E il mensile agosto 2011

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E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO V - N°8 - AGOSTO 2011 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

Mare.Bambini.Web.Springsteen.Diabolik.Morpurgo.Bottura AGOSTO 2011

hanno scritto: Raethia Corsini.Luciano Del Sette.Gino&Michele Neri Marcorè.Jenner Meletti.Marina Morpurgo.Simone Pieranni Alessandro Portelli.Stella Spinelli.Cecilia Strada.Gino Strada hanno fotografato e illustrato: Ale+Ale.Francesco Cito Svjetlan Junakovic´.Michael Marten.Chiara Noseda Giuseppe Palumbo.Martin Parr.Michela Petoletti Calogero Russo.Antonello Silverini.Eugene Smith

E-IL MENSILE AGOSTO 2011 • EURO 4,00

Mare Bambini.Web.Lampedusa Springsteen.Diabolik


calchèra

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l’editoriale

energia foto di Calogero [luz]

Russo

Non è un Paese per vecchi. Non è neanche un Paese per giovani. E anche i bambini, tra tagli alla scuola, asili che non ci sono e via elencando, non stanno benissimo. E le donne lo dicono da anni che non è un Paese per loro quello in cui si fa così fatica – ed è solo un problema personale – a lavorare e a crescere i figli, per non parlare della cura degli anziani. E allora per chi è questo Paese? Per tutti coloro che hanno ancora voglia di cambiarlo, può essere una risposta. Per le donne e gli uomini di Lampedusa di cui raccontiamo le storie in questo numero, non perché sono “esemplari”, ma perché hanno il gusto della sfida anche rispetto alle proprie paure e ai propri pregiudizi nei confronti di chi arriva dal mare. E visto che è estate, vi proponiamo il mare fotografato da Michael Marten: mare che cambia nel gioco continuo e incessante con la terra davanti. O il mare espropriato, come racconta Jenner Meletti, in un reportage dalla Liguria all’Adriatico: questo non è un Paese per liberi bagnanti e il mare si privatizza a colpi di recinzioni e concessioni. E se non è un Paese per piccoli, ci siamo detti che almeno lo sia un pezzo di E d’agosto: per i signori bambini giochi (a far giocare i grandi ci ha pensato il direttore), storie, differenze da trovare sotto l’ombrellone. E I ragazzi della via Paal da leggere, lo suggerisce Neri Marcorè che spiega perché, una volta letto, non lo si dimentica. Chi invece questo Paese (provvisoriamente) lo lascia per scoprire un po’ di mondo, legga nel nostro atlante musicale cosa si può riportare a casa per avere subito, da settembre, nostalgia del suo viaggio. Ancora: web cinese se vi siete stancati di eBay, gli americani di Bruce Springsteen per la firma di uno che ne sa tanto come Alessandro Portelli, un Diabolik d’annata e l’incontro con un superchef che ogni tanto va in galera a cucinare; le feste e i festival dell’estate, un racconto spiritoso della scrittrice Marina Morpurgo, una che tra mare e montagna sceglie la seconda e poi viene rimproverata dall’analista. A settembre poi Emergency vi aspetta a Firenze: a discutere di come si supera la guerra. Concretamente. La nostra copertina infine: troppo facile (in parte anche vero) dire che visto che c’è chi sceglie ossessivamente ragazze da calendario noi ci buttiamo sulla terza età. È che la nostra covergirl – peraltro fotografata da un signore che si chiama Martin Parr – mette una grande e allegra energia e ci è piaciuta per questo.

Assunta Sarlo


in questo numero 5 le storie di Lampedusa 40 cronache Come su una zattera Il gesto della memoria Tra le due sponde Qui siamo umani L’amico di famiglia

Il web armonioso Baidu, Ren Ren e via elencando: se Facebook vi annoia, se eBay non vi sorprende più, scoprite la rete cinese e stupitevi

di Michele Primi foto di Mattia Insolera

di Simone Pieranni foto di Flore–Ael Surun

12 il reportage

46 l’atlante

L’ultima spiaggia Il litorale ligure, Riccione, il mare di Ravenna: non più solo ombrelloni e lettini esosi, ma villette e vere e proprie beauty farm sulla riva. L’esproprio del mare va avanti e non è solo questione di durata delle concessioni di Jenner Meletti foto di Martin Parr

20 il ritratto

Working class hero Parlare di lui, il Boss, ovvero Bruce Springsteen, per raccontare la sua America: operai, disoccupati, reduci, fuorilegge, uniti dalla stessa fatica del vivere di Alessandro Portelli foto di Eugene Smith

28 mad in Italy

Il Re Fuso Anche i direttori si divertono: rubrica speciale per il nostro agosto di Gianni Mura

32 l’incontro

La storia in pentola Massimo Bottura è uno chef pluristellato. Ricetta per il successo: 10 per cento talento e 90 per cento lavoro, dice. Poi anche cultura e conoscenza della nostra storia. Perché i cuochi sono la parte buona del Paese, quella vicina ai contadini e ai pescatori. E, nel suo caso, anche ai detenuti con i quali prova a far cucina in carcere di Raethia Corsini foto di Francesco Cito

La musica in valigia Fate buon viaggio, portatevi a casa buona musica da Istanbul o Madrid, dal Brasile o dal Kenya. E che siano note non prodotte dalle major di Luciano Del Sette

58 il portfolio

Alti e bassi Ce lo immaginiamo per ore e ore – in realtà lo abbiamo visto in foto – con i polpacci a bagnomaria davanti all’orizzonte ad aspettare gli estremi della marea. Poi lo scatto per restituirci la meraviglia della natura, mare e terra, che gioca con se stessa testo e foto di Michael Marten

72 il fumetto

Diabolik «Diabolik? Perché mi parlate di questo criminale?». A parlare è Eva Kant... La storia che riproponiamo illumina il passato della coppia di ladri più famosa del mondo di Tito Faraci illustrazioni di Giuseppe Palumbo

84 sere d’estate

Vi portiamo a scoprire occasioni e appuntamenti culturali di agosto e settembre Da un capo all’altro di Simona Spaventa

L’internazionale hacker di Arturo Di Corinto

Il mondo in Svizzera di Barbara Sorrentini

Una festa doc. di Matteo Scanni

Tutto a Venezia di Vito Calabretta

In piazza di Alessandra Bonetti

94 il racconto

Io, l’orso e Freud Mare o montagna? Se ti piacciono i monti, dice il tuo analista freudiano, c’è qualcosa che non va nella tua femminilità. E se incontri l’orso... di Marina Morpurgo illustrato da Ale+Ale

98 le pagine di Emergency il nostro osservatorio 30 Buone nuove 44 L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro

70 Casa dolce casa 82 Cessate il fuoco

103 Signori bambini, abbiamo pensato a voi. Potete leggere, colorare o costruire o fare tutte e tre le cose nei lunghi e pigri pomeriggi d’agosto. E passare le rubriche a mamma e papà

104 Ninetta curiosa testi di Alfa Beta illustrazioni di Svjetlan Junakovic´

le rubriche 108 Pìpol di Gino&Michele 109 Lessi di Neri Marcorè

110 trova le 10 differenze di Chiara Noseda

111 unisci i puntini di Chiara Noseda

112 il mago linguaggio di Cecilia e Gino Strada illustrazioni di Michela Petoletti

116 un tocco di colore 118 Stupidorisiko

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con un testo di Lella Costa

120 il giuoco dell’acciuffo in copertina foto di Martin Parr

[magnum photos/contrasto]



con noi E - IL MENSILE

Alessandro Portelli

AGOSTO 2011

www.e-ilmensile.it Direttore responsabile Gianni Mura Condirettore Maso Notarianni Art director Federico Mininni Caporedattori Angelo Miotto ◆ Assunta Sarlo Redattori Gabriele Battaglia ◆ Christian Elia ◆ Luca Galassi

Alessandro Grandi ◆ Antonio Marafioti ◆ Enrico Piovesana Massimo Rebotti ◆ Valentina Redaelli ◆ Nicola Sessa Stella Spinelli ◆ Alberto Tundo Photoeditor Marta Posani ◆ Germana Lavagna Segreteria di redazione Silvina Grippaldi ◆ Elena Recalcati Amministrazione Annalisa Braga ◆ Rosanna Devilla

Marina Morpurgo Ha lavorato per molti anni come giornalista per L’Unità e poi per Diario. Ora si è chiusa in una torre d’avorio, dalla quale esce solo per fare la spesa e le gite di scialpinismo. Traduce e scrive libri per adulti e ragazzi. Ha appena pubblicato La scrittrice criminale (Astoria). Per noi ha scritto Io, l’orso e Freud.

Hanno collaborato

Ale+Ale ◆ Alessandro Albert ◆ Alfa Beta ◆ Claudia Barana ◆ Giorgio Biscaro Alessandra Bonetti ◆ Vito Calabretta ◆ Casa delle donne per non subire violenza Bologna ◆ Francesco Cito ◆ Anna Cola ◆ Raethia Corsini Lella Costa ◆ Luciano Del Sette ◆ Arturo Di Corinto ◆ Tito Faraci Maurizio Galimberti ◆ Gabriella Giandelli ◆ Gino&Michele Guido Guarnieri ◆ Mattia Insolera ◆ Svjetlan Junakovic´◆ Paolo Lezziero Adele Lorenzi ◆ Neri Marcorè ◆ Michael Marten ◆ Maddalena Masera Jenner Meletti ◆ Marina Morpurgo ◆ Chiara Noseda ◆ Annamaria Palo Giuseppe Palumbo ◆ Martin Parr ◆ Patrizia Pasqui ◆ Michela Petoletti Valeria Petrone ◆ Simone Pieranni ◆ Alessandro Portelli ◆ Michele Primi rassegna.it ◆ Paolo Rui ◆ Calogero Russo ◆ Matteo Scanni ◆ Shout Antonello Silverini ◆ Eugene Smith ◆ Barbara Sorrentini ◆ Simona Spaventa Cecilia Strada ◆ Gino Strada ◆ Flore-Ael Surun ◆ Susanna Teodoro Agenzie fotografiche ed editori

Bim films ◆ Carthusia Edizioni ◆ Casa editrice Astorina ◆ Contrasto Egea Music ◆ Emi ◆ Fototeca Gilardi ◆ Isbn Edizioni ◆ Kino Music ◆ Luz Photo Magnum Photos ◆ Materiali Sonori ◆ Reuters ◆ Tendance Floue

E - IL MENSILE già PeaceReporter Redazione e amministrazione via Vida, 11 - 20127 Milano - Tel 02 801534 - Fax 02 26809458 segreteria@e-ilmensile.it Edito da Dieci dicembre Scarl via Vida, 11 - 20127 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Concessionaria pubblicità Poster pubblicità & p.r. Srl Sede legale e Direzione commerciale: via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma Sede commerciale: viale Gran Sasso, 2 - 20131 Milano Tel 06 68896911 - Fax 06 58179764 - poster@poster-pr.it Stampa Nuovo Istituto Italiano Arti Grafiche Spa via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Distribuzione M-dis Distribuzione Media Spa via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano - Tel 02 25821 - Fax 02 25825306 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione via F. Argelati, 35 - 20143 Milano Servizio abbonamenti e arretrati Picomax Srl viale Sondrio, 7 - 20124 Milano Tel 02 77428040 - Fax 02 76340836 Arretrati 8 euro Alle biblioteche carcerarie che ne facciano richiesta verrà attivato un abbonamento omaggio La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC

www.peacereporter.net

www.emergency.it

Insegna Letteratura americana alla Sapienza di Roma. È presidente del circolo Gianni Bosio per la conoscenza critica e la presenza alternativa delle culture popolari, per il quale ha curato il cd Istaranyeri, musiche migranti a Roma. È autore fra l’altro di L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria (1999), America dopo. Immaginazione e immaginario (2002), Storie orali (2007), America profonda. Due secoli di storia raccontati da Harlan, Kentucky (2011). Qui ha scritto Working class hero.

Alessandra Bonetti

Nata a Verona, diventa giornalista lavorando per un’agenzia che si occupa di guerre dimenticate. Poi scopre la sua passione per i libri. Da freelance, realizza articoli, interviste, inchieste e reportage, fra cui un libro fotografico sul conflitto in Irlanda del Nord raccontato dagli scrittori (Effigie). Per E cura la rubrica di segnalazioni sui libri in uscita.

Michael Marten

Nato a Londra, ha cominciato a fotografare da ragazzino e non ha più smesso. Nel 1979 ha fondato la Science Photo Library, una biblioteca specializzata in pubblicazioni scientifiche e mediche. Nel 2003 si è rivolto alla fotografia del paesaggio e ha iniziato il progetto Sea Change, uno studio sulle maree che è stato poi esposto in diverse gallerie e che potete vedere in questo numero di E. L’intero lavoro si trova sul sito www.michaelmarten.com

Claudia Barana Martin Parr

Nato nel 1952 in Gran Bretagna. Ha studiato fotografia al Politecnico di Manchester, sviluppando poi uno stile originale e provocatorio. Si è dedicato a ritrarre il grottesco dei tempi moderni. In questo numero vedrete fotografati i tipi da spiaggia. Dal 1994 è un membro dell’agenzia Magnum.

Si occupa di architettura e design. Collabora con diverse testate di settore e pagine web; è stata overseas director di Casa&Design Cina ed è corrispondente europea di CasaInternational Beijing. Dal 2008 ha iniziato una ricerca sul design delle strategie e dei servizi con particolare riferimento al design partecipato. Da gennaio 2011 ha costituito de.de.p, associazione culturale che utilizza il design come mezzo per creare nuove relazioni sul territorio. In questo numero ha pensato ai bambini.

Michele Primi

Nato a Milano nel 1973. Giornalista e autore radiofonico e televisivo, scrive per Rolling Stone, GQ e Riders ed è autore per Virgin Radio e Virgin Tv. Ha pubblicato tre monografie musicali per Giunti Editore e curato i testi di volumi fotografici per le case editrici White Star e Rcs Libri. Per noi ha raccolto le storie di Lampedusa.

Simona Spaventa

Piemontese, le sue prime collaborazioni giornalistiche risalgono ai tempi del liceo. Dopo la laurea in Filologia romanza e un master a Friburgo, è entrata all’Ifg di Milano. Oggi è giornalista freelance e collabora con le pagine milanesi del quotidiano La Repubblica. Per E cura la rubrica di teatro.

Mattia Insolera

Nato nel 1977 a Bologna. Le sue fotografie sono pubblicate da importanti riviste italiane e internazionali. Nel 2009 ha vinto il secondo premio in una categoria del World Press Photo. Per E ha fotografato la gente di Lampedusa.


Come su una zattera

storie raccolte da

Michele Primi foto

Mattia Insolera [luz]

Giusy Nicolini è nata a Lampedusa nel 1961. Dal 1997 è direttrice della riserva naturale di Legambiente sull’isola. Tra le tante attività, è riuscita a bloccare il progetto di edificazione di un villaggio turistico sull’Isola dei Conigli.

Dal punto di vista ambientale Lampedusa è un’isola particolare, è un ponte tra due continenti. Gioca lo stesso ruolo rispetto all’immigrazione: è un’isola di salvezza. Per questo motivo per noi è stato naturale occuparci dei migranti. Per anni con Legambiente ci siamo dedicati alla Riserva regionale e all’Area marina protetta, con la certezza di trovarci di fronte a un patto scellerato che lo Stato ha fatto con l’isola. Voi convivete con l’immigrazione, noi chiudiamo un occhio sull’abusivismo e lo smaltimento dei rifiuti. E così, da lampedusana, sono cresciuta con l’immagine della mia isola che sprofonda nell’illegalità. Un’illegalità che, per fare un esempio, ha permesso al Comune di affidare a un privato il servizio di noleggio degli ombrelloni alla spiaggia dei Conigli. Abbiamo risposto a quella che, secondo noi, è un’occupazione abusiva di un paradiso naturale fondamentale per la riproduzione delle tartarughe marine, distribuendo gratis ai turisti gli ombrelloni gialli di Legambiente. Perché le leggi che oggi vengono violate per gli ombrelloni, domani lo saranno per il cemento. La mia battaglia, per molto tempo, è stata combattere gli effetti di questo patto tra Stato e privati, fatto in nome del profitto e alle spalle dei lampedusani prima e, poi, dei migranti. Nell’ultimo anno l’equilibrio è saltato, ma è chiaro che la causa scatenante non è stata la guerra in Libia. Lampedusa è diventata un laboratorio, in cui è stata creata ad arte un’emergenza umanitaria. Si è risolta in sessanta ore, questo vuol dire che si poteva risolvere prima. Noi invece abbiamo dovuto affrontarla per sessanta giorni: dal 9 febbraio al 6 aprile sull’isola sono passati 25mila migranti. Siamo stati noi a garantire la loro sopravvivenza. Non avevano cibo, acqua, un posto dove dormire. In una grande città puoi tornare a casa e dimenticare la povertà e il degrado, ma qui è diverso. Qui la tua casa

è l’isola. Da almeno quindici anni Lampedusa era un modello di accoglienza, grazie alle associazioni umanitarie veniva prestato il primo soccorso, gli immigrati venivano identificati, divisi tra profughi, donne e migranti economici, quindi trasferiti sulla terraferma. Era un sistema che funzionava bene ed è stato interrotto apposta. Era un modo per parlare alla Tunisia e scongiurare la fuga. E per parlare alla Padania e dire: non vi preoccupate, non li facciamo arrivare al Nord. Maroni diceva di voler stringere accordi con la Tunisia e la Libia e intanto teneva migliaia di immigrati chiusi qui. L’isola della salvezza è diventata un’isola carcere e il degrado umano ha raggiunto livelli mai visti. Lampedusa ha sempre salvato la vita dei migranti, vivere qui è come stare su una zattera, quando qualcuno vuole salire non lo puoi respingere. L’emergenza ha trasformato questo istinto naturale in un dovere etico. Gli annunci sensazionalistici fatti dal presidente del Consiglio, che ha promesso di creare un’isola felice fatta di casinò, porti franchi e campi da golf, nascondono il progetto di una gigantesca colata di cemento. Lampedusa non ha bisogno di liberalizzare le attività edilizie, ma di un piano regolatore che non ha mai avuto. Ci sono problemi concreti da risolvere, come lo smaltimento di tutti i barconi che sono arrivati negli ultimi anni. Si è già creato un business sommerso di tipo illegale. Il turismo è la risorsa principale dell’isola, ma un turismo ben diverso da quello immaginato da Berlusconi. La storia di Lampedusa dimostra che quando il potere è cinico non è necessaria una calamità naturale per mettere in ginocchio una comunità. Ma la politica non deve essere così disumana.

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Lampedusa

storia 21 - Giusy Nicolini


storia 22 - Franco Tuccio

Il gesto della memoria Franco Tuccio ha 44 anni. È nato a Pantelleria e vive a Lampedusa con la moglie e quattro figli. Suo padre era maestro d’ascia e costruiva barche. A 23 anni, Franco ha aperto la sua attività di artigiano del legno a Lampedusa.

L’idea è nata due anni fa. Dovevamo fare la via crucis in paese e con il parroco abbiamo deciso di costruire una croce usando il legno delle barche dei migranti. La croce è il simbolo della sofferenza di queste persone. Ne abbiamo fatte alcune per la diocesi di Agrigento e la voce si è sparsa. Ora me le chiedono da tutte le parrocchie della Sicilia, ne vogliono una in ogni chiesa. Il lavoro di falegname per me è una tradizione familiare: mio padre era maestro d’ascia e costruiva barche, io ho imparato a lavorare il legno da autodidatta. Mi piaceva fare sculture, soprattutto soggetti religiosi. Poi ho fatto un tirocinio e a ventitré anni ho aperto la mia attività qui a Lampedusa. Le croci dei migranti sono state un gesto spontaneo di solidarietà, e anche un modo per utilizzare tutte queste barche che sono arrivate sull’isola. Ora arrivano molti barconi in ferro e acciaio, ma prima erano soprattutto pescherecci di legno. Io non ho guadagnato niente da questo lavoro, è un contributo di cuore. Per entrare nella zona del porto dove sono ammassate le barche devo chiedere l’autorizzazione ai militari. Scelgo il legno in base alle sagome, le curve, i colori. Mi piacciono il rosso, il bianco, il verde perché sono simboli di speranza. Si parla sempre degli immigrati che sbarcano, ma mai di quelli che non ce la fanno. Ogni croce è un dolore. Ho vissuto con loro questo dolore, ho ascoltato i migranti, i naufraghi e ho voluto rendere omaggio alle loro storie. Quello che è successo qui nei mesi scorsi è commovente. Quando si assiste a una emergenza del genere pensi solo ad aiutare. I migranti erano ragazzi bagnati, feriti, sofferenti, gli abbiamo dato coperte, cibo, i nostri vestiti. È un istinto

della gente di Lampedusa, abbiamo fatto solo quello che era giusto fare. I primi arrivi li abbiamo gestiti da soli: in sessanta giorni sono arrivate settemila persone e il governo non ha fatto niente. Eravamo solo noi e loro. E abbiamo capito subito che eravamo fratelli. L’unica cosa che il governo ha fatto è stata mandare la nave San Marco per portarli via. La politica massacra le persone e il governo italiano su quest’isola ha fatto politica, senza pensare ai suoi abitanti. L’emergenza poteva essere risolta in quindici giorni, è durata due mesi. Hanno messo l’isola in ginocchio: Lampedusa era una discarica all’aperto, i migranti dormivano in spiaggia, per strada, su quella che è stata chiamata la collina della vergogna. Poi è arrivato Berlusconi con le sue promesse. Ma a noi cosa interessa se si compra una villa? Alcuni sono andati ad applaudirlo, ma lui è venuto a chiedere un prezzo, come fa sempre. Noi non vogliamo niente da nessuno, siamo abituati ad arrangiarci. Siamo pescatori, artigiani, vogliamo lavorare a testa alta. Ci hanno preso in giro e questo ci fa molta rabbia. Raccontare la nostra storia è importante, molti italiani hanno parlato di solidarietà, speriamo che riescano a manifestarla. Sono tutti bravi a guardare la televisione o a fare una donazione con un sms, ma quando vedi la gente che soffre davanti ai tuoi occhi è un’altra storia, devi fare qualcosa. Ce n’è bisogno, su tutto. La solidarietà è una cosa contagiosa.

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Qui siamo umani

“Askavusa” in dialetto vuole dire “a piedi scalzi.” È il nome di un'associazione che si occupa dei diritti degli immigrati e dei lampedusani. Organizza Lampedusainfestival, promuove il turismo etico attraverso il programma “Io vado a Lampedusa”, ha creato il museo dell’Immigrazione, in cui sono esposti oggetti appartenuti ai migranti e ritrovati in mare. Con noi hanno parlato Giacomo Sferlazzo (31 anni), Gianluca Vitale (23), Stefano Turco (24), Paolo Di Bona (54), Marco Miccoli (53), Pasquale De Rubeis (59), Annalisa D’Ancona (30) e Ilaria Vecchi (32). Alcuni sono originari dell’isola, altri vengono da varie parti d’Italia e si definiscono “lampedusani per scelta”.

Ci occupiamo da sempre dei temi importanti per Lampedusa: lavoro, sviluppo, turismo sostenibile, ambiente. Negli ultimi anni ci siamo trovati coinvolti nella questione immigrazione, che poi è diventata un’emergenza. E così dalle attività culturali siamo passati alla risoluzione di problemi pratici. Dovevamo aiutare tutte queste persone in difficoltà e lo abbiamo fatto. Ma l’attività culturale rimane per noi uno strumento per favorire l’integrazione: bisogna respingere la retorica dell’invasione. Lampedusa ha dimostrato di essere una comunità capace di dare speranza. Il museo dell’Immigrazione è importante in questo senso, è una raccolta di oggetti nata spontaneamente e che ora ha un forte valore simbolico. È la memoria del viaggio dei migranti sulla strada del mar Mediterraneo. Lampedusainfestival è un altro modo per creare un dialogo. È dedicato alle opere cinematografiche che raccontano storie di persone in movimento, di speranza e approdo. Nella giuria c’è anche Dagmawi Ymer, un regista di documentari eritreo che è sbarcato qui nel 2005. Ci piace pensare che la sua storia – e la storia del festival cinematografico più a sud d’Europa – siano un simbolo dello spirito di Lampedusa. Con la loro umanità i lampedusani hanno dato una lezione a chi, nella politica e nell’opinione pubblica, avrebbe voluto trasformare l’isola nella Alcatraz del Mediterraneo. Siamo gente che ha viaggiato e conosce il mondo, abituata al contatto con gli altri. Durante i giorni dell’emergenza offrivamo corsi di italiano, assistenza legale, ospitalità, abbiamo pulito le strade, messo a disposizione dei migranti un posto dove lavarsi, costruito tende. L’atteggiamento della polizia è stato scandaloso: ti mettevano nelle condizioni di avere paura se aiutavi un immigrato. Molti avevano soldi ma non potevano cambiarli in banca perché non avevano documenti. Allora lo facevamo noi per loro, ma la polizia ci minacciava,

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dicendo che se i soldi erano falsi rischiavamo di essere incriminati. Non potevano entrare in un internet cafè e comunicare con le loro famiglie. Sono persone che hanno fatto una rivoluzione con Twitter e Facebook e non potevano avvicinarsi a un computer. Era come se li volessero spingere a odiare l’Italia. Ma loro hanno capito. Sapevano di essere troppi, e non volevano creare problemi. Hanno dimostrato grande senso civico. È ora di finirla di pensare che quelli della Lega siano stupidi. È stata una mossa studiata bene: prima hanno fatto arrivare migliaia di persone in un’isola dove non c’è nemmeno un ospedale, poi li hanno costretti a vivere in condizioni disumane. Adesso la nostra attività si concentra sul rilancio dell’economia dell’isola. Il governo non lo fa, e allora lo facciamo noi. Il programma “Io vado a Lampedusa” consiste in una serie di iniziative di turismo sostenibile: chiediamo un piano regolatore, la creazione di linee di bus e piste ciclabili, la raccolta differenziata e una carta dei principi firmata dai commercianti. Qui c’è un cambio di mentalità da fare: prima il visitatore era un viaggiatore, ora è un turista da spennare, che a sua volta chiede che l’isola si pieghi alle sue esigenze. Ma Lampedusa è un paradiso per tutti, che va rispettato. Ci battiamo contro la costruzione di villaggi turistici, l’abusivismo, lo scempio ambientale, il turismo di massa. E lanciamo un messaggio molto semplice: venite in vacanza a Lampedusa. È una scelta etica e un segnale di protesta contro la paura e il razzismo. Proponiamo itinerari a piedi o in bicicletta e una rete di contatti per alloggiare con la gente del posto, per imparare da loro a conoscere e rispettare i ritmi dell’isola. Abbiamo anche organizzato la prima critical mass di Lampedusa. Faceva molto caldo, ma è stato un successo.

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Lampedusa

storia 23 - Askavusa, l'associazione


storia 24 - Mohsen Lihidheb e Vincenzo Lombardo

Tra le due sponde

Mohsen Lihidheb è il postino di Zarzis. Dal 1993, ogni giorno dopo il suo turno alle poste, percorre i 150 chilometri di spiagge tra Ras Jdir e Djerba, e raccoglie tutto quello che il mare riporta a riva. Il suo Museo della memoria del mare è un monumento a cielo aperto alle storie dei migranti. Contiene oltre 150mila oggetti. Nell’agosto del 2002 Mohsen ha trovato sulla spiaggia di Zarzis il cadavere di un uomo morto in mare durante la traversata verso l’Europa. Lo ha chiamato Mamadou.

