un anno e mezzo fa in un video postato su YouTube: “Tutti sono buoni a far nascere qualcuno. Ma a uccidere?”. E così, dopo un banale litigio, ha preso un coltello e ha ammazzato sua madre,

Maria Teresa Di Giamberadino, casalinga di 55 anni. In cura da diversi anni per problemi psichici, secondo gli investigatori avrebbe aggredito la donna senza un apparente motivo. «Ho ucciso mia madre perché mi aveva fatto arrabbiare», ha confessato ai carabinieri.

3 ottobre, Sala Baganza (Pr)

Ha ucciso la moglie, poi si è tolto la vita, sparandosi. La donna, Simonetta Moisè, 56 anni, era paraplegica da almeno venticinque anni a causa di una malattia, e il marito, Pietro Amighetti, 63 anni, l’ha sempre assistita. Il dramma si è consumato all’improvviso. Sono ignote le cause alla base dell’omicidio-suicidio.

4 ottobre, Crocetta di Longiano (Fc)

Luca Della Valle, 48 anni, ha strangolato la compagna, Gaetana Dama, di 39, e poi si è impiccato. È successo nei pressi di un casolare abbandonato a Crocetta di Longiano, nel Cesenate. Il corpo di Gaetana è stato trovato dentro un’auto. Quello dell’uomo appeso a un albero poco distante. Della Valle era già stato accusato, ventisei anni fa, di aver ucciso la moglie Cinzia Maldini (allora ventiduenne) che venne trovata morta in un garage di Gambettola. All’epoca la Corte di Cassazione annullò una condanna di ventun’anni comminata dalla Corte d’Appello di Bologna.

Torino, un anno e 4 mesi dopo

L’11 maggio 2010 Giampiero Prato aveva ucciso la moglie, Cristina Rolle, con settantuno coltellate, e sotto gli occhi di un’assistente sociale che da tempo seguiva la loro separazione. Il 3 ottobre, l’omicida, oggi trentottenne, è stato condannato a dodici anni e venti giorni di reclusione. Il procedimento si è svolto con rito abbreviato.

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Alicia GimĂŠnez-Bartlett

di

Michele Primi

foto

Mattia Insolera

Dietro


le ramblas


“È impagabile quello che appare a ogni strada che sfocia sulle ramblas: l’improvviso delta di un fiume dove fluisce la biologia e la storia di una città, del mondo intero. Barcellona è davvero l’Europa”. Barcellona è diventata un luogo letterario grazie a Manuel Vázquez Montalbán e al suo indimenticabile Pepe Carvalho. Una città ribelle, creativa e decadente, mediterranea e passionale, luogo che ispira l’immaginario letterario e quindi anche storie di delitti e misteri. Una Barcellona nera. Vázquez Montalbán raccontava anche la trasformazione della città, lamentava la perdita dell’identità, ma intravedeva il suo futuro e continuava a riconoscerle un grande potere creativo: “Carvalho conosce queste strade e questa gente. Non cambierebbe questo paesaggio che gli serve per sentirsi vivo, anche se di notte preferisce fuggire dalla città in ginocchio, in cerca dei dintorni, di colline dove sia possibile osservarla come se fosse un’estranea”. Oltre la Barcellona di Gaudí e della Sagrada Familia, del turismo e del design, bella e aperta al mondo, esiste una città più segreta e malata, in cui si intrecciano crimine organizzato, violenza di strada, interessi politici ed economici. È la città che vive nelle pagine degli scrittori noir. Con Manuel Vázquez Montalbán è nata una scuola (e un festival letterario, BCNegra, che si svolge ogni anno nella prima settimana di febbraio), che ha creato un genere e lanciato una nuova generazione di scrittori, tra cui Alicia Giménez-Bartlett, creatrice della serie di Petra Delicado molto popolare anche in Italia, Marc Pastor e Francisco González Ledesma. La città di Petra Delicado è un luogo di luci e ombre, che vive tra la modernità della zona alta, oltre la avenida Diagonal e l’immigrazione povera dei quartieri del centro, il barrio Gótico e il Raval che una volta si chiamava barrio Chino. L’itinerario parte proprio da qui, da questo dedalo di vie e piccole piazze dove una umanità decadente, bloccata nel tempo, convive con i turisti che cercano il divertimento, con gli artisti e le comunità di migranti. Calle de Raurich, un vicoletto del barrio Gótico dietro la plaza Real, è uno dei luoghi fondamentali del romanzo dell’esordiente Marc Pastor, La Maledetta. Racconta la storia vera di Enriqueta Martí, la “vampira” del Raval che dal 1909 al 1912 rapì e uccise non si sa quanti bambini, soprattutto figli di poveracci e prostitute, prima di morire tra le sbarre del carcere femminile Reina Amalia. Un personaggio inquietante e uno dei più efferati serial killer della storia, assoldata, secondo le voci del tempo, dalle ricche famiglie della città che usavano gli innocenti per misteriosi riti satanici. In calle de Raurich (“un ventre oscuro, umido, con la nebbia attorno alle luminarie e un silenzio sepolcra-

Marc Pastor le”) vive Isaac von Baumgarten, il dottore austriaco che trafuga cadaveri dal cimitero di Montjuïc per studiare le origini fisiologiche del male. Enriqueta Martí si nasconde invece nel Raval, al numero 29 di calle de Ponent, che ora si chiama Joaquín Costa, mentre il duro ispettore Moisés Corvo e il suo assistente Juan Malsano la cercano negli angoli più bui della città, “dalla Ronda San Pau al Parco della Ciutadella, dove si diffonde la voce che il mostro ha fame”. La Barcellona noir di Marc Pastor è il triangolo di quartieri stretto tra plaza de Catalunya, il Parallelo dei teatri e il porto, composto da Raval, Gótico e La Ribera. È la rambla “piena di mendicanti”, le vie come Mendizábal, Unió, Oleguer, Escudellers e Tallero, dove vive la “gente de mala vida”, un mondo dimenticato, lontano dai palazzi dell’Eixample in cui “i rispettabili uomini d’affari ricevono le loro amanti”.


Barcellona noir Alicia Giménez-Bartlett è nata ad Almansa nel 1951 e vive dal 1975 a Barcellona. Ha insegnato letteratura spagnola, nel 1997 ha vinto il premio Feminino Lumen come miglior scrittrice spagnola con Una habitación ajena. Il primo libro della serie dell’ispettrice Petra Delicado è Riti di Morte del 1996, cui ne sono seguiti altri sette, pubblicati in Italia da Sellerio. Il suo ultimo romanzo è Dove nessuno ti troverà del 2011. Marc Pastor, nato nel 1977 a Barcellona, è laureato in Criminologia e Politica criminale e lavora nel corpo di polizia scientifica dei Mossos d’esquadra, la polizia catalana. Ha pubblicato Montecristo nel 2007 e La maledetta nel 2008, con cui ha vinto il premio Crímenes de Tinta. In Italia è tradotto da Giano Editore. Francisco González Ledesma è nato nel 1927 a Barcellona e ha esordito nel 1948 con Sombras Viejas, censurato dal franchismo. Durante la dittatura ha pubblicato oltre trenta novelle con lo pseudonimo Silver Kane. Il primo libro della serie di Ricardo Méndez è Expediente Barcelona del 1983, cui ne sono seguiti altri nove, tradotti da Hobby&Work, Mondadori, Giunti e Giano Editore. Con Mistero di strada ha vinto il Premio Planeta nel 2008. Il suo ultimo lavoro è Non si deve morire due volte del 2009.

È una Barcellona inquietante e dominata dalla paura, ma affascinante nella sua atmosfera livida e nei personaggi disgraziati che sembrano usciti da un racconto di Dickens. Come Bocanegra, il balordo di strada che non è mai stato bambino e di cui Enriqueta si serve per i suoi rapimenti. In questa città che vive di notte oggi manca il silenzio che Alicia Giménez-Bartlett fa invece diventare protagonista del suo giallo Il silenzio dei chiostri, ambientato nel convento di clausura delle Sorelle del Cuore Immacolato di plaza de San Justo y Pastor, un palazzo che “si eleva tra altri edifici antichi, provocando una sensazione inquietante e serena allo stesso tempo, se così si può dire”. È uno degli angoli più suggestivi del barrio Gótico, bagnato da una fonte del 1300, che sorge dove secondo la leggenda furono sepolti i primi martiri cristiani. Nel libro di Bartlett, un muro di silenzio e segreti divide il convento dal mondo reale,

la determinazione e l’indipendenza di Petra Delicado dalla sottomessa osservanza a regole antiche della madre superiora Guillermina. Ma c’è il cadavere di un monaco esperto d’arte assassinato apparentemente senza ragione, la mummia di un santo trafugata, un caso difficile da risolvere per Petra e il suo assistente, Fermin Garzón, che ai misteri del convento preferisce il bancone di un bar, una birra fredda e le saporite tapas. La Barcellona nera di Alicia Giménez-Bartlett è una sorta di regno del silenzio, in cui Petra Delicado si immerge portandosi dietro il suo istinto di poliziotta e le sue insicurezze di donna, per scoprire le zone più oscure dell’anima umana e gli interessi che da sempre governano la città.

