E - IL MENSILE. già peacereporter • anno V - N°6 - giugno 2011 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE • poste italiane s.p.a.- spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, lo/mi
hanno scritto:Gianni Amelio.Luciano Del Sette.Christian Elia Luca Galassi.Giulio Giorello.Alessandro Grandi.Neri Marcorè Fabrizio Ravelli.Gabriella Saba.Flavio Soriga.Cecilia Strada Alberto Tundo.Patrizia Valduga.Roberta Villa hanno fotografato e illustrato:Stefano De Luigi.Dino Fracchia Carlo Gianferro.Lore Heuermann.Emiliano Larizza.Ishiuchi Miyako Stefano Navarrini.Tullio Pericoli Laila Pozzo.Naoki Tomasini
E-IL MENSILE Giugno 2011 • EURO 4,00
Sardegna Palestina Marco Paolini Testaccio•Sanità un racconto inedito di AndreaCamilleri
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l’editoriale
I ragazzi del 15 marzo: chi sono mai costoro? Sono i giovani della nuova ondata, quelli che si muovono su internet e insistono a parlare di diritti. Molto simili ai ragazzi egiziani, tunisini. Esistono anche in Cisgiordania e a Gaza. Non stanno dalla parte di Hamas, né di Fatah. Chiedono futuro. A Gaza Vittorio Arrigoni li sosteneva, e così, a Jenin, faceva Juliano Mer Khamis. Sono stati uccisi entrambi in una manciata di giorni, in vicende non chiare che restituiscono una domanda: hanno pagato per questo? Troverete un’inchiesta sulla sanità in Italia, su uno dei suoi aspetti almeno, che per semplificare paragonerò alle stelle Michelin. Tutti gli ospedali italiani sono monitorati e i numeri stabiliscono dove c’è buona sanità e dove meno. Questi dati risultano top secret. Chi li ha se li tiene, e vi spieghiamo perché. Ancora, ci occupiamo dei pastori sardi. Un antico lavoro seriamente a rischio d’estinzione. Una situazione intricata, in cui torti e ragioni non stanno da una parte sola. Praticamente estinto il mercato all’aperto di Testaccio. Gli diamo un addio pieno di colore e nostalgia, chissà se quello nuovo sarà migliore. Io temo di no. Ci occupiamo di Vieques, un’isola portoricana in cui la situazione è molto simile a quella del Salto di Quirra. Tutto il mondo è paese, dove ci sono poligoni di tiro e depositi di materiale radioattivo che si trasforma in una fabbrica di malattie. Ci occupiamo di teatro sociale, con una bella intervista a Marco Paolini, e di cinema, con un portfolio fotografico accompagnato da un bel testo di Gianni Amelio. Lo so, bello non dovrebbe dirlo un direttore, se parla del suo giornale. È il lettore che giudica. Se mi prendo questa libertà è perché l’aggettivo più usato nei tanti messaggi dei lettori è proprio questo: bello. E questa, per restare in tema, è una bella soddisfazione per chi fa questo mensile. Un bel grazie a chi ci ha creduto, ci crede e continuerà a leggerci. Gianni Mura
in questo numero 5 le storie
46 il fumetto
110 il racconto
Lacrime di sale
Viareggio La strage del treno che provocò la morte di 34 persone il 29 giugno 2009 raccontata dal familiare di una delle vittime
di Alessandra Fava foto di Francesca Marzotto
scritto e disegnato da Gianfranco Maffei
un inedito di Andrea Camilleri illustrato da Shout
Lunga vita al pc
56 il reportage
118 domani
Bambini di mondo di Maurizio Pagliassotti
Io, ragazzo perduto di Alberto Tundo
di Raethia Corsini foto di Andrea Frazzetta
Com’è cambiato il mio Iraq di Valentina Ravizza
12 il reportage
Io non ho paura In Cisgiordania e a Gaza un giovane movimento sceglie metodi di lotta non violenti e chiede ad Hamas e Fatah di cambiare rotta. Vittorio Arrigoni e Juliano Mer Khamis, uccisi in una manciata di giorni, l’uno a Gaza, l’altro a Jenin, erano al fianco di questi ragazzi. Hanno pagato questa scelta? di Christian Elia foto di Alfredo D’Amato
L’utopia giovane di Luca Galassi foto di Naoki Tomasini
28 l’incontro
L’attore inquieto Una conversazione con Marco Paolini. Che dice che il suo teatro di memoria ha bisogno di spettatori che facciano la loro parte per chiudere il sipario su questo eterno carnevale italiano di Fabrizio Ravelli foto di Laila Pozzo
38 in viaggio
Universo Testaccio Taceranno le grida tra i banchi. Traslocheranno il “capatore” di carciofi e la pescivendola, nonna di Jasmine Trinca. Il mercato di Testaccio lascia la “sua” piazza per una nuova, più asettica sede di Luciano Del Sette foto di Carlo Gianferro
Pastorale sarda Un anno fa è cominciata la rivolta dei pastori. Folclore? Ricordi del tempo che fu? Tutt’altro: una vicenda che ha a che vedere con una passione profonda per gli animali e le foreste, ma