Il mio è un impegno verso la natura, e verso l’umanità. Il mare Mediterraneo è una grande via di comunicazione, una strada che trasporta storie. Camminare lungo le spiagge di Zarzis, le mie spiagge, è una cosa che faccio da sempre. È la mia testimonianza del mare, del movimento delle persone. È anche un grido alla vita, pieno di rabbia. Il Museo della memoria del mare è per me un modo per unire coscienza ecologista ed impegno sociale. Quando ho compiuto quarant’anni ho deciso di cambiare vita, lasciare l’attività politica che facevo da tanto tempo e ritornare al mare. Conosco tutte le correnti di questo tratto del Mediterraneo, so dove arriva ogni cosa: il legno, le bottiglie, le scarpe. Ogni giorno cammino sulle spiagge e raccolgo la memoria dei miei fratelli che sono partiti in cerca di un futuro migliore e hanno trovato la morte. Non entro mai in mare, aspetto le storie che il mare mi porta. È un segno di rispetto. L’immigrazione è un fenomeno complesso, che si basa sul rapporto squilibrato tra le diverse zone del mondo. È un sistema di vasi comunicanti: uno è pieno e l’altro è vuoto. Ma il vero vuoto, quello che non si può riempire, è la paura del diverso, e oggi appartiene all’Occidente. Il resto è un gioco politico che si fa come sempre sulle spalle della povera gente: l’Europa ha appoggiato le dittature e ora respinge chi vuole scappare dalla guerra e dalla povertà; Gheddafi usava i clandestini come proiettili umani per fare pressione sull’Occidente e ricattare i governi. Tutti sono vittime di questa situazione, ma Mamadou e tutti gli altri migranti morti in mare sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto. Io ho scritto tanto sull’attuale situazione politica in Tunisia e sulla rivoluzione, cercando di farlo con un approccio più intellettuale, più ragionato. La sollevazione popolare che ha portato alla caduta del regime di Ben Alì e le elezioni sono una grande opportunità per il Paese. L’emigrazione è diventata

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un fenomeno sociale in Tunisia: i giovani scappano non per necessità, ma per mettersi alla prova, per viaggiare e conoscere il mondo, per migliorare le loro condizioni di vita. È un desiderio legittimo, ma pericoloso. Il mio Museo della memoria del mare è un simbolo di tutto questo, e un invito alla riflessione. Vi ho raccolto tantissimi oggetti che raccontano storie: scarpe, giubbotti, libri di preghiere, musulmane e cristiane, rubriche di indirizzi, pezzi di stoffa che sembrano spazzatura ma sono in realtà portafortuna tradizionali senegalesi. Un giorno ho trovato un fischietto colorato e ho pensato: l’arbitro non ha ancora fischiato la fine di questo assurdo gioco. Durante il regime di Ben Alì sono stato attaccato in ogni modo. La polizia mi provocava, cercava di arrestarmi perché raccogliere oggetti appartenuti ad altri era considerato illegale. Quando invece al governo faceva comodo dicevano che ero un esempio, che mi avrebbero premiato per il mio impegno sociale. Tutte bugie. Conservare la memoria dei migranti è sempre stato per me un atto rivoluzionario, un gesto politico. La gente di Zarzis lo ha capito. Oggi gli insegnanti mi portano qui gli studenti, tutti conoscono quello che faccio. Io non posso fermare la voglia dei giovani di conoscere l’Europa, di fuggire da una società così tradizionalista e con poche opportunità di lavoro, in cui il ricambio generazionale avviene molto lentamente. Ma posso raccontare loro le storie che il mare mi ha portato: un giorno ho trovato la giacca di una giovane ragazza. Era elegante, una bella giacca rossa. L’ho portata in giro per tutto il paese. Ho fatto un corteo nuziale tradizionale, per il matrimonio che questa donna non ha mai potuto fare. Mamadou invece l’avevo visto da lontano. Da giorni qui a Zarzis si parlava del ritrovamento di alcuni cadaveri sulle spiagge. Sono andato come ogni giorno, sapendo che il mare mi avrebbe riportato la


Lampedusa Entre Zarzis et Lampedusa

Vincenzo Lombardo è l’ex custode del cimitero di Lampedusa. Dal 1996 ha creato spontaneamente un cimitero dove seppellisce i migranti morti nel tentativo di raggiungere l’isola. «Mi dicevano: perché metti la croce? Quelli sono musulmani. Ma Dio è uno solo, e ha fatto la terra per tutti: bianchi e neri, cristiani e musulmani».

prima vittima della fuga verso l’Europa. Quando l’ho trovato, a testa in giù nell’acqua, tremavo dallo spavento e dalla rabbia. Ho pregato Maometto, Gesù e tutti gli dei perché dessero pace alla sua anima. Poi ho gridato tutta la mia collera, sapendo che nessuno mi avrebbe ascoltato. So benissimo che il mio Museo della memoria del mare non ha lo stesso effetto di una macchina nuova appena arrivata dall’Italia che passa per le strade di Zarzis. Ma è l’unico monumento che racconta quello che sta succedendo qui. Il mio sogno è andare, come ogni giorno, a camminare lungo la costa e non trovare più vestiti, né scarpe, né messaggi di aiuto chiusi nelle bottiglie di plastica, né le stringhe delle scarpe che i migranti tengono in bocca per aumentare la salivazione e non morire disidratati durante la traversata. Vorrei vedere le mie spiagge non deturpate dai segni della tragedia dell’emigrazione. Vorrei che il Mediterraneo fosse una via di comunicazione aperta e libera tra i popoli. Dall’altra parte di questo tratto di mare, a Lampedusa, ho scoperto di avere un fratello. Vincenzo Lombardo aspetta come me le storie che il mare gli porta. Conosce Mamadou, e tutte le persone che hanno perso la vita in questo viaggio. Senza chiedere niente, con la sua umanità, ha creato un posto dove queste persone possono finalmente riposare in pace. Per lui ho scritto questa poesia.

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De l’autre côté de la mer, Tu enterres les corps de mes frères, Je sais, je sais ce que tu ressens, A force de l’avoir fait souvent. C’est dur, très dur, mon ami, D’être témoin de cette infamie, Avec un sentiment d’impuissance, Devant cette cynique violence. Moi aussi sur le littoral sud, Ce sont Mamadou, Ali et Oualid, Que j’ai humblement accompagnés, Avec des prières au ciel criées, Pour faire parvenir leur calvaire, A Dieu l’immense de l’univers. Tu n’as pas seulement enterré les corps, Mais l’âme de toute l’humanité. Tu étais seul devant chaque naufragé. Il était seul quand tu l’as enterré. Chacun était seul sur les vagues de la mer. Chacun a quelque part un père et une mère. J’étais seul à les mettre sous terre, Ils étaient seuls arrosés par mes sueurs. Un oiseau seul survolait la scène, De deux hommes qui s’enterrent sans haine.

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Lampedusa

storia 25 - Cinzia Bartòlo

L'amico di famiglia

Cinzia Bartòlo ha 25 anni. È sposata con un imprenditore edile e ha un negozio di abbigliamento a Lampedusa. La sua famiglia ha accolto Salim, un giovane tunisino di 22 anni. Ora Salim ha un permesso di soggiorno temporaneo, una casa e lavora con il marito di Cinzia.

Durante i giorni dell’emergenza, quando l’isola si è riempita all’improvviso di clandestini, avevo paura. Stavo chiusa a chiave nel mio negozio. Poi un giorno sono passati questi ragazzi tunisini giovani, molto educati. Uno mi ha chiesto una bottiglia d’acqua. Erano stremati. Si sono seduti proprio di fronte al mio negozio, davanti al fruttivendolo, e hanno cominciato a rovistare nella frutta marcia per mangiare qualcosa. Io non potevo vedere una cosa simile, sono andata al negozio di alimentari e gli ho portato pane, latte, biscotti, frutta fresca. Uno di loro mi ha guardato e mi ha detto: «No grazie, io male». Aveva un ascesso al dente. Si chiama Salim e ha ventidue anni. Insieme alla mia famiglia lo abbiamo curato, poi quando è stato identificato dalla polizia, gli abbiamo dato un telefonino con una scheda italiana. Lo hanno portato prima a Manduria e poi a Potenza, nei centri di accoglienza. Lui è scappato, è arrivato a Bologna da uno zio e ci ha chiamato. Noi gli abbiamo mandato i soldi per tornare a Lampedusa e, qui, una casa dove stare. Adesso mio marito se lo porta al cantiere, sta imparando un lavoro. Viene sempre a mangiare a pranzo e a cena da noi, aiuta in casa, è gentile e buono. Ogni tanto alla sera esce con mio fratello, si sta facendo degli amici, qui tutti lo hanno accolto bene. Ora sta a lui decidere cosa fare, è libero.

Se vuole rimanere a Lampedusa per noi è una gioia. Se invece decide di tornare dalla sua famiglia, va bene lo stesso. Io spero che si faccia una famiglia qui, e che non debba più tornare nella miseria da cui è scappato. Quello che abbiamo fatto per Salim lo abbiamo fatto con il cuore, e non siamo gli unici. Ci sono altre due famiglie che hanno accolto degli immigrati. Noi lampedusani siamo fatti così, se possiamo aiutare lo facciamo senza chiedere niente. Non vogliamo pubblicità, per noi è normale. Dopo aver incontrato Salim non ho avuto più paura. Andavo al porto dove, durante l’emergenza, erano accampati tremila tunisini, tutti uomini, e portavo borse piene di cibo, persino vestiti del mio negozio. Vestiti nuovi, non usati, ancora con l’etichetta attaccata. Il mio negozio sembrava un deposito, andavo a fare la spesa tre volte al giorno. Era una situazione troppo ingiusta, bisognava fare qualcosa. Tutti gli immigrati ci hanno ringraziato, e per noi questa è la soddisfazione più grande. Lo Stato non ha fatto niente, ma non ci aspettavamo granché. Sono stati capaci solo di mandare la nave militare per riportarli indietro. Quello che dovrebbero fare invece, secondo me, è aiutare queste persone nel loro Paese, in modo che non siano costretti a emigrare».

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di

Jenner Meletti

foto Martin Parr [magnum photos/contrasto]

L’ultima

Non bastano ombrelloni e sdraio a pagamento. In Italia si va sempre più verso la privatizzazione di fatto delle coste. Dal Nuovo Lido di Genova all’Adriatico, mentre i gestori degli stabilimenti balneari continuano a pagare tasse ridicole, si progettano case, negozi, parcheggi sulla riva. Perché il mare è come il maiale: non si butta via niente


spiaggia


Ti prendono un po’ a tradimento, qui al Nuovo Lido, “il più grande stabilimento balneare d’Europa”. Restando in corso Italia non vedi nessun cartello che annunci un eventuale biglietto d’ingresso. Solo due avvisi: Doccia euro 1, Phon euro 0,50. Beh, si può fare. Fai cinque passi ed ecco la baracchina della reception. Sul pianale – invisibile dunque a chi deve ancora entrare – ecco il foglietto. “Ingresso euro 12. Ombrellone 8, lettino 8, cabina 5”. In breve, per una persona sola, 33 euro, il prezzo di un buon pasto in trattoria (senza contare la doccia calda e il phon). Ma ormai sei entrato, non vuoi fare la figura di chi certi prezzi non se li può permettere. Scendi una scaletta di cemento, arrivi alle cabine in cemento, ti abbronzi sulla spiaggia in cemento (ma quella più grande è di sassi), puoi buttarti in due piscine e girare il più grande stabilimento d’Europa senza trovare un pezzo di prato o un quintale di sabbia. Le lucertole qui sarebbero felici. Quando il sole picchia, sembra di essere su una griglia. Non c’è nemmeno bisogno di girarsi: cemento e sole emettono la stessa dose di calore.

Genova per chi?

Inizia qui il viaggio nel mare rubato. Mai come quest’anno – anche nei bar, con i racconti di chi è stato in vacanza in Francia o in Spagna e ha scoperto che là le spiagge sono libere, con servizio di pronto soccorso e docce gratuite – si è parlato tanto di mare. La proposta di allungare le concessioni da sei a novant’anni ha messo i brividi, si è capito come un governo che raschia il barile dei beni pubblici sia pronto a tutto pur di fare cassa. Spiagge privatizzate, spiagge vendute. Poi è arrivata la proposta di allungare “solo” a vent’anni, e anche questa idea, per ora, è finita nel ripostiglio. I veri affari del mare si discutono in inverno. In estate meglio incassare e basta. Il Nuovo Lido genovese è un emblema di cosa sia stato, e cosa potrebbe essere con le concessioni decennali, il mare sotto padrone. Il Lido sorge infatti su terreni in parte in proprietà – comprati durante il Ventennio – e in parte demaniali. Con concessioni di novant’anni, o anche di venti, tanti stabilimenti potrebbero imitare il Lido, che per decenni ha cementificato ogni spazio di fronte al mare e poi – tre anni fa – ha presentato un progetto di “risanamento” che prevedeva però anche 2.500 metri quadrati di residenze (finalmente la casa in spiaggia nel centro di Genova, a 10mila euro al metro quadro) , 300 parcheggi e 3.100 metri quadri di negozi, bar e ristoranti. «Il diritto di superficie previsto nel progetto governativo – spiegano Andrea Agostini di Legambiente e Stefano Salvetti di Adiconsum, le associazioni in prima fila contro il nuovo progetto – è comunque un diritto, sul quale si possono innestare speculazioni edilizie. Già nel 1972 il Consiglio di Stato disse che troppe erano le spiagge in concessione rispetto a quelle libere. E adesso vogliamo permettere anche la costruzione di case, negozi e parcheggi in quello che era lo spazio di tutti?». La giunta di centrosinistra sembrava favorevole al progetto del Nuovo Lido, perché prevedeva di piantare alberi e mettere prati dove c’era cemento. Ma la tra-

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sformazione di parte delle volumetrie delle cabine in “residenze e servizi” ha provocato la rivolta di ambientalisti e consumatori e spaccato il Pd. Così il progetto è bloccato ormai da un anno. «Il Lido – dice Stefano Salvetti – è davvero un esempio di cosa significhi la privatizzazione del mare. Se la spiaggia non rende abbastanza, si costruiscono appartamenti. Se l’affitto dell’ombrellone non copre l’investimento, si aprono negozi, bar, pizzerie. La lobby dei concessionari è davvero potente e, in politica, è trasversale. Ci hanno criticato per la nostra battaglia, sostenendo che così bloccavamo reddito e occupazione. “Lavoriamo quattro mesi in tutto e dobbiamo vivere anche negli altri otto mesi”, ci hanno detto. E noi abbiamo risposto: negli altri mesi inventate nuovi lavori. La flessibilità deve esistere solo per gli operai? Uno Stato che non riesce a garantire il lavoro deve garantire la rendita parassitaria? C’è una sola strada: concessioni a tempo limitato e nessuna discendenza ereditaria. Alla scadenza, libera concorrenza con gare aperte a tutti».

Beauty farm sulla sabbia

Nella Romagna che ha inventato il mare per tutti (a pagamento) Riccione è sempre una spanna avanti gli altri. Qui, al bagno La spiaggia del cuore, concessione 110, hanno inventato i pannolini con guaina esterna impermeabile per i bambini che entrano in piscina. «Sarà anche santa, ma la pipì disturba». Qui, già quattro anni fa, hanno inventato un Piano Spiaggia comunale che sta trasformando i vecchi bagni in una specie di salone di bellezza all’aperto. «Guarda, c’è la piscina con idromassaggio». «Guarda, si può fare fitness», esclamano i clienti quando, a ogni inizio estate, tornano puntuali come le rondini a primavera. Le spiagge sono pulite, non c’è nessun biglietto d’ingresso. Se vuoi e se puoi paghi l’ombrellone, altrimenti cerchi un po’ di spazio nelle fette gentilmente lasciate libere fra i 152 stabilimenti e i 52 bar che occupano i sei chilometri di spiaggia riccionese. Ti puoi sdraiare e prendere il sole gratis solo nel 5 per cento del litorale, ma se rischi di annegare anche qui arriva il bagnino di salvataggio. In questo lido quasi (meglio ripetere: quasi) ideale, leggendo il Piano Spiaggia trovi però una frase che meglio di tante altre racconta il saccheggio del mare pubblico avvenuto in questi decenni. «I bagni – si legge – debbono liberare la visuale a mare almeno per il 30 per cento del fronte della concessione». Insomma, chi passeggia sul lungomare avrà addirittura il diritto di vedere almeno il 30 per cento delle onde, magari con qualche vela in lontananza, e non solo cabine, muri, bar, magazzini, ristoranti, piscine sopraelevate, fast food, scivoli ad acqua e sbarramenti vari. Il mare non è stato solo rubato ma anche “blindato”, proibito alla vista di chi non entra nelle concessioni. Il viaggio arriva a Riccione perché questo Comune è stato fra i primi in Italia a gestire il demanio marittimo, a incassare le quote delle concessioni per passarle poi in parte alla Regione e soprattutto allo Stato. Ed è stato fra i primi anche a rendere note, su richiesta di cronisti curiosi, le cifre pagate. «Il bar Sombrero? Nel 2005 pagava 499 euro, nel 2011 ne paga 850. Al giorno? Ma no, all’anno». Il bar Sombrero è grandissimo, con servizio di ristorazione, nella spiaggia davanti a viale Ceccarini, il cuore della città. «Il bagno 84? Pagava 4.700 euro nel

2005, quest’anno ne paga 7.072». Un bagno con 250 ombrelloni – nemmeno dei più grandi – in un giorno d’agosto facendo pagare 18 euro ogni due lettini, incassa 4.500 euro, solo per la vendita dell’ombra. La lobby dei titolari di stabilimento è davvero trasversale. La proposta di prolungare le concessioni da sei a vent’anni, a fronte di investimenti e innovazioni, per la prima volta è stata fatta tre anni fa dall’assessore regionale Guido Pasi, di Rifondazione comunista. Difficile entrare nei misteri del Demanio. «Con la Finanziaria del 2007 – raccontano Ezio Venturi e Sante Berni, che in Comune si occupano di demanio – lo Stato ha deciso l’incameramento dei beni di difficile rimozione. Non puoi rimuovere le strutture costruite?


Io Stato li faccio miei e ti impongo un affitto a valori di mercato». La sberla è stata pesante. «Il ristorante Fino pagava 1.070 euro nel 2005, l’anno scorso è passato a 60.231 euro. Il Gher è salito da 4.716 a 123.012. Il Cavalluccio Marino, il più grande, da 2.967 euro si ritrova a pagare a 165.313 euro». Ma la sberla è arrivata solo nel demanio portuale, quella fetta in riva destra e sinistra del canale pieno di yacht e barche, che non contiene nemmeno il 10 per cento delle attività riccionesi. E anche qui ci sono le eccezioni. Il Kalamaro fritto d’osteria, che è proprio sul porto, con cucina, veranda e tutto il resto, è stato giudicato “facilmente removibile” e continua a pagare 338 euro all’anno, contro i 295,68 del 2005. Attraver-

si un ponticello e quasi di fronte trovi il Caffè Bar, incamerato, che dai 295 euro di sei anni fa è passato a 19.870 euro. Facile immaginare le proteste, anche se gli affitti demaniali ora corrispondono a quelli di viale Ceccarini, dove per un ristorante in locazione si chiedono dai 100mila a 150mila euro all’anno e non c’è la vista mare. Il 90 per cento dei concessionari sono comunque fuori dalla stangata, e così scopri che l’Azzurra, uno dei ristoranti più famosi e più cari, per 316 metri quadrati di cui 28 scoperti, paga la bellezza di 606 euro, contro i 365 di sei anni fa. Per mettere tavolini fuori dai ristoranti, in viale Ceccarini, paghi al Comune 500 euro al metro quadro. Il ristorante Azzurra paga al demanio due euro al metro quadro.


«La spiaggia – dice il sindaco Massimo Pironi – non può essere una rendita perpetua. Concessioni per 90 anni sono un’assurdità, ma bisogna tutelare invece chi fa investimenti e ha diritto a un tempo congruo. Con un federalismo vero, dovrebbero essere i Comuni a decidere i tempi delle concessioni». Gli architetti Annalisa Schiano e Mirna Bertuccini, che hanno preparato il Piano Spiaggia comunale, dicono che è prevista una riduzione del 10 per cento delle volumetrie, per alleggerire l’occupazione dell’arenile. Ma solo una ventina, fra bagni e bar, hanno realizzato o progettato l’innovazione. Gli altri preferiscono offrire solo ombrelloni & ombrelloni e contare l’incasso. «Noi de La spiaggia del cuore – dice il titolare, Giorgio Villa – quest’anno abbiamo cambiato tutto: cabine semiinterrate, piscina con idromassaggio, cromoterapia, un nursery per i più piccoli... Abbiamo speso un milione di euro. Pensiamo che per quelli come noi vent’anni di concessione siano il tempo giusto».

Palafitte nella pozzanghera

È più rilassato, il mare ravennate. Gli ombrelloni sono un po’ sono meno fitti, le spiagge libere più larghe. A Casal Borsetti ti guardi intorno e scopri che il mare è come un maiale, non si butta via niente. Piattaforme al largo per l’estrazione del metano, navi partite dall’altra parte del mondo e dirette verso il porto ravennate per portare grano, soia, semi di girasole; sabbia per ospitare i turisti paganti, bilancioni per pescare cefali e passere con capanne che nel giro di pochi anni diventano villette… Ma anche questo mare così sfruttato non basta. Ecco allora che, a fianco del fiume Reno, trovi una grande buca piena di yacht e di strane villette. È bastato scavare quello che era terreno agricolo e poi tagliare l’argine per “costruire” un altro pezzo di mare. Le villette sono centinaia, tutte uguali, a palafitta. Non per imitare i nostri antenati, ma per arrivare a “casa” direttamente con la barca, parcheggiarla sotto l’appartamento (70 metri quadri in tutto su due piani) e salire nel salottino su una scaletta di ferro. Così ti sembra di essere in mezzo al mare anche se sei in una grande pozzanghera, e non sei costretto a mescolarti con chi lo yacht lo può solo guardare. Si chiama Marina di Porto Reno, questo concentrato di appartamenti, e gli affari non sembrano andare molto bene. Tanti i cartelli con Vendesi o Affittasi. «L’appartamento l’abbiamo avuto in permuta, in cambio di lavori fatti. Il prezzo? Trattabile, ma non sotto i 200mila euro». Per non fare brutta figura, devi aggiungere il prezzo della barca. Ma alla sera puoi guardare il tramonto come se fossi ai Caraibi. Il sole cala lento. Non tra le palme, ma sopra bellissimi campi di barbabietole.

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Working class hero di

Alessandro Portelli

foto Eugene Smith [magnum photos/contrasto]

L’ufficio di collocamento, la fabbrica che chiude, quella che ti fa vivere e morire un po’ ogni giorno. Quando Bruce Springsteen fa ballare migliaia di persone negli stadi uno forse non ci pensa. Ma molte sue canzoni sono abitate da operai, disoccupati, reduci, padri e figli, assassini e fuorilegge. Sono esistenze sotto assedio, ai margini, in fuga o in cerca di riscatto. Sono il lato oscuro del sogno americano

Ho cominciato a prendere sul serio Bruce Springsteen a partire da una della sua canzoncine più disimpegnate e divertenti, Sherry Darling, nel disco The River. Dice più o meno così: “C’è un gran sole che picchia sull’asfalto, è una bellissima giornata, tu sei seduta accanto a me in macchina, potremmo andare al mare…”. Un rock quasi adolescenziale, il sole, la macchina, la ragazza… E invece “tutte le settimane ci tocca accompagnare tua madre all’ufficio di collocamento, e c’è tua madre sul sedile di dietro e non s’azzitta un attimo…”. Pare Io mammeta e tu, però, fermi tutti: l’ufficio di collocamento? Quando mai nel rock si è parlato di una cosa del genere, di uffici di collocamento, di una normale quotidianità di gente che lavora invece di pensare solo a ballare e ad amare? Quando mai nei rapporti sentimentali c’entrano i rapporti di lavoro? E quello invece è il mondo di Bruce Springsteen. In un libro importante di parecchi anni fa, George Lipsitz aveva dimostrato che la grande maggioranza dei protagonisti del rock and roll venivano dal proletariato – il cuoco Little Richard, l’operaio Fats Domino, il camionista Elvis Presley… Eppure il lavoro è il grande tabù del rock, forse perché almeno da quando ha assun-

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to definitivamente l’abito di musica “giovanile” il suo tempo è stato essenzialmente quello del tempo libero (l’eccezione più notevole infatti è il Summertime Blues di Eddie Cochran – anche musicalmene affine alla Sherry Darling di Springsteen – dove il ragazzo adolescente si lamenta perché suo padre vuole che si trovi un lavoro estivo altrimenti non gli dà le chiavi della macchina per uscire con la ragazza. Ma guarda caso, il tutto avviene durante le vacanze estive, summertime, appunto). E lo stesso vale anche per la grande tradizione della canzone americana, di Cole Porter e di George e Ira Gershwin. A parte qualche momento del rhythm and blues – Blue Monday di Fats Domino o Chain Gang di Sam Cooke – l’unico genere dell’industria musicale che si è rivolto coscientemente a gente adulta che lavora e ha parlato della sua vita è stata la tanto biasimata musica country. E poi è arrivato Bruce Springsteen e il rock è diventato adulto (non solo con lui – ci hanno messo mano anche figure meno stellari ma rispettabili come Bob Seger, che non dimentica mai di essere di Detroit, o, più tardi, Steve Earle, che non per caso viene dalla country music). E le persone adulte, fra le varie cose che fanno, lavorano. Il primo gruppo messo in piedi dall’adolescente Bruce Springsteen si chiamava Steel Mill – acciaieria. Altro che heavy metal. Non c’è niente di ideologico nel modo in cui Bruce Springsteen, fin dal principio, tratta il lavoro. Si limita a parlare di come vivono la sua gente, la sua famiglia, i suoi coetanei. La canzone che dà il titolo a The River in



Eugene Smith È uno dei grandi maestri della fotografia americana. Nato nel 1918 a Wichita, Kansas, a 15 anni ha scattato le sue prime fotografie per due quotidiani locali. Dopo un anno alla Notre Dame University di Wichita, nel 1937 si è trasferito a New York, dove ha frequentato il New York Institute of Photography e iniziato la sua collaborazione con News-Week (poi Newsweek), interrotta dopo il rifiuto di Smith di utilizzare una macchina medio formato. Da freelance, è stato corrispondente di guerra per Flying Magazine (1943-44) e per Life, ma, rimasto gravemente ferito, ha dovuto interrompere l’attività per due anni. Dal ‘47 al ‘55 ha continuato a lavorare per Life, per poi entrare a far parte dell’agenzia Magnum per il resto della sua vita. È morto nel 1978 per un ictus. L’anno prima si era trasferito a Tucson per insegnare fotografia all’Università dell’Arizona. Nella stessa città, sono conservati i suoi archivi presso il Center for Creative Photography. Le immagini di Eugene Smith che pubblichiamo in queste pagine sono tratte dal suo “Pittsburgh Project”, un lavoro monumentale che lo ha portato per un anno – il 1955 – nella città della Pennsylvania. Il risultato sono 17mila scatti che colgono la disperazione e la speranza, la fatica e il progresso, la solitudine e la condivisione che si respiravano in questo luogo simbolo dell’intero Paese.

questo senso è esemplare. Il protagonista mette incinta la sua ragazza (altra cosa inesistente nel rock and roll tradizionale, dove i contatti fisici sono solo dal collo in su) e allora, a diciannove anni, “tessera del sindacato e vestito per le nozze”, vanno in chiesa e si sposano. La union card non è una bandiera, è un modo di vita per chi viene da “giù nella valle”. Un tempo avremmo detto: la classe in sé. Lui trova lavoro, ma poi c’è quel verso miracoloso: “Di recente non c’è tanto lavoro a causa dell’economia”. Altra parola che non avevo mai sentito in una canzone rock (sì, è vero, The River tecnicamente è un lento, ma è molto più duro di tanto rock presunto, o presuntuoso). “On account of the economy”, a causa dell’economia: la gente che lavora è incardinata nell’economia, ma questa parola è estranea al suo lessico, e Bruce Springsteen lo sottolinea accostandola a un termine colloquiale come “on account”. Modulando accuratamente le quattro sillabe, così insolite nella lingua inglese, designa una forza quasi arcana che agisce sulle nostre coscienze in base a leggi proprie e poteri sconosciuti. Raramente l’emarginazione della classe operaia dal discorso pubblico dominante è stata espressa in modo così succinto e radicale. C’è un’altra cosa insolita accennata in Sherry Darling e poi articolata in tante altre canzoni: i rapporti fra generazioni. Nel rock and roll, padri e madri compaiono al massimo come agenti repressivi che limitano la libertà dei ragazzi imponendogli, per esempio, un orario di rientro il sabato sera. E dato che nessuna resta incinta, figli certo non ce ne sono. È come se la generazione teenager fosse sospesa nel tempo, e anche quando diventeranno invece figli dei fiori (dei fiori, non dei genitori – e comunque, flower children non vuol dire figli dei fiori, come lo abbiamo tradotto noi, ma bambini fioriti o qualcosa del genere. Children, non sons and daughters) avranno col tempo un rapporto sospeso, che Bruce Springsteen rimette in movimento facendolo diventare un discorso adulto, come adulti sono diventati (magari a diciannove anni, tessera sindacale e vestito per le nozze) i ragazzi a cui si rivolgeva quando quel discorso è cominciato. Le due dimensioni, lavoro e generazioni, si intrecciano in una della sue canzoni più drammatiche, che non a caso si chiama Factory, fabbrica: “Attraverso castelli di paura, attraverso castelli di dolore, vedo mio padre che entra di nuovo nei cancelli della fabbrica – la fabbrica lo assorda, la fabbrica gli dà vita – la vita, la vita, la vita di chi lavora”, the working life. Factory mette insieme in tre strofe essenziali, tre idee durissime. Primo: la fabbrica ti distrugge per darti da vivere. Secondo: il tempo della fabbrica è sempre uguale a se stesso, ciclico – suona la sirena, l’uomo si alza la mattina, prende il portapranzo, va in fabbrica; la sera suona la sirena, torna casa; e la mattina dopo la sirena suonerà ancora e tutto ricomincerà. Terzo: il mito americano della mobilità sociale non ha niente a che vedere con queste vite sempre uguali – e con queste generazioni condannate a ripeterle, perché “qui nella valle ti insegnano a rifare quello che ha fatto tuo padre”. La classe è una subcultura in sé anche perché non se ne esce. Il sogno americano è fuggiasco, irraggiungibile: “Di giorno sudiamo inseguendo un runaway American dream, di notte corriamo per sogni di gloria su mac-

chine suicide”. Garage fa rima con mirage, anche nella promised land americana: “Lavoro tutto il giorno nel garage di mio padre, guido tutta la notte in cerca di un miraggio”. Se non siamo nati per ripetere la vita di nostro padre, siamo “nati per correre”. Ma anche per andare a sbattere: “Questa doppia linea sulla strada”, la “superstrada come un serpente a sonagli nel deserto” su cui ci gettiamo con le suicide machines, “non ci porta da nessuna parte”. Altro che tempo libero, con le chiavi della macchina di papà. Però: la strada non ci porta da nessuna parte. La fuga sarà solo un miraggio, ma è un miraggio declinato al plurale. Una cosa che mi ha sempre colpito è come Bruce Springsteen riscrive il grande racconto americano della fuga dell’eroe, verso la frontiera o sulla strada: da