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Francisco González Ledesma

“Una città enorme e amara, dove sembra che tutto sia già stato previsto. Una città che il Signore sapeva da subito che non avrebbe mai potuto ripulire”

Altra cosa ancora è la città raccontata da Francisco González Ledesma nel suo Mistero di Strada. Un luogo letterario che, come in Manuel Vázquez Montalbán, è soprattutto memoria di una città che non c’è più. La sua città nera è quella degli anni Settanta, dello sviluppo economico e dei rapinatori di banche, degli anarchici e degli operai, dei traffici illegali e del porto: “Una città enorme e amara, dove sembra che tutto sia già stato previsto. Una città che il Signore sapeva da subito che non avrebbe mai potuto ripulire”. Attraverso il suo Ricardo Méndez, un ispettore di polizia dai metodi poco ortodossi, Ledesma racconta l’anima perduta di una città un tempo rude, dura ma onesta, che si sta già trasformando in un paradiso in vendita per turisti. In Mistero di Strada, una rapina a mano armata diventa

una tragedia che continua: i due rapinatori in fuga uccidono un bambino, anni dopo Ricardo Méndez si trova a fare i conti con il desiderio di vendetta del padre, David Miralles, e con l’antico contrasto tra leggi e giustizia privata. La storia si svolge nel quartiere del Poble Sec, creato nel 1858 sulla collina a ridosso del Montjuïc per ospitare le famiglie degli operai che costruirono il lussuoso Eixample. Una zona popolare, ora abitata dalle comunità latine che hanno trasformato la calle de Blai, la piccola rambla che lo attraversa, in uno scorcio dell’Avana. Il Mistero di strada di Ledesma si aggira tra plaza del Sortidor e calle de Rosal (“dove il sole da sempre annega le case dei poveri”), tra i negozi cinesi di ronda Sant Antoni “un quartiere piccolo borghese dove i nonni un tempo davano il


proprio nome ai tram e ora i nipoti comprano computer” e, più in là, fino all’incrocio tra calle de Sant Pau e calle Robadors, dove a ogni ora si trovano prostitute che avrebbero potuto ispirare Fabrizio De Andrè per Via del campo. E poi ci sono i bar, il vero luogo simbolo della vita di Barcellona: il Marseille nel Raval dove Pablo Picasso beveva l’assenzio, la Anticipada in cui si raccontano i segreti più inconfessabili del Poble Sec, un ristorante di calle Hospital dove l’ispettore Méndez si ferma a mangiare perché “stranamente non è ancora morto avvelenato nessuno”. Barcellona non è Barcellona, scrive Ledesma, ma “un immenso luogo in espansione dove vivono persone che all’apparenza non vivono da nessuna parte”. C’è ironia, nostalgia e disincanto in questi scrittori con l’anima di strada, che

vivono in una città che si è evoluta in una metropoli funzionale e alla moda, ma continuano a raccontare quel cuore nero che ancora batte da qualche parte. “Barcellona – scrive Marc Pastor – è una vecchia donna dall’anima straziata che è stata abbandonata da mille amanti, ma non vuole riconoscerlo. Ogni volta che cresce si guarda allo specchio, si vede cambiata, rinnova il sangue fino a farlo bollire. E alla fine, come il bozzolo di una farfalla, sboccia. (…) Il sangue e il fuoco creeranno la fuliggine con cui Barcellona si truccherà di nuovo, per tornare a essere vecchia”.

i


il cerchio e la rete un fisico bestiale di

Bruno Giorgini

foto Zhang Lin Hai [schoeni art gallery]

Zhang Lin Hai, Shepherd Series No. 3 Nato a Shanghai nel 1963 e formatosi all’Accademia d’arte di Tianjin, è tra i pittori più interessanti della sua generazione. Nelle sue opere spesso compaiono bambini ritratti su sfondi di paesaggi lunari, brulli e desolati, un rimando alla sua difficile infanzia

Il cerchio è la figura geometrica degli eguali. La Grecia lo inventa e lo fa diventare simbolo dell’universo, della città e della sua vita politica. Le discussioni che si svolgono nell’agorà scaturiscono da un’assemblea circolare dove colui che parla si mette al centro, mentre gli astanti, che ascoltano in posizione di assoluta eguaglianza, si posizionano lungo la circonferenza, che è appunto il luogo dei punti equidistanti da un unico punto. Da quel centro che, terminato il suo discorso, l’oratore abbandona dirigendosi verso il bordo, mentre chi vuole prendere la parola fa il percorso inverso: libertà di movimento che diventa libertà d’espressione. Ma coloro che stanno in cerchio e guardano il centro voltano tutti le spalle a quelli che invece restano all’esterno: gli esclusi. L’altra geometria dei sistemi urbani è la rete, dove ci sono nodi e connessioni. I primi hanno pesi diversi, le seconde possono essere più o meno forti e significative. I movimenti urbani politici sociali diventano complessi e l’agorà non è più la piazza centrale dove il popolo si riunisce, per esercitare la discussione, la critica, la decisione. Se guardate un reticolo come quello di Manhattan, e lo immaginate delimitato da un perimetro-frontiera, avrete la sgradevole impressione di essere in uno spazio confinato, sebbene non ci sia filo spinato. Il gulag è stata la massima espressione di questa geometria concentrazionaria che è la rete, il network, che non può essere chiuso; ha sempre bisogno di ponti e connessioni che lo colleghino con l’esterno. Anche senza arrivare agli estremi del campo di concentramento, diventa ghetto in cui si rinchiude una comunità omogenea, la popolazione afroamericana ad Harlem, quella magrebina nei quartieri nord di Marsiglia, e via confinando. Il ghetto è la premessa geometrica di potenziali guerre civili; lì spesso le ali più integraliste sviluppano comportamenti oppressivi, come i musulmani più radicali che vogliono imporre il Ramadan a tutti o quegli ebrei ortodossi che in certi quartieri di Gerusalemme vanno a caccia di donne “scostumate”, quelle che indossano la minigonna, per svergognarle davanti alla comunità. Questa oppressione interna si sviluppa parallelamente a quella esterna, esercitata in vari modi; per esempio a Marsiglia la metropolitana termina le corse alle 21 e 20 proprio per impedire che la racaille, la feccia, cioè i giovani dei quartieri settentrionali possano scendere in centro, disturbando con la loro sola presenza il passeggio dei bravi borghesi e dei turisti. Ma si può anche lavorare alla costruzione di agorà, di luoghi aperti in cui avviene l’incontro, si esercita il dialogo, la cooperazione, l’autorganizzazione dei cittadini: una spiaggia libera, una strada occupata, un mercato autogestito; Wall Street che si riempie di persone consapevoli, con una coscienza critica e decise a resistere, la piazza della Porte d’Aix (Marsiglia) dove si organizza un picnic “selvaggio” per riprendersi il prato che la polizia occupa dopo averlo “ripulito” dai poveri di varie etnie, colori e fedi. Le agorà, luoghi di azione e convivenza civile tra diversi, di incontro che non diventa scontro, dove si formano gruppi ma non gerarchie, dai quali si entra e si esce a piacere. Uno spazio di cui, oggi, c’è un gran bisogno.

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.eu di

Stefano Squarcina

neanche il pane È uno tsunami alimentare quello che investirà diciotto milioni di poveri e indigenti in Europa se i ministri dell’Agricoltura non sapranno trovare un accordo, entro novembre, per confermare i finanziamenti al fondo europeo che permette di distribuire cibo gratuito a chi non ha i mezzi per sfamarsi nel nostro continente. Per il momento, il blocco politico è totale: Germania, Gran Bretagna, Svezia, Olanda, Danimarca e Repubblica Ceca formano una “minoranza di blocco” in seno all’Unione europea che impedisce il rinnovo del programma di aiuti alimentari. In discussione c’è la riforma in materia proposta dalla Commissione europea, elaborata per mettersi in regola con la sentenza della Corte europea di Giustizia del 21 aprile scorso, con cui veniva dichiarato illegittimo il sistema attuale di finanziamento del programma alimentare: come ordina la Corte, i soldi non devono provenire dal capitolo “politica agricola comune” bensì da quello “coesione sociale”. Un sofisma giuridico che ha l’immediato effetto di cancellare nei fatti la legislazione in vigore e di portare – se non si fa niente – da 480 milioni di euro (del 2009) a 113 milioni per il 2012 e 2013 la dotazione finanziaria del programma (meno 75 per cento!). È urgente salvare il programma di aiuti alimentari, approvare la proposta della Commissione che, cambiando la base legale, dà continuità al sistema; mettere in un angolo la posizione di quei Paesi, come la Germania, che si giustificano dicendo che questa non sarebbe materia di competenza dell’Unione bensì dei suoi singoli Stati membri, un drammatico cavillo alla luce del problema: ogni anno, infatti, il programma alimentare distribuisce 450mila tonnellate di cibo gratuito grazie al lavoro di 240 organizzazioni, come la Caritas, il Banco alimentare o le tante strutture laiche e confessionali di solidarietà. Italia, Polonia e Francia sono i primi destinatari di questo cibo, decine di milioni di pasti gratuiti vengono distribuiti ogni anno in Europa ad anziani, lavoratori poveri o disoccupati, famiglie e bambini nel bisogno, senza fissa dimora, persone in emergenza sociale, a cui in tempi recenti si sono aggiunte migliaia di famiglie colpite dalla crisi. Bisogna mobilitarsi sul piano politico ed etico, a cominciare dal parlamento europeo, perché quei ministri la smettano di attentare alla dignità di diciotto milioni di poveri e indigenti, affinché il programma alimentare possa contare in futuro su quei cinquecento milioni di euro annui – una goccia nell’oceano del bilancio comunitario – capaci di sfamare milioni di persone in Europa.

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[getty images]

Jacob Jordaens (1593-1678), Il re sta bevendo, olio su tela, Musée des Beaux-Arts, Tournai, Belgio


“Tutti gli esseri nascono liberi e uguali in dignità e diritti”. Riconoscere questo principio “costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Art.1 e Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani, Parigi, 10 dicembre 1948

EMERGENCY è un’associazione italiana indipendente e neutrale, nata per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà.

Fai la tessera 2012 di EMERGENCY: contribuirai alle attività dell’associazione e promuoverai una cultura di pace e di solidarietà. Richiedila ai volontari di EMERGENCY o sul sito http://tessera.emergency.it/

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La tessera 2012 ha validità dall’1 gennaio al 31 dicembre 2012. Con la tessera di EMERGENCY riceverai la nostra rivista trimestrale e avrai diritto a sconti e facilitazioni presso librerie, teatri, gallerie d’arte in tutta Italia.

L’impegno umanitario di EMERGENCY è possibile grazie al contributo di migliaia di volontari e di sostenitori.