Rip Van Winkle di Washington Irving a Huckleberry Finn di Mark Twain, da The Bear di Faulkner fino a On the Road di Jack Kerouac, sono sempre storie di maschi che fuggono dalle donne (dalla civilizzazione domestica verso la libertà della wilderness). In Springsteen, persino in una storiaccia come Atlantic City, l’eroe invece fugge sempre con la donna: la fuga di coppia dalla società è anche l’embrione del sogno di una società nuova (“un giorno, amore, cammineremo nel sole”). Le cose cominciano a cambiare con Nebraska e Born in the U.S.A.. “Hanno chiuso la fabbrica di auto a Mahwah il mese scorso; Johnny è andato in cerca di lavoro ma non ha trovato niente”. Improvvisamente, la subcultura operaia si scopre come presenza conflittuale: non si tratta più solo dei rapporti interni alla classe

in sé, ma della solitudine di classe nel contesto dei rapporti capitalistici. In Born in the U.S.A. il reduce dal Vietnam torna a casa e va a cercare lavoro alla raffineria solo per sentirsi respinto a bruciare per altri dieci anni sulla strada. Anche il tempo allora cambia: non hai più neanche quelle ossessionanti sicurezze che ti dava il tempo sempre uguale della sirena operaia. Adesso è il tempo storico della crisi, il tempo storico della guerra. Il lavoro ti dava vita e morte insieme, adesso la mancanza di lavoro continua a darti morte senza darti

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“Giudice, avevo debiti che nessun uomo onesto può pagare, (...) non dico che questo fa di me un uomo innocente, ma è stato molto di più a mettermi quella pistola in mano”


“Dovunque un poliziotto picchia una persona, dovunque un bambino nasce gridando per la fame, dovunque c’è una lotta contro il sangue e l’odio nell’aria, cercami, mamma, e ci sarò”

più neanche quello straccio di vita. E la union card che forse hai preso a diciannove anni non ti serve granché. Così Johnny 99 risponde cominciando lui a seminare la morte. Allo stesso modo, la macchina su cui vanno “a fare un giro” nelle maledette badlands del Nordovest il protagonista di Nebraska e la sua ragazza non è più una macchina suicida, è una macchina omicida. È una rivolta distruttiva (e autodistruttiva, finiscono entrambi sulla sedia elettrica) e senza forma: sia i “pensieri” nella mente di Johnny 99, sia la meanness, la “cattiveria che c’è nel mondo” di Nebraska restano, vaghe, indefinite. Dopo tutto, sono personaggi per i quali la parola “economia” è ancora un mantra sconosciuto, per i quali non è dato sapere perché la fabbrica ha chiuso, perché il disastro lo devono pagare loro, perché li hanno spediti ad “ammazzare i gialli” in Vietnam,

perché non c’è posto per loro in questo mondo. Sanno solo che essere “born in the U.S.A”. è una promessa non mantenuta. Un altro miraggio suicida. Le ragioni e il tempo della storia prendono forma più chiara nelle canzoni di The Ghost of Tom Joad. Youngstown comincia con la scoperta del carbone e del ferro sulle rive dei fiumi dell’Ohio e continua con una storia americana fatta tutta di guerre (come quella di With God on Our Side di Bob Dylan) per le quali le fabbriche e generazioni di operai di Youngstown hanno costruito i mezzi e le armi: ancora una volta, sia pure in un altro modo, la fabbrica dà sia la morte (le armi), sia la vita. Con questo lavoro infernale “ho cresciuto i miei figli, mi sono guadagnato la paga”. Youngstown è una sintesi della storia operaia d’America, dal protagonismo della rivoluzione industriale alla


Bruce Springsteen Figlio del New Jersey e della working class, Bruce Springsteen nasce a Long Branch il 23 settembre 1949, da padre di origini irlandesi e olandesi e da madre di origini italiane. Da lei a tredici anni avrà in dono la prima chitarra; a sedici Bruce fonda la sua prima band, The Castiles. Riformato alla visita di leva, evita l’arruolamento in Vietnam, da cui molti suoi coetanei torneranno in una bara o cambiati per sempre. Può così continuare a dedicarsi alla musica con un altro gruppo, gli Steel Mill, con il quale comincerà a farsi strada nei locali della East Coast e della California. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta dà vita a diverse formazioni i cui membri, gli amici e compagni di una vita, con qualche aggiustamento, confluiranno poi nella E Street Band. Nel 1972 il suo primo contratto discografico con la Columbia Records, seguito pochi mesi dopo dall’album d’esordio Greetings from Asbury Park, N.J.. Per Springsteen e la sua band sono anni pieni di registrazioni in studio (The Wild, the Innocent and the E Street Shuffle) e di concerti. Dopo aver partecipato a quello di Cambridge, Massachusetts, Jon Landau, il critico musicale che diventerà il suo manager, scrive: “Ho visto il futuro del rock and roll e il suo nome è Bruce Springsteen”. Il primo vero successo arriva nel 1975 con Born to Run. Tre anni dopo, «l’album con cui ha trovato la sua voce adulta», Darkness on the Edge of Town, rivela quella crescente coscienza sociale e civile che sarà ancora più esplicita nel doppio The River (1980) e nell’acustico Nebraska (1982). Nel 1984 Springsteen diventa la superstar del rock mondiale: con Born in the U.S.A. vende milioni di copie e riempie gli stadi, ma il suo messaggio rischia di essere offuscato o stravolto. L’omonima canzone, racconto doloroso di un reduce del Vietnam, da alcuni viene letta invece come un’esaltazione del patriottismo reaganiano. Da lì in poi Springsteen sentirà l’urgenza di riprecisare il significato originario di quel brano. Seguono dischi più “privati”, che coincidono con il fallimento del primo matrimonio, l’inizio di una nuova vita familiare e lo scioglimento della E Street Band. L’anima “popolare” di Springsteen ritorna potente nel 1995 con l’album The Ghost of Tom Joad, omaggio a John Steinbeck e agli uomini senza nome che lottano ogni giorno per un pezzo di pane e di dignità. Nel 1999 è ammesso nella Rock and Roll Hall of Fame, il museo-tempio della musica americana, e riunisce la E Street Band per un lungo tour mondiale. The Rising (2002) nasce dal bisogno di elaborare il lutto dell’11 settembre; Devils & Dust (2005) contiene un atto d’accusa al presidente George Bush e alla sua guerra in Iraq. Nel 2004, per la prima volta, Springsteen si spende in prima persona a favore di un candidato alla Casa Bianca, John Kerry. Ripeterà l’esperienza, con maggiore fortuna, quattro anni più tardi a sostegno di Barack Obama. Nel mezzo, We Shall Overcome: The Seeger Sessions (2006), l’album e il tour con cui esplora, rielaborandole, le radici della musica folk. Gli ultimi due dischi – Magic (2007) e Working on a Dream (2009) – lo portano in giro per l’ultima volta con la E Street Band al completo: il tastierista Danny Federici muore nell’aprile del 2008, il sassofonista Clarence Clemons a giugno del 2011.

Discografia In studio sua presunta scomparsa e innominabilità (“adesso ti ho fatto tanto ricco che non ti ricordi più come mi chiamo”). Nel ritornello c’è un’ambiguità feconda: “Sto sprofondando, sweet Jenny, qui a Youngstown, sto sprofondando”. Chi non conosce Youngstown (a partire da me, le prime volte che ho sentito la canzone) pensa che la dolce Jenny sia un’altra delle figure femminili che accompagnano i protagonisti di Springsteen nei loro viaggi senza meta. Ma chi la conosce (come me dopo che me ne hanno fatto vedere i resti) sa che invece sweet Jenny è il soprannome che gli operai davano a una delle più grandi acciaierie di Youngstown. E allora l’ambiguità apre su tutta un’altra dimensione: la femminilizzazione del nome suggerisce che queste generazioni operaie si sono sentite come sposate alla fabbrica, che in essa si sono riprodotte e passate il te-

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Greetings From Asbury Park, N.J., 1973 The Wild, the Innocent, and the E Street Shuffle, 1973 Born to Run, 1975 Darkness on the Edge of Town, 1978 The River, 1980 Nebraska, 1982 Born in the U.S.A., 1984 Tunnel of Love, 1987 Human Touch, 1992 Lucky Town, 1992 The Ghost of Tom Joad, 1995 The Rising, 2002 Devils & Dust, 2005 We Shall Overcome: The Seeger Sessions, 2006 Magic, 2007 Working on a Dream, 2009 The Promise (con brani, per la maggior parte inediti, registrati tra il ‘76 e il ’78), 2010

Dal vivo

Live/1975-85, 1986 In Concert MTV Plugged, 1993 Live in New York City, 2001 Hammersmith Odeon London ‘75, 2006 Live in Dublin: Bruce Springsteen with the Sessions Band, 2007 Bruce Springsteen And E Street Band: London Calling Live in Hyde Park, 2009

Raccolte

Greatest Hits, 1995 Tracks, 1998 18 Tracks, 1999 The Essential Bruce Springsteen, 2003 Bruce Springsteen & The E Street Band Greatest Hits, 2009


stimone delle generazioni. Così, Youngstown diventa anche una rivendicazione di orgoglio operaio: il protagonista si conquista la qualifica, tira su una famiglia, fa diventare grande il suo Paese, il tutto facendo un lavoro d’inferno di cui è fiero proprio perché è d’inferno e lui lo sa fare. Qualche anno fa, davanti alla città di rovine a cui è ridotto il luogo dove sorgeva un tempo la sweet Jenny, John Russo – che dirige il centro di studi sulla cultura operaia di Youngstown – mi raccontò di avere accompagnato Bruce Springsteen a fare un giro per la città, e di avergli detto: «Youngstown è bellissima, ma esprime solo il dolore della perdita, non la rabbia che pure c’è qui fra gli operai». Bruce Springsteen raccolse questa indicazione: l’acustica, elegiaca Youngstown del disco in studio si trasforma, in concerto e nel successivo disco dal vivo, in una durissima, rabbiosa versione elettrica. The Ghost of Tom Joad, la canzone che dà il titolo al disco, trova una metafora per esprimere entrambe le cose, il senso della perdita e la visione della rivolta: il fantasma di Tom Joad (il protagonista di Furore di Steinbeck, profugo della Depressione diventato ribelle) immaginato, atteso e ritrovato. Tom Joad è sia memoria sia visione. Da un lato, il tempo sembra ripetersi ancora una volta: l’America degli anni Novanta, dei disoccupati sbattuti sulla strada “sotto lo sguardo della polizia” (questo non è Bruce Springsteen, è Alfredo Bandelli, cantore operaio pisano, Partono gli emigranti), rivive in peggio la memoria degli anni Trenta. Dall’altro, però, quando il fantasma di Tom Joad viene a sedersi accanto al protagonista, possiamo intravedere il fantasma di un tempo nuovo, un tempo in cui come allora gli sfruttati, gli sconfitti, gli emarginati proveranno a riprendere in mano le sorti delle loro vite. Parlare di Bruce Springsteen e di lavoro non sarebbe completo se non ci ricordassimo come lui stesso, e la sua E Street Band, svolgono il loro lavoro (ma chissà se ci riusciranno ancora senza il prezioso Clarence Clemons). Andare a un concerto di Bruce Springsteen significa assistere a una performance che è anche fatica e sudore, in cui davvero il metallo della musica è pesante e loro lo sollevano con tutte le forze. Moltissimi anni fa, Ronald Reagan e un giornalista conservatore, George Willis, andavano dicendo: «Se tutta l’America facesse il suo lavoro con l’energia con cui Springsteen e la sua band fanno il loro, questo Paese andrebbe molto meglio». Springsteen rispose domandando se avevano mai sentito Johnny 99. Ma secondo me la risposta vera sta in Youngstown: “Quando muoio non voglio avere niente a che fare col paradiso, perché il lavoro del paradiso io non lo so fare. Che mi porti via il diavolo e mi metta a lavorare davanti alle fornaci ardenti dell’inferno”. Il lavoro di Springsteen e della sua banda è quel “lavoro che andrebbe bene anche a un diavolo”. Il lavoro del paradiso reaganiano, loro, non lo sanno fare e non ci vogliono avere niente a che fare.

E

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mad in italy di

Gianni Mura

il Re Fuso “Vedrà la sorte e avrà i tuoi orchi/ questa forte che ci accompagna/ dal gattino alla pera, insonne,/ sarda, cime un secchio ricorso/ o un vizzo assordo. I tuoi orchi/ Saronno una rana parola/ un grifo taciuto,

O cava speranza/ quel giorno Sanremo anche voi/

un silenzio./ Così mi vidi oggi lattina/quando su me Lola ti piaghi/ nello spicchio.

che sei la gita e sei il culla./ Per lutti la sorte ha uno sguardo. Berrà la corte e avrà i tuoi orchi./ Sarà come mettere un vizio/ come Venere nello specchio/ riemergere un riso corto/ come ascoltare un fabbro chiuso./ Spenderemo nel sorgo miti”.

Esco: rari settori, questi vermi fumosi di paese semplificano il nodo di spigare il gioco che abbiamo deriso di chiavare “Re Fuso”ed è 1.5 (uno maggio) ai corruttori di nozze, quelli che sorreggono le cozze nella sarta stappata ed evirano molle pacche.

pizzo

Per rapire il sesso di un pazzo

, di un lezzo-puzzo, che mare scritto da un degente, seppiate le fregole rase: locale o consolante in giù o in seno rospetto alle crasi del cesto originale, cambio di locale o consolante. Questo vile, il mesto so.

Rasta il Gubbio: un orrore volontario è un re fuso? Farse sì, corse no. Spassiamo altre. È stata estate, anzi è. Belle ramazze spese sulla scabbia, appetitosi nachos con folto odio abbronzante, onde siccome suole, andine, foto d’acqua (Honda su onda?), Rasta il Gubbio: un orrore volontario è un re fuso? Farse sì, corse no. Spassiamo altre. È stata estate, anzi è. Belle ramazze spese sulla scabbia, appetitosi nachos con folto odio abbronzante, onde siccome suole, andine, foto d’acqua (Honda su onda?), marosi morosi, estetica estatica, pastelli di rabbia, non è ballo quel che è bollo ma è

come monelli i Bonzi di Riace

bullo ciò che giace, . O la corsa o la gita. Scuramente non c’è solo il mate, come dicono con noce argentina. Ci sono i conti, le rime innovate, i fini, gli abati, i raggi. Un Cansiglio umile: avare le carpe adatte. Canto più se si va per fanghi nei baschi o per

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lunghi (preferite il Bolero) nei loschi. State montani dall’urlo dei burloni, dal ciglio del

(un vocale con sparsa luce)

Bar Atro

, non entrate in una taverna, in una frotta, non cercate le stalle alpine: è questione di costanza, non di firma. Alpeggio, non c’è mai fine. La mortagna, le sue cave di lagno, di bronchi, i frati verdi, i ruggiti delle cacche. O toma o morte, si dice in Val d’Aorta. Cfr sull’argomento (mento con tanti occhi) La fontina della vergine di Ingmar Bergman, buona per molte ricotte da privare sulle nostre favole. Privare per credere. Chi cerca, trota (nei fumi, nei tormenti, nei rovi che coprono di sesso in sesso). Nel raso di Schliemann, chi cerca Troia. Non va scornato il logo.

Odiamo l’ego del Canzoni, I promossi spesi, l’inno minato, quel remo del mago di tomo. Ah, le macerie scolastiche, la scoria maestra di vite, le gite in carriera, i tori a noce spietata, le gite in carriera, i tori a noce spietata, Odiamo l’ego del Canzoni, I promossi spesi, l’inno minato, quel del magoremo di tomo. Odiamo l’ego del Canzoni, I promossi spesi, l’inno minato, quel remo del mago di tomo. Ah, le macerie scolastiche, la scoria maestra di vite, le gite in carriera, i tori a noce spietata, la tacchina del Lapo ha un baco nella gamma, le

Due per due, te per due, tre per tre. Due per bue. prime ciocche, i litri da leggere.

A sproposito, cosa ci fa il bue Api in un’ernia? Confonde le dee. Che ne pensa l’ape reggina? Accetterà un fuco cosentino, un fuco ripieno, un fuco fatto come un cuoco fatuo. Perché i ditteri amano i datteri? Non è una rottura di palme? Sarà come i mistici che amano i distici, i romantici che amano i mantici. Perché scrivo queste rose? Sono cuori di me, fiori di te, quadri di chi, picche non so. Mi è partito il pirlota automatico. Un gel fioco, Mura loco. Tanto va la matta al cardo che ci fascia lo zampino.

In Gino veritas, pensando a Veronelli. O anche al modico con le idee contuse, sia letto per inciso.

Il basista sifoniaco ha perso il selz-control. Viaggio al centro della botte. In vino veritas.

Bel topo. Dove sta? Sudan. Ovvio, un calmo parco. L’ospedale l’hanno chiamato Salam. Mi sembra di buon fusto, se non è fronte del porco poco ci manga. Sto schermando, lo so che salam significa pece. Pan e salam dà il senso panico della natura (non morta). Ma perché la ninfa si chiama Siringa? Si sente

Troppe comande per un uovo sodo e disparato,

in vena?

distratto dallo sfarzo. Busta, diamoci un taglio come direbbe il bel topo. Chi è arrivato fin qui ha contato tutti i re fusi? Non vince culla, ad ogni lodo.

U


Buone nuove a cura di Gabriele illustrazioni

Battaglia

Antonello Silverini

12 giugno, Angola

Il governo si impegna a fornire nuove case a 450 abitanti della capitale Luanda, vittime di sgomberi forzati tra il 2004 e il 2006. Il progetto edilizio Nova Vida prevede anche la fine degli sgomberi forzati senza preavviso e delle demolizioni nottetempo che venivano effettuate per fare posto ad appartamenti di lusso. L’annuncio è da prendere con le dovute precauzioni.

16 giugno, Svizzera

La Conferenza internazionale del lavoro (Ilo) adotta una “Convenzione sulle lavoratrici e i lavoratori domestici” per proteggere milioni di persone che si prendono cura delle famiglie e delle loro abitazioni in tutto il mondo. Le nuove norme stabiliscono che i lavoratori domestici hanno gli stessi diritti fondamentali riconosciuti alle altre categorie: orari di lavoro ragionevoli, riposo settimanale di almeno 24 ore consecutive, un limite ai pagamenti in natura, informazioni chiare sui termini e le condizioni di impiego, nonché il rispetto dei principi e dei diritti fondamentali nel lavoro, fra cui la libertà di associazione e il diritto alla contrattazione collettiva. Si calcola che nel mondo ci siano oltre cento milioni di lavoratori domestici, anche se le cifre ufficiali parlano di 53 milioni. Le donne superano l’80 per cento del totale.

16 giugno, Arabia

Forse gli “unicorni” arabi si salvano dall’estinzione. L’antilope Oryx, che si crede abbia fatto nascere la leggenda dell’unicorno per via della strana forma delle sue corna, stava scomparendo dalla penisola arabica. Dopo trent’anni di ripopolamento con individui nati in cattività, il numero di esemplari ha raggiunto quota mille. Lo annuncia la International Union for Conservation of Nature che, nel 1982, dopo l’uccisione dell’ultimo Oryx selvatico negli anni Settanta, diede il via al progetto di salvataggio.

20 giugno, Pakistan

Piante che resistono al sale potrebbero essere la soluzione per combattere la desertificazione, nutrire il bestiame e produrre biocarburante. Secondo il professor M. Ajmal Khan, dell’Università di Karachi, questo tipo di pianta può essere coltivato e poi fatto fermentare, creando così alcol utilizzabile come biocarburante e riducendo la necessità di combustibili fossili che contribuiscono al riscaldamento globale. Il suolo della valle dell’Indo sta subendo da almeno un secolo un processo di degenerazione, dovuto anche ai sistemi di irrigazione, che provoca sia la stagnazione dell’acqua sia la sua crescente salinità. Secondo il ministero dell’Alimentazione, dell’Agricoltura e del Bestiame pachistano, negli ultimi anni sono andati perduti così circa sei milioni di ettari di terra coltivabile (il 40 per cento del totale) a cui, ogni anno, se ne aggiungono altri quarantamila. L’acqua stagnante e salmastra è, a detta di molti esperti, il problema ambientale più grave che il Pakistan si trova ad affrontare.


22 giugno, Medio Oriente e Nord Africa

Nasce la rete satellitare che permette di monitorare lo stato dei corsi d’acqua. Il progetto dovrebbe riguardare Egitto, Libano, Giordania, Tunisia e Marocco. Un sistema di satelliti controllerà non solo il livello delle acque di fiumi e laghi, ma anche l’umidità al suolo e l’avvicinarsi di precipitazioni. Saranno monitorati anche i processi di urbanizzazione, per comprendere il bisogno di approvvigionamento idrico in una data area. Un’immagine in tempo reale può permettere di intervenire tempestivamente. A promuovere e finanziare il progetto è stato il Global Environment Facility, che l’ha poi sottoposto all’approvazione della Banca mondiale.

23 giugno, Perù

Il Machu Picchu non è in pericolo. Lo sostiene l’Unesco, che ha deciso di non inserire la cittadella inca, orgoglio turistico del Perù, nella lista nera del patrimonio culturale a rischio scomparsa. Tuttavia, l’organizzazione delle Nazioni Unite raccomanda al governo del Paese sudamericano di vigilare sul pericolo maggiore per Machu Picchu: gli accessi di visitatori, che si aggirano sugli ottocentomila all’anno e che stanno aumentando in occasione del centenario della sua scoperta, il 7 luglio.

24 giugno, Tanzania

Cestinato il progetto di costruire una superstrada asfaltata attraverso il parco nazionale del Serengeti, che avrebbe dovuto collegare il lago Vittoria ai porti dell’oceano Indiano. L’arteria a due corsie avrebbe costituito un rischio per la sopravvivenza di gnu e zebre, che compiono le loro migrazioni proprio in quell’area. Il governo tanzanese conferma che la strada resterà di terra battuta e ghiaia, e continuerà a essere utilizzata soprattutto per scopi amministrativi e turistici. Uno studio aveva precedentemente rivelato che la costruzione della superstrada avrebbe ridotto il numero degli gnu di circa 300mila esemplari (attualmente sono un milione e 300mila).

28 giugno, Italia

A Milano tre lavoratrici cinesi si ribellano e denunciano i loro sfruttatori. Tutte tra i 44 e i 49 anni, lavoravano diciassette ore al giorno e dormivano nello stesso laboratorio nella zona di via Padova. Cucivano foulard. Si sono presentate ai carabinieri e hanno denunciato le condizioni di totale sfruttamento in cui versavano dopo avere accettato il lavoro trovato tramite un’inserzione su un giornale della comunità cinese di Milano.

5 luglio, Italia

Per la prima volta dal dopoguerra calano gli infortuni sul lavoro e le morti bianche, scese sotto quota mille. Sono state 980 nel 2010, secondo il Rapporto annuale dell’Inail, 73 in meno dello scorso anno. Anche gli infortuni diminuiscono, di un 1,9 percento che li porta poco sopra i 775mila casi. II Paese si avvicina così alla media europea che, secondo gli ultimi dati disponibili, relativi al 2007, è di 2,1 decessi ogni centomila occupati (2,5 morti italiani). Aumentano tuttavia gli episodi che riguardano le donne (con un più 0,4 percento degli infortuni e un più 9,7 percento dei decessi, 79 in totale) e gli immigrati (con gli infortuni in crescita dello 0,8 percento fino a 120.135 casi).

6 luglio, Stati Uniti

26 giugno, Italia

Il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda, si mette in fila come un normale cittadino e si compra di tasca sua l’abbonamento alla stagione estiva del Teatro lirico della città che amministra. L’evento trapela e fa notizia.

La comunità gay americana avrà il suo spazio nei libri di storia della California. L’assemblea dello Stato ha infatti deliberato una legge che prevede l’insegnamento del “ruolo e del contributo” apportato alla società americana dalla comunità gay, lesbica e omosessuale. «La nostra popolazione deve essere essere rappresentata a prescindere da razza, colore o orientamento sessuale in modo positivo nei libri di testo», ha dichiarato Joan Buchanan, un’ex insegnante che ha presentato il testo per i Democratici.

27 giugno, Bolivia

6 luglio, Italia

Promuovere la biodiversità e garantire a tutti sicurezza alimentare. Questo lo scopo della nuova legge firmata dal presidente boliviano Evo Morales che impone la produzione statale di sementi e fertilizzanti. Prima la Bolivia era praticamente costretta a importare dall’estero semi e fertilizzanti. La novità consentirà lo sviluppo delle comunità agricole del Paese e, grazie alla produzione interna di semi, la tutela di tutti quei prodotti che hanno una tipicità boliviana. In questo modo in Bolivia si potrebbe arrivare ben presto a un regime di assoluta autosufficienza alimentare.

Il Comune di Milano si è costituito parte civile nel processo per il sequestro e l’omicidio di Lea Garofalo, la donna originaria di Petilia Policastro (Kr) sciolta in cinquanta chili di acido dall’ex compagno, un affiliato alla ’ndrangheta, come punizione per la sua collaborazione con la giustizia. Una decisione che il sindaco Giuliano Pisapia ha accolto «con soddisfazione». «Si tratta della prima volta – ha detto Pisapia – che il Comune viene ammesso quale parte civile in un processo per reati legati alla presenza delle mafie».

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Conversazione con Massimo Bottura di

Raethia Corsini

foto

Francesco Cito


La storia in pentola


È tappezzato di ricordi e attestati il laboratorio di Massimo Bottura, lo chef migliore del mondo. Nel cuore di Modena, nella sua Osteria Francescana, tra distillatori, alambicchi e coltelli di ogni foggia, decine di riconoscimenti internazionali convivono con un gigantesco quadro dedicato a Radio Londra e a molte foto di vita. Altri tempi: lui su una spiaggia, con lo zaino, le dita a formare la V di vittoria e la scritta Peace and Love; con Lara, la sua brillante moglie newyorkese, in barca sul fiume Panaro con i pescatori o in una foto di gruppo con i più grandi chef del pianeta.

Bottura racconta di sé, mentre fa la spola con la cucina, dove lo staff è al lavoro; risponde al telefono, si muove rapido e affabula. Pensieri e parole fluiscono in un marcato accento modenese. «Il cibo per me è un viaggio del palato, come la musica lo è dell’anima. Quello che metto in tavola è espressione delle mie passioni e del ritmo che le accompagna. Mi piacciono il rock e il jazz: ho iniziato ad ascoltare musica a sette anni, con il country rock degli Eagles, quelli di Hotel California e con il southern rock dei Lynyrd Skynyrd e poi Johnny Cash, Bob Dylan, Jackson Browne e Lou Reed. Per un po’ ho anche suonato la batteria in una band. Come l’arte, la musica è una mia grande passione: ho una collezione di diecimila long playing a casa. Dopo andiamo a vederli». Viste le sue passioni perché ha fatto il cuoco? «Per caso, ma mi è sempre piaciuto il buon cibo. Erano gli anni Ottanta, avevo passato vent’anni da un po’. Ero iscritto a Giurisprudenza per poi lavorare,

come gli altri miei fratelli, nell’impresa di papà, imprenditore nel settore gasoli e derivati. Alla fine ho lasciato il posto sicuro per inseguire un’idea di libertà. Ho trovato una trattoria da gestire e ho avuto la fortuna di incontrare Lidia Cristoni, una vera rezdora emiliana, la mia maestra. Osservandola ho imparato i fondamentali e ho iniziato». E oggi è il migliore chef del mondo. Come si arriva a un risultato del genere? «Questo è un premio anche all’Italia, che produce eccellenza. Per quanto mi riguarda il 10 per cento è talento e il 90 per cento duro lavoro, come diceva Picasso. Tutti i giorni sul pezzo, insomma. E forza d’animo nei momenti di crisi». È vero che nel 2000 stava per chiudere? «Ho aperto l’Osteria Francescana a metà anni Novanta, ma dicevano che facevo cose snob. Nel 2000 mi venne


offerto un contratto a Londra e avevo deciso di andarci. Mi ha fermato mia moglie Lara, dicendomi che mi sarei pentito, perché affermarsi nel proprio Paese è il vero desiderio di tutti. Aveva ragione lei». Qualche mese fa infatti il Comune di Modena l’ha incoronato, con medaglia d’oro, grande ambasciatore della città e delle sue eccellenze nel mondo. «La cosa che mi ha emozionato di più è stato vedere maggioranza (che qui è centrosinistra) e opposizione insieme in piedi ad applaudirmi. Poi ho sentito il capo dell’opposizione dire: è l’unico emendamento che abbiamo votato insieme con il sindaco. È la prima volta che un Comune dà una medaglia a un cuoco, è il segno di un grande cambiamento». In che senso? «Il cibo non è solo espressione del piacere di vivere, ma anche della cultura e dell’economia di un Paese. Forse anche da noi si comincia a riconoscere il ruolo culturale di chi fa il mio lavoro». Che però può essere apprezzato da pochi, visti i prezzi dei vostri menu. «In Francia le famiglie risparmiano per andare almeno una volta l’anno a teatro, a una mostra, a un concerto o a cena in un grande ristorante scegliendolo, magari, dopo aver assaggiato un piatto a prezzo basso nel bistrot

del medesimo chef blasonato. Se uno preferisce invece comprarsi otto cellulari, beh, è questione di priorità». Anche lei ha aperto un bistrot, La Franceschetta. «Sì, ma funziona meno del ristorante. Offre qualità, ma non è un posto di moda e la gente, specie i più giovani, preferisce andare dove vanno tutti. Comunque un menu di alta gastronomia costa molto, ma produce un “bene” che, per esempio alla Francescana, fa lavorare venti persone e sposta i riflettori sui piccoli produttori che fanno le cose migliori. Ed è proprio lo stretto contatto con loro – sempre in bilico perché strozzati dalla grande distribuzione – che fa la differenza e rende etico il piatto». Etico, in che senso? «Prendiamo Mucche al pascolo, il mio omaggio alla primavera: la panna utilizzata è del latte della Bianca modenese, una razza vaccina fino a dieci anni fa in estinzione. Con i casari e l’assessore alle Politiche agricole abbiamo cercato di creare il presidio perché la Bianca produce meno latte delle altre razze (quattro litri invece di dieci) ma è il migliore di tutti. Tanto è vero che fino agli anni

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Vita da chef

Nasce a Modena il 30 settembre 1962. Alla fine degli anni Ottanta rileva Il Campazzo, una trattoria a Nonantola dove affianca Lidia Cristoni, cuoca d’esperienza tradizionale. Poi l’incontro con Georges Cogny, chef blasonato dell’Osteria del Teatro di Parma, gli conferma che i fornelli sono la sua strada. Nel 1992 frequenta il Louis XV a Montecarlo di Alain Ducasse, guru dell’alta gastronomia mondiale. Nel 1993 Bottura vola a New York, dà nuova linfa alla sua formazione professionale e incontra Lara, sua moglie. Nel 1996 apre il suo primo ristorante: l’Osteria Francescana. Lì inizia a sperimentare una cucina più creativa, poco compresa e poi snobbata. Nel 2000 pensa perfino di ritirarsi. Gli eventi però cambiano le carte in tavola e Bottura resta, dando vita a quella che lui definisce “cucina informale”: rielaborazione dei piatti e delle materie prime tradizionali, proposte in una forma nuova. Ha scritto tre libri: Aceto balsamico; Parmigiano Reggiano e PRO. Attraverso tradizione e innovazione.