EMERGENCY

w w w. e m e r g e n c y. i t


pìpol di Gino&Michele illustrazione

Felix Petruška

non siamo in vendita “Se un vostro amico se ne sta lontano da voi per un po’, non diventate tristi: la sua assenza vi aiuterà a capire ciò che più amate in lui. L’imponenza di una montagna è più visibile dalla pianura che dalla cima”. Dedicata a Francesco Azzarà. *** “L’esercito è come un film vietato ai minori di 14 anni: troppa violenza e poco sesso”. Il fumettista Mort Walker lo fa dire al suo personaggio più riuscito, il soldato Beetle Bailey. Qualcuno ricorderà – come noi, che tra l’altro ci scrivevamo sopra – il glorioso Linus degli anni d’oro, direttore OdB. *** A proposito, con Oreste del Buono, agli inizi degli anni Novanta, con lui e tanti altri amici ci inventammo editori. Costruimmo insieme un periodico di fumetti e idee varie, Tic, durato l’espace d’un matin. Come si dice? Eravamo troppo avanti? Il gruppo folle comprendeva, a memoria, Gino&Michele, Nico Colonna per Smemoranda, Elfo, cioè Giancarlo Ascari, Franco Serra, il produttore Maurizio Totti, l’inventore di Secondamano Luciano Cervone. E Sergio Bonelli, che ci ha lasciati lo scorso settembre. Il suo Tex, pistolero d’antan, ci aveva educati, adolescenti, al senso di giustizia. *** L’avvocato Silio Italico, storico politico romano dell’epoca dei Cesari (I sec. d.C.), scrisse: “La pace è la migliore delle cose che siano date di conoscere all’uomo e una sola pace è da preferire a mille trionfi”. *** “Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato, l’ultimo pesce pescato, vi accorgerete che non si può mangiare il denaro. La nostra terra vale più del vostro denaro. E durerà per sempre. Non verrà distrutta neppure dalle fiamme del fuoco. Finché il sole splenderà e l’acqua scorrerà, darà vita a uomini e animali. Non si può vendere la vita degli uomini e degli animali; è stato il Grande Spirito a porre qui la terra e non possiamo venderla perché non ci appartiene. Potete contare il vostro denaro e potete bruciarlo nel tempo in cui un bisonte piega la testa, ma soltanto il Grande Spirito sa contare i granelli di sabbia e i fili d’erba della nostra terra. Come dono per voi vi diamo tutto quello che abbiamo e che potete portare con voi, ma la terra mai”. Questo disse Piede di Corvo, capo dei Piedi Neri, ai bianchi che cercavano di comprargli le terre. I Piedi Neri Piegan (Aamsskáápipikani, o semplicemente Pikáni in lingua Siksiká) sono una tribù di nativi americani che abitavano il Nord degli Stati Uniti. Ancora esiste una riserva indiana dei Piedi Neri nel Montana nordoccidentale. *** “Sto cercando disperatamente di capire perché i piloti kamikaze si mettessero i caschi in testa”. Dave Edison, comico *** “Non ci posso far niente, questi sono i miei princìpi. Però, se non ti piacciono, ne ho pure altri”. Lo diceva Groucho, che dei Marx è stato il meno impegnativo. O forse è il contrario?

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la moglie invisibile decoder di

Violetta Bellocchio

foto David Alan Harvey [magnum photos/contrasto]

Fino a un paio d’anni fa, quando un uomo potente doveva chiedere scusa per aver infranto qualche regola chiave della convivenza civile, l’uomo aveva bisogno di due cose: un discorso articolato intorno alla frase «Ho dato un dispiacere a mia moglie» e una signora in tailleur al suo fianco. Una donna silenziosa, che tenesse bassa la testa. Una moglie-ombra. La svolta è arrivata nel 2008, con il dimissionario governatore dello Stato di New York, Eliot Spitzer, cliente abituale di un’agenzia di escort, e con la conferenza stampa dove la signora Spitzer appariva immobile accanto al marito. Su quella moglie fu modellata la protagonista di un telefilm, The Good Wife. Che è seguito da milioni di persone, in tutto il mondo. Il personaggio brilla un po’ troppo, adesso, e non funziona più come semplice dettaglio nella storia di qualcun altro. E così la donna silenziosa cede il posto alla donna invisibile. Quando Dominique Strauss-Kahn va ospite alla tv francese, e nell’arco di venti minuti razionalizza i propri gusti sessuali, smentisce ogni accusa di violenza mai mossa contro di lui e fa ammenda al popolo intero senza cambiare espressione, la moglie Anne Sinclair rimane fuori scena, evocata da una singola frase («Una donna formidabile») e da un ringraziamento tra le righe («Non mi avrebbe mai sostenuto se non avesse saputo che ero innocente»). In effetti è un’idea vincente: perché mostrare una moglie, quando basta dire «mia moglie» e lasciare che il suo fantasma si agiti a due passi dallo schermo? Messo da solo davanti alla colpa, l’uomo farà pena, se non simpatia. L’umiliazione sembrerà maggiore, il rimorso garantito. E la donna invisibile piacerà molto, moltissimo, soprattutto al pubblico femminile, perché la sua assenza permetterà a chi legge o guarda di immaginarla come preferisce. Comprensiva, imbarazzata, furiosa, opportunista. Su di lei verrà proiettata una valanga di «cosa farei io se mio marito facesse quel che ha fatto questo poveretto?». E ogni risposta, per forza, sarà altrettanto buona.

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L’uomo della cucina di

Alberto Riva

illustrazioni

Franco Brambilla

Alberto Riva Nato nel 1970, scrittore e giornalista, vive tra l’Italia e il Brasile. Insieme a Enrico Rava ha scritto Note necessarie. Come un’autobiografia (minimum fax, 2004). È l’autore del reportage su Rio de Janeiro Seguire i pappagalli fino alla fine (Il Saggiatore, 2008) e ha esordito nel romanzo con Sete (Mondadori, 2011). Il suo blog è L’Osservatore Carioca.

Franco Brambilla Nato nel 1967 a Milano, diplomato all’Istituto europeo di design. Dal 1998 al 2005 collabora all’inserto economico del Corriere della Sera. Nel ‘98 insieme a Pierluigi Longo e Giacomo Spazio fonda l’Airstudio, punto di riferimento delle maggiori case editrici italiane per la progettazione grafica e l’illustrazione. Collabora con le più famose collane di fantascienza. Per Mondadori realizza anche molte copertine. Ha ricevuto il premio Best Artist agli European Awards, Eurocon Fiuggi 2009 e il Premio Italia, Milano Delos Days 2011. Il suo sito è: www.francobrambilla.com

uno Una sera di qualche settimana fa sono andato a bermi una birra, a volte lo faccio, in un bar vicino a casa chiamato Toca do Juca. Nei giorni della settimana è passabile: i tavolini sono di marmo bianco, le sedie di legno, si sta bene. Dopo un po’ è passato di lì un tizio che conosco, si chiama Alain, è svizzero, un tipo tranquillo che fa il liutaio. L’ho invitato a bere con me e si è seduto sorridendo, dopo aver sistemato tre buste della spesa sotto il tavolo. Ci siamo messi a chiacchierare. Qualche mese fa Alain si è separato dalla moglie, ma non sembra aver sofferto tremendamente. Lei è mezza india, quasi grassa, con una sua bellezza. Non l’ho vista molte volte, ma ricordo un volto tormentato, occhi a mandorla e capelli nerissimi. Alain ne parla poco e io non domando nulla. In breve il bar si è riempito di gente e abbiamo dovuto alzare la voce, allora ci siamo spostati verso il fondo del locale, che è più tranquillo. Passando, Alain ha fatto cenno a un signore in là con gli anni, seduto da solo con un bicchiere di cachaça davanti, il quale gli ha risposto con un lieve sorriso. «È l’uomo della cucina», mi ha detto Alain mentre ci sedevamo. «Non ho capito». «Si chiama Michelangelo. È un mio vicino, ex professore di matematica». «E che c’entra la cucina?». Alain mi ha guardato con i suoi occhi azzurro annacquato e si è versato lentamente la birra nel bicchiere, dopo aver riempito anche il mio. «È un professore in pensione, un matematico. Vive in una bella casa, una di quelle case sulla curva, che danno verso la strada da basso, hai presente?». Mentre Alain parla, ho lanciato rapide occhiate al vecchio. Era seduto dandoci le spalle e ogni pochi secondi si portava il bicchiere di cachaça alla bocca. Dico: «Hai parlato di una cucina». Alain fa una smorfia come per dire: ci arrivo, non aver fretta, ci arrivo. E comincia a raccontare: «Un paio di settimane fa, stavo leggendo a letto quando sento un rumore venire dalla cucina. Il mio frigorifero, sebbene sia abbastanza nuovo, fa un certo rumore che io ormai conosco. Credo sia il liquido raffreddante che circola in quei circuiti che ci sono dietro. Ogni tanto sento un rumore ma non