Sessanta era usato solo per fare il parmigiano. La Bianca è stata abbandonata in nome del mercato che chiedeva quantità. Averne fatto un presidio, significa aver perseguito l’etica del prodotto, che è parte imprescindibile del lavoro di un cuoco contemporaneo. Il risultato è culturale, non economico: la cassa non la facciamo con i ventotto commensali che mangiano Mucche al pascolo. Per far tornare i conti, dobbiamo andare in giro per il mondo a tenere corsi, stage e organizzare eventi». Quanto tempo dedica al suo lavoro? «Di notte immagino i piatti. Torno a casa tardi, mi metto davanti alla tv e mi rilasso con programmi scemi. Pulisco la testa e vengono le idee. Anche la musica mi ispira molto. Di giorno, se non devo volare da qualche parte per convegni e lezioni, seguo il ristorante, incontro giornalisti e produttori e poi sperimento le idee della notte o quelle che mi sono venute durante un viaggio, oppure parlando con i pescatori, i contadini, gli anziani, i detenuti». Detenuti? «Tra le attività che seguo, c’è il progetto Cene Galeotte organizzato ogni anno nel carcere di Volterra: sotto la direzione di chef diversi, i reclusi preparano una cena per il pubblico. È formazione-lavoro, ma anche rieducazione e relazione con l’altro. Sono appena stato padrino del corso di ristorazione per i detenuti del carcere di Reggio Emilia, che, dopo un esame pratico, hanno conseguito un attestato di qualifica valido per l’inserimento lavorativo una volta in libertà. Lo faccio perché ci credo, mi sento utile e mi arricchisce. Quando arriva la sera però mi accorgo che il tempo è finito e ci sono ancora un mucchio di cose da fare e allora si ricomincia…».

“Il tempo torna” come c’è scritto sull’orologio che ha appeso alla parete. «È così e da una parte rassicura: c’è tempo anche domani. Ma significa anche che il passato non si può buttare, torna a ricordarci chi siamo stati, cosa non dovremmo più essere e cosa possiamo diventare. Si dice sempre “una volta” sottintendendo che era meglio, ma non è vero. Una volta si moriva prima e si mangiava peggio. Il tempo torna perché si possa imparare a guardarlo in chiave critica, prendere il meglio del passato e portarlo nel futuro. È ciò che faccio nel mio lavoro e la Bianca è un esempio, ma potrei citare anche i passatelli». Cioè? «I passatelli sono nati da un uovo, uno solo diviso per una famiglia intera, e da briciole di pane raccolte sul tavolo, pane secco avanzato e croste di parmigiano. Il passatello mi parla di un’epoca, da cui tutti veniamo, perché quelli dell’uovo e delle briciole erano i nostri nonni. La conoscenza della storia del territorio, che è prima di tutto storia della cucina, diventa un insegnamento. Quindi se propongo oggi il passatello è per raccontare quella storia. Per catturare l’attenzione dei contemporanei, però, serve uno stile dell’oggi. La costruzione del piatto passa prima dal pensiero, dalla tua conoscenza, da quello che hai studiato, come ripeto sempre ai ragazzi che pensano che fare lo chef sia una moda da show. Poi però un cuoco deve rispondere a due leggi: quella di Slow Food – il bello, il buono e il giusto/etico – e il decalogo scientifico dell’Artusi, più che attuale nelle tecniche e nelle invenzioni». Lei è noto anche per l’uso della cucina molecolare. «Le tecniche in cucina sono sempre esistite. La molecolare studia le trasformazioni degli alimenti. Osservare,

“Se propongo i passatelli è per raccontare dei miei nonni, di briciole di pane, di un uovo diviso per un’intera famiglia”


Nell’Olimpo Chef migliore del mondo 2011: Académie Internationale de la Gastronomie, riservato ai migliori cuochi del pianeta Medaglia d’oro del Comune di Modena 2011: Grande ambasciatore della città di Modena e delle sue eccellenze nel mondo Due stelle Michelin (la prima nel 2002, la seconda dal 2006) 50 World’s Best Restaurants 2011: quarto migliore ristorante del mondo e il migliore tra gli italiani Guida Touring 2010: 91/100. Migliore ristorante Andrew Harper Hideaway Report: Ristorante dell’anno 2010 19,75/20 Guida L’Espresso 2010: punteggio più alto di sempre Piatto dell’anno RepubblicaL’Espresso: Zuppa di aglio e lumache (2008) Tre forchette Gambero Rosso dal 2007 Tre stelle Guida Veronelli, 2005 Premio Gambero Rosso, 2002

conoscere le reazioni della materia prima, ci permette di intervenire per mantenere le proprietà nutrizionali, esaltare il sapore e la consistenza». Lei però inventa ancora pietanze strane… «Fino a dieci anni fa era in atto una rivoluzione e serviva creare piatti d’artificio. Ora si è passati ad altro: le tecniche servono a rendere contemporanei i piatti antichi. A me piace immaginare, in forma e chiave diversa, cose che altri non vedono, è uno stimolo che sento fin da piccolo. Ma non invento tanto per inventare: ogni creazione deve essere buona al palato, bella da vedere e, mi ripeto, etica». Quanto spreco c’è in questo sperimentare in cucina? «Tanto, ma viene recuperato nei pasti per noi del personale. Ora stiamo facendo una ricerca sui tagliolini: farina reidratata con impasto di tuorlo e poco bianco, distribuita a spruzzo per avere il tagliolino perfetto, senza grumi. Finché non si raggiunge l’obiettivo li mangiamo noi. E ancora: il parmigiano reggiano per il ristorante, lo grattugiamo fino a tre quarti della forma, il quarto finale è per noi. Nel bollito misto non bollito, creato a forma di cubi mignon, fatti solo con il cuore della lingua, del cotechino, della testina, lo scarto esterno diventa ragù per il personale». Quando un piatto è perfetto? E come fa a sapere se piacerà o meno? «Questione di equilibri. Li ho imparati dalle mie maestre: oltre Lidia Cristoni, mia nonna e mia mamma. Ai fornelli mi sono rimasti mano e palato femminili. Se seguo lo spartito delle mie maestre quel che faccio va a segno. Ho conquistato anche Lou Reed, che voleva solo una fettina di vitello e insalata».

Invece cosa ha mangiato? «È tornato tre volte, ha assaggiato tutto, mi ha regalato un pass di accesso al palco per il suo concerto e ha organizzato un post-spettacolo a base di birra. Alla fine cantavamo insieme. Quando avevo vent’anni una cosa così la sognavo. Ora ho i suoi dischi autografati. Andiamo a casa a vederli». Da ragazzo Bottura, per racimolare soldi, registrava le cassette con le compilation musicali e le vendeva agli amici. Oggi dall’hi-fi della sua auto parte a tutto volume una Billie Holiday d’annata. «Come lei nessun’altra», commenta. A casa sua, l’icona del jazz ritorna in una preziosa raccolta di registrazioni originali rimasterizzate in Giappone: «Sono dieci dischi dal ’46 al ’59 comprati da un collezionista a New York», spiega fiero estraendo il cofanetto da una libreria che copre l’intera parete della stanza della musica, dove sono riposti i diecimila long playing. Uno più, uno meno. Mostra qualche copertina, poi si sposta sotto il lampadario: «È fatto con i biglietti e le dediche che mi hanno mandato persone amiche, che stimo», dice spulciando i fogli appesi: «Questo è un thank a lot di Lou Reed; questo un ricordo di Mario Dellavedova; Carlo Petrini scrive per ringraziarmi; congratulazioni da Walter Veltroni». Come vede la situazione italiana? In un momento così difficile abbiamo bisogno di gente che stia unita. Se non arriva un Obama non si va da nessuna parte. Abbiamo perso la borghesia, o meglio

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I piatti culto

quella nuova è ignorante e in Italia, peraltro anche all’estero, non si producono più cose di rilievo. Da Memorie di un panino e Bologna noi però “merito” è diventata una parolaccia. Adesso Cinque età del Parmigiano Reggiano in diverse consistenze ve ne racconto una». e temperature Zuppa inglese caldo e freddo Bollito misto non bollito Compressione di pasta e fagioli Tortellini con la panna Magnum di foie gras

Che cosa? «Oggi in Italia c’è un gruppo di cuochi che si rispetta. È finita l’invidia pericolosa degli anni Ottanta. Siamo diversi, ma ci riconosciamo l’un l’altro i meriti. Trent’anni fa Paul Bocuse ha detto che l’egemonia francese nella gastronomia sarebbe finita quando gli chef italiani si fossero accorti dell’enorme patrimonio in materie prime e tradizione che possediamo. È arrivata l’ora. Noi tutti ci impegniamo per un territorio, per fare sistema. Io dico: basterebbe un piccolo passo di ciascuno per generare un mondo più etico, ma siamo arrivati al punto che il modello di unità nazionale è un gruppo di chef che dà lustro al Paese».

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Tarallucci e vino… «Viene da ridere, eh? Eppure noi cuochi stiamo rappresentando la parte migliore dell’Italia: siamo vicini ai pescatori, ai contadini, ai piccoli artigiani e agricoltori, il tessuto produttivo su cui vive da almeno 150 anni la nostra nazione. La cultura del cibo è la storia del territorio. Nel nostro piccolo facciamo questo. La nostra parte». A ognuno la sua. «Appunto. Vi fermate a mangiare?». S’è fatto tardi, la prossima volta... «Vi faccio preparare dei panini con la mortadella: oh, ma questa è fatta come nel Medioevo, cotta all’interno della vescica naturale del maiale».

B



Il web 40


di

Simone Pieranni

foto Flore-Ael Surun [tendance floue/luz]

Cerco informazioni su Baidu. Google? E cos’è? Non lo so più, ormai uso il motore di ricerca cinese. Filtrato, censurato, ma ideale per scandagliare materiale in mandarino. Devo trovare un sito per prenotare un volo on line. Expedia? Non scherziamo. La mia ricerca inizia da un social network locale, il modo migliore per ascoltare i pareri di amici e avere la dritta giusta. Facebook? Per carità, troppo occidentale e ormai rifugio del gossip imperialista. Meglio Caixin, o RenRen: scelgo quest’ultimo, fresco di quotazione in Borsa. Su quella piattaforma ho parecchi amici, chiedo e trovo qualche consiglio interessante. Su RenRen, non solo posso mandare messaggi, ma posso anche scrivere testi, chiedere amicizia e perfino sussurrare (nel caso fossi timido, s’intende). Uno dei miei amici, Liu, ha anche un Twitter. Nel senso di Weibo, la piattaforma di microblog di sina.com. Ci sono milioni di cinesi, mica come su Twitter dove ci sono solo quelli che parlano in inglese. Su Weibo ci sono i cinesi, quelli veri, normali. Liu, il mio amico, mi manda un messaggio privato. Su Weibo, peraltro, posso anche vedere tutto il pregresso dei commenti, altro che i tweet. Mi consiglia di andare su Taobao: il mercato virtuale cinese. Trovo di tutto, piccoli negozi e offerte speciali: un eBay all’ennesima potenza. Ci sono delle ottime offerte economiche per viaggi nella Cina profonda: i biglietti te li portano a casa. Su Taobao scopro un negozio che sembra fare al caso mio. Lo segno e torno su Weibo: chiedo ai miei followers un parere. Positivo: il low cost in Cina si chiama qunar.com (letteralmente, “dove vai” in pechinese, con la erre ben arrotata). Entro nel sito: ci sono talmente tanti link, gadget, widget, che fatico un po’ a orientarmi, voglio capire meglio come funziona, perché non capisco bene come si fa a prenotare. «No problem», mi dicono via QQ (Skype? E perché mai?), il sistema di messaggistica istantanea cinese, quelli del servizio clienti di qunar.com, «Ti aiutiamo noi». E mi mandano un video di Youku. Ancora con YouTube? Su Youku ci sono anche i film, interi, dico. Trovo il video, che mi spiega con precisione i passaggi da compiere. Prenoto il biglietto: me lo portano a casa, ovviamente. Torno su Youku, mi guardo un documentario di 50 minuti sul Vietnam: andrò lì. Potrò twittare e usare Facebook, penso improvvisamente. Si tratta di un sentimento che dura come un ghiacciolo nel deserto: ormai sono “armonizzato”.

armonioso


La via cinese 2.0

“Armonia” è il mantra dell’attuale dirigenza al potere in Cina. Armonia sociale, ma anche “armonizzazione”, termine con cui si indica la censura in internet. Quando un sito viene chiuso in Cina si dice sia stato armonizzato. La rete più nota al mondo per la censura, quella cinese, si basa interamente sul concetto di armonia: è armoniosa nel senso che rispetta i canoni voluti dai governanti cinesi rispetto a cosa si può e cosa non si può fare; è armoniosa nel senso che viene costantemente modificata, corretta, censurata. La capacità del Partito comunista cinese, però, è quella di avere sempre il polso della situazione sociale sotto stretto controllo. Ecco allora nascere, nel tempo, una rete internet che si è sviluppata in assenza di quei social network e metodologie di comunicazione on line, che invece sono stati il segno distintivo dello sviluppo internet occidentale. In Cina, YouTube, Facebook, Twitter non funzionano, sono censurati. Ci si può accedere, grazie a Vpn, Virtual Private Network, ma è

una fatica, che ha pure un costo (otto dollari al mese) e soprattutto ai cinesi non interessa. Il web che hanno saputo creare le autorità è un mondo con caratteristiche cinesi. È un universo che gli abitanti dell'Impero di mezzo (480 milioni la popolazione cinese connessa alla rete) preferiscono al nostro: ci stanno meglio, lo trovano più consono alle proprie peculiarità sociali, ritengono sia disegnato su misura per loro e i loro interessi (svago, giochi, download, chiacchiere on line). Del resto si può fare di tutto. E l’internet cinese armonioso ha creato dei casi di successo divenuti ormai simbolo della nuovissima Cina, come per esempio Baidu e RenRen, rispettivamente il Google e il Facebook cinese. Due storie di cui sentiremo parlare presto anche in Occidente.

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possibilità», racconterà in seguito. Dopo un’esperienza nel team tecnico del Wall Street Journal, nel 1996 realizza un software per la ricerca di informazioni online, che chiamerà Link Analysis: si trattava di un motore di ricerca che decideva la popolarità di un link, sulla base di quante volte era citato da altri siti. Qualcosa di molto simile al più noto algoritmo di Google. Robin Li capisce di avere tra le mani qualcosa di strepitoso, ed ecco che Eric Xu lo avvicina ad ambienti carichi di soldi. Il primo finanziamento è di un milione 200mila dollari dalla Integrity Partners and Peninsula Capital. Robin Li prende i soldi e torna in Cina. Come narra la leggenda, in un albergo a tre stelle di Pechino fonda Baidu, il cui nome riprende un verso di una poesia di epoca Song. Nel settembre 2000, altri due venture capital finanziano il progetto, si tratta della Draper Fisher Jurvetson e la IDG Technology Venture. Nell’agosto 2005, l’ingresso trionfale al Nasdaq e la conferma di essere il numero uno in Cina. Nell’Impero di mezzo, Google insegue.

RenRen

Baidu

Nel 1998 durante un picnic nell’ambiente un po’ freak della Silicon Valley. Eric Xu, 34 anni, biochimico, presenta a John Wu, chief architect del motore di ricerca di Yahoo!, un certo Li Yanghong, aka Robin Li. Quest’ultimo, 30 anni, all’epoca è un tecnico frustrato di Infoseek, un motore di ricerca parzialmente controllato dalla Disney. Si tratta di un incontro importante per Robin Li, perché Eric Xu è uno che ha gli agganci giusti. Robin Li, da parte sua, pensa di avere un tesoro tra le mani. Nato nel 1968 a Yangquan, nella povera regione dello Shanxi, è il quarto di cinque fratelli di una famiglia di contadini. Cresciuto durante la Rivoluzione culturale, riesce ad accedere al corso di laurea all’Università di Pechino. Dopo il 1989 e la tragica fine delle proteste di piazza a Pechino, ci pensa un po’ e decide che in Cina non esistono possibilità imprenditoriali. Il suo Paese gli appariva depresso e senza speranza. Inizia l’invio di curriculum negli States: lo prendono al Suny, l’Università di Buffalo, «l’unica che mi diede una

Fondato da quattro studenti cinesi tornati in patria dopo l’esperienza nei campus statunitensi, RenRen, dopo essere stato per breve tempo un semplice clone di Facebook, ha ormai caratteristiche proprie. Non solo, perché RenRen ha bruciato proprio Facebook nella corsa a Wall Street: il social network cinese ha infatti ottenuto una storica quotazione in Borsa, giunta nel momento in cui voci provenienti da ambienti tecnologici davano per certo l’accordo tra Baidu e Facebook per la creazione di un progetto capace di fare sbarcare Zuckerberg in Cina. Accade così l’inaspettato: mentre il mondo si chiede quando Facebook arriverà in Oriente, ecco che i social network cinesi piombano in Occidente. Nel 2005 RenRen nasce con il nome di Xiaonei (“dentro al campus”) e si sviluppa con lo stesso spirito del Facebook descritto dal film The Social Network: dotare gli studenti di un sistema di interazione basato su una socialità online, in grado di creare fenomeni di community virtuale. L’idea funziona e arriva il primo investitore, il gruppo Oak Pacific Interactive con a capo Joe Chen, un altro dei tanti cinesi di ritorno da una laurea a Stanford e un master al Mit. Nel 2009 si decide di cambiare il nome: Xiaonei diventa RenRen, letteralmente “tutti” a testimoniare un passaggio su più ampia scala da parte dei suoi ideatori. Gli advisor per l’entrata in borsa di RenRen sono stati Deutsche Bank, Morgan Stanley e Credit Suisse, a testimonianza di un’attenzione ormai mondiale. Non si tratta del resto solo di un evento economico: lo scacco a Facebook realizzato dalla società cinese, va incontro al progetto di soft power, più volte espresso dal governo di Pechino. La potenza economica cinese ormai tenta di oltrepassare i propri confini, portando all’estero non più e non solo la produzione a basso costo, ma anche i prodotti ad alta qualità tecnologica insieme a innovazioni destinate a cambiare gli equilibri dell’intero mercato globale. La Cina come “fabbrica del mondo” è un’idea già in soffitta, per un passaggio epocale di cui RenRen e Baidu sono i primi tasselli.

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L’Italia è una Repubblica a cura di

7 giugno, Caccamo (Mc)

16 giugno, Cellore d’Illasi (Vr)

8 giugno, Milano

16 giugno, Villa Potenza (Mc)

Francesca Scardaoni, avvocato di 35 anni, è morta in un incidente stradale mentre stava tornando a casa dal suo studio. Rientrava a casa dal lavoro: Pietro Mazzara, autotrasportatore di 28 anni, è stato investito e ucciso da un’auto.

9 giugno, Oratino (Cb)

Michele Di Nunzio, agricoltore di 81 anni, ha perso la vita in seguito al ribaltamento del trattore su cui stava lavorando.

9 giugno, Liscia (Ch)

Un agricoltore stava lavorando nei campi, quando il suo trattore si è rovesciato e lo ha ucciso. Aveva 79 anni.

9 giugno, Castel d’Aiano (Bo) L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra il 7 giugno e il 7 luglio. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.

Un uomo di 50 anni, titolare di un’azienda agricola, stava lavorando in un fienile quando è stato schiacciato da una balla di fieno di alcuni quintali.

10 giugno, Rho (Mi)

È rimasto coinvolto in un incidente stradale mentre tornava dal lavoro. Così è morto Fabio Guerini Rocco, 35 anni, alla guida del proprio scooter.

11 giugno, Gravina (Ba)

Antonio Vitulli, carabiniere di 31 anni, aveva appena terminato il turno di servizio e stava tornando a casa. È morto in un incidente stradale.

12 giugno, Castelleone di Suasa (An)

Faceva l’operaio, è stato travolto da una balla di fieno mentre lavorava in cantiere. Si chiamava Carlo Aguzzi, 62 anni.

14 giugno, Veglie (Le)

Umberto Zambaldo, 59 anni, stava lavorando in un campo, quando è caduto dal trattore che lo ha schiacciato. Lavorava in un impianto di macellazione. Si trovava su un rimorchio quando ha perso l’equilibrio, è caduto e ha battuto la testa. Si chiamava Fabio Mandolesi, aveva 55 anni.

16 giugno, Civitanova Marche (Mc)

Silvio Centioni, agricoltore di 70 anni, ha perso la vita nei campi: il trattore si è ribaltato su un tratto inclinato.

17 giugno, Capo di Ponte (Bs)

Stava scaricando dal camion alcune barre di ferro in un cantiere dell’Anas. È stato travolto dal materiale che lo ha colpito al capo. La vittima è Sina Vebe, di 45 anni.

17 giugno, Gussago (Bs)

L’agricoltore Giuseppe Zanotti, 72 anni, è stato travolto dal proprio trattore.

17 giugno, Torrazza Piemonte (To)

Un artigiano edile, Roberto Salono di 45 anni, è precipitato dal tetto dell’edificio che stava ristrutturando.

18 giugno, Avezzano (Aq)

Claudio Canestraro, operaio di 42 anni, è stato schiacciato da un macchinario all’interno dell’azienda Presider.

18 giugno, Ischia di Castro (Vt)

Un altro agricoltore schiacciato dal proprio trattore: Fabio Sebastiani, di 62 anni.

20 giugno, Sacile (Pn)

Il 61enne Pasquale Arnesan, colpito dal braccio di una gru sganciato dal supporto, è morto dopo 25 giorni in ospedale.

Stava lavorando sul tetto di un capannone ed è caduto da un’altezza di circa sei metri. Si chiamava Valter Zaccarin, pittore edile di 43 anni.

Paolo Pezzo, bracciante di 58 anni, è stato risucchiato da una macchina imballatrice per il fieno.

Operaio di 46 anni, Angelo Perrotta è precipitato dal secondo piano di una palazzina in costruzione.

14 giugno, Sant’Onofrio (Vv)

15 giugno, Quartu Sant’Elena (Ca)

Un carrozziere è stato urtato da un autocarro mentre andava al lavoro in moto. Si chiamava Gianluca Zedda, aveva 33 anni.

15 giugno, Valdaora (Bz)

Paul Steiner, 67 anni, stava lavorando nei campi. Il suo trattore si è ribaltato e lo ha schiacciato.

15 giugno, Livorno

Si stava recando al lavoro in moto, quando si è schiantato contro un autobus. La vittima è Moreno Istroni, 46 anni.

16 giugno, Puglianello (Bn)

Imprenditore di 32 anni, Antonio Raucci è stato colpito dalla molla di un mezzo agricolo. È morto dopo due mesi di ricovero.

16 giugno, Rimini

Fabio Gianoli, operaio di 54 anni, è morto in un incidente stradale nel tragitto tra casa e lavoro.

16 giugno, Pescara

È stato travolto dall’esplosione di una cisterna. Così ha perso la vita Gabriel Babici, operaio romeno di 20 anni.

20 giugno, Caserta

20 giugno, Caronia (Me)

È caduto da un’impalcatura mentre tinteggiava un palazzo in costruzione. Si chiamava Enzo Sapienza, operaio di 51 anni.

21 giugno, Adria (Ro)

Stefano Amà era un agricoltore di 52 anni. È stato stritolato da una macchina imballatrice per il fieno.

21 giugno, Mesagne (Br)

È stato sbalzato da una trebbiatrice ed è finito sotto le sue ruote. Così ha perso la vita Cosimo Semeraro, 57 anni.

22 giugno, Eboli (Sa)

Un odontotecnico di 41 anni è morto in un incidente stradale scontrandosi con una betoniera.

23 giugno, Livorno

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Domenico Papalini, operaio di 67 anni, è precipitato mentre stava effettuando lavori sul tetto di una palazzina.


fondata sul lavoro 23 giugno, Calatabiano (Ct)

1 luglio, Castrocielo (Fr)

25 giugno, Rolle (Tv)

1 luglio, Montemiletto (Av)

Massimo Aloccia, elicotterista di 37 anni, è precipitato sulle colline del trevigiano dopo che il mezzo ha urtato i cavi dell’elettricità.

26 giugno, Monte San Pietro (Bo)

Stava lavorando sul trattore nel terreno di famiglia. Martina Mazzotti, 21 anni, è caduta in un dirupo di circa 200 metri con il mezzo meccanico.

27 giugno, Porto Santo Stefano (Gr)

Francesco Ubbriaco, 49 anni, si trovava al largo del monte Argentario: è caduto in acqua e annegato mentre stava effettuando una manovra sul suo peschereccio.

27 giugno, Rovigo

Operaio edile di 31 anni, Luca Masin è morto all’interno di un cantiere, schiacciato dall’escavatore che stava manovrando.

27 giugno, Bolzano

Agricoltore di 70 anni, Giovanni di Rollo è stato travolto da una balla di fieno, che si è staccata dal rimorchio del trattore. Francesco Nappi, agricoltore di 50 anni, è morto travolto dal trattore mentre lavorava il suo podere.

1 luglio, Roggiano Gravina (Cs)

Operaio di 49 anni, Leonardo Rugna è caduto dall’impalcatura su cui stava lavorando.

1 luglio, Vicenza

Davide Sellaroli, operaio di 45 anni, è rimasto coinvolto in un incidente stradale sul furgone aziendale. Ha invaso la corsia opposta e si è scontrato con un tir.

2 luglio, Corato (Ba)

Aldo Piccininni, operaio 32enne, è rimasto travolto da tubi d’acciaio all’interno del cantiere in cui lavorava

4 luglio, Brindisi

Operaio di 46 anni, Salvatore Di Latte è rimasto sepolto dalle macerie nel corso dell’esplosione programmata di una cava.

È morto dopo quattro giorni di ricovero: Primo Martin, operaio di 55 anni, era rimasto ferito nel palazzetto dello sport durante i lavori di adeguamento alle norme antincendio.

4 luglio, Monselice (Pd)

Un autotrasportatore di 32 anni era in servizio su una strada statale. È sceso dal camion ed è caduto in un dirupo di circa 10 metri.

4 luglio, Verbania

Vincenzo De Luca, artigiano di 36 anni, è stato travolto da un furgone mentre lavorava sul ciglio di una strada per sostituire una cancellata.

5 luglio, Tradate (Va)

28 giugno, Luino (Va)

Un camion si è ribaltato al casello della A13. L’incidente è costato la vita ad Antonio Marcomin, autotrasportatore di 59 anni.

28 giugno, Scandiano (Re)

Stava effettuando la manutenzione di un parco. Nistor Moisuc, giardiniere romeno 50 anni, è stato colpito dalla puntura di un calabrone che gli ha provocato uno choc anafilattico.

29 giugno, Arezzo

L’operaio 37enne Vincenzo Collaro è caduto dal lucernario su cui stava lavorando.

29 giugno, Civitanova Marche (Mc)

Autotrasportatore di 39 anni, Vincenzo Macrì è morto in un tamponamento tra cinque tir e tre auto avvenuto sulla A12.

29 giugno, Ferrara

Roberto Della Costa, autotrasportatore di 44 anni, è rimasto vittima di un incidente stradale sulla autostrada Bologna-Padova.

30 giugno, Pognano (Bg)

Jan Tomasz Wisniowski, operaio polacco di 25 anni, è stato schiacciato da una lastra di cemento che stava spostando con una gru.