L’uomo della cucina

mi agito, so che è il frigorifero. Ma quel rumore era diverso. Tipo quello che avevo sentito una notte di alcuni mesi fa: stavo leggendo in sala, o forse stavo lavorando, non ricordo, e sento un rumore in cucina, un rumore strano. Anche se sapevo benissimo che non stavo cucinando, ho pensato che forse avevo lasciato qualcosa sul fuoco: corro in cucina e ti trovo un opossum sul forno». «Perbacco», faccio io. «Un opossum?». «Si, un opossum, un bellissimo opossum. Simpatico, ti devo dire: in realtà è un marsupiale, lo sapevi? È l’unico marsupiale delle Americhe. C’ha questo codone assurdo, tipo aculeo e la faccia simpatica. Sono inoffensivi, in genere. Hanno fame. Rovistano. Avevo lasciato la porta aperta e lui, o forse lei, magari era una femmina, è entrato in cucina e stava sui fornelli. Circostanza che per altro non ho capito dal momento che c’era un cesto di pane sul tavolo e lui, o lei, invece stava sui fornelli. Comunque... Ho battuto le mani, ho alzato un po’ la voce, lui è sceso con tutta calma dal forno e se n’è andato via. Ma tornando a noi, quella notte, a letto, penso: sarà un altro opossum. Eppure ero sicuro di aver chiuso bene la porta. Quando vado a dormire controllo sia porte che finestre, soprattutto quella della cucina. Fatto sta che mi alzo e vado verso la cucina, ma mentre sto per accendere la luce sento un rumore stranissimo e mi blocco». «Che tipo di rumore?». «Un rumore di cucchiaino che sbatte contro la tazza. Inconfondibile. Resto lì qualche secondo immobile, e poi penso. Sarà l’opossum che questa volta sta facendosi un giro sulle stoviglie accumulate nello scolapiatti, che tengo vicino al lavandino. Perché, secondo me, quell’altra volta voleva andare verso il piccolo cesto della pattumiera che tengo vicino al lavandino. Sono così abituati a frugare nella spazzatura che anche se c’è pane fresco sul tavolo si dirigono verso la spazzatura...». Bevo una sorsata di birra guardandolo. «Torniamo al cucchiaino». «Ok. Il cucchiaino. Dicevo, resto qualche secondo immobile nel buio poi mi decido e accendo la luce. Lì per lì ho creduto di sognare. Ho pensato: ok, stavo dormendo e ora sto sognando e credo invece che sia realtà. Nello stesso tempo sapevo benissimo che non stavo sognando, non so se capisci cosa intendo». «Capisco; è quel momento in cui, se sta sognando, uno si sveglia e pensa: cavolo, stavo sognando, meno male». «Esatto, sì. Credo si chiami punto critico del sogno, una cosa del genere. Comunque sia, dal momento che non mi sveglio ritrovandomi nel letto, e dunque non sono nel punto critico del sogno, capisco che non sto sognando. Dunque caccio un grido: ah!». «Perché, cosa hai visto?». «Il vecchio, là, Michelangelo, era seduto al tavolo della cucina con una tazza in mano». Lancio una nuova occhiata al vecchio: è sempre là che beve cachaça con la schiena dritta. Rido: «Stai scherzando?». «No, quel vecchio era seduto nella mia cucina e stava bevendo un caffè». «E cos’ha fatto quando ti ha visto e tu hai urlato?». «Niente. Ha appoggiato la tazza che aveva in mano e mi ha salutato. “Buonasera Alain, c’è del caffè, ne prende con me?”». «Alain, perdonami, non penserai che creda a quello che mi stai raccontando?». Lui mi guarda senza sorridere, e beve un sorso di birra. «Ti giuro che non sto inventando nulla...». Sembrava offeso. «Se mi dici che non stai inventando ti credo, però mi sembra una storia incredibile. E tu cos’hai detto?». «Io lì per lì non sapevo cosa dire. Poi gli ho chiesto, gentilmente, cosa ci faceva nella mia cucina alle quattro di notte, a bere un caffè. Peraltro, istintivamente, con gli occhi ho cercato la mia caffettiera, ed era nello scolapiatti dove l’avevo lasciata». «Ciò significa...». «Esatto. Si era portato il caffè da casa, e anche la tazza». Io lancio un’altra occhiata al vecchio. Sta bevendo la cana a piccoli sorsi, e ogni tanto saluta qualcuno.

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due I militari hanno l’abitudine di usare, per le loro scorribande, una flotta di kombi Volkswagen color crema. Sui vetri ci appiccicano una specie di plastica adesiva azzurra che da fuori sembra uno specchio; quando invece sei seduto dentro il mondo appare scuro, quasi buio. Michelangelo Orsini ne osserva per la prima volta una da vicino. È parcheggiata vicino a casa. L’hanno chiamato nel cuore della notte. Stava sognando qualcosa che non riesce a ricordare. Lo ha svegliato la mano di Zelia. «Professore, professore...». «Che c’è?». «Al telefono...». Lui accende la lampada il cui gambo è un intrico di rose pallide laccate. «A quest’ora?». Si mette seduto sul letto. «Vogliono lei». Passa un minuto. «Pronto?». «Il professor Orsini?». «Sono io». «Bene. Ha messo insieme i soldi e i documenti?». Michelangelo scuote la testa. Zelia lo osserva. «Lei non vuole capire, gliel’ho già detto. Non posso prendere quello che lei mi chiede: sono miei colleghi, persone per bene». «Sono comunisti, professore. O non sarà comunista pure lei? E i soldi?». «Ma di quali soldi parla?». «Dei suoi soldi. Della sua barca di soldi. Neppure quelli?». «Lei si sta sognando questi soldi. Crede che un professore di matematica dell’università federale abbia tutti quei soldi?». «Lei li ha». «E invece no». «E allora è facile che suo figlio abbia voglia di farla finita». Michelangelo fissa Zelia, che a sua volta lo fissa, attraverso la luce fioca della lampada. La donna, una bella donna in carne, dentro una camicia da notte con tenui fiori rosa, incrocia le braccia sul petto largo. Sparisce in cucina. «Non vi credo, siete solo dei farabutti». «Peggio per lei professore». «Vada al diavolo, mi lasci dormire!». «Se ne pentirà». «Vada al diavolo!». «Suo figlio, professore». «Al diavolo anche quella testa calda di mio figlio! Mi lasci in pace!». Michelangelo ha gridato. In cucina, Zelia ha chiuso gli occhi. Pensava che la paura fosse quella provata da bambina, di fronte alle mani di suo padre, mani dure come pale di legno. Ma no. C’è paura peggiore. Ora Michelangelo è sulla porta della cucina. Fuori è quasi giorno. Dalla portafinestra che dà sul giardino s’intravede la sagoma scura del mango. Zelia osserva Michelangelo e sussurra: «Forse dovrebbe fare come dicono...». «Stai zitta tu. So io cosa bisogna fare! Cosa ne sai tu?». «Come vuole lei. Faccio un caffè». «No, me lo faccio io. Tu torna a dormire; per favore, lasciami solo. Vai, vai a dormire!». La donna non dice più nulla ed esce. Michelangelo la osserva lasciare la cucina, la luce grigia dell’alba l’ha spogliata per qualche secondo, mentre ondeggiava verso la stanza. Poi il professore sente la luce dilatargli le pupille e ogni oggetto della cucina assumere il suo profilo definitivo. Dalla credenza prende un barattolo nero, lo apre, annusa il macinato di caffè. Da bambino si rifugiava nella casetta di legno del loro fattore di cui aveva rubato il mazzo di chiavi. Suo padre, proprietario di terre e di animali, proprietario di uomini e dei loro figli, impazziva a furia di cercarlo in lungo


tre

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«Quindi», faccio ad Alain, «questo Michelangelo aveva un figlio terrorista?». «Non era un terrorista: era uno studente invischiato nella politica, come tanti. Michelangelo era un professore piuttosto noto, peraltro decisamente reazionario. Uno di quelli, per intenderci, che non credeva che i militari – alcuni erano suoi amici – torturavano la gente. Era pieno di persone così, persone con gli occhi bendati. Finché un bel giorno gli rapirono il figlio e, per liberarlo, gli chiesero di denunciare dei colleghi, dei professori di sinistra, almeno così si dice». Io sposto lo sguardo oltre le spalle di Alain e osservo l’ometto seduto a poca distanza da noi. Il bicchierino di cachaça è vuoto. Abbasso la voce, anche se nel bar c’è una confusione bestiale. Domando: «E lui cosa ha fatto?». «Lui non ha ceduto, non ha denunciato nessuno. Avrebbe potuto benissimo, senza rischiare. Aveva amici nelle alte sfere. Un cugino ministro, tra le altre cose». «E cosa è successo?». «Beh», Alain dà una sorsata generosa alla birra. «Una mattina hanno trovato il figlio con i polsi tagliati in un albergo di Copacabana frequentato da omosessuali...». Alain fa una specie di sorriso timido piegando il lato destro della bocca verso il basso. È un gesto che fa spesso. Io osservo ancora l’uomo: ha alzato la mano verso il cameriere per ordinare un’altra cachaça. Dice grazie con gentilezza e stende le mani aperte sul tavolino di marmo bianco. Poi sposto lo sguardo su Alain, che sembra in procinto di voler andar via. «E tu come sai questa storia?». «La casa era sua». «Quale?». «Casa mia». «La tua casa?». Annuisce. «L’ho comprata da lui qualche anno fa. La stava svendendo. Era rimasto vedovo molto presto: i figli (c’è anche una figlia, non si sa che fine abbia fatto) sono venuti su da soli e un po’ li ha seguiti la sua governante, una certa Zelia, che pare fosse molto innamorata di lui. Era una nera che veniva da Recife e che Michelangelo non volle mai sposare. Gli è stata vicina più di vent’anni. Poi un giorno, improvvisamente, se n’è andata, è tornata al Nord. E lui ha venduto la casa». «Perché l’hai comprata tu?». Alain mi guarda e sembra indeciso se ordinare due nuove birre, lancia un’occhiata ai sacchetti della spesa. Dice: «Zelia suonava molto bene la chitarra, e cantava ancora meglio. Un giorno ricevetti la telefonata di Michelangelo. Mi chiedeva se potevo riceverlo nel mio atelier. Venne e mi ordinò una chitarra per Zelia. Era la mia terza chitarra, me lo ricordo. Una bella chitarra. Gliela portai io, quattro mesi dopo. Ma lei se n’era andata da una settimana, forse due, non ricordo. Rimasi di sasso. Gli dissi che non c’era nessun problema, la chitarra la tenevo io. Ma lui ha insistito per comprarla lo stesso». «E tu come sai che lei suonava bene?».