30 giugno, Foggia

Un lavoratore romeno 25enne, Iancu Marin, è stato schiacciato dal trattore su cui stava lavorando a Posta Stifana.

30 giugno, Sparanise (Ce)

È stato travolto dal trattore guidato dal padre. Francesco Rossi, 15 anni, che aiutava il genitore nei lavori dei campi.

1 luglio, Campagnatico (Gr)

Costantino Annoli, 71 anni, è stato schiacciato dal trattore che si è ribaltato nel terreno di sua proprietà.

Massimo Meneghetti, operaio 59enne, è rimasto impigliato in un rullo all’interno della Moplast, azienda in cui lavorava.

5 luglio, Mira (Ve)

L’idraulico 54enne Claudio Bedin è caduto dal tetto dello stabilimento Nuova Pansac, dove era impegnato in lavori di manutenzione.

6 luglio, Palermo

Bruno Biondo, ufficiale 25enne del traghetto Gnv Excellent, è deceduto nel tratto di mare tra Genova e Palermo. È rimasto schiacciato dal portellone antincendio.

6 luglio, Sant’Angelo Lodigiano (Lo)

Un operaio di 56 anni è stato travolto da un macchinario mentre lavorava in una ditta di materiali edili.

7 luglio, Reggio Calabria

Vincenzo Gargiulo, 41 anni, è rimasto folgorato mentre manovrava la gru nel cantiere della A3 Salerno-Reggio Calabria.

7 luglio, Napoli

Antonio Caterino, 22 anni, è morto cadendo dall’impalcatura di un cantiere edile in un palazzo in ristrutturazione. Non aveva documenti di identità. L’hanno riconosciuto i genitori.

60

7 giugno - 7 luglio morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

Un autotrasportatore 43enne, Pierpaolo Romano Di Dio, ha perso il controllo del suo camion finendo in un burrone.


courtesy of Materiali Sonori

La musica di

Luciano Del Sette

Di una città, di una regione, di un Paese del mondo, il viaggiatore che torna a casa porta con sé prima di tutto la forza e il ricordo delle immagini. Non tanto quelle fissate dall’obbiettivo di una macchina fotografica o di una videocamera. Più importanti, destinate a non cancellarsi, sono le immagini fissate nella memoria. Accanto alle immagini c’è il ricordo dei suoni: le voci e gli idiomi della gente, il frastuono urbano, il rumore del mare, i fruscii indefinibili di una foresta, il silenzio mai vuoto di una montagna. E i suoni quando si trasformano in musica. La musica sa restituire allo straniero l’anima e la cultura di un luogo, la storia, i cambiamenti, i conflitti, l’armonia e la contraddizione dei sentimenti. La musica di un luogo è divenuta, nel tempo e soprattutto negli ultimi anni, uno dei souvenir


in valigia più amati e cercati. Ecco, allora, la ragione di questo atlante che E propone ai suoi lettori, guidandoli attraverso itinerari fatti di strumenti, orchestre, bande, accenti, parole, ritmi, generi, tradizioni, incroci e sovrapposizioni. Itinerari che scivolano sulla superficie del pianeta alla scoperta della musica, di ieri e di oggi, meno conosciuta e per questo ancora più sorprendente. È la musica che da noi si trova e si ascolta difficilmente, che non cede alle major discografiche, che si suona ogni giorno nelle strade, che richiama la gente nelle piazze e nei locali di Madrid e Istanbul, Breslavia e Torino, L’Avana e Rio. A ogni racconto corrisponde una playlist di titoli, cui ogni lettore aggiungerà quelli da lui scoperti. Have a nice trip, find a nice song. Fate buon viaggio, trovate buona musica.

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La band degli Staff Benda Bilili è formata da musicisti paraplegici, che vivono intorno all’area dello zoo di Kinshasa (Zaire) e sono maestri nella rumba rock africana, un genere da cui grandi maestri del jazz americano hanno tratto sonorità e ispirazione


Alessandro Albert

Europa

▲ Un

Anche l’indipendenza musicale italiana, quella targata “indie”, è nata a Torino. Subsonica e Mau Mau, tanto per citare, hanno cominciato da qui. Ma sulla scena continuano a entrare nomi di grande qualità. Segnatevi, per esempio, Stefano Amen, che respira Bob Dylan senza mai scimmiottarlo; Giorgio Li Calzi, che dialoga tra jazz ed elettronica con esiti raffinati; Paolo Spaccamonti, la cui maestria alla chitarra emerge in composizioni da ascoltare più volte per coglierne fino in fondo il valore. Poi c’è una voce femminile, quella di Carlot-ta. La ragazza di Vercelli trasferita a Torino compone e canta in diverse lingue ed è capace di variazioni timbriche entusiasmanti. Cade nel 2011, e sempre a Torino, un’altra celebrazione, quella del centenario della morte di Emilio Salgari. I Totò Zingaro hanno reso omaggio allo scrittore con Salgariprivato, miscelando ragtime, esotismi, punk rock. Tenete d’occhio anche Deian e Lorsoglabro. Capirete il consiglio ascoltando Che ci vuoi fare? e I am the tonno. Mezzafemmina, al secolo Gian Luca Conte, ha esordito quest’anno con Storie a bassa audience: brani spiazzanti nei testi e nelle strutture musicali, che raccontano dimenticati, emarginati, operai e cattivi. Infine due “gite fuori porta”. La prima con il poetico Munfrà, nuovo lavoro dei bravi Yo Yo Mundi. La seconda nel mondo occitano dello strepitoso trio Trobairitz d’Oc. Parigi ad agosto è calda e vuota. E allora, rotta verso Marsiglia, sui luoghi di Fabio Montale, il tormentato poliziotto nato dalla penna di Jean-Claude Izzo (edizioni e/o ha appena pubblicato la trilogia dei romanzi in un unico volume). Primo di questi luoghi, il bar des Maraîchers, rue Curiol 101. Al banco regna da decenni Hassan Siahmed. L’ambiente è sempre quello: un bistrot, poca luce, fotografie ai muri. Nelle pagine di Izzo le citazioni musicali sono infinite, e benché si fermino agli anni Novanta (lo scrittore è morto nel ’99) riguardano artisti di altissimo livello, alcuni dei quali continuano la loro carriera. È il caso dei Massilia Sound System, gruppo marsigliese che fa reggae rub-adub giamaicano con parole in occitano. Solea, titolo di un romanzo della trilogia, è un pezzo di Miles Davis, registrato nel ’59 con Gil Evans. Bob Dylan e il disco capolavoro Nashville Skyline, Bob Marley canta Slave Driver, l’algerino Lili Boniche approda a Marsiglia con Alger Alger, Calvin Russell trasmette energia a Montale

dettaglio della copertina di Organum, ultimo album del musicista torinese Giorgio Li Calzi

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grazie alla sua Rockin’ the Republicans, e identico effetto arriva dal repertorio degli ZZ Top. C’è posto anche per il nostro Gianmaria Testa. Izzo cita Ferré, Brassens, Abdullah Ibrahim, Paolo Conte... A voi la scelta: acquistare gli album prima di partire per farne la colonna sonora del viaggio, o acquistarli al ritorno per evocare le sensazioni di una città indimenticabile. Saudade, malinconia, in Portogallo si traduce con fado, musica ben conosciuta in Italia grazie ad Amalia Rodriguez e Dulce Pontes. Ecco, allora, qualche suggerimento di voci che escono dal classico. Bevinda, dalla terra lusitana, se ne va bambina per vivere in Borgogna con la famiglia. Nel ’92 si trasferisce a Parigi, e nel ’95 registra il suo primo album, Fatum, in portoghese. Fino ad allora aveva cantato solo in francese. Compie questa scelta dopo aver ascoltato la morna (il fado capoverdiano) di Cesaria Evora. Dice: «Se dovessi definire la mia musica, direi che canto un world-fado». E poi c’è Mariza, di cui da noi si trova solo Concerto em Lisboa, dal vivo. Curioso l’album dei Madredeus con A Banda Cósmica, (piccola orchestra dalle grandi doti), Castelos na areia, che propone un fado cosmopolita. Chiudiamo con un album di Cesaria Evora, Live, che circola poco sul nostro patrio suolo. Dal Portogallo alla Spagna. La movida di oggi imbarca equipaggi che alzano le vele verso rotte alternative di ogni genere. A Madrid è tornata a vivere nei quartieri di origine, Malasaña e Lavapiés. Ma tutta la Spagna continua a muovere passi sonori. La popolarissima Alaska, oggi Fangoria, difese la causa omosessuale in un Paese ancora troppo cattolico. Il suo Una temporada en el infierno rimane uno dei dieci migliori dischi iberici degli anni Novanta. I Vetusta Morla, banda rock, hanno esordito nel 2008, con l’album Un día en el mundo. Successo di pubblico e critica. Vanno sullo ska mischiato al punk gli Ska-P, nati nel ’94. Il nome deriva dal genere che praticano, e da un gioco di parole: in spagnolo “Ska-P”, pronunciato escape, significa “fuga”. Altri protagonisti dell’indie spagnola sono Los Planetas, da Granada, quindici anni di attività durante i quali mai hanno rinnegato di avere nel flamenco un punto di riferimento. Flamenco, ma con l’aggiunta di chill out, fanno i Chambao, scoperti a Malaga dal musicista olandese Henrik Takkenberg. Le chambao sono le tende provvisorie alzate dai bagnanti sulle spiagge dell’Andalusia. Non mancate i Fito&Fitipaldis, gruppo fondato


Playlist Le voci tra parentesi indicano rispettivamente la casa discografica e la distribuzione. Dove la seconda voce non è presente, la casa discografica è anche distributore. Per comprare i cd in Italia, il consiglio è di consultare prima i siti delle distribuzioni, dove è quasi sempre possibile fare acquisti online.

Europa Torino e dintorni

nel ’98 da Adolfo Cabrales Mato: testi intimisti su note blues, soul, swing e rock. Il loro penultimo lavoro, Por la boca vive el pez, pubblicato nel 2006, ha venduto in due settimane centomila copie. E adesso guardiamo all’Europa dell’Est. Le fanfare duettano con le chitarre elettriche, e i canti di feste e cerimonie escono dalla tradizione stretta per trasformarsi in spartiti di bella modernità. Prendete Breslavia, Polonia, il cui motto, “Miasto spotkan”, significa città di incontri. È uno dei centri più effervescenti del Paese, con una comunità studentesca che anima i locali tra piazza del Mercato (Rynek Główny) e l’università. Il quartiere della Riconciliazione ospita insegne alternative, concentrate intorno a un lungo cortile, il Pasaz Niepolda. Nel 2009, Malpa (Scimmia) ha spopolato con i suoi rap. Il pubblico accorre per i Kombajn do Zbierania Kur po Wioskach (Macchina combinata per la raccolta delle galline nei villaggi), band post-rock; gli Swinka Halinka (La maialina Halinka), ska, reggae e musica popolare; gli Indios Bravos, made in Polonia nonostante il nome. In Romania, e in Europa, trionfano la Fanfare Ciocarlia; la Mahala Raï Banda, musica autoctona, oriental pop, rumba, reggae; Oana Catalina Chitu, voce soul che in Bucharest Tango usa l’ingrediente saporito dei ritmi argentini. Esplorano i Balcani due bande ormai celebri ben oltre confine: la Kocani Orkestar, tutti dischi da collezione; la Balkan Beat Box, che partendo dal rock, “sfora” nel reggae ma non resiste ai richiami antichi. E, sempre in area balcanica, vanno citati Chalga Band, Boris Kovac con la Ladaaba Orchestra, i Kal sempre in bilico tra Belgrado e Istanbul, il vintage di varie correnti musicali dei Kottarashky. Nota a parte merita il piano di Markelian Kapedani, look da freak anni Sessanta, nato in Albania e considerato un autentico genio del jazz. Fanno rock targato Russia, ma svisato su dub, ska e gypsy, i più che sorprendenti ErsatzMusika.

▲▲La

Kocani Orkestar, formidabile ensemble che canta i Balcani, da tempo ha consolidato la sua celebrità internazionale ▲Sospesi tra blues, soul, swing e rock, i Fito&Fitipaldis sono puntuali scalatori delle vette discografiche spagnole

Stefano Amen Berlino, New York, Città del Messico (Controrecords/Govind, newmodellabel.com) Carlot-ta Make me a picture of the sun (Anna the Granny/A Buzz Supreme) Deian e Lorsoglabro Deian e Lorsoglabro (Musicalista/Snowdonia/ Innabilis) Giorgio Li Calzi Organum (Fonosintesi, fonosintesi.com) Mezzafemmina Storie a bassa audience (Controrecords/Govind, newmodellabel.com) Paolo Spaccamonti Undici pezzi facili Buone notizie (Bosco Rec, boscorec.com) Totò Zingaro Salgariprivato (Metatron/Audioglobe) Trobairitz d’Oc Le mau d’amor (Felmay) Yo Yo Mundi Munfrà (Felmay/Egea Music)

Marsiglia

Lili Boniche Alger, Alger (Roir Records/E1) Miles Davis Sketches of Spain (Columbia Records) Bob Dylan Nashville Skyline (Columbia Records) Bob Marley Rebel Music (Universal Music) Massilia Sound System Chourmo Oai e libertat (Adam/Musicalista) Calvin Russell Sounds from the Fourth World (Spv) Gian Maria Testa Extra muros (Harmonia Mundi-Le Chant du Monde/Egea Music) ZZ Top Rancho texano (doppio cd, Warner, zztop.com)

Portogallo

AAVV Fados & Fadistas (Iris/Felmay) Bevinda Outubro (Dunya Records/Felmay) Luz (Chant du monde, cduniverse.com) Madredeus & A Banda Cósmica Castelos na areia (Eter/Felmay) Cesaria Evora Live (BMG RCA/Felmay) Mariza Concerto em Lisboa (EMI/Felmay)


courtesy of Egea Music ▲ Burhan

Öçal con i Trakya All Stars, ▶▲Baba Zula, ▶▶ Mercan Dede, ▶▼ Hayco Cepkin sono soltanto alcuni fra i tanti artisti della scena musicale di Istanbul. Nomi come Mercan Dede spopolano anche in Europa, a cominciare dalla Germania. Sui loro spartiti, punk, jazz, reggae, rock, elettronica, senza mai dimenticare le radici sonore, popolari e colte, della Turchia

Turchia

Segnatevi anzitutto gli indirizzi dei tre migliori negozi di dischi di Istanbul. Qui troverete i titoli della nostra playlist e molti altri. Kitabevi, Istiklal Caddesi 55; Lale Plak, Tünel Galip Dede Caddesi 1; Mephisto, Istiklal Caddesi 125. Seconda operazione: mettete da parte l’idea che la musica di Istanbul (e della Turchia) giri intorno a odalische, danze del ventre, melensi spartiti a uso del turista. La musica di Istanbul (e della Turchia) rimbalza da anni sui palcoscenici internazionali degli auditorium e delle arene. E la Istanbul giovane si ritrova nei locali che sfilano sotto il ponte di Galata. Offrono agli avventori poltrone e cuscini all’aperto dove accomodarsi per fumare sigarette made in Usa e bere long drink tra grandi casse acustiche a volume non propriamente moderato. È lì che si possono ascoltare la fusion con richiami alla tradizione musicale sufi e le atmosfere quasi solenni di Mercan Dede; i Duman, (fumo, in turco), con il loro grunge e rock

su cui innestano risonanze folk, acustica ed elettronica; il percussionista Burhan Öçal con i Trakya All Stars; gli spartiti balcanici del Kolektif Istanbul, fiati e fisarmoniche, tamburi e cornamuse; Baba Zula, che incrocia elettronica, melodie della danza del ventre, improvvisazioni mutuate dal jazz; il rock gotico e scuro di Hayko Cepkin; l’heavy metal dei Kurban, un decennio di carriera alle spalle; l’elegante alternative rock dei Mor ve Ötesi. La Istanbul giovane si incontra e cammina lungo Istiklal Caddesi, nel quartiere di Beyoglu, in cima alla funicolare che sale dal ponte di Galata. C’è voglia d’Europa ovunque sulla linea dritta di Istiklal: l’abbigliamento dei ragazzi; il loro ritrovarsi, come succede a Madrid e a Roma, ai tavolini di un bar stipato oltre misura; i telefonini e gli iPod, staccati dalle orecchie soltanto per ascoltare i musicisti di strada; il profumo del kebab che incrocia la puzza degli hamburger. Il colore della Coca-Cola si confonde ogni giorno con quello del tè.


courtesy of Egea Music

courtesy of Egea Music

Spagna

Alaska/Fangoria Una temporada en el infierno (EMI) Chambao En el fin del mundo (Sony Music) Fito & Fitipaldis Antes de que cuente diez (Warner) Los Planetas Una opera egipcia (Sony Music) Ska-P Lágrimas y Gozos (Octubre Records) Vetusta Morla Un día en el mundo (Pequeño Salto Mortal) Mapas (Pequeño Salto Mortal)

Europa dell’Est

Balkan Beat Box Blue eyed Black Boy (Crammed/Materiali Sonori) Boris Kovac & Ladaaba Orchestra Ballads at the end of time (Piranha/Felmay) ErsatzMusika Songs Unrecantable (Asphalt Tango/ Materiali Sonori) Fanfare Ciocarlia Live Best of Gipsy Brass (Asphalt Tango/Materiali Sonori) Indios bravos Peace (Patefon, indiosbravos.patefon.pl) Kal Radio Romanista (Asphalt Tango/Felmay) Markelian Kapedani Balkan piano (Red Records) Kocani Orkestar The ravished Bride (Crammed/Materiali Sonori) Kombajn do Zbierania Kur po Wioskach Lewa Strona Literki M (Polskie Radio/Fonografika) Kottarashky Opa Hey! (Asphalt Tango/Materiali Sonori) Mahala Rai Banda Ghetto Blasters (Asphalt Tango/Materiali Sonori) Oana Catalina Chitu Bucharest Tango (Asphalt Tango/Materiali Sonori) Taraf de Haidouks & Kocani Orkestar Band of Gypsies (Crammed/Materiali Sonori) The Chalga Band Ratka Piratka (Sensible/Felmay)

courtesy of Emi

Turchia Baba Zula Roots (Pozitif/Doublemoon/Egea Music) Burhan Öçal & The Trakya All Stars Trakya Dance Party (Doublemoon/Egea Music) Duman Duman I Duman II (Sony Music) Hayko Cepkin Tanisma Bitti (EMI/Sandik) Kolektif Istanbul Krivoto (Pozitif/Doublemoon) Kurban Sahip (Favela Records/Arda Muzik) Mercan Dede ’800 (Doublemoon/Egea Music) Mor ve Ötesi Dünya yalan söylüyor (Rakun/Esen)


courtesy of Kinomusic

Afriche

Le voci del Maghreb arrivano dal Sahara e dalle città, dagli stadi e dalle sale concerto, dalla strada e dagli studi di registrazione. Musica che protesta, denuncia, racconta le tende tuareg e i condomini di periferia, si scaglia contro i politici e le discriminazioni. Comunque e sempre, musica magnifica. Vengono dall’Algeria, i Gnawa Diffusion. Il loro leader, Amazigh Kateb, è figlio dello scrittore Kateb Yacine, rifugiatosi in Francia nell’88, allo scoppio della guerra civile. La formazione, nata una ventina di anni fa a Grenoble, gode di molta fama grazie a un repertorio fatto di brani dai ritmi serrati e testi in arabo, francese e inglese che accusano il silenzio del mondo di fronte ai problemi del Maghreb (quanta attualità!). Fuggita a Parigi dalla Kabilia (nord dell’Algeria) con la sua chitarra, Souad Massi è stata notata durante un concerto collettivo da un manager della Universal. Firma istantanea del contratto, e inizio di una folgorante e meritata carriera. Souad incanta con voce e spartiti che mettono sul rigo le note della sua terra e le uniscono ad altri generi quali il fado. Altra voce femminile da Algeri, che poco o nulla gira su cd per l’Europa, è quella di Radia Manel, artista popolarissima in patria, maestra del raï virato in elettronica. Terza signora del bel canto, sul versante classico, è Nassima. Si confronta con il nouba algerino, costituito da una serie di pezzi vocali e strumentali, il cui ritmo cresce fino a divenire danza. Chiudiamo il capitolo Algeria con una compilation, Les plus grands artistes algériens: quattordici artisti che mettono voglia di partire subito verso la Città Bianca e il deserto. Ci trasferiamo in Marocco con un doppio cd, Andalusian Music from Morocco, ovvero musica andalusa medioevale. Dal Medioevo al dub con contorno di elettronica e musica tradizionale, il salto lo fa una sfilata di musicisti tra cui Dr Das, Makale, Bombax, in Arabitronics Lounge, prodotto dall’etichetta El Baraka. La stessa che mette sul tondo di un cd Bill Laswell e i Kasbah Rockers, nell’omonimo album. Mai i confini musicali del Marocco si sono estesi fino a queste latitudini. Di ampio respiro è la strada verso Tunisi, lungo la quale ci conduce Dhafer Youssef, autentico maestro dell’oued, il liuto arabo. Il suo repertorio, nato dalla tradizione sufi, ha accolto sonorità jazz e blues, e dato spazio a collaborazioni con Paolo Fresu, Patrice Héral, Carlo Rizzo. Per una visione di insieme delle sonorità maghrebine, scelta sicura con una compilation, North African Groove, edita da Putumayo. Da quel gigantesco forziere di note che si chiama Africa (basterà citare Mali e Senegal con artisti che vanno in giro per il mondo intero) abbiamo estratto due Paesi musicalmente meno conosciuti, Zaire e Kenya. Il primo vanta un genere, il rumba rock, nato negli anni Cinquanta, quando lo Zaire si chiamava Congo Belga, e Kinshasa era Leopoldville. Il booklet di uno dei dischi che proponiamo, annota: “Negli anni Quaranta, la musica afrocubana arriva nello Zaire e la popolazione la riconosce subito come il figliol prodigo, nutrito dalla tradizione africana, pieno di elementi famigliari alle orecchie degli zairesi”. Quell’incontro, quel seme, faranno germogliare la rumba rock, bandiera e orgoglio dei neri inurbati a forza dal colonialismo. Poi il jazz, di nuovo registrazioni d’epoca e sempre anni Cinquanta, in Ok Jazz, ai tempi in cui, nei locali della capitale, si esibivano Franco, Rossignol, De la Lune, Dessoin, Ngan-


Afriche Maghreb

courtesy of Materiali Sonori

AAVV North African Groove (Putumayo, putumayo.com) AAVV Les plus grands artistes algériens (Atoll Music/atollmusic.com) AAVV Arabitronics Lounge (El Baraka/ Materiali Sonori) Gnawa Diffusion Live DZ (Nextmusic/CM Label, nextmusic.fr) Bill Laswell & Kasbah Rockers Kasbah Rockers (El Barraka/Materiali Sonori) Souad Massi O Houria (Island Records) Moroccan Ensemble Fez Andalusian Music from Morocco (Deutsche/Harmonia Mundi) Nassima Musique andalouse d’Alger (Institut du monde arabe/ Harmonia Mundi) Dhafer Youssef Divine Shadow (Jazzland/Universal)

Zaire

courtesy of Materiali Sonori

AAVV Roots of rumba rock 1953/1955 AAVV Ok Jazz Konono N.1 Live at Couleur Café Staff Benda Bilili Craw 52 AAVV The Karindula Sessions: Tradi Modern Sounds From Southeast Congo (Tutti pubblicati da Crammed/ Materiali Sonori)

Kenya

ga... La copertina del disco dichiara: “Hanno creato uno stile che ha conquistato l’Africa intera, e influenzato con forza diverse generazioni di musicisti”. Sempre in Zaire furoreggiano i Konono N.1, la street band che mette in elettronica le musiche della tradizione, con largo uso del likembé, il piano “tascabile” di legno e corde in acciaio. Dovere di citazione per lo Staff Benda Bilili: musicisti paraplegici che vivono intorno e nello zoo della capitale, e si cimentano magnificamente con la rumba rock africana. Dal Sudest dello Zaire, regione del Katanga, si ascoltano più che volentieri i giovani dell’album (e dvd) The Karindula Sessions, dove lo strumento principe è, appunto, la karindula, sorta di banjo costruito artigianalmente. In Kenya continua a imperversare il benga beat, nato tra gli anni Sessanta e Settanta dai musicisti dell’etnia Luo, nell’area del Lago Vittoria. È un gustoso impasto fatto di chitarre, ritmo scandito dai bassi, voci soliste e corali, percussioni, che ha conquistato in un attimo tutto il Kenya, dove è divenuto musica immortale. Spazi importanti occupano (ma un paio di gradini sotto) la rumba congolese e soprattutto il bongo mix, nipotino del benga beat: cori che richiamano la musicalità tribale e, in contrapposto, una ritmica scandita da strumenti elettrici e percussioni di batterie, rivolta volentieri al reggae rap. Altro frutto di quelle commistioni che il Kenya ha saputo fare sue, e di cui sono espressione sofisticata i Sauti Sol in un album, Mwanzo, da mettere in valigia senza esitare.

Mama Africa, madre generosa di infiniti talenti, dal Nord fino all’anima più scura del continente. ▲▲ Il Sahara è lo studio di registrazione scelto dai Tinariwen per il loro ultimo disco, Imidiwan: Companions ▲ Konono N.1, una street band dallo Zaire ◀▲ Rokia Traorè, la formidabile voce figlia del Mali ◀◀ Dalla Tunisia risuona l’oued (il liuto arabo) di Dhasser Youssef ◀▼ Dall’Algeria si diffonde in tutto il Maghreb la protesta ironica e pungente dei Gnawa Diffusion

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AAVV Music of Kenya (World Music Net, Rough Guide/Egea Music) AAVV Retracing Benga Beat (cd+dvd, Ketebul Music, ketebulmusic.org) AAVV Afrobeat Revolution (World Music Net, Rough Guide/Egea Music) Sauti Sol Mwanzo (Uwezo/Penya)

Americhe Repubblica Dominicana e Haiti

AAVV Merengue dance (doppio cd, Rough Guides/Egea Music) Aventura The Last (Planet Records/Edel) El Cata El malo (Planets Records/Edel) Juan Luis Guerra Areito, A son de Guerra (BMG/Ariola) La India Canela Merengue tipico (Smithsonian/Egea Music) Carlitos Almonte y su acordeón cinco estrellas The rough guide to merengue dance Omega El dueno del flow (Planets Records/Edel) Céline Ayana Esclaves au paradis Chants contre champs, La voix des bateys (libro+cd, Vents d’ailleurs, ventsdailleurs.com)


Dici Santo Domingo e vengono in mente merengue e bachata, ritenuti, a lungo ascoltare, repertori un po’ noiosi. La bachata è stata accostata dai critici più ironici (e snob) ai neomelodici napoletani. Siamo qui per farvi cambiare opinione, citandovi prima di tutto il re di bachata e merengue: Juan Luis Guerra, undici dischi dal 1992, realizzati insieme alla sua orchestra, i 4.40. Guerra ha rivoluzionato le due musiche per eccellenza dell’isola, arricchendole con arrangiamenti e variazioni, strumenti e voci. Nelle sue composizioni, Juan ha messo non di rado l’impegno politico. Come nel merengue El costo de la vida, censurato in molti Paesi dell’area latina; o nella struggente Naboria Daca Mayaní Macaná, dedicata agli indios Taino sterminati da Colombo e cantata nella loro lingua. Spensierati è l’aggettivo più adatto per due fisarmonicisti, sacerdoti del merengue tipico. Sono La India Canela e Carlitos Almonte, che sprizzano palme e sole da ogni poro musicale. Ci spostiamo a New York, nel Bronx, dove sono nati gli Aventura, trentenni di origini dominicane. Fanno bachata, che movimentano con chitarre elettriche a profusione. Inevitabile citare il reaggeton, mistura di reggae e rap in salsa caraibica. Ne sono interpreti personaggi sotto pseudonimi tipo El biberón, Albertom, Omega, El Cata, Prince Royce. Ai versi romantici preferiscono testi dove si racconta di giovanotti pronti a prestazioni erotiche con le signore americane in cambio di un visto timbrato Usa, oppure consapevoli che la loro ragazza è interessata soltanto al gonfiore del portafoglio (Enamorada de mi cartera). L’altra metà di Hispaniola è il lato oscuro e povero dell’isola, Haiti. Subito oltre il confine con la Repubblica Dominicana, lavorano nelle piantagioni di canna da zucchero i clandestini haitiani fatti entrare da caporali e proprietari terrieri. Sono, di fatto, schiavi, chiusi nei bateys, baraccopoli fatiscenti e luride. Un libro, Esclaves au paradis, di Céline Anaya Gautier, documenta questa ignobile realtà. Al libro è allegato un cd, Chants contre champs, La voix des bateys, registrato sul posto, testimonianza eccezionale perché raccoglie alcuni canti in lingua creola ai quali ogni giorno uomini e donne danno voce. Il mito musicale esportato nella seconda metà degli anni Novanta da Cuba in mezzo mondo, grazie alla chitarra di Ry Cooder e alla macchina da presa di Wim Wenders, sono i gloriosi ottuagenari del Buena Vista Social Club. Molti sono volati nel cielo dei suonatori tropicali, e solo Omara Portuondo continua a esibirsi. Di altri artisti che cantano, percuotono, pizzicano e soffiano all’Avana e dintorni, poco si sa, almeno in Italia. I viaggiatori politicamente impegnati avranno nella loro discoteca gli album di Silvio Rodríguez e Pablo Milanés, poeti della melodia cubana. Chi ama le rassegne estive avrà ascoltato, per esempio, Manolín el medico de la salsa. Qualche consiglio ulteriore, allora, raccomandandovi acquisti in loco, perché da noi arriva poco. Un nome certo è Ibrahim Ferrer, oltre ai già citati Rodríguez e Milanés; i tanti e bravi che si cimentano con il jazz afrocubano; la leggendaria Omara Portuondo in versione solista. Per quanto riguarda la salsa e i vari condimenti esotici, là dove sia possibile, ascoltate prima di comprare. Ai Tropici la musica sembra sempre fantastica, a casa può suonare assai meno

▶ Juan

Luis Guerra, accompagnato dai 4.40, è una star internazionale del merengue e della bachata, generi musicali nati in Repubblica Dominicana. Raffinato compositore, arrangiatore, esecutore, Guerra è divenuto famoso anche per i suoi testi contro la corruzione e l’indifferenza dei poteri politici ed economici. Un brano, El costo de la vida, fu censurato in tutti i Paesi dell’area ▼ Brasiliana di San Paolo, Cibelle unisce elettronica e citazioni sparse ai languori tropicali dell’exotica. In ogni suo disco, Cibelle assume le sembianze di un avatar che canta e suona in luoghi di pura fantasia

courtesy of Materiali Sonori

Americhe

entusiasmante. Nella playlist, i titoli distribuiti in Italia: sicuro punto di riferimento per ampliare il bottino nelle tiendas, i negozi, di Cuba. Inutile dire, ormai per fortuna si sa, che il Brasile non va soltanto di samba e bossanova. L’abbiamo imparato grazie soprattutto a Cateano Veloso. Il panorama è immenso, l’elenco dei nomi lunghissimo, il repertorio “classico” (con tutte le varianti) e il repertorio fuori ordinanza, sterminati. Vengono in soccorso i fantastici negozi di dischi a Rio, San Paolo, Salvador, dove è facile passare ore e ore, perduti in un labirinto di rastrelliere. Mentre scoprirete lavori sconosciuti di Gilberto Gil, Milton Nascimento, Maria Bethânia, Caetano, ecco saltar fuori Rosalia De Souza, Zelia Fonseca, la regina dell’exotica Cibelle, l’elettrobossa dei Bossacucanova, il forrò che arriva dal Nordest, il samba de roda del carnevale di Rio e quello folle dei Tríos Eléctricos carnascialeschi di Bahia. Niente panico, e occhio al peso del bagaglio! Sorprese a iosa vi riserverà l’Argentina “non solo tango”. Per esempio Axel Krygier, un nome che da noi circola grazie a Materiali Sonori, considerato uno dei protagonisti del rinascimento musicale argentino, maestro nell’incrocio di rock, jazz, cumbia, elettronica. Stesso discorso vale per gli Stati Uniti “non solo global stars”. Qui vi diamo un riferimento importante, l’etichetta Crammed.


courtesy of Emi

Cuba

La casa discografica è da sempre attentissima a scoprire solisti e gruppi di valore nei circuiti alternativi, quali i Megafaun (folk a modo loro) e la Akron Family (global psychedelic folk rock, così definiscono ciò che suonano). Perla finale, da “pescare” in internet o nei negozi specializzati, è Musica Negra in the Americas, un cofanetto con ricco booklet accluso, edito da Network.

AAVV Cuban Street Party World (Music Netwwork/Felmay) Mario Bauzá, Paquito D’Rivera, Jorge Dalto Afrocuban Jazz (Yemaya/Egea Music) Buena Vista Social Club Live at Carnegie Hall (World Circuit/Felmay) Cuban Masters Los Originales (Timbra Recrods/Egea Music) Ibrahim Ferrer Buenos Hermanos (World Circuit/Felmay) Brian Linch and Afrocuban Jazz Orchestra Bolero Nights for Billie Holiday (Venus/Egea Music) Omara Portuondo Gracias (World Village/Felmay)

Brasile

Cibelle Las Venus Resort Palace Hotel (Crammed disc/Materiali Sonori) Rosalia De Souza Rosalia de Souza (Schema Records/Family Affairs) Zelia Fonseca Impar (Enja Records)

Iran, Iraq, Libia e Siria AAVV Iranian Undergorund (Songlines, songlines.co.uk) AAVV I gatti persiani (Universal/Warner Music) Ali Reza Ghorbani Les chants brulés (Accords croisés/Harmonia Mundi) Arash Khalatbari In la chapelle (Chrysalis/Harmonia Mundi) Kiosk Triple Distilled (9821 Production) Mohammed Reza Mortazawi Now and Then (Hermes Records) Green Hands (autoprodotto, moremo.de) Mozar Sharif e Ensemble Rast Iran (Ocora Radio France/ Harmonia Mundi) Nava Ensemble Hilat (Finisterrae/Felmay) Acrassicauda Heavy Metal in Baghdad (libro + dvd, ISBN edizioni) Touareg de Fewet Lybie: musiques du Sahara (Buda Records/Universal) Hamza Shakkûr & Ensemble al Kindi Takasim & Sufi Chants (World Network)


Costretti alla clandestinità in patria, e sovente alla fuga per non subire il carcere, i musicisti di Iraq e Iran hanno dato vita a un’onda sonora di rara bellezza e potenza. ▶ È il caso degli iracheni Acrassicauda, un gruppo heavy metal nato a Baghdad ▼▶ degli iraniani Take it Easy Hospital, il gruppo protagonista del docufilm I gatti persiani, in cui si narra la vita a dir poco difficile di chi, a Teheran, vuole suonare fuori dai recinti dell’integralismo ▼▶▶ dei Kiosk, anch’essi iraniani, oggi esuli negli Stati Uniti

Asia

Alla personale luce di una lunga e ripetuta frequentazione di Paesi quali Thailandia e Indonesia, ci sentiamo di rendere pubblico il nostro scarso entusiasmo nei confronti della musica tradizionale e nuova che in quei Paesi si mette su cd. La prima categoria è costituita (Indonesia e Bali) da virtuose orchestre di gamelan che hanno le loro fondamenta nelle percussioni: metalliche, lignee e in pelle. L’ascolto dei brani infonde subito entusiasmo ed evoca suggestioni. Ma seguire un album intero è piacere riservato più a un addetto ai lavori che al cosiddetto “comune ascoltatore”. Analogo discorso vale per la Thailandia, fra canti di corte e canti di festa, con le eccezioni che arrivano dalle montagne del Nord e del Nordest, dove le minoranze tribali possiedono un repertorio di sonorità più semplici e dirette. In compenso, trovare cd che le propongano non è facile. Band, gruppi e solisti armati di elettricità e di elettronica non spalancano un panorama capace di mozzare il fiato. Anni fa imperversavano in Thailandia, con qualche merito, i Karabao (dal nome del bufalo acquatico). Per il resto si continuano ad ascoltare, ovunque nell’area, pezzi senza un’identità precisa, nei quali è sempre troppo presente il miagolare delle voci, peggiorato da influenze occidentali di specie commerciale. In India la musica, antica e nobile, richiede anch’essa notevole impegno. Ne troverete abbondanti esempi. Indossando il sari della leggerezza, ci sono le colonne sonore di Bollywood. Ma, se fossimo in voi, ci limiteremmo al primo acquisto. La musica bollywoodiana è business come il cinema. E si sente, si sente molto.

Iraq e Iran e...

Suonare e comporre musica in clandestinità, rischiando di essere arrestati, imprigionati, uccisi. Subire il fanatismo di Ahmadinejad e le follie della guerra che pretende di esportare la democrazia. Nascondere voci e strumenti ai pasdaran e ai basij sulla cima di un terrazzo, o nella pancia di una cantina. Provare, inutilmente, a dar loro più voce delle bombe. E così far nascere una musica straordinaria per la sua forza e la sua modernità. L’hanno creata, continuano a crearla, musicisti che hanno scelto di restare, oppure sono divenuti, esuli che nei concerti ricordano all’Occidente il dramma della loro patria. Ascoltate le parole e guardate le facce dei “metallari” Acrassicauda, di Baghdad, nel dvd pubblicato in Italia da Isbn Edizioni. La loro storia inizia nell’estate del 2001, dentro lo scantinato-sala prove di un edificio poi distrutto da un razzo americano nel 2006. Il primo concerto è in una galleria d’arte. Il secondo alla Rebat Hall, una sala vera e propria. C’è un pegno da pagare: un pezzo che tessa le lodi di Saddam. Quel “mare di cazzate”, nella definizione del gruppo, sarà il lasciapassare per esibirsi a colpi di heavy, davanti a quattrocento ragazzi. Nel 2003 atterra a Baghdad una troupe di Vice, magazine musicale di New York. Eddy Moretti vuole girare un documentario sugli Acrassicauda. Ci lavorerà tre anni, organizzando e filmando un concerto all’Hotel al Fanar, nella Zona verde; andandoli a cercare nel 2006, esuli volontari in Siria, e mettendo in piedi una serata. Nel 2008, gli Stati Uniti hanno concesso agli Acrassicauda lo status di rifugiati politici. Nel do-

cumentario Moretti, a Baghdad, chiede loro: «Come avete deciso di fondare un gruppo heavy metal?». «Se vuoi capire, guardati intorno», è la risposta. Intorno ci sono soltanto macerie di case e di esistenze, esplosioni, aerei nel cielo. A Teheran la musica resiste e lotta grazie a un gruppo di artisti che la rivista inglese Songlines ha radunato nella compilation Iranian Undeground, uscita in allegato nell’aprile 2010. È un percorso nella musica che il regime degli ayatollah proibisce, con i Take It Easy Hospital del film I gatti persiani, i duri e puri Yellow Dogs, il rapper Bomrani; la squisita voce femminile di Maral in Neda, dedicata alla ragazza uccisa dalle soldataglie


courtesy of Isbn Edizioni courtesy of Bim Films

courtesy of Bim Films

nei giorni della Rivoluzione verde; i Dreamful Place con Malcontent. Su altri versanti, è “musica d’arte” quella di Mohammad Reza Mortazavi, maestro del tonbak, particolare tipo di percussione; e di Behdad Babaei, virtuoso del setar e del barbat, parenti del liuto. Da San Francisco (si sono esibiti a Firenze un anno fa) cantano dell’Iran oppresso i Kiosk. A Parigi lavora Ali Reza Ghorbani, elaborando temi sonori antichi di secoli. In Italia, il Nava Ensemble, tra i cui fondatori c’è il romano Paolo Modugno, si colloca a metà strada fra la tradizione classica e la musica popolare. Non dimenticare, vuol dire, in questi mesi, anche ricordare Libia e Siria. Speriamo che il Sahara,

come Tripoli e Misurata, tornino alla pace evocata dai maestri del gruppo Touareg de Fewet; che tacciano gli spari a Damasco, e più lontano, restituendo al Paese il misticismo dei suoni scelti da Hamza Shakkûr & Ensemble al Kindi in un lavoro, Takasim & Sufi Chants, complesso e affascinante.

57 G


testo e foto

Michael Marten

Alti e

Nel 2003 ero alla ricerca di un progetto fotografico che sapesse esprimere i continui cambiamenti del paesaggio, non causati dall’attività umana ma dai processi naturali, quali il tempo atmosferico, l’erosione, i cambi di stagione. Tornando verso sud da Edimburgo, capitai per caso in un porticciolo sulla costa del Berwickshire, nel Sudest della Scozia. Era nascosto alla vista, anche dalla strada più vici-

na, ma fui attratto da un sentiero tra le scogliere. Arrivato giù in fondo, scoprii un tunnel lungo trenta metri, scavato a mano nell’arenaria rossa, che conduceva a quell’insenatura, una distesa di sabbia e sassolini per la bassa marea. Passai tutta la giornata a scattare foto con la mia 5x4 Wista. A casa, quando sviluppai le foto, vidi che avevo inquadrato più o meno sempre la stessa visuale, sia con la


bassi

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Crosby, Liverpool, 5 e 7 aprile 2008, alta marea ore 12, bassa marea ore 9


bassa marea al mattino, sia con l’alta marea nel tardo pomeriggio. Mi affascinava il contrasto tra le due sequenze, il modo in cui il crescente livello dell’acqua avesse cambiato completamente la prospettiva e l’atmosfera di quel paesaggio “in movimento”. Capii immediatamente che avevo trovato il mio progetto. Nel 2004 tornai nel porto del Berwickshire. Stavo fotografando, quando un uomo uscì da una delle casette sul pontile e affrontò gli scogli per chiedermi cosa stessi facendo. Si presentò come il proprietario del porto, un architetto di Edimburgo che aveva visitato spesso quel luogo da bambino e che qualche anno prima aveva comprato l’intera baia per una sterlina!

Quest’uomo, che si dedica alla tutela del porto, mi disse che potevo scattare e utilizzare le mie foto, a condizione di non rivelare il nome della località, né alcun riferimento geografico preciso. Costruito negli anni Trenta dell’Ottocento, alla fine di quel secolo fu il terzo maggiore porto per la pesca delle aringhe sulla costa orientale della Scozia. Ora ospita due piccole barche, il mio amico architetto e i fortunati visitatori che sanno della sua esistenza o che ci si imbattono per caso. Da allora mi sono messo a cercare i posti che offrono il dislivello più spettacolare tra bassa e alta marea, mentre come un vero studente cercavo di imparare il più


possibile su questi fenomeni. Ho trascorso ore e ore a consultare i volumi pubblicati dallo UK Hydrographic Office, un ente che fa capo al ministero della Difesa. Lungo la maggior parte delle coste si assiste a due maree ogni giorno, ma ho imparato presto che non tutte le maree sono uguali. Nel Mediterraneo il dislivello delle maree si misura in centimetri. In Gran Bretagna varia da un metro in alcune zone del mare del Nord fino ai quindici metri (la terza ampiezza nel mondo) del Bristol Channel. In uno stesso luogo, l’altezza varia ciclicamente con il passare del tempo. Ogni due settimane, nei quattro o cinque giorni di luna nuova e luna piena, le maree sono

Cullen, Moray, 29 e 30 marzo 2006, bassa marea ore 18.40, alta marea ore 12

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Wells-next-the-Sea, Norfolk, 10 settembre 2006, alta marea ore 8.40, bassa marea ore 15


più alte. In inglese questi picchi si chiamano, “spring tides”. Nel mezzo, quando la luna è in fase calante o crescente, le maree sono meno ampie: questa fase è chiamata “neap tide”. Questo spiega perché l’alta marea nel Bristol Channel può raggiungere un picco di quindici metri nella fase di “spring tide”, ma non supera i dieci metri nella sua fase “neap”. Ma anche questo è soltanto un aspetto del ritmo delle maree. Il livello dell’acqua cambia anche nel corso dell’anno. Le “spring tides” sono più alte nei mesi attorno agli equinozi: febbraio, marzo, aprile e agosto, settembre, ottobre. Questi sono i periodi ideali per le mie foto: quando

le spiagge vengono interamente sommerse durante il flusso e quando gli scogli sono completamente scoperti durante il reflusso. L’intervallo di tempo tra alta e bassa marea dura circa sei ore e venti minuti, ma si tratta di una media, appunto. In alcuni posti la marea può impiegare otto o nove ore ad alzarsi, ma solo tre o quattro ore ad abbassarsi. Qualcuno dice che i miei “dittici” trasmettono serenità e una dimensione senza tempo, il che potrebbe far pensare che il lavoro di appostamento e di preparazione sia altrettanto rilassante. Non è proprio così. Di solito rimango nel tratto di costa prescelto nei cinque giorni di “spring tide”. Cerco sempre di arrivare


con un paio di giorni d’anticipo per poter esplorare l’intera zona e individuare i punti migliori. Questo si può fare solo con la bassa marea, che permette di vedere ciò che verrà sommerso dal mare e quello che il mare rivelerà ritirandosi. Scelgo diverse possibili location lungo la costa, anche a settanta chilometri di distanza l’una dall’altra. E, anche in uno stesso luogo, individuo almeno due o tre punti di osservazione. L’alta marea è sempre un momento impegnativo. Il mare si mantiene al suo massimo livello per circa un’ora. In quel lasso di tempo, cerco di scattare foto da tutti i punti di osservazione selezionati, correndo a piedi o in macchina. La bassa marea tende a essere più

Perranporth, Cornovaglia, 29 e 30 agosto 2007, alta marea ore 20, bassa marea ore 12

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Il faro di St Mary, Whitley Bay, Northumberland 17 e 20 settembre 2008, alta marea ore 17.50, bassa marea ore 13


rilassante perché l’acqua si ritira per tre o quattro ore. Quando scatto la prima foto della “coppia”, segno la posizione del mio treppiede con dei bastoncini, delle pietre o delle piccole incisioni sulla roccia, per poterlo collocare esattamente nello stesso punto sei ore più tardi, o il giorno successivo. Sistemo anche un foglio di carta da lucido, formato 5x4, sullo schermo della macchina fotografica e traccio a matita le linee prospettiche che rimarranno invariate – uno scoglio, un molo, un tratto di costa in lontananza e, ovviamente, l’orizzonte. Questo mi permette di inquadrare la seconda immagine del dittico esattamente come la prima.

Osservando le maree risulta evidente che per quanto il pianeta possa essere plasmato, manipolato e danneggiato dalla potenza dell’uomo, i suoi ritmi profondi sfuggono alla nostra influenza. Nei suoi processi geologici e naturali di varia natura, la terra è più forte, più sottile e più persistente di quanto possiamo immaginare. Molti scorci delle mie foto non esisteranno più tra cento o duecento anni, quando il surriscaldamento globale avrà provocato un innalzamento del livello del mare di diversi metri. Per la vita delle città costiere di tutto il mondo il cambiamento sarà devastante. Ma per il pianeta sarà solo un episodio minore. I livelli del mare hanno subìto variazioni di oltre cento metri durante


Gillingham, Kent, 23 febbraio 2008, bassa marea ore 10, alta marea ore 14.50

l’era glaciale: nient’altro che una marea determinata dal clima, più profonda e più lenta, che si alza e si abbassa nell’arco di decine e centinaia di migliaia di anni invece che due volte al giorno. (Tratto da cameraobscura.busdraghi.net/2011/ michael-marten/)

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Casa dolce casa 14 giugno, Roma

Ha ucciso la nonna e poi si è scagliato contro la sorella, ferendola gravemente. Quindi è scappato. È accaduto in un appartamento in zona Tor Sapienza, a Roma. L’anziana donna, Ida Marcelli, 85 anni, è stata trovata con un profondo taglio al ventre. Lui, Paolo Mistretta, 28 anni, è stato fermato dai carabinieri in stato confusionale. Ad accusarlo Enrica, 23enne: «È stato mio fratello». Laureato in Ingegneria, Paolo viveva a Londra ed era a Roma in vacanza.

16 giugno, Milano

Lei, Ilaria Palummieri, 21 anni, cameriera in un pub del centro, è stata soffocata, probabilmente con un sacchetto; suo fratello, Gianluca Palummieri, 20 anni, impiegato in una compagnia di assicurazioni, ucciso con decine di coltellate. I corpi dei due sono stati trovati la mattina di venerdì 17 giugno: lei in casa, nuda e legata al letto, lui vicino a un cassonetto, a Rho, a 14 chilometri di distanza. L’ex fidanzato della ragazza, Riccardo Bianchi, 21 anni, studente in un istituto tecnico, ha fatto ammissioni su entrambi i delitti. Ma i contorni della vicenda, la dinamica del duplice delitto, i motivi che lo avrebbero spinto, restano confusi.

16 giugno, Cesano (Rm)

L’ha uccisa con un coltello e poi si è tolto la vita. A trovarli, riversi in una pozza di sangue nella cucina di casa, è stato il figlio di 13 anni. Lui, 37 anni di origine romena, era operaio, lei, coetanea e connazionale, era un’addetta alle pulizie. La coppia, sposata da anni, litigava molto spesso.

17 giugno, Roma

Stefano Savi, 23 anni, si è presentato all’ingresso dell’appartamento di Laura D’Argenio, la nonna settantacinquenne della fidanzata. In mano aveva un grosso pacco e la donna, che quel giorno compiva gli anni, gli ha aperto. Una volta entrato le ha sferrato un violentissimo pugno in faccia, lasciandola senza sensi a terra. Poi ha cominciato a picchiarla fino a provocarle la frattura delle costole e l’emorragia interna che l’ha uccisa. Un massacro che è durato circa mezz’ora, ripreso dalle telecamere interne della casa della donna, vedova di un carabiniere e molto attenta alla sicurezza. Nel pacco, Stefano aveva nascosto una tanica usata per trasportare l’acido con cui voleva sciogliere il corpo dell’anziana per disfarsi del cadavere. L’omicidio è avvenuto l’8 giugno, ma il giovane è stato tratto in arresto giorni dopo. «Oggi esistono tecnologie in grado di manipolare la mente umana», ha detto il 17 giugno durante l’interrogatorio, non negando le accuse, ma facendo riferimento in modo confuso a un chip che avrebbe in testa. Secondo quanto emerso dalle indagini, la vittima non era in buoni rapporti con le due figlie e aveva pochi contatti anche con la nipote e il suo fidanzato.

19 giugno, Modena

Un raptus di gelosia e Barbara Cuppini, 36 anni, è morta. A ucciderla Alessandro Persico, il suo fidanzato, con il quale da anni aveva intrapreso una relazione molto travagliata. Impiegati entrambi alla Ferrari di Maranello, lei lavorava negli uffici commerciali, lui nel settore Gran Turismo. Dopo averla ammazzata, è scappato e si è costituito ai carabinieri di Trento.

23 giugno, Orso (Sv)

Carla Buschiazzo, 62 anni, è stata uccisa con un fucile da caccia da suo marito, Aurelio Reburdo, che poi si è ucciso. Non è chiaro che cosa possa aver spinto il pensionato sessantenne a un simile gesto. I vicini li descrivono come una coppia tranquilla.

26 giugno, Padova

“Un delitto d’onore”, così lo ha definito Hammadi Zrhaida, 36 anni, marocchino, che domenica nel tardo pomeriggio ha ucciso la moglie, Fatima Chbani, 33 anni, per gelosia. «È da anni che ha un amante – ha detto agli inquirenti – e tutta la comunità marocchina lo sapeva. Non potevo più sopportare quel peso». Così, quando domenica l’ha vista che si preparava per uscire, le ha sbarrato la strada, mettendosi davanti alla porta. Con loro la figlia di sei anni che alle prime urla si è rifugiata dalla vicina. La giovane donna a quel punto, secondo quanto racconta il marito, avrebbe afferrato un coltello per intimargli di lasciarla andare. «Quindi – ha raccontato Hammadi – l’ho disarmata e colpita». Quindici coltellate, tra la gola e il petto.

29 giugno, Settimo di Montalto Uffugo (Cs) Anna Greco aveva 57 anni ed è stata uccisa insieme al marito, Franco Cariati, di 61, da Francesco Cino, suocero della figlia Teresa. Cino ha aggredito l’uomo per strada, uccidendolo sul colpo, e Anna nel cortile di casa, ferendola gravemente. È morta in ospedale poco dopo. Qualche minuto prima aveva sparato anche contro la nuora che insieme ai due figli piccoli si trovava nella sua auto. Teresa però è rimasta soltanto ferita a un braccio e i figli sono illesi. L’uomo avrebbe agito perché attribuiva alla nuora le colpe della separazione dal figlio.

29 giugno, Garda (Vr)

Erano sposati da sei anni. Ventisette anni lei, Elena Martelli, 43 lui, Simone Galazzini. Nell’ultimo periodo erano entrati in crisi: liti, discussioni, tensioni continue, ed Elena non si sentiva più sicura. Ci hanno provato a rimettere insieme i pezzi, sono andati a chiedere aiuto al parroco di Garda, il prete li ha ascoltati e seguiti per un po’, ma i pezzi non si sono più ricomposti. La separazione era ormai vicina. Elena la settimana scorsa era uscita dalla casa

Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dall’11 giugno al 10 luglio. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2010 sono state 127.


a cura di Stella illustrazione

Spinelli

Guido Guarnieri

di Garda per tornare a Calmasino, nella casa dei genitori. Poi lunedì 28 giugno la decisione: «Mi fermo a dormire qui, Simone è dai suoi», ha detto al telefono alla mamma, «non ti preoccupare, raccolgo le mie cose e poi ritorno». Ma Simone l’ha amazzata. Verso l’alba di martedì si è messo la pistola in tasca e le ha sparato tre colpi alla testa mentre dormiva sul divano. Poi si è ucciso.

30 giugno, Collegno (To)

Rosa Colusso, 86 anni, da tempo conviveva con Santo Guglielmino, ottantacinquenne che l’ha uccisa a colpi di pistola, per poi suicidarsi. Rosa era immobilizzata su una sedia a rotelle e soffriva di demenza senile. Santo si è barricato in casa e dopo 15 ore di trattative con le forze dell’ordine ha sparato due colpi contro Rosa, poi ha dato fuoco a un appendiabiti e a un cumulo di carte e bollette e infine si è ucciso. All’origine del dramma, un blackout provocato da una bolletta non pagata.

2 luglio, Palmi (Rc)

Giovanna Agresta aveva 24 anni. È stata uccisa a coltellate dal padre naturale, Giovanni Ruggiero, 83 anni, che ha poi gettato il corpo in una pineta. Giovanna, nata da una relazione extraconiugale, stava per sposarsi e voleva chiedere aiuto a quel padre da sempre assente. Ruggiero è un noto imprenditore della Piana di Gioia Tauro, benestante e anche impegnato in politica. Si è presentato spontaneamente in questura, costituendosi.

7 luglio, Osoppo (Ud)

Si chiamava Giulia Candusso ed era un’insegnante di 45 anni in prepensionamento di Gemona del Friuli. È stata uccisa con l’accetta dal compagno, un egiziano di 53 anni residente in Italia da molto tempo. L’uomo aveva lavorato come manovratore nella stazione ferroviaria di Rivoli di Osoppo, ma da alcuni anni era disoccupato. La coppia, unita in matrimonio con rito islamico, litigava spesso perché Giulia non voleva trasferirsi nella casa che il marito aveva affittato a Osoppo. Anche questa volta, per lo stesso motivo, era nata una discussione che, iniziata nell’abitazione di Gemona, è proseguita in auto e finita fra gli alberi dei pascoli di una stalla sociale di Osoppo.

10 luglio, Cabras (Or)

Si chiamava Katya Riva, aveva 39 anni e due figli piccoli: uno di due anni e l’altro di sei mesi. È stata uccisa da suo marito, Renzo Brundu, pescatore di 50 anni, che l’ha rincorsa fuori casa, colpendola ripetutamente con un coltello da cucina. Avevano appena litigato. La donna è morta sul colpo. I figli sono stati affidati a una struttura protetta.

Due anni dopo a Cocquio Trevisago (Va) Condanna all’ergastolo per Giuseppe Piccolomo, 59 anni, colpevole di aver sgozzato il 5 novembre 2009 Carla Molinari, ottantaduenne, tipografa in pensione che conosceva da tempo. La sentenza parla di vilipendio di cadavere – Piccolomo mozzò entrambe le mani alla sua vittima – con le aggravanti della crudeltà e della premeditazione. Il presidente della Corte d’Assise, Ottavio D’Agostino, che ha accolto le richieste dell’accusa, ha disposto anche sei mesi di isolamento diurno per l’artigiano, recluso nel carcere di Monza.

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Diabolik testoTito

Faraci

illustrazioni

Giuseppe Palumbo

Come faceva Diabolik a sapere dove alloggiava Eva Kant al suo arrivo a Clerville? E come faceva a sapere che con lei viaggiava anche il famoso diamante rosa? In questa storia breve (pubblicata in tiratura limitatissima nel settembre 2009 in occasione della seconda edizione del “Moncalieri Comics�) un assoluto colpo di scena aggiunge un tassello mancante nel passato del Re del Terrore.

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Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dall’11 giugno al 10 luglio, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi.

203 159

Messico Colombia

Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.peacereporter.net

Cessate il fuoco a cura di

Antonio Marafioti

Iraq Almeno 37 persone sono state uccise il 5 luglio nell’esplosione di due autobombe a Taji, a venti chilometri a nord di Baghdad. Il primo ordigno è stato piazzato in prossimità della sede del consiglio del governo ed è stato fatto esplodere mentre l’edificio governativo era affollato di gente in attesa di sbrigare pratiche burocratiche. «Non appena un altro gruppo di persone si è riunito per vedere cosa fosse successo, è stata fatta scoppiare una seconda autovettura carica di esplosivo e parcheggiata nelle vicinanze», ha fatto sapere l’emittente giornalistica Al Jazeera. In base alle prime testimonianze, dopo la seconda esplosione diversi corpi bruciavano a terra accanto alle carcasse di macchine distrutte dal rogo. Il governo di Baghdad ritiene responsabile dell’accaduto il ramo iracheno di al Qaeda.

4.635

vittime

719 5 141 245 31 364 14

Libia Algeria Somalia Sudan Etiopia Nigeria Costa D’Avorio

Libia Ci sono anche otto bambini fra i diciannove civili uccisi da un raid aereo della Nato in Libia. È accaduto il 21 giugno a Sorman, a settanta chilometri a ovest di Tripoli. Alcuni funzionari del governo sostengono che, nel bombardamento, sarebbe stata colpita l’abitazione di Khouildi Hamidi, uno dei dodici membri del Consiglio del comando rivoluzionario, che sarebbe rimasto illeso. La Nato ha diramato una nota ufficiale sostenendo che si è trattato di “un attacco di precisione su un obiettivo militare legittimo, un nodo di comando e controllo che è stato coinvolto nel coordinamento di sistematici attacchi al popolo libico”.