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L’uomo della cucina

e in largo. Solo così lui si calmava. Il mondo diviso in cose precise. Il suo buio lì dentro; e suo padre nei campi che non poteva trovarlo. Uno più uno. Uno contro uno. Anche adesso, il profumo intenso del caffè vale uno. Il resto del mondo, fuori, vale uno. Sono separati, distanti. Quando beve è ormai giorno. Zelia è sulla porta di casa; sta parlando con un tozzo commissario di polizia. Sente Zelia dare una specie di urlo soffocato. Fuori il sole è già forte. Zelia singhiozza. Lui si alza e stringe le palpebre.


L’uomo della cucina

Lui mi fissa come per dire: non credi proprio a nulla? «Un mese prima era venuta all’atelier per vederla e, nel caso, suggerirmi qualche dettaglio. Allora le avevo chiesto di suonare qualcosa con una delle mie. E lei si era messa a cantare accompagnandosi. Divinamente. Un mese dopo, senza attendere la sua chitarra, se ne andò. Quando andai da lui, Michelangelo mi disse che voleva vendere la casa: io, tanto per dire, gli chiesi quanto voleva. E lui sparò una cifra ridicola, tre volte meno del valore di mercato. Quella sera tornai a casa e insieme a mia moglie ci mettemmo a fare i conti. Il giorno dopo lo richiamai e concludemmo l’affare...». Le ultime parole non le ho quasi ascoltate. Ho seguito Michelangelo mentre si alza, passa dalla cassa a pagare le tre cachaças. Ha una camicia a righe sottili che gli cade fuori dai pantaloni marrone scuro, ben stirata e leggermente aperta sul petto. A Rio è pieno di anziani così: in Largo do Machado si siedono intorno a tavoli di cemento e giocano a domino. A Copacabana stanno seduti all’ombra dei mandorli osservando l’oceano. Alain si alza. «Si è fatto tardi», dice di fretta, «la mia nuova ragazza mi strozza, te l’ho presentata? Tu resta se vuoi, le birre le pago io». «No, no, faccio io. Però non mi hai detto cosa hai fatto quando l’hai trovato in cucina!». Mi è uscito quasi come un rimprovero. «Ah, si. La prossima volta. Ricordamelo! Ora davvero devo andare!». Mi ha salutato e ha lasciato i soldi delle birre alla cassa. Al tavolo dov’era seduto Michelangelo ci sono ancora i tre bicchierini vuoti.

quattro Ogni tanto gli capita. Si sveglia nel cuore della notte, con il petto in subbuglio, il cuore che batte come un martello. Chiama Zelia. La chiama ad alta voce. Sa che nessuno risponderà. Lui resta lo stesso sollevato sui gomiti, in attesa. Resta così qualche secondo, qualche lungo secondo. Poi non può più dormire. Si alza e va in bagno. Si veste. Sa che lo svizzero a cui ha venduto la casa, Alain, il liutaio, non ha mai cambiato la serratura della portafinestra che dà sul giardino. Una volta vestito, va nel salone e apre il secondo cassetto del mobile di noce nero. Ha ancora la chiave della portafinestra: è una chiave piccola, con una gomma verdognola sull’impugnatura. C’è un sentiero che conosce bene, gira intorno alla casa rossa, la casa dei Pereira. Lì non ci sono cani. Poi c’è quel vecchio cancelletto verde che nessuno usa. Si salgono undici gradini e si è nel suo antico giardino. Nelle notti di luna crescente come quella, si vede come fosse giorno. È notte molto avanzata, il silenzio è grande. Nella borsa di tela ha messo il termos e la tazza. Fa piano, non ha mai svegliato lo svizzero. Non vuole che si svegli neppure questa notte. Dalla tasca dei pantaloni estrae la chiave e la infila nella portafinestra. Fare quel gesto lo salva. Non sa perché e non vuole saperlo. La sua antica serratura che continua a girare: la serratura della porta che dà sul giardino e sull’albero di mango. A quell’ora della notte lunare il profilo robusto dell’albero inizia a distinguersi contro il cielo. Sul fondo c’è il mare calmo. Non si può sentire, ma s’intravedono i suoi riflessi argento chiaro. Si siede lentamente al tavolo. Estrae il termos e riempie di caffè la tazza. Poi è uno spavento. Si accorge di non averlo zuccherato. Resta fermo per qualche secondo, quindi si alza e apre con sicurezza l’anta di un pensile. Dallo scolapiatti prende un piccolo cucchiaino e si risiede. Finalmente mescola il caffè. Il profumo del caffè vale uno. Anche la luce nuova che illumina il mango vale uno. Michelangelo mescola, e osserva.

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Ecuador feliz

buen vivir di

Alfredo Somoza

foto Dieter [panos/luz]

Telemans

Le antiche popolazioni indigene delle Ande lo conoscevano da millenni e lo chiamavano Sumak Kawsay (“vivere in armonia con gli altri e con l’ambiente”), c’è voluto qualche secolo per farlo diventare un punto programmatico e costituzionale di un Paese. Il concetto del buon vivere inserito nella nuova Costituzione dell’Ecuador è uno dei maggiori elementi di discontinuità culturale con l’ideologia neoliberista mai tentato finora. I pilastri del dogma degli ultras del libero mercato, come per esempio la prevalenza dell’economia su ogni altra attività, la dismissione del ruolo regolatore dello Stato e l’egoismo sociale come motori di crescita dell’economia, vengono abbandonati con l’introduzione di una visione neocomunitarista che trova spunti nella cultura indigena, ma che incorpora elementi di modernità provenienti dal percorso dei movimenti per un’altra globalizzazione. Per gli ecuadoriani, il buen vivir si basa sull’interrelazione armoniosa tra economia, politica, rapporti socioculturali e ambiente, garantita da uno Stato presente e che esercita il ruolo di coordinatore e moderatore dei rapporti economici e sociali. L’economia, secondo questa filosofia, non si deve misurare più con i soli dati macroeconomici come ad esempio il Pil, ma con nuovi indicatori che mettono in luce le condizioni reali e concrete di vita della popolazione. Un altro concetto caro agli economisti che viene messo in discussione dagli ecuadoriani è quello della crescita quale unico motore del progresso sociale. Secondo questo approccio, bisogna valutare gli impatti ambientali e la soddisfazione dei bisogni della popolazione prodotti dalla crescita economica e quindi valutare l’opportunità o meno di “crescere”. Il buen vivir andino alla fine è molto simile al concetto di “decrescita felice” di Serge Latouche, ma la grande differenza è che quello che per noi è ancora utopia, sulle Ande è una realtà che comincia a fare i primi passi. Nell’Ecuador di Rafael Correa non si vuole semplicemente ridistribuire il reddito, frenare le privatizzazioni, rispettare i diritti delle minoranze, si vuole riscrivere il concetto di sviluppo e di comunità. Una rivoluzione in senso lato, democratica, voluta e sostenuta dalla maggioranza della popolazione. E questo è sicuramente l’indicatore più significativo di buen vivir che si possa immaginare: la possibilità per un intero popolo di decidere il proprio modello di sviluppo attraverso le urne e di sostenere attivamente e con serenità un processo di cambiamento radicale.

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parola mia di

Patrizia Valduga

l’altro Petrarca Mentre “dantesco” vuole dire “che ha grande potenza fantastica e creativa, di profondo, nobile e virile sentire”, “petrarchesco” vuole dire “raffinato, ricercato, affettato nell’eloquio”, “che nasce da una concezione puramente contemplativa e ideale dell’amore” e, per fortuna, anche “spiritualmente elevato”, a bilanciare la “petrarcheria”, la “petrarchescaria”, la “petrarchevoleria”, il “petrarcume”, che stanno tutti per “svenevolezza e smanceria”, e il “petrarcheggiare”, che è “avere un atteggiamento languido, sentimentale, romantico”. C’è di che disperarsi: tutto questo va bene per la falsa immagine che si è diffusa di lui, mesto abate bibliofilo dall’amore infelice; va bene per i petrarchisti, ma non per Petrarca. Sì, ha preso gli ordini minori (ma la carriera ecclesiastica era allora quello che è stata fino a ieri la carriera accademica e che è oggi la carriera politica: il modo più rapido per avere una rendita), come Ariosto, del resto, e Metastasio e Casanova, e tanti altri. La verità è che Francesco aveva le stesse passioni civili di Dante, ma era più laico, visto che precludeva alla Chiesa ogni azione politica, e meno provinciale: sempre impegnato in missioni diplomatiche, a incontrare re e imperatori, spesso come ministro degli Esteri dei Visconti, che erano la più grande forza politica dell’Italia settentrionale, e sempre come ambasciatore di pace (una specie di Ban Ki-moon, ma molto meglio). E poi, perché Dante è “virile” e Francesco no? Non è virile uno che va in cima al Mont Ventoux, che fa due figli, che va a cavallo nelle città sotto assedio? A parte il fatto che la vera forza, la vera virilità sono, secondo me, la mitezza e la pazienza, l’immagine falsa che è arrivata fino a noi è stata confezionata a suo uso e consumo dal Cinquecento, quando il Canzoniere diventa manuale d’amore e libro di meditazione, specchio di vero amore e di vera penitenza, e Petrarca “arbitro e oracolo della lingua poetica” (ma questo il mese prossimo).