842 758 93 7 7 39

Afghanistan Pakistan India Thailandia Filippine Birmania Striscia di Gaza

402

Iraq Israele Palestina Nord Caucaso Turchia Siria Yemen

13 286 269

3 35

Il 5 luglio scorso due cittadini di Rafah sono morti in seguito a un attacco aereo dell’aeronautica israeliana. Due caccia da guerra hanno lanciato almeno due missili contro un gruppo di attivisti palestinesi riuniti in un campo di ulivi a est di al-Musaddar, villaggio nel centro della Striscia di Gaza, a quasi 600 metri di distanza dal confine con Israele. Nel corso del raid sono morti Mohammed Abu Sa’id Jazar, di 29 anni, e Mo’ammar Abu Kamal Hamdan, di 30 anni. Un terzo attivista è rimasto gravemente ferito dalle schegge.

Uccise dopo essere state stuprate dai soldati dell’esercito: vittime sei donne birmane di alcuni villaggi dello Stato di Katchin. È accaduto il 17 giugno nei pressi di Bhamo, al confine con la Cina e l’India. I militari hanno prima abusato di sei donne del villaggio e poi ne hanno uccise tre, una di fronte agli occhi del marito che è stato immobilizzato e costretto a guardare. Un’altra è morta in seguito alle ferite riportate durante le razzie del gruppo. Il giorno dopo, nel piccolo villaggio di Dum Bung, un’altra squadra di militari ha catturato i membri di tre famiglie e violentato sei donne che tentavano di scappare. Sette bambini sono stati uccisi. In un altro villaggio, Je Sawn, i soldati hanno ucciso una bambina di sette anni e la nonna, dopo aver abusato anche di lei. Per gli esperti di diritti umani, gli stupri di gruppo vengono ordinati direttamente e sistematicamente dagli alti vertici della giunta militare di Rangoon.

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reuters/contrasto

Birmania


cinema Š Festival del film Locarno

Sere d’estate

Tutti fuori, all’aria. I festival invadono gli spazi pubblici: cinema a Locarno, letteratura in Sardegna e a Mantova, arte a Venezia, teatro a Bassano del Grappa e ad Andria. Ma anche una rassegna di documentari in Francia e un meeting internazionale di hacker nei boschi vicino a Berlino. Il tutto per menti frizzanti anche ad agosto

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85 cinema


Teatro di

Simona Spaventa

La calda estate dei festival scorre da Nord a Sud, coraggiosa e capace di resistere ai venti di crisi. Due esempi molto interessanti, ai capi opposti dello stivale, sono Operaestate, il festival “diffuso” che punteggia di teatro, danza e musica più di trenta “città palcoscenico” attorno al cuore pulsante di Bassano del Grappa, in Veneto e Castel dei Mondi, che invade la cittadina pugliese di Andria e il bel castello di Federico II con una dieci giorni di respiro internazionale. Già entrato nel vivo – l’inaugurazione è stata a fine giugno – Operaestate riserva alla fine di agosto la sua costola più innovativa e “militante”: B.Motion, autentico festival nel festival che, da sei anni, coltiva un vivaio di giovani talenti che sostiene con residenze e coproduzioni. Vetrina delle nuove generazioni del nostro teatro, ma anche delle ultime tendenze della danza contemporanea internazionale, concentrerà trentadue appuntamenti, molti in prima nazionale. Per il teatro, i nomi sono quelli dei gruppi dell’avanguardia più curiosa e aperta alla ricerca e alla contaminazione tra le arti. Tornano i veronesi Babilonia Teatri con il loro sconvolgente The End, nato proprio qui l’anno scorso in forma di studio e ora maturato a una dura invettiva, visionaria e senza sconti, contro la rimozione della morte. È un ritorno anche quello degli Anagoor che in Fortuny prendono spunto dalla figura del collezionista Mariano Fortuny per uno sguardo su Venezia, simbolo della bellezza dell’arte e della sua fragilità. I dettagli di una fotografia ingigantiti da un megaschermo permettono ai Città di Ebla di costruire una narrazione, come amplificata da un microscopio, nel loro The Dead, ispirato al racconto di Joyce, mentre sgretolano la favola per parlare di un presente senza miti i Ricci/Forte con Grimmless. Freschi di premio Hystrio, i pugliesi Fibre Parallele in Duramadre fanno un ritratto spietato della Terra, vista come una vecchia e rancorosa matriarca del Sud che ama i suoi figli fino a farli morire. Tutto internazionale il côté della danza, con nomi come il cileno Rodrigo Sobarzo, l’israeliana Yasmeen Godder, l’inglese Eva Recacha. Al via a fine mese anche il festival Castel dei Mondi di Andria che, diretto da Riccardo Carbutti, alla sua quindicesima edizione conferma la sua vocazione in bilico tra l’attenzione alla scena nazionale – e anche locale, con il sostegno a nuove produzioni di compagnie della zona – e l’apertura a proposte internazionali. Un mix premiato l’anno scorso dall’associazione dei critici, e soprattutto dal pubblico, in crescita costante (nel 2010 gli spettatori sono stati 19mila), affascinato anche dalle location: quest’anno, il 31 agosto si tornerà nella fortezza ottagonale ed esoterica di Castel del Monte per uno degli spettacoli più attesi, l’inquietante Amleto del Teatro del Carretto, con attori e pupazzi mossi su una scacchiera. Inconsuete anche altre proposte, giocate sulla rottura dello spazio teatrale tradizionale. Nella serata inaugurale, si scende nei sotterranei di Palazzo Ducale con la compagnia italo-inglese Il Pixel Rosso che invita due spettatori alla volta, al buio, a sedersi su una sedia a rotelle e a lasciarsi andare a un’esperienza multisensoriale guidata da strumenti tecnologici per il suo And The Birds Fell From The Sky, in prima nazionale. Una decina di spettatori-voyeur saranno invece i commensali di una padrona di casa sola nel suo appartamento con Secret Room della compagnia Cuocolo-Bosetti, piemontese d’origine ma australiana d’adozione. Altre punte di diamante della programmazione, Roberto Latini che rivisita Pinocchio in Noosfera Lucignolo; il teatro visuale degli Anagoor che in Tempesta si ispirano al Giorgione e il talento struggente di Gianfranco Berardi, straordinario attore-autore tarantino non vedente che ripropone il suo duro Briganti.

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Operaestate – B.Motion, Bassano del Grappa, dal 23 agosto al 3 settembre (www.operaestate.it) Castel dei Mondi, Andria, dal 26 agosto al 4 settembre (www.casteldeimondi.com)

Clement Layes

Florence Delahaye

Da un capo all’altro


Rete

L’Internazionale hacker di

Arturo Di Corinto

Il Chaos computer club è il circolo di hacker più antico del vecchio Continente. Fondato nel 1981, ha compiuto trent’anni quest’anno. Un’ulteriore occasione per festeggiarli è data dal Chaos communication camp, un evento internazionale per hacker e affini, lungo cinque giorni, dal 10 al 14 agosto. Anche questa volta si terrà all’aria aperta vicino a Berlino dove il gruppo è nato. L’incontro si ripete ogni quattro anni ed è un momento di condivisione, in stile hacker, di metodi, strumenti e conoscenze su informatica, hardware e telecomunicazioni. Se siete saltati sulla sedia a leggere di un campeggio di hacker vicino alla capitale della fortezza Europa, rilassatevi. Ricordate che gli hacker non sono quelli che vi raccontano al telegiornale. La parola inglese viene dal verbo “to hack”, che significa “tagliare”, “spezzare”, “sfrondare”, “sminuzzare”, “aprirsi un varco” e hacker sono storicamente i programmatori informatici capaci di ridurre il numero di istruzioni per i computer attraverso un “hack”, cioè una scorciatoia. Il termine hacker nasce al Mit di Boston fra gli studenti che dagli anni Sessanta in poi si dedicheranno a scrivere programmi di comunicazione e videogame. Si svilupperà una vera e propria cultura, caratterizzata da un’etica precisa e tratti ricorrenti: “consentire l’accesso a tutto ciò che può insegnarti qualcosa sul mondo”, i computer, appunto, che da oggetti per il calcolo balistico o le simulazioni militari vengono reinterpretati come strumenti di connessione fra le persone. È una cultura coeva a quella di internet che, tra l’altro, contribuiscono a sviluppare. La parola hacker, perciò, non designa affatto un “pirata informatico”, ma indica un’attitudine e una pratica gioiosa di condivisione nell’uso dei computer, intesi come strumenti per cambiare il mondo. Tra gli hacker più influenti vanno ricordati Richard Stallman e Bruce Perens, padri fondatori del movimento del software libero e dell’open source, innovatori come Steve Jobs e il giovane Bill Gates. Tutta gente con un chiodo fisso: consentire al maggior numero di persone di poter usare un computer. Hacker sono anche gli sconosciuti che vivono tra noi facendo cose “normali” di estrema utilità, come riciclare i computer e ridurne l’impatto ecologico, o scrivendo software libero per elaborare geodati. Gli hacker non sono sempre d’accordo fra di loro su che cosa significhi essere un hacker, ma chi aumenta i gradi di libertà di un sistema chiuso e insegna ad altri come mantenerlo libero ed efficiente può certamente essere definito hacker. Democratizzare l’accesso all’informazione è stata esattamente la missione del Chaos computer club fin dall’inizio. Non è un caso che tra i fondatori del gruppo ci sia Wau Holland, da poco scomparso, al quale è intitolata la fondazione attraverso cui Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange, raccoglieva le donazioni per sostenere la propria battaglia contro le malefatte dei governi o le ipocrisie della diplomazia internazionale. Trasparenza per i consumatori e democrazia per i cittadini sono tra gli obiettivi di questi hacker tedeschi che a più riprese hanno denunciato la scarsa sicurezza delle transazioni online e le tecniche di controllo digitale verso poveri e migranti, riuscendo addirittura ad acquisire le impronte digitali del ministro dell’interno tedesco Wolfgang Schäuble come forma di protesta contro l’uso dei dati biometrici da parte della autorità. Il programma del Communication camp 2011 è ambizioso: sviluppare sistemi e tecnologie per hackerare lo spazio cosmico. Roba da “nerd”? In realtà è una denuncia nei confronti dell’attuale modello di sviluppo, dell’uso sconsiderato di risorse non rinnovabili, dell’inquinamento, della povertà, della fame, prodotte da chi mette il profitto prima delle persone. Nel programma non mancano orti spaziali, moduli abitativi lunari, gestione e riciclo dell’acqua in assenza di gravità. Tutte scuse per immaginare insieme una società migliore, a cominciare dalla Terra. http://events.ccc.de/camp/2011


Cinema

Il mondo in Svizzera

© Festival del film Locarno

di Barbara

Sorrentini

Internazionale, meticcio e di qualità. Il Festival internazionale del film di Locarno mantiene le sue caratteristiche principali anche per questa 64a edizione. La prima si riferisce al pubblico e al clima che si respira nella cittadina svizzera affacciata sul lago Maggiore: tra registi, delegazioni, stampa e gente che frequenta il festival si sentono parlare lingue meno scontate e si incontrano volti, costumi e culture provenienti dai più distanti luoghi del mondo. Meticcio e di qualità è riferito ai film, alle storie, ai temi proposti e a come vengono trattati, spesso in modo sperimentale, attraverso nuove forme di linguaggio. Abbattimento delle frontiere e apertura al dialogo sono argomenti di riferimento per un cinema d’autore, generalmente poco visibile, che tratta temi come immigrazione, condizione femminile nei Paesi islamici, diritti umani, emarginazione, disabilità e isolamento. Lo confermano i film distribuiti nelle differenti sezioni, a partire da quelli nel concorso internazionale tra cui l’unico italiano in gara per il Pardo d’oro, Sette opere di misericordia, diretto da Gianluca e Massimiliano De Serio. La pellicola mette a fuoco il rapporto intricato e astioso tra Luminita, una ragazza clandestina scappata da una baraccopoli, e Antonio, un anziano ombroso e malato interpretato da Roberto Herlitzka. In Beirut Hotel la regista libanese Danielle Arbid segue la storia di una cantante in cerca di un percorso individuale per allontanarsi dall’ex marito che rivendica un dominio su di lei. Curiosa e originale la scelta di Anca Damian che con Crulic, film di animazione e inserti fotografici, riporta alla memoria la vicenda di Claudiu Crulic, il ragazzo rumeno che si lasciò morire in prigione dopo quattro mesi di digiuno volontario. Rinchiuso per furto nel 2008 in un carcere polacco, Crulic intraprese lo sciopero della fame, proprio come fece Bobby Sands, per dimostrare la propria innocenza. Il film è una coproduzione tra Polonia e Romania e, oltre a seguire Crulic fin dall’infanzia, riporta alcuni aspetti controversi della vicenda: i medici polacchi processati per averlo lasciato morire, il ministro degli Esteri romeno che diede le dimissioni e il console richiamato in patria dal presidente. Dal Cile si vedrà una storia che si intreccia con la realtà del devastante terremoto del 27 febbraio 2010. El año del tigre diretto da Sebastián Lelio si muove in un paesaggio sconquassato, fatto solo di macerie, detriti e abitazioni rovesciate in cui un uomo scappato dal carcere cerca la libertà, ma trova soltanto morte e distruzione. Tra le righe di questo film si intravede il ricordo mai rimosso della dittatura militare che, come il terremoto, ha fatto sparire tra gli abissi e sotto terra decine di migliaia di cittadini cileni. Un titolo che rimanda ancora alle dittature militari del Sudamerica è Vol Special. In realtà è un film svizzero che riflette sulla repressione che in quel Paese si esercita sui cittadini stranieri. Il regista Fernand Mélgar si muove tra i centri di detenzione in cui i sans papier vengono rinchiusi prima di essere espulsi. Accanto al Pardo d’onore per il regista Abel Ferrara, alla retrospettiva dedicata a Vincent Minnelli e alla serata in omaggio del regista culto giapponese Hitoshi Matsumoto, quell’immenso cinema sotto le stelle che è la Piazza Grande di Locarno alternerà film dalle


tematiche impegnate pensati per un pubblico più ampio. Come il delicato Bashir Lazhar storia di un professore algerino rifugiato in Canada che per salvarsi si spaccia per insegnante in una classe rimasta scoperta dopo il suicidio di una professoressa. Vicende drammatiche che si intrecciano, dando vita a un’esperienza positiva e costruttiva, sullo sfondo di un benessere che non ammette disagio. O il bellissimo Le Havre di Aki Kaurismaki, favola sociale ambientata nella cittadina portuale francese dove un giovanissimo immigrato cerca riparo dalla polizia che lo insegue e lo trova nella casa di un ex lustrascarpe, che gli apre le porte costruendo un rapporto del tipo nonno-nipote molto solidale. Dall’Italia ancora un film per Cineasti del Presente, L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin, romanzo di formazione e di passaggio all’età adulta di un ragazzo sordo nel Nordest italiano, dove qualsiasi tipo di diversità si trasforma in un peso esistenziale.

Documentario

Festival internazionale del film di Locarno, dal 3 al 18 agosto

Una festa doc. di

Matteo Scanni

Con Sheffield e Idfa-Amsterdam, Visa pour l’Image forma il trittico dei grandi festival che dedicano una sezione al web documentario. Ma se i primi due mantengono un legame simbiotico con la cinematografia documentaria, privilegiando quindi la forma e gli schemi del racconto, la rassegna settembrina di Perpignan approccia le narrazioni crossmediali dal terreno ruvido e sporco del fotogiornalismo, di cui la cittadina francese è il principale santuario mondiale. Dal 1989, Visa celebra con successo crescente un rito che ha del miracoloso, chiamando a raccolta migliaia di professionisti e appassionati del fotoreportage, freelance, corrispondenti d’agenzia, guru della vecchia guardia e cani sciolti. Ma forse il merito principale della manifestazione è di offrire anche al pubblico dei non addetti ai lavori decine di mostre, workshop e una serie di splendide proiezioni serali su maxischermo nella suggestiva cornice del Camposanto. Come tutti gli stati generali dell’informazione che si rispettino, Perpignan è il posto giusto per fare incontri, sbirciare storie non ancora pubblicate, conoscere autori emergenti, discutere dello stato di salute della professione e, perché no, condividere nuovi progetti. Proprio perché Visa è uno di quei festival che ha la consapevolezza di poter dettare l’agenda dei temi e degli stili, la sezione Webdoc, promossa per il terzo anno consecutivo da France 24 e Rfi, ha un sapore particolare, e non tanto per il bottino in palio (ottomila euro), quanto per la qualità dei lavori selezionati. Come si evolverà il genere? Secondo il patron di Visa, Jean-François Leroy, le produzioni aumenteranno, ma costeranno al massimo poche migliaia di euro. Saranno lavori finalizzabili rapidamente, con un grado di interattività minima, realizzati da mini team con competenze miste (filmmaker/fotografo, grafico, ingegnere informatico). L’Html2 non è ancora pronto a sostituire le potenzialità narrative di Flash, che agenzie web come Honkytonk hanno messo di recente al centro di innovative piattaforme di montaggio proprietarie (Klynt). Sul fronte dei finanziamenti, crescerà l’impegno delle Ong e diminuirà quello delle testate giornalistiche e televisive tradizionali. Insomma, quasi tutte buone notizie. Come al solito, il successo del bando ha colto di sorpresa gli organizzatori, alle prese con centinaia di opere da visionare. A côté della sezione competitiva, una retrospettiva di Samuel Bollendorf, “le roi” del web doc alla francese, e probabilmente la proiezione di Boomtown Babylon, presentato in anteprima a Idfa. Per gli appassionati del genere, Perpignan vale sempre la gita.

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Visa pour l’Image, Perpignan, dal 27 agosto all’11 settembre (www.visapourlimage.com/index.do)


Tutti parlano di Venezia questa estate per la Biennale dell’arte, più e meno contestata. Ma in città ci sono altre occasioni davvero meritevoli: un festival vero e proprio, ricchissimo. La prima è la mostra dedicata a Pier Paolo Calzolari dal museo Ca’ Pesaro. Con un paio di dozzine di opere esposte, riesce a dare al pubblico l’opportunità di attraversare un mondo pieno di intensità, di densità concettuale, di rigore formale (pensiamo alla Natura morta del 2008, un candido altare la cui mensa sembra sospesa nello spazio e, trattandosi di un invito a riflettere sul tempo, anche nel tempo) accompagnata da un’ironia leggera come le piume tanto presenti in mostra o come la nuvoletta portata a spasso da un metronomo davanti all’immagine di un cielo. In modo silenzioso, luminoso, vivace, la mostra, definita un “atto di passione”, impone il lavoro di Calzolari nel paesaggio delle nostre visioni possibili. Spostandoci un po’ tra calli e canali, un’altra esperienza di forte emozione è TRA, a Palazzo Fortuny, un’affascinante dimora al cui interno è stato predisposto il terzo di una serie di appuntamenti che già nelle edizioni precedenti avevano riscosso un certo successo. TRA è un vero festival di arti: vi troviamo una grande quantità di opere del Novecento fino ai giorni nostri, ma anche lavori di culture lontane, oggetti, macchinari, sofisticherie di ogni genere. Quasi sempre spicca la qualità di opere e allestimento, dal video di Marina Abramovic al quadro di Osvaldo Licini, alle due porte una di Jannis Kounellis e una di Anish Kapoor. All’ultimo piano si nota una grande teca di Maurizio Donzelli. Guardandola percepiamo una forma che sembra nascosta dietro a un sistema di specchi e che cambia la propria natura a seconda della nostra posizione: si chiama Mirror. Dice Donzelli: «Lo si osserva muovendosi e guardando chi lo osserva sembra quasi che danzi. Poi resta la somma delle sensazioni che si sono sedimentate guardandolo. Tutto ciò è inutile, non c’è un ordine né una gerarchia di questa immagine, ma se ci pensi rientra nella sfera del desiderio e dell’abbandono». Pier Paolo Calzolari, Ca’ Pesaro, Venezia dal 4 giugno al 30 ottobre (www.museiciviciveneziani.it) TRA - The Edge Of Becoming, Palazzo Fortuny, Venezia dal 4 giugno al 27 novembre (www.museiciviciveneziani.it)

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Courtesy Museo Fortuny e Caterina Tognon del Macro (Museo di Arte Contemporanea) di

Vito Calabretta

▲ Maurizio Donzelli, Mirror, 2011 site specific nella mostra TRA ▼Pier Paolo Calzolari, Natura morta, 2008 tempera grassa al latte, ferro, fili di cotone, tela in cotone, uovo, 280x160x80 cm, collezione privata, Milano

Courtesy: Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre Pellice. foto: Paolo Semprucci

Arte

Tutto a Venezia


A work of Acetate Etienne Rey Marseille, France

PO649

Persol.com


di

Alessandra Bonetti

Festivaletteratura, Mantova, dal 7 all’11 settembre (www.festivaletteratura.it) Cabudanne de sos poetas, Seneghe (Or), dal 25 al 28 agosto (www.settembredeipoeti.it)

La piazza è sempre stata la sua vocazione. Ma quest’anno il Festivaletteratura di Mantova ne fa una bandiera, sotto cui si muovono le rivoluzioni del Mediterraneo, la riscoperta della città come centro di relazione e di scambio, il racconto di un Paese, memoria, identità e ambiente. «Può sembrare strano, ma l’idea della piazza è nata in maniera casuale. Il festival non ha mai seguito un tema, perché la scelta di un argomento è vincolante e invece vogliamo essere liberi di invitare gli scrittori e i libri che ci piacciono di più», racconta Marzia Corraini, una degli otto membri del comitato organizzatore. «Ma, quest’anno, tirando le fila ci siamo accorti che molti degli incontri proposti dagli stessi autori ruotavano intorno a un unico concetto: riappropriarsi della piazza». Forza dell’attualità o espressione di un bisogno profondo che è diventato cronaca? Partiamo dalla più celebre delle piazze, quella di Tahrir, simbolo del movimento che ha dato vita a La rivoluzione egiziana, titolo del nuovo libro di Ala al-Aswani che verrà presentato in anteprima a Mantova: si parla di Mubarak e della sua famiglia, ma anche di quell’Egitto della strada che è sempre stato al centro dei suoi romanzi, fra cui l’indimenticabile Palazzo Yacoubian. Storie minime e fatti di cronaca usati come parabola per spiegare la causa politica dei mali del Paese. Protagonisti: i giovani, le donne, i poveri, gli impiegati, i musulmani, i copti che sono entrati anche nelle corrispondenze dei blogger egiziani Amira al-Hussaini e Ramy Raoof a cui il festival darà voce e volto. Dall’Egitto alla Libia con le storie di un celebre esule, Hisham Matar (Booker Prize nel 2006 con Nessuno al mondo) di cui Einaudi pubblica a settembre Anatomia di una scomparsa: al centro della storia c’è un figlio che perde il padre in maniera ambigua, come successe all’autore quando nel 1990 il genitore, oppositore di Gheddafi, scomparve nel nulla e ancora oggi non si sa che fine abbia fatto: “Non credo che mio padre sia morto. Ma nemmeno credo sia vivo”. Alcune volte un romanzo può far capire la politica contemporanea meglio di un saggio. Ma torniamo alle piazze, laboratorio sulle città e i territori che cambiano, come testimoniano Alain Mabanckou e Uzodinma Iweala che con il progetto Pilgrimages hanno spedito per due settimane quattordici scrittori africani in altrettante città del continente a esplorare i paesaggi urbani: il risultato sono libri di viaggio che raccontano la complessità delle metropoli del Terzo mondo, fra cui Cape Town, colta durante i giorni della coppa del mondo di calcio. Per venire a territori a noi più vicini, Stefano Bartezzaghi insieme alla redazione di Doppiozero cerca di ricostruire la mappa dell’Europa attraverso le parole intraducibili: chiunque – pubblico e autori – potrà postare su internet o fisicamente su un muro nella centrale piazza delle Erbe le sue parole con relative definizioni. Per conoscersi e comprendersi attraverso le differenze. Quelle, per esempio, che hanno segnato un solco di pregiudizi e incomprensioni fra l’Italia e i vicini Paesi dell’Est: il romeno Varujan Vosganian e il serbo Dragan Velikic, due narratori prestati alla politica, riflettono sulla disillusione verso l’Occidente e il rischio di emarginazione che corrono gli intellettuali, come ai tempi della cortina di ferro. Prova ne è la scarsa risonanza dei loro libri, acclamati in patria, ma praticamente sconosciuti all’estero: a tradurli in Italia ci è voluta l’intraprendenza di due piccoli editori trentini, Keller (fra l’altro il primo a pubblicare il premio Nobel Herta Müller) e Zandonai. Parlando di confronto e partecipazione, ci piace segnalare anche un altro festival, piccolo ma molto particolare: Cabudanne de sos poetas, il settembre dei poeti in sardo, che si svolge a Seneghe, in provincia di Oristano. Qui non ci sono alberghi, autori e pubblico vengono ospitati nelle case dei privati. E fra le abitazioni in pietra lavica del Montiferru, “dove è facile trovare esperti di metrica e stile nei bar e nelle campagne come altrove tra i banchi delle università”, si danno appuntamento ogni anno i poeti, dialettali e non, di tutta Europa. Ci saranno i versi greci, francesi e italiani, con uno sguardo sulla lirica giovane curato da Christian Raimo, mentre Mariangela Gualtieri proporrà letture di piazza e dentro le stanze. Arriveranno anche i nomi noti, Carlo Lucarelli, Lella Costa e Antonello Salis.

Simona Toncelli

Libri

In piazza!


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Io, l’orso di

Marina Morpurgo

illustrazioni

Ale+Ale

Ale+Ale Sono Alessandro Lecis e Alessandra Panzeri. Da alcuni anni si divertono a rappresentare realtà possibili combinando ritagli di vecchi giornali, disegni probabili e sogni. Vivono e lavorano su un’astronave che gravita intorno al pianeta terra, ma grazie al teletrasporto è possibile incontrarli dalle parti di Milano. Collaborano con editori lunari, riviste galattiche e pubblicità stellari. Il loro piatto preferito sono i maki e nei weekend portano noccioline agli scoiattoli.