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Cattive abitudini Arturo Di Corinto

Facebook, Facebook, Facebook. Un tormentone, sulla stampa e nei tg. D’ora in avanti sarà possibile condividere con i propri amici su Fb non solo testi, video, foto, ma musica, film, giornali, programmi tv, dall’interno della sua piattaforma, senza navigare altrove. Uno strumento che facilita la condivisione di contenuti e le relazioni fra le persone è sicuramente utile, ma con Facebook questo avviene a un prezzo piuttosto alto: la superficialità delle relazioni, la perdita della privacy e il sovraccarico informativo. La facilità di aggiungere persone al proprio network di relazioni con un colpo di clic ha scatenato la gara a chi aggiunge più amici al proprio carnet. Il risultato è un numero di contatti ingestibile psicologicamente ma accettabile nella logica di Facebook, fastfood dell’informazione e piedistallo da cui parlare al “mondo”. La banalizzazione dei rapporti umani, che confonde la qualità con la quantità, è la spia di due fenomeni della “modernità liquida”, il precariato e la solitudine, dove esibizionismo e voyeurismo si mescolano in una logica televisiva che non lascia scampo: se non stai nel network non esisti. Ma quando non è così – ci sono molti gruppi che lo usano per campagne sociali – c’è qualcosa di ambiguo nel successo di Facebook che non ha a che fare con gli investitori né con la (troppa) stampa a favore. È la presa emotiva che ha avuto su tutti noi che cerchiamo conferme, affetto, legami e cose da fare con gli altri. Il rischio di Facebook è quella brutta abitudine di cercare solo i nostri simili, di parlare con chi ci somiglia, di interessarci solo a chi ci è vicino. Tutto questo minaccia di impoverire la biodiversità che ha reso internet la più grande agorà pubblica della storia umana e per questo un grande strumento di pace e di sviluppo. Scoraggiando il websurfing, Facebook fa di tutto per tenerti dentro e sostituirsi al World Wide Web, il primo, vero e persistente social network digitale della storia umana che il 6 agosto ha compiuto vent’anni. Durerà?

Quotidiano rivoluzionario di Claudia

Barana

«Se non siete curiosi, lasciate perdere». La sua frase risuona forte nella mente quando si varca la porta dello studio di Achille Castiglioni, uno dei padri del design italiano, morto nel dicembre 2002 a 84 anni. Un maestro. Arco, Parentesi, Taraxacum, ma anche oggetti anonimi, come l’interruttore Rompitratta che si trova a un euro dal ferramenta. I tantissimi oggetti da lui firmati sono parte della nostra estetica e della nostra storia. Dal 2006 lo studio è un museo. Palazzo con cortile in piazza Castello 27 a Milano. Il pavimento scricchiola, le scrivanie in legno e metallo ricordano l’eleganza dilagante degli anni Cinquanta e Sessanta. Dalle finestre entrano rilucenti raggi solari. È tutto ancora lì. Ritagli, brevi messaggi di amici e collaboratori, libri, sedie. Scaffali pieni di faldoni, scatole in legno realizzate appositamente per conservare e catalogare idee e progetti. Curiosi oggetti anonimi di una bellezza quotidiana; i timbri, il battipanni intrecciato, la scatola del cucito: spunti afferrati qua e là, poi rielaborati, reinventati e riutilizzati. Quelle stanze richiamano alla memoria del visitatore i video dei fratelli Castiglioni, postati su YouTube, mentre insieme testano, ironici, i loro progetti. Qui il computer non ha fatto in tempo a entrare. Al suo posto, maquette, modellini, schizzi e la manualità di artigiani capaci di restituire la fisicità della tridimensionalità. Sembra di poter spiare, qui dentro. Si respira la creatività della ricerca e della progettazione rigorosa che non lascia nulla al caso. Questo non è un museo, ma un laboratorio vivo. Un atto di generosità e di amore per Achille, marito e padre. Un gesto importante di condivisione verso la città amata e vissuta. E la piccola pianta di rosmarino appoggiata sul davanzale di una delle tante finestre fa pensare che lo studio sia ancora in funzione; la domanda se qui si svolgano ancora riunioni di lavoro rimane sospesa. Perché ritornano in mente le parole della guida, la figlia di Achille Castiglioni, Giovanna: «Stiamo lavorando per trasformare il museo in Fondazione, con l’aiuto della Triennale di Milano e delle aziende storiche che hanno lavorato con Achille, e affrontare così le difficoltà economiche. Altrimenti si chiude». Interpellato, l’assessore alla Cultura Stefano Boeri si è reso disponibile a cercare una soluzione.

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[courtesy of studio museo achille castiglioni]

di

Design

Rete

Domani


di Barbara

Libri

Sorrentini

Cambiamenti di

Una lezione di cinema, di cultura e di immaginazione. Questo è Midnight in Paris di Woody Allen che, per l’occasione, resta dietro la macchina da presa e affida a Owen Wilson la parte di Gil, il protagonista, uno scrittore bohémien in vacanza a Parigi con la futura moglie e gli ingombranti suoceri, conservatori bigotti, ricchi e razzisti. È alla costante ricerca dell’ispirazione per il suo romanzo ma trascorre le sue “faticose” giornate tra boutique e ristoranti; allo scoccare della mezzanotte, però, Gil si concede una passeggiata per la Ville Lumière, durante la quale incrocia, ogni notte sulla sua strada, una carrozza che lo trasporta negli anni Venti. Nei saloni dei palazzi e nei luoghi dell’epoca – la cui riproduzione è impeccabile e commovente per la cura del dettaglio – il nostro scribacchino, umiliato nella vita reale, incontra Zelda e Scott Fitzgerald, Picasso, Matisse, Degas, Toulouse-Lautrec, Gauguin, Hemingway, Cocteau, Dalì (Adrien Brody), Gertrude Stein (Kathy Bates) e la bella e seducente Adriana (Marion Cotillard), musa ispiratrice di Hemingway, ma anche di Picasso, Modigliani e degli habitué del salotto della Stein. Con il jazz di Cole Porter, che suona dal vivo, in sottofondo, Gil si perde con loro in discorsi impegnativi e di alta cultura, discetta di scrittura, ascoltando i trucchi del mestiere e le varie leggende, scopre i meccanismi politici e la ribellione artistica, tra periodi blu, donne di Tahiti, ballerine, affiche, colori vivaci e ritratti buffi. Allen ama l’Europa e questa passione traspare dal modo in cui la filma, che sia Barcellona (Vicky Cristina Barcelona), Londra e l’Inghilterra (Match Point, Scoop e Sogni e delitti), Venezia e Parigi (Tutti dicono I love you) o Roma, come nel prossimo film con Roberto Benigni. Per Parigi non fa eccezione. C’è posto anche per Carla Bruni, che compare in alcune scene nei panni di una pedante guida del Museo Rodin che con la sua preparazione incanta Gil, assetato di sapere. Il regista americano ironizza sui nostri tempi e fugge dalla banalità e dalle futili abitudini della società moderna. Si tuffa in un passato ricco di arte, letteratura e cinema (strepitosa la scena in cui il protagonista suggerisce a Buñuel la trama dell’Angelo Sterminatore) con uno sguardo arguto e divertente, ma velato di malinconia per le passioni giovanili e l’antico fervore intellettuale. Non a caso Allen sottolinea la forza propulsiva e sovversiva della cultura e fa vivere artisti e scrittori, che oggi probabilmente non troverebbero lo spazio né gli stimoli del primo Novecento, per farci accompagnare ancora dalle loro ombre. Midnight in Paris, dal 2 dicembre

[courtesy of sony pictures entertainment]

Cinema

Sogni parigini

Alessandra Bonetti

“Ho l’impressione che mi stiano demolendo pezzo per pezzo”, dice il narratore. “Perché di questo si tratta, il collasso di tutto, dei significati, del linguaggio, dei valori, dell’arte, disordine e dissesto ovunque si guardi, intrattenimento e tecnologia e bambini di quattro anni tutti dotati di computer”. È un rantolo di dolore e rabbia contro la mercificazione della cultura e la massificazione del gusto quello che lancia William Gaddis in L’agonia dell’agape, il suo ultimo – e postumo – breve romanzo. Gaddis è fra i più grandi romanzieri americani, osannato da Jonathan Franzen e perseguitato, come Thomas Pynchon e Don De Lillo, dalla reputazione di scrittore difficile (non senza ragione). Il tempo è un bastardo, il romanzo di Jennifer Egan vincitore del premio Pulitzer di quest’anno, è una confederazione di storie che riflettono su quell’“olocausto estetico” che è il frutto della digitalizzazione, il web, il marketing, dove il processo di causa-effetto è stato annullato dalla simultaneità e alcune parole – come amico, reale, storia – sono state ridotte a gusci vuoti. A far da sfondo, il mondo del rock che, dalla San Francisco del 1970 alla New York del 2020, diventa il pretesto per raccontare l’usura implacabile del tempo. I capitoli si susseguono come le puntate di una sitcom: il personaggio marginale di una storia diventa il protagonista di quella successiva. Fra le più strazianti quella di un giovane che si spegne nel tragico tuffo lungo una spiaggia-discarica dell’East River, simbolo dei rifiuti morali nei quali siamo costretti a nuotare. Oppure l’addolorato monologo di una stella del rock vent’anni dopo. Non manca l’ironia, amara, di Bennie, un divorziato che incontriamo mentre si spruzza le ascelle di Off e spolvera d’oro il caffè per ritrovare la virilità. In mezzo, c’è anche un dittatore che si affida a una Pr per rifarsi l’immagine e il diario di una bimba scritto in PowerPoint. Cambiamenti, sintetizza anche il cinese Mo Yan, autore di capolavori come Sorgo rosso e Grande seno, fianchi larghi. Nelle poche pagine di Change racconta l’approdo dell’Impero celeste al neocapitalismo selvaggio attraverso la storia di un gruppo di ex compagni di scuola (fra cui lui stesso). Una storiografia dal basso che dice più di molti saggi politici e analisi socio-economiche. Willam Gaddis, L’agonia dell’agape, Alet, 15 euro, 144 pp. Jennifer Egan, Il tempo è un bastardo, minimum fax, 18 euro, 350 pp. Mo Yan, Change, Nottetempo, 12 euro, 102 pp.


La giusta causa di

Matteo Scanni

Il product placement è la sottile arte di inserire pubblicità più o meno visibili nei film, una scocciatura che l’industria cinematografica ha accettato come male necessario per puntellare costi di produzione spesso esorbitanti. Uno dei primi esempi di pellicola sponsorizzata è l’avventuroso Wings di William A. Wellman, Premio Oscar nel 1927 anche grazie a uno spot del cioccolato Hershey’s. Sebbene queste tecniche siano largamente utilizzate a Hollywood già negli anni Settanta e Ottanta (dalla serie di 007 a E.T. di Spielberg), molto più recente è il loro impiego a tappeto. Transformers - La vendetta del caduto di Michael Bay, con la bellezza di 43 sponsor è il film più “brandizzato” della storia. Ma qual è il limite di “inserzioni” che un regista può accettare prima di vedere la propria opera irrimediabilmente trasformata in un’affiche? È il tema di fondo di The Greatest Movie Ever Sold, l’ultimo lavoro di Morgan Spurlock, che indaga il mondo della pubblicità nel cinema. La macchina narrativa è quella a cui ci ha abituato l’autore di Super Size Me, in cui la messa alla prova diventa l’oggetto stesso del racconto. Troviamo così Spurlock alle prese con la produzione di un film sul branding e l’advertising finanziato e sponsorizzato dall’inizio alla fine dagli stessi marchi. Per mettere insieme il budget (un milione e mezzo di dollari), ogni singolo “pezzo” del film viene offerto agli uomini del product placement: dai titoli di testa fino alle scarpe indossate dal regista, tutto è in vendita. Snobbato ai primi incontri con il marketing, Spurlock si offre di testare e mostrare ogni tipo di prodotto, finché poco alla volta il film non trova i finanziatori. Non tutte le interviste presenti in The Greatest Movie Ever Sold sono brillanti, ma quelle a Noam Chomsky e al sindaco di San Paolo del Brasile, dove ogni forma di pubblicità è stata bandita dai muri della città, sono illuminanti. Di Ralph Nader il commento più sagace: «Quando non siamo soggetti all’influenza della pubblicità? Beh, quando dormiamo». Il miglior film di Spurlock dai tempi di Super Size Me. The Greatest Movie Ever Sold di Morgan Spurlock www.sonyclassics.com/pomwonderfulpresentsthegreatestmovieeversold

Finanziato quasi interamente dalla rete attraverso la piattaforma Kickstarter (budget 57mila dollari), questo piccolo documentario indipendente restituisce alla memoria collettiva la straordinaria figura di Gene Sharp, fondatore dell’Albert Einstein Institute per lo studio e l’utilizzo della nonviolenza nei conflitti e ispiratore di decine di rivoluzioni pacifiche in tutto il mondo, dalla Birmania all’Egitto. Spesso circolando in modo sotterraneo, il suo libro From Dictatorship to Democracy è diventato poco alla volta il manuale delle opposizioni democratiche, la bibbia in cui gli attivisti hanno trovato le ragioni per sollevarsi contro tiranni e governi autoritari. Notevole. How To Start A Revolution di Ruaridh Arrow www.howtostartarevolution.com

[courtesy of fish onlus]

Documentario

Occulte persuasioni

Giochi senza barriere di

Massimo Rebotti

«Il nostro primo pensiero è mettere le aree giochi in luoghi frequentati, dove passa tanta gente». Stefania Dondero è la responsabile del progetto “Giochiamo tutti” della Federazione italiana per il superamento dell’handicap e nelle aree di cui parla, grazie a strutture accessibili, ci possono giocare tutti, bambini disabili e no. A Genova da qualche tempo è nata la prima, a Milano – annuncia la giunta Pisapia – ne apriranno quattro, la realizzazione di quella di Bari è prevista entro la prossima estate. La necessità di nuove strutture è nata da una semplice (e amara) considerazione: «A scuola i bambini con disabilità ci sono, eppure al parco giochi i loro compagni non li ritrovano più». Se i giochi non sono accessibili, ai bambini disabili non resta che stare a casa o andare al parco e «guardare gli altri giocare». Il progetto, in collaborazione con EnelCuore Onlus, nasce anche per superare l’idea che ci vogliano luoghi “speciali”, e per favorire, al contrario, la naturalezza del gioco insieme. Stefania Dondero, genovese, parla con orgoglio del primo progetto andato a buon fine: «Proprio fuori dall’Acquario, un luogo attraversato ogni giorno da una quantità impressionante di persone». A Genova hanno raddoppiato un’area giochi che già esisteva, spostato di poco le vecchie strutture e aggiunto, di fianco, quelle nuove. In modo tale che «vicino a un’altalena, per così dire, classica ce ne fosse un’altra, che chiamiamo “nido”, in cui può dondolarsi un bambino con qualche problema a stare su con la schiena». L’area ha scivoli doppi, in cui bambini disabili e no, possono accedere insieme – e scivolare giù abbracciati – giochi sonori, tattili, visivi e una pavimentazione adatta alle sedie a rotelle: «L’inclusione non è solo una questione di rampe per superare le barriere architettoniche ma di vita insieme». A Milano, all’appello del Comune per realizzare l’area giochi, si sono presentate quattro aziende. «Un bel segnale», conclude la responsabile «con tutti i problemi economici che hanno i comuni in questo periodo». www.fishonlus.it


Boccadoro

Giunta al secondo album, l’allegra brigata di musicisti provenienti da molti diversi Paesi che si riunisce sotto il nome di Orchestra di via Padova continua il proprio irresistibile cammino musicale che incrocia suoni, canti, culture, ritmi e strumenti di tutto il mondo, estraendone un’essenza dal sapore speziato, ricca di vitamine musicali dall’effetto rigenerante per qualsiasi ascoltatore. Sotto la direzione musicale sempre accuratissima di Massimo Latronico, l’Orchestra stavolta mescola ancora di più le carte rispetto al precedente album, inserendo delle cover di Goran Bregovic (lo struggente Tango), Fabrizio De Andrè (Volta la carta, assai migliore dell’originale) e persino Duke Ellington (una versione di Caravan davvero ricca di sorprese). In realtà per apprezzare davvero la festa di colori strumentali e vocali che l’Orchestra di via Padova è in grado di realizzare conviene andare ad ascoltarli dal vivo, ma una parte della loro potenza e del loro entusiasmo riesce a venir fuori con chiarezza anche da questo cd, anche grazie a una realizzazione tecnica di prim’ordine. Tamburi, fisarmoniche, chitarre, bouzouki, voci e cori, archi, interventi elettronici, percussioni africane e brasiliane, una sezione fiati perfetta, si uniscono per creare un sound che vi terrà inchiodati all’ascolto senza darvi la possibilità di rimanere fermi sulla sedia. I testi parlano d’amore e di Paesi a noi lontani, ma anche dei problemi quotidiani e della gioia di vivere in una comunità affiatata come quella di via Padova che, alla faccia di ministri demenziali che vorrebbero riempirla di mitra e camionette dell’esercito, continua pacificamente a regalarci musica, bellezza e cultura. Orchestra di via Padova: Stanotte! (CD Tecnodisplay OVP-002-2)

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Contaminazioni di Simona

Spaventa

Immaginare l’impossibile, spostare i confini del reale. La nuova edizione del Romaeuropa Festival, che dal mese scorso ha invaso teatri e spazi inediti della capitale, comprese le vertiginose architetture del Maxxi firmate Zaha Hadid, ha l’ambizione di puntare al cuore e alla riflessione, proponendo contaminazioni tra teatro e danza, musica, arte e tecnologia che apra a letture nuove dell’oggi. Onorando il motto “Try the impossible”, il cartellone ha già sfoggiato nomi blasonati della scena contemporanea internazionale, dal giapponese Saburo Teshigawara a Trisha Brown per la danza; per quanto riguarda il teatro, le star più attese si esibiranno a novembre. Ci sarà Romeo Castellucci con Il velo nero del pastore (dal 10 al 13 novembre), tratto da un racconto di Nathaniel Hawthorne, punto di arrivo, sospeso tra azione e installazione, di una lunga ricerca sui limiti del rappresentabile condotta dalla sua Socìetas Raffaello Sanzio. Arriva anche Peter Brook con la sua rilettura, intima e minimalista, del Flauto magico di Mozart, gioiello di delicatezza e sottrazione (dal 17 al 27). Ma il più atteso è il talento incendiario del belga Jan Fabre, artista totale per antonomasia: è regista, coreografo, scenografo, scrittore e artista visivo. Un fiume in piena abituato a cancellare i confini tra le discipline e che non teme le provocazioni, anche violente, dalle scene di massacri (lo fece al Louvre nel 2008) al sesso sadomaso (come ad Avignone due anni fa), mai gratuite ma piegate a svelare vizi e illusioni, contemporanei o eterni, dell’uomo e della società. Succede anche con il nuovo Prometheus Landscape II, al Teatro Olimpico il 5 e 6 novembre dopo una tappa alla Biennale di Venezia. Al centro della scena, un attore crocifisso incarna il titano che si ribellò al padre Zeus regalando agli uomini il segreto del fuoco. Intorno a lui, altri dieci attori si muovono tra nudi, azioni di furiosa energia, fiumi di parole che pongono domande incandescenti: quali sono, e dove sono, gli eroi del nostro tempo? E quel fuoco domato da Prometeo non è lo stesso usato dagli uomini per distruggersi, per farsi la guerra? Romaeuropa Festival, Roma, fino al 30 novembre www.romaeuropa.net