L’orso bianco dimenava il testone, annusando curioso l’aria. Poi dalla valle lattiginosa di nebbia, dove ci sbarrava il cammino, venne avanzando lentamente verso di noi, con aria un poco svagata, e come per caso. I cani si erano zittiti e Giovanni e Thérèse, in ginocchio sulla neve, avevano le canne dei fucili puntate contro quella sagoma che fissavamo ipnotizzati, in un silenzio in cui ci pareva quasi di sentire il battito impazzito dei nostri cuori. «Se si mette a correre, in cinque secondi ci è addosso», disse Giovanni, mandandoci per traverso la pasta liofilizzata, e poi premette il grilletto della lanciarazzi. E mentre stavamo lì a vedere come avrebbe reagito (rinculò stizzito, continuando a stare a cavalcioni delle tracce degli sci) io mi domandai con un certo disappunto – cazzo, quell’idiota di un orso delle isole Svalbard! – cosa avrebbe detto di tutto ciò il mio ex analista freudiano. A distanza di anni dalle sedute mi tormentava ancora una questione irrisolta. No, non era un transfert, ma una disputa circa la quale non mi era mai riuscito di capire se ci fossero davvero delle motivazioni psicoanalitiche, o se fosse un banale caso di posizioni personali inconciliabili, del tutto destituito di basi scientifiche. Lui pensava che andare in montagna come ci andavamo io e i miei amici – fuori dalle rotte turistiche degli skilift e degli Knödel – fosse da deficienti, tutto sommato la manifestazione più lampante di una nevrosi non preoccupante ma comunque presente. Purtroppo le sedute erano quasi sempre di lunedì e mi riusciva difficile occultare il naso spellato, le labbra riarse dal vento e soprattutto i lividi e i graffi procurati dal mio rapporto carnale e goffo con il granito delle Alpi. Pareva che il mio percorso personale potesse considerarsi concluso solo nel momento in cui avessi passato un sereno fine settimana alle terme, o ancora meglio un’estate intera mollemente coricata sul ponte di una barca a vela a prendere il sole. Opponevo, ovviamente, una ferma resistenza, forte del fatto che – tanto per dirne una – a Freud le montagne piacevano un sacco, e che per raffigurare il rapporto tra paziente e analista avesse fatto ricorso alla metafora della guida alpina. Ma quello non demordeva. La montagna è il mondo delle regole, diceva, sapendo che le regole non le reggevo proprio. La montagna è il mondo del

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e Freud

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Io, l’orso e Freud

maschile, diceva, mentre io avrei dovuto abbandonarmi al mare, simbolo di quella femminilità che faceva un po’ paura. A me sembrava che non ci fosse nulla di più naturale, per una femmina, del volersi arrampicare su un maschio – obiezione immancabilmente respinta (l’interpretazione era troppo grezza). In ogni caso rifiutavo categoricamente di abbandonarmi a quella distesa d’acqua di profondità insondabile, blu blu blu o addirittura nera e popolata da creature viscide e inquietanti. Se per far pace con la mamma mi toccava rischiare di finire nelle fauci di uno squalo o di un barracuda, sì insomma, fanculo la mamma e tutte le femmine del mondo! Mi pareva che nei confronti della montagna quell’uomo avesse un pregiudizio infondato, quell’astio irritato e incredulo di chi vede i monti come una serie infinita di goulotte ombrose e glaciali e di dirupi danteschi, grigi e ferrigni. Io esasperata portavo le foto di pendii morbidi, profumati di fiori o candidi di neve. Nisba. Non lo convincevo neppure con la forza dei sogni. Inutilmente mi sgolavo facendo presente che le pianure erano teatro dei miei incubi peggiori, erano distese percorse da fiumi neri come lo Stige, su cui mi inseguivano dei nazisti e dove il mio amato barboncino rischiava di finire sotto un’automobile senza che io riuscissi a salvarlo, pietrificata in urlo muto e immobile, impotente. Nei sogni le montagne erano pulite e luminose. La notte che ero cascata in un crepaccio (succede) ci avevo trovato un ascensore di plexiglas dal design squisito, che mi aveva depositata dolcemente e in silenzio nella pancia del ghiacciaio dove misteriosamente splendeva un bel sole e dove mi attendeva mio padre in camice bianco (neanche questo dettaglio così freudiano era valso a convincere quel maledetto zuccone). La questione era dunque rimasta aperta, ma io mi ero convinta di avere ragione. La montagna era il regno della felicità e dei sani di mente, dei risolti e dei pacificati, maschi o femmine che fossero. Ci andasse lui alle terme, come i nonnetti artritici. Ma adesso quel dannato carnivoro artico – lui e la sua smodata fame postinvernale! – stava volgendo a mio sfavore quella lotta a distanza. L’orso rimase a fissarci a lungo, con irritazione. Camminò nervosamente avanti e indietro nella piana, prima di imboccare la valle delle Volpi, sparendo alla vista dietro una crestina nevosa. Noi dovevamo proseguire per la valle delle Renne, che era qualche centinaio di metri più avanti. Giovanni, con il fucile a tracolla, ci invitò a restare tutti vicini. Io mi immaginavo già che quell’orso maligno sarebbe balzato fuori, tendendoci un agguato e facendo scempio delle nostre carni. Con un occhio alla punta degli sci che correvano traballando sulla neve dura e sdrucciolevole, piena di sastrugi, e l’altro occhio alla valle delle Volpi, rischiavo uno strabismo divergente particolarmente antiestetico. Ma l’orso si comportò lealmente (o forse non era troppo furbo). Coricata nella tendina con le orecchie tese, meditavo sulla sconfitta. Sì, forse andavo in montagna per punirmi. I cani avrebbero vigilato, almeno? Il sacco a pelo però era calduccio e morbido e orso o non orso mi assopii. Sognai di essere in montagna, ai margini di un bosco. Davanti a me batteva la traccia nella neve fresca e scintillante uno scialpinista biondo, alto e silenzioso, che si girò a metà pendio, sorridendo nel sole. Mi svegliai sogghignando, con un senso di trionfo. Lo avevo fregato, l’analista. Nel sogno la traccia dello scialpinista era fatta di tanti cuori disegnati nella neve, e lui li aveva lasciati apposta per me. L’orso non lo vedemmo più, con buona pace nostra e sua.


Invito a Firenze

Si può fare. Si può superare la guerra, discuterne concretamente, mettendo in fila buone idee per questo obiettivo ambizioso. L’appuntamento è al decimo incontro nazionale dal 6 all’11 settembre


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Come spendereste 14 miliardi? di

Cecilia Strada

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Adele Lorenzi

Questo mese do i numeri. E no, non è il caldo. Do i numeri, poi voglio darvi anche una data e un indirizzo. Se aveste 14 miliardi di euro, come li spendereste? È la cifra che, secondo i calcoli di un generale dell’esercito americano, gli Stati Uniti spendono ogni anno per l’aria condizionata dei soldati impiegati nelle missioni militari in Afghanistan e Iraq. Fanno 26.636 euro al minuto. Nel 2010, Emergency ha speso in Afghanistan 4.786.429,66 euro. Fanno 9 euro al minuto. E con questi soldi, nel 2010, ha curato in quel Paese 341.082 persone, in tre centri chirurgici, nei 28 posti di primo soccorso, nel centro di maternità che fa nascere più di dieci bambini al giorno. L’aria condizionata per i soldati: 26mila euro al minuto. Curare bene e gratis chi ne ha bisogno: costa 9 euro al minuto. Tremila volte meno. Si può fare lo stesso gioco con cifre più piccole: cinquantamila euro? È il costo di una, una sola bomba GBU-31 sganciata in Afghanistan. Una bomba sganciata dalla Nato “sui combattenti nemici”, che molto più probabilmente – a giudicare dalle corsie dei nostri centri chirurgici – spianerà un contadino nel campo, una famiglia che dorme nella sua casa di paglia e fango, un ragazzino che va a prendere l’acqua al fiume. O si può farlo con cifre più grandi: come 15 miliardi, il costo di 131 caccia militari F-35 che il governo italiano ha deciso di comprare (sì, proprio questo nostro Paese,

lo stesso Paese che taglia la spesa sociale, i soldi per scuole, ospedali, pensioni... questo nostro Paese che taglia tutto ma non la spesa militare). Domanda: secondo voi, come è meglio spendere questi soldi? Se l’obiettivo è la pace, quale investimento sembra migliore? Investire in bombe o curare persone? Comprare cacciabombardieri o costruire scuole? Noi non abbiamo dubbi. E di questo ci piacerebbe parlare, con tanti ospiti, e con voi, dal 6 all’11 settembre a Firenze, al decimo incontro nazionale di Emergency. Una settimana di incontri, spettacoli, parole e musica per ragionare insieme su come andare “Oltre la guerra”. P.S. Ogni caccia F-35 costa un po’ più di 114 milioni di euro. Con ogni caccia si potrebbero costruire un’ottantina di asili nido. Che cosa preferireste, per i vostri figli? Un F-35 o un asilo nido?

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Dal programma Martedì 6 settembre Firenze Fiera, Palazzo Affari, piazza Adua 1, ore 18

La rappresentazione della guerra

Lamis Andoni, analista e commentatrice di Al Jazeera, Loretta Napoleoni, economista e saggista, Marco Garatti, chirurgo di Emergency, Maso Notarianni, direttore di E-il mensile

Teatro Verdi, via Ghibellina 99, ore 21.30 Concerto/spettacolo di Stefano Bollani con I Visionari Mercoledì 7 settembre Teatro Verdi, via Ghibellina 99, ore 21

Come ti invento un nemico

Conduce Gad Lerner. Con Mark Lacy, docente dell’Università di Lancaster Salvatore Palidda, docente Università di Genova, Cecilia Strada, presidente di Emergency

Giovedì 8 settembre Firenze Fiera, Palazzo Affari, piazza Adua 1, ore 18

Un F-35 o un asilo nido?

I costi della guerra e come si potrebbero spendere i nostri soldi Leopoldo Nascia, ricercatore Istat rete Sbilanciamoci, Francesco Vignarca, Altreconomia – ControllArmi, Paolo Busoni, storico militare, Emergency

Teatro Verdi, via Ghibellina 99

Spettacolo Prospettiva sulla guerra civile di Serena Sinigaglia

Venerdì 9 e sabato 10 settembre Mandela Forum, ore 21.30

Oltre la guerra

Parole e musica per andare oltre la guerra con Serena Dandini, Fiorella Mannoia, Paola Turci, Elio e le Storie Tese, Casa del Vento e tanti altri ospiti

I dibattiti sono a cura di E-il mensile. Il programma dell’incontro è in continua evoluzione: gli aggiornamenti sui siti www.e-ilmensile.it e www.emergency.it


INCONTRO NAZIONALE 6/11 settembre 2011 - FIRENZE 10° incontro nazionale - Sei giorni di conferenze, musica, spettacoli, mostre e dibattiti per andare insieme oltre la guerra.

EMERGENCY

w w w. e m e r g e n c y. i t

INFO e CONTATTI: firenze.emergency.it – T 02 881881

per favore, segnati questa data


Ale+Ale

Filastrocche Giochi•Letture•Colori


Se vede una scala Se vede una scala che non si capisca da dove cominci né dove finisca, se vede una scala Ninetta curiosa insieme col nonno il piede ci posa...

testi Alfa

Beta

illustrazioni

Svjetlan Junakovic´

progetto editoriale Carthusia

Edizioni

C’è un bianco Asinello sul primo gradino, saliamone un altro, troviamo un Bambino... ...piccino, che porge un pezzo di pane sul terzo gradino a un povero Cane. Magrino, si vede che mangia di rado!


Ninetta curiosa...

Saliamo il gradino, per terra c’è un Dado. Chi lancia quel dado fa un passo in avanti, sul nuovo gradino dovunque Elefanti! Ma qui non c’è posto, stiam tutti strizzati, dobbiamo salire... ...troviamo dei Frati. Si coprono bene, si stringono il saio, ché subito sopra c’è un grande Ghiacciaio. È vero, fa freddo, mettiamo la giacca? Salendo il gradino s’inciampa in un’H. Chi lascia le acca in mezzo alla via!?

Ma subito sopra c’è l’Infermeria: per chi si fa male è molto opportuna! Di nuovo saliamo, troviamo la Luna. La luna sta in cielo, ancora si sale? Soltanto un gradino, c’è un bravo Maiale: “Non siete arrivati, è solo finita la parte di scala da fare in salita. Coraggio, venite, si scende di qua, se fate attenzione nessuno cadrà!”.

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Che bello, un maiale dotato di voce! Scendiamo un gradino, troviamo una Noce. “È mia, non toccate, il collo vi torco!” ci grida da sotto la voce dell’Orco. Che incontro sgradito, che orrendo gradino, scappiamo! Scendendo c’è solo un Piattino. La tazza è sparita, rubata da un ladro che sotto ha lasciato un bellissimo Quadro. Sul nuovo gradino troviamo una tana: si sente padrona qui dentro la Rana

e strepita e grida che lì non ci vuole. Che maleducata! Ma sotto c’è il Sole. Gradevole prendere il sole in terrazza, scendiamo il gradino, troviamo la Tazza: verrà dal bottino che il ladro ha perduto? Più giù c’è dell’Uva, il succo spremuto da chi l’ha pestata raggiunge il gradino di sotto, ch’è pieno di botti di Vino! E siamo arrivati, possiamo brindare, soltanto una Zebra c’è più da guardare!

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Ma a un tratto la zebra – la cosa stupisce – Con mossa aggraziata si leva le strisce, s’allunga le orecchie... È il bianco asinello! Si torna a salire! Ma qui viene il bello...

“Voi due, dove andate?” la voce è severa, la J contrariata e l’Y nera, la X per la rabbia per poco non scoppia, ma parla per tutti la saggia W doppia: “Abbiamo diritto, è ingiusto il divieto per noi che veniamo da un altro alfabeto!”.

La piccola K – è troppo il suo cruccio! – da Nina riceve in prestito il ciuccio. Nessuno sia escluso, troviamo piuttosto dei nuovi gradini e a ognuno il suo posto! Risalgono insieme, si danno la mano, non c’è nessun dubbio: andranno lontano...

@


pìpol di

Gino&Michele

illustrazione Anna

Cola Susanna Teodoro

guerra e pace “Si trasforma in un razzo-missile con circuiti di mille valvole: tra le stelle sprinta e va!” Ma Ufo Robot è da considerarsi Pace o Guerra? Si apra il dibattito. “Lancia laser che sembran fulmini, è protetto da scudi termici, sentinella lui ci fa... Quando schiaccia il pulsante magico lui diventa un ipergalattico... lotta per l’umanità...”. Guerra? Pace? Guerra e Pace? *** Ho fatto un corso di lettura veloce. Ho letto Guerra e Pace. Parla della Russia. (Woody Allen) *** Cosa dicono due gatti dopo aver fatto la pace? “Mici come prima!”. *** Ho finalmente trovato la pace interiore. Ho seguito il consiglio di un amico molto più tranquillo di me che mi diceva: «Il modo per raggiungere la pace interiore consiste nel portare a termine tutte le cose che abbiamo iniziato». Mi sono guardato intorno per vedere se in casa avevo lasciato a metà qualcosa. Tutto in ordine, tutto portato a compimento. Oddio, c’era un vasetto di Nutella da cinque chili appena iniziato… Non avete idea di come mi sento bene adesso! *** Una poesia di Gianni Rodari. S’intitola Promemoria. Ci sono cose da fare ogni giorno: lavarsi, studiare, giocare, preparare la tavola a mezzogiorno. Ci sono cose da far di notte: chiudere gli occhi, dormire, avere sogni da sognare, orecchie per sentire. Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra.

Un’altra poesia bellissima di Tali Sorek. Più volte abbiamo incrociato i suoi versi in molti siti internet. Ma non abbiamo trovato altre notizie se non che si tratterebbe di una bambina dodicenne israeliana. Ecco la poesia: Ho dipinto la pace. Avevo una scatola di colori brillanti, decisi, vivi. Avevo una scatola di colori, alcuni caldi, altri molto freddi. Non avevo il rosso per il sangue dei feriti. Non avevo il nero per il pianto degli orfani. Non avevo il bianco per le mani e il volto dei morti. Non avevo il giallo per la sabbia ardente, ma avevo l'arancio per la gioia della vita, e il verde per i germogli e i nidi, e il celeste dei chiari cieli splendenti, e il rosa per i sogni e il riposo. Mi sono seduta e ho dipinto la pace. *** Il solito bambino e la solita maestra. Bambino: «Il mio bisnonno ha combattuto contro Napoleone... Mio nonno ha combattuto contro gli austriaci... Mio padre ha combattuto contro gli americani e mio zio contro i russi!». Maestra: «Accidenti, sembra che la tua famiglia non riesca ad andare d’accordo proprio con nessuno...». *** Il grande poeta Giuseppe Ungaretti scriveva dei soldati: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.” E le foglie d’autunno, sugli alberi, se ne stanno ben poco tranquille…


lessi di

Neri Marcorè

fototeca gilardi

nemici leali

Magari I ragazzi della via Paal non sarà un capolavoro, è fin troppo banale se paragonato, che so, al Piccolo Principe o a Pinocchio, eppure è il primo libro che mi viene in mente appena penso alla letteratura per ragazzi. Lo lessi a cavallo tra le elementari e le medie e ora che ho deciso di parlarne in questo numero speciale dedicato in parte all’infanzia mi chiedo quali aspetti mi colpirono tanto, perché ancora oggi lo ricordi così vividamente. L’eroismo del piccolo Nemecsek, certo, disposto persino a morire in nome di un ideale, la saggezza e il carisma di Boka, nel quale ritrovavo in qualche modo gli stessi tratti di un mio amico poco più grande di me, la consolazione che, nonostante la crudeltà che la vita a volte riserva, alla fine, come si dice, il bene vince e il male perde. Evidentemente però c’era qualcosa al di sopra di tutto questo che mi conquistava e ora la individuo nella presenza di sentimenti nobili equamente distribuiti: la lealtà anche tra “nemici”, il riconoscimento del valore dell’altro e, su tutto, il rispetto delle regole, a volte vergate semplicemente sulla propria coscienza individuale prima che su statuti. Due bande di ragazzi alle soglie dell’adolescenza si contendono il controllo di un piccolo pezzo di terra non ancora edificato, l’unico nel centro di Budapest, in cui si possa giocare a pallone; per meglio dire, sono le camicie rosse guidate dal temibile Feri Ats che, dopo una serie di schermaglie e provocazioni, decidono di sottrarlo ai “nostri”. Non poteva mancare il traditore, Gereb – ci sono fiumi di letteratura secondo cui la figura di Giuda è ben più affascinante e necessaria di quella di Gesù – il quale, vistosi sopravanzare da Boka in elezioni democratiche per la scelta del leader, per ritorsione passa segretamente nella banda avversaria e prende l’iniziativa di stringere accordi con il guardiano della segheria confinante affinché scacci i ragazzi della via Paal a favore dei nuovi in cambio di sigari e denaro. Qui subisce un doppio smacco: Ats considera disonorevole la conquista del campo in questo modo, si dovrà combattere lealmente; il gracile Nemecsek, entrato di soppiatto nel quartier generale avversario per riprendersi la bandiera, dimostra tutto il suo coraggio uscendo allo scoperto quando Gereb afferma che i suoi ex compagni sono dei vigliacchi. Nonostante il bagno nello stagno gelato cui Ats lo condanna (e che gli causerà la polmonite), il piccolo soldato esce di scena salutato dall’onore delle armi, mentre il traditore se ne tornerà a casa avvilito e senza più amici. Attraverso la redenzione di Gereb, ancora una volta grazie alla generosità d’animo di Nemecsek, si arriva al gran giorno: in una lunga battaglia senza esclusione di colpi leciti – una camicia rossa che per frustrazione sgambetta l’avversario si lascia condurre a testa china in cella per comportamento scorretto... – la strategia del generale Boka si rivela vincente, i suoi ragazzi mantengono il controllo del campo. Questa gioia è avvelenata dalla scoperta beffarda che il giorno dopo le ruspe entreranno in azione per costruirvi una casa di tre piani e dal lutto per Nemecsek, vero eroe della storia, promosso capitano in uno dei passaggi più commoventi del libro. Dal punto di vista dell’introspezione psicologica e della capacità di restituire la complessità dell’animo umano, se si pensa per esempio a Il signore delle mosche, romanzo con parecchi tratti analoghi, questo risulta più una favoletta, sicuro, ma il valore di un libro, tra i tanti, sta nella capacità di saper parlare, suggestionare, dare riferimenti, soprattutto quando lo si legge in età formativa. Mi viene in mente l’avvilente spettacolo cui danno vita periodicamente alcuni nostri onorevoli, appellativo che di questi tempi risulta a dir poco grottesco, per i quali il rispetto delle regole e dell’avversario politico è un concetto avulso dalla propria formazione culturale. Da quelli che mostrano cappi, sputano, mangiano mortadella in Parlamento, che infilano di nascosto tre righe in una legge in via di approvazione, spacciano per responsabilità la loro ingordigia e sete di protagonismo, deformano il significato delle parole che sarebbero patrimonio comune, mi chiedo non solo che cosa ci sia da imparare ma anche cos’abbiano letto in gioventù. Sono certo che ora classificherebbero l’opera di Molnar tra i libri di fantascienza.

A


Unisci i puntini di

Chiara Noseda


Trova le 10 differenze di

Chiara Noseda

D to al di

C ca zi fo ne da

C to pe re sf tr è


Il mago


Linguaggio di

Gino e Cecilia Strada

illustrazioni

Michela Petoletti

C’era una volta un pianeta chiamato Terra. Si chiamava Terra anche se, a dire il vero, c’era molta più acqua che terra su quel pianeta. Gli abitanti della Terra, infatti, usavano le parole in modo un po’ bislacco. Prendete le automobili, per esempio. Quel coso rotondo che si usa per guidare, loro lo chiamavano “volante”, anche se le macchine non volano affatto! Non sarebbe più logico chiamarlo “guidante”, oppure “girante”, visto che serve per girare? Anche sulle cose importanti si faceva spesso molta confusione. Si parlava spesso di “diritti”: il diritto all’istruzione per esempio significava che tutti i bambini avrebbero potuto (e dovuto!) andare a scuola. Il diritto alla salute poi, avrebbe dovuto significare che chiunque, ferito, oppure malato, doveva avere la possibilità di andare in ospedale. Ma per chi viveva in un paese senza scuole, oppure a causa della guerra non poteva uscire di casa, oppure chi non aveva i soldi per pagare l’ospedale (e questo, nei Paesi poveri, è più la regola che l’eccezione), questi diritti erano in realtà dei rovesci: non valevano un fico secco. Siccome non valevano per tutti ma solo per chi se li poteva permettere, queste cose non erano diritti: erano diventati privilegi, e cioè vantaggi particolari riservati a pochi. A volte, addirittura, i potenti della Terra chiamavano “operazione di pace” quella che, in realtà, era un’operazione di guerra: dicevano proprio il contrario di quello che in realtà intendevano. E poi, sulla terra, non c’era più accordo fra gli uomini sui significati: per alcuni ricchezza significava avere diecimila miliardi, per altri voleva dire avere almeno una patata da mangiare. Quanta confusione! Tanta confusione che un giorno il mago Linguaggio non ne poté più. Linguaggio era un mago potentissimo, che tanto tempo prima aveva inventato le parole e le aveva regalate agli uomini. All’inizio c’era stato un po’ di trambusto, perché gli uomini non sapevano come usarle, e se uno diceva carciofo l’altro pensava al canguro, e se uno chiedeva spaghetti l’altro intendeva gorilla, e al ristorante non ci si capiva mai. Allora il mago Linguaggio appiccicò a ogni parola un significato preciso, cosicché le parole volessero dire sempre la stessa cosa, e per tutti. Da allora il carciofo è sempre stato un ortaggio, il gorilla un animale peloso e non c’era più il rischio di trovarsi per sbaglio nel piatto un grosso animale peloso, con il suo testone coperto di sugo di pomodoro. Questo lavoro, di dare alle parole un significato preciso,


era costato al mago Linguaggio un bel po’ di fatica. Adesso, vedendo che gli uomini se ne infischiavano del suo lavoro, e continuavano a usarle a capocchia, decise di dare loro una lezione. «Le parole sono importanti – amava dire – se si cambiano le parole si cambia anche il mondo, e poi non ci si capisce più niente». Una notte, dunque, si mise a scombinare un po’ le cose, spostando una sillaba qui, una là, mescolando vocali e consonanti, anagrammando i nomi. Alla mattina, infatti, non ci si capiva più niente. A tutti gli alberghi di una grande città aveva rubato la lettera gi e la lettera acca, ed erano diventati... alberi! Decine e decine di enormi alberi, con sopra letti e comodini e frigobar, e i clienti stupitissimi che per scendere dovevano usare le liane come Tarzan. Alle macchine aveva rubato una enne, facendole diventare macchie, e chi cercava la propria automobile trovava soltanto una grossa chiazza colorata parcheggiata in strada. Alle torte invece aveva aggiunto una esse, erano diventate tutte... storte, e cadevano per terra prima che i bambini se le potessero mangiare. Erano talmente storte che non erano più buone nemmeno per essere tirate in faccia. Nelle scuole si era anche divertito ad anagrammare, al momento dell’appello, la parola presente, e se prima gli alunni erano tutti presenti, ora erano tutti serpenti, e le maestre scappavano via terrorizzate. Poi si era tolto uno sfizio personale: aveva eliminato del tutto la parola guerra, che aveva inventato per sbaglio, e non gli era piaciuta. Così un grande capo della terra, che in quel momento stava per dichiarare guerra, dovette interrompersi a metà della frase, e non se ne fece nulla. Inoltre aveva trasformato i cannoni in cannoli, siciliani naturalmente, e chi stava combattendo si ritrovò tutto coperto di ricotta e canditi. Andò avanti così per alcuni giorni, con le scarpe che diventavano carpe e nuotavano via, i mattoni che diventavano gattoni e le case si mettevano a miagolare, il pane che si trasformava in un cane e morsicava chi lo voleva mangiare. Quanta confusione! Troppa confusione, e gli uomini non ne potevano più. Mandarono quindi una delegazione dal mago Linguaggio a chiedere che rimettesse a posto le parole, e con queste il mondo. «E va bene – disse Linguaggio – ma solo a una condizione: che cominciate a usare le parole con il loro giusto significato. I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi. Uguaglianza deve significare davvero che tutti sono uguali, e non che alcuni sono più uguali di altri. E per quanto riguarda la guerra...». «Per quanto riguarda la guerra – lo interruppero gli uomini – ci abbiamo pensato... tienitela pure, è una parola di cui vogliamo fare a meno».

Y

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Un tocco di colore

Shout

Vacanze intelligenti Dal quotidiano comunista promettono: «Tutto politicamente irriverente». Il manifesto ripropone La Sinistra Enigmistica, il supplemento arrivato alla terza edizione che il quotidiano propone per l’estate. L’inserto offrirà, oltre ai classici rebus e cruciverba, anche le strisce di Vauro ed Ennio Peres; i racconti di Dario Fo, Ascanio Celestini, Paolo Villaggio, Simona Frasca, Alessandro Silj, Luciano Del Sette, Franco Arminio e Andrea Appetito; il gioco dell’oca di Alessandro Robecchi; la P4, il faccendiere Bisignani e le intercettazioni illegali curati da Uncas, Max Casa, Phileas Fogg. In più i fumetti di Cajelli, Dinucuolo, Ale Giorgini, Flaviano e Di Marco. In edicola fino al 10 agosto.

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Gabriella Giandelli


Valeria Petrone


Stupido Secondo me la cosa veramente pazzesca della guerra è che è una faccenda vecchia, ma vecchia che di più non si può. Immagino sarebbe più corretto dire “antica”, ma mi sembra di farle un complimento: per me le cose antiche sono quelle preziose, che ci fanno capire il passato, che ci sorprendono perché riescono ancora oggi a stupirci, a incantarci. La guerra è solo vecchia, superata, ripetitiva, e soprattutto stupida. Oltre che crudele e spietata, naturalmente. Ma soprattutto vecchia. Invece voi ragazzi siete strepitosamente, meravigliosamente nuovi. Per questo abbiamo bisogno di voi: perché solo voi potete riuscire a liberarci, una volta per tutte, da questa orribile zavorra.

Lo so, è una bella responsabilità, e soprattutto un’impresa davvero titanica, anzi eroica: perché, diciamoci la verità, i veri eroi sono quelli che sconfiggono il Male, mica quelli che fanno piovere mine e granate su persone indifese e bambini che giocano a pallone. E in questo libro trovate tutte le informazioni che vi servono per partire alla conquista della pace: informazioni precise, che però sono anche storie e Storia, quella maiuscola, quella che si studia a scuola, quella che è anche antica, ma mai vecchia. E che se avrà un futuro, beh, dipende da voi. Secondo me ce la fate, quindi grazie. Lella Costa


risiko Stupidorisiko Una geografia di guerra è l’ultimo piccolo grande libro, nato dall’incontro tra gli amici di Emergency e la nostra indipendente e progettuale casa editrice per ragazzi. Non è nato per caso, è nato perché è un libro “coraggioso” che racconta con passione ai ragazzi la storia crudele della guerra perché imparino a conquistare la pace. È un libro importante perché è un libro che “non c’era”. Non è stato facile, per noi di Carthusia, riuscire a trasformare l’omonimo spettacolo teatrale di grande successo, interpretato dall’attore Mario Spallino e prodotto da Emergency, in un libro per ragazzi forte e coinvolgente. Però ce l’abbiamo fatta proprio perché questo libro è nato da un’idea che tutti abbiamo profondamente condiviso: un obiettivo comune, grandi autori e uno straordinario gruppo di lavoro. (Patrizia Zerbi, editore di Carthusia Edizioni)

I testi di Stupidorisiko sono di Patrizia Pasqui, il libro è illustrato da Paolo Rui. Il progetto editoriale è di Carthusia Edizioni con la supervisione del Museo storico italiano della guerra di Rovereto. Il libro è disponibile online su shop.emergency.it, ai banchetti di Emergency e in libreria.

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Il giuoco dell’Acciuffo disegni di Giorgio Biscaro www.giorgiobiscaro.com courtesy of de.de.p

Do It Yourself: il Giuoco dell’Acciuffo, progettato dal designer Giorgio Biscaro, rientra in una pratica alternativa che predilige le cose fatte da sé, senza l’aiuto di mani esperte. Come si fa: si ricava un acciuffatore da un foglio di cartone 20cm x15 tagliato e piegato seguendo le indicazioni illustrate; la pallina può essere costruita con un foglio di alluminio per alimenti appallottolato. Disponendo di più spazio, è possibile utilizzare una pallina da tennis. Come si gioca: la pallina viene lanciata tramite il guantone “acciuffatore” all’avversario che la deve rilanciare, pena la perdita di un punto. Il ricevente può scegliere se ribattere la pallina con il dorso dell’acciuffatore o sfruttare la superficie interna per

acciuffare la pallina e trattenerla con il pollice. Nel secondo caso, il vantaggio è poter sfruttare la parabola dell’acciuffatore per lanciare la pallina molto più velocemente, ipotecando la vittoria del punto. Il gioco proposto unisce due sport: la pelota e il baseball. Da entrambi, il designer ha preso e unito elementi formali e dinamiche di gioco. Dalla pelota, il tipico gesto dello “schiaffeggio” della palla lanciata all’avversario facendola rimbalzare contro un muro e l’immediatezza del colpo di mano sulla pallina. Dal baseball, il concetto di “presa” che il designer ha applicato all’oggetto progettato: l’acciuffatore. Una sorta di pala guantone, ergonomica e facile da produrre che coinvolge tecnologie a basso consumo di energia: taglio e piega e l’impatto sull’ambiente è nullo. (Claudia Barana)

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Nella partita coNtro la deforestazioNe Nella partita coNtro la deforestazioNe facciamo il tifo per Gli alBeri. facciamo il tifo per Gli alBeri.

Coop lancia il progetto Boschi e Foreste: una serie di iniziative concrete per contrastare la deforestazione e favorire l’aumento di produzioni ecosostenibili entro il 2015. Abbiamo cercato di limitare al massimo l’utilizzo di carta per questa nostra iniziativa; ti invitiamo quindi a consultare e scaricare direttamente il folder e il dossier scientifico dal nostro sito www.coopambiente.it

adattamento deforestazione 235x335.indd 1

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