Christian Berthelot

di Carlo

Teatro

Musica

Note speziate


la posta del cuore di

Claudio Bisio cuore@e-ilmensile.it

Anna Cola Susanna Teodoro

illustrazione

Caro Claudio, devo confessarti di aver sempre detestato il cuore (e ancor più “La posta del ...”). Il muscolo sanguinolento che pompa mi ha sempre fatto impressione e disgusto e l’ho sempre considerato un organo noioso (anche se spero che il mio non lo venga a sapere e continui allegramente a pulsare il più regolarmente possibile, sai com’è!).Come donna ho dovuto lottare per togliermi di dosso l’appiccicosa etichetta di femminuccia irrazionale, tutta emotività e isteria, che la società e la cultura volevano appiopparmi sulla base dello stereotipo secondo cui le donne hanno un cuore grande ma un cervello piccolo. L’apice lo raggiunsi all’età di sedici anni quando mia sorella, a cui lo avevo prestato, scarabocchiò sulle pagine di Se questo è un uomo di Primo Levi una serie quasi infinita di cuoricini trafitti da frecce di varie dimensioni e fantasie in tutte le tonalità del rosa e del fucsia. Mai fui più vicina al “sorellicidio”. Molti anni dopo, attraverso i tortuosi sentieri e i perversi labirinti della vita, sono approdata sulla sponda del buddhismo. La prima volta che ho letto Ciò che conta è il cuore ho pensato: “Ci risiamo”. Però, da testarda che sono, ho continuato a leggere. Dicono che l’ideogramma nipponico che spesso viene tradotto come “cuore” rappresenti in realtà non solo i sentimenti ma anche il pensiero e la volontà. È il nucleo denso della vita, la sua essenza, l’intuizione e lo slancio vitale, la fragranza dell’essere. Non capisco, ma mi affascina e mi fa venir voglia di esplorare, di ricercare, di fare silenzio per sentire cos’è che pulsa veramente nelle profondità della mia vita. Così sono finita a scrivere alla “Posta del cuore”. Chi l’avrebbe mai detto? Antonella E chi l’avrebbe mai detto che io ti avrei risposto... Nel senso, chi l’avrebbe mai detto che un giorno avrei tenuto una rubrica di Posta del cuore. I casi della vita. Della tua lettera (mi ostino a chiamarle lettere anche se so benissimo che si tratta di email) mi hanno colpito due passaggi: il primo è tua sorella che fa i cuoricini su di un libro di Primo Levi che parla dei lager nazisti (chissà cosa ti ha dato più fastidio: il simbolo del cuore in sé, il colore rosa/fucsia o il contenuto del libro che aveva ben poco di romantico). Forse era semplicemente una manifestazione di assenso, di condivisione, di empatia nei confronti di quel libro, una prova di affetto, e magari di amore, nei confronti di quell’uomo (quegli uomini) cui per prima cosa tolsero, insieme al pane, proprio la possibilità di avere un sentimento umano. A loro avevano tolto sia il pane sia le rose, si sarebbe detto un tempo... e le rose sovente sono rosa (più raramente fucsia).

Il secondo passaggio della tua lettera che mi ha, positivamente, colpito è quello sull’ideogramma giapponese “cuore” che comprende anche pensiero e volontà, intuizione e slancio vitale. Sto leggendo un bel libro del sempre ottimo Gherardo Colombo dal titolo Democrazia (bello perché semplice e profondo, utile e leggero). È curioso come, nella premessa, l’autore paragoni l’uomo che si appresta a esercitare la democrazia a un bambino che impari crescendo (con tanta fatica) a riconoscere nell’altro un suo pari, quasi un altro se stesso con il quale avviare la condivisione, il confronto, la concordia, l’armonia. È un percorso lungo e difficile perché, scrive ancora Colombo: “La democrazia non è strumento compatibile con gli atteggiamenti infantili e, se non si tiene conto della fatica che la crescita personale comporta per superare tali atteggiamenti, non si può arrivare a capirla”. E io mi permetto di aggiungere che questo percorso lungo, difficile e faticoso può essere portato a termine solo con il cuore (quello dell’ideogramma giapponese, però, fatto di pensiero e volontà, intuizione e slancio vitale)… e alla sorellina lasciamo pure disegnare i cuoricini fucsia sui libri (sempre meglio che bruciare le code alle lucertole!) Claudio P.S. Visto che ho citato un libro di un grande uomo, volevo segnalarvene un altro, che ho appena letto, di una formidabile donna. Si tratta di Ave Mary, di Michela Murgia. Mi aveva molto impressionato il suo Accabadora e ora questo (che è un saggio ma che si legge come un romanzo) mi ha davvero fulminato. Leggendolo, cara Antonella, scoprirai anche chi ha aiutato nei secoli a diffondere lo stereotipo delle donne con un cuore grande ma un cervello piccolo.

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Montenero - Livorno

lu 26 dicembre - lu 2 gennaio 2012

STARE BENE con se stessi e con gli altri

Capodanno sulla costa etrusca

LA RELAZIONE L’espressione di sé e l’incontro con l’altro Invenzioni, storie, racconti, teatro ed emozioni. a cura di Giacomo Volpengo LA CURA DEL CORPO e dello spirito usando rimedi macrobiotici e l’arte della cucina. Acqua, Legno, Fuoco, Terra, Metallo. Passeggiate. a cura di Margherita Buggero LA CUCINA buona, bio e vegana a cura di Luca Camilli sa 24 - lu 26 dic

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6 gen lu 26 dic - ve ia Marocco La vù per Timbuct

ve 23 dic - lu 2 gen Portogallo El camino portuguès a Santiago Camminare Camminare in in piccoli piccoli gruppi gruppi sui sentieri del mondo sui sentieri del mondo

CAPODANNO 2012 e 4 gen ve 30 dicte-Vm l Maira, Piemon ndoasulla neve cammina

2012 CAPODANNO

. . . . . . . inverno 2011 - 2012

TOSCANA Giglio: Isola di Pirati e Contadini. . . . . . . 18 - 20 nov MAROCCO Donne nella Valle del Draa. . . . . . . . . . . . . 4 - 11 dic LAZIO Il lago vulcanico più grande: Bolsena . . . . . . . . 7 - 11 dic PORTOGALLO El camino portuguès a Santiago. 23 dic - 2 gen MAROCCO La via per Timbuctù . . . . . . . . . . . . . 26 dic - 6 gen PIEMONTE Val Maira, camminando sulla neve. 30 dic - 4 gen PUGLIA L’alba dei popoli in terra d’Otranto. . . . . . . . . 2 - 7 gen MAROCCO A piedi nudi danzando sulle dune. . . . . . 19 - 26 feb LIBIA Tassili: L’Altopiano dei Tuareg . . . . . . . . 29 feb - 11 mar LIGURIA Il sentiero del Barone Rampante. . . . . . . . . 9 - 11 mar TOSCANA Da Pisa e Lucca sulle Vie dell’Acqua . . . 16 - 18 mar continua. . . . . .

CAPODANNO 2012 lu 2 Puglia L’albsaa 7degien opoli in terra d’Otranpto

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7-10-2011 18:05:53


Sulla nostra pelle di

Cecilia Strada

foto Mattia

Velati

Questo mese, per una volta, non vi parlerò del lavoro di Emergency nel mondo o in Italia. Mentre scrivo queste righe, ho finito di leggere alcuni articoli sull’ennesimo “scandalo nella sanità italiana”,

questa volta ambientato nel mondo del privato-convenzionato. Le intercettazioni, agghiaccianti, suonano più o meno così: “Non date al tal paziente quel farmaco che pure sarebbe indispensabile, perché la Regione ce ne rimborsa solo una parte, e mica possiamo rimetterci noi, no?”. Rapida ricognizione delle opinioni degli italiani: i commenti dei lettori sui quotidiani online, le reazioni sui social network, le chiacchiere tra passeggeri in metropolitana. C’è chi ha definito i medici coinvolti dei “mostri”, chi ha invocato la gogna, chi la legge del taglione, chi la pena di morte; ma anche quelli che “la pena di morte è troppo poco, prima ci vorrebbe la tortura”. Ora, al di là del fatto che l’Italia è un Paese che ha sempre una gran voglia di gogna (salvo poi sfogare tutte le energie nella “voglia di gogna” e rimanere senza forze quando è il momento di cambiare davvero le cose), e al di là della presunzione di innocenza che deve valere per tutti, sempre e comunque, che cosa c’è di sbagliato, nell’additare il “medico mostro”? Intendiamoci, l’indi-

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gnazione, il disgusto, la rabbia sono sacrosante. Come era sacrosanta la rabbia per lo scandalo precedente, e per quello prima ancora. La cronaca degli ultimi anni è disseminata di questo genere di “mostruosità”: pazienti sottoposti a interventi inutili (e perciò sempre dannosi), “cure” somministrate o sospese in funzione di qualcosa che non era il benessere del paziente. E se non era il benessere del paziente, della persona che aveva in quel momento bisogno di cure… in funzione di cosa sono state prese, quelle sciagurate decisioni? In funzione del denaro, semplicemente. Soldi. Profitto. Ecco, questo è il punto cruciale. Perché è sbagliato additare il “medico mostro”. Perché ci fa perdere di vista il fatto che certe mostruosità sono la logica, per quanto aberrante, evoluzione di un semplice principio secondo il quale il profitto in medicina è lecito e si può guadagnare sulla pelle delle persone. Se accettiamo – noi cittadini, noi contribuenti, noi elettori – che si possa fare profitto sulla sanità, poi dobbiamo accettare tutto il resto: anche che qualcuno, per fare più profitto, lo faccia a scapito della nostra salute, infliggendo a noi, ai nostri figli e genitori, sofferenze indicibili, persino la morte. Questo deve essere l’impegno che segue all’indignazione: chiedere e pretendere che la salute sia un campo in cui, semplicemente, non è lecito fare profitto. A ben vedere, quando ho scritto che non vi avrei parlato del lavoro di Emergency, sbagliavo. Perché questo è quello che fa Emergency, nel mondo e in Italia: curare persone, nell’esclusivo interesse del loro benessere. In ospedali in cui il profitto non è mai entrato e non potrà entrare, mai.

v

Goderich, Sierra Leone Nel 2001 Emergency ha avviato a Goderich, alla periferia di Freetown, un Centro chirurgico destinato alle vittime di guerra e non solo. Nel 2002, accanto all’ospedale è stato costruito un Centro sanitario pediatrico nel quale vengono curati circa 1.300 bambini ogni mese. Nel 2003 è stata aperta una corsia medica pediatrica da venti posti letto per il ricovero dei pazienti più gravi. Dal 2005 è attivo un programma contro la denutrizione che, oltre alla cura dei bambini, prevede il coinvolgimento delle madri in corsi di igiene e di corretta alimentazione. Dal 2001 Emergency ha curato in Sierra Leone 345.269 persone.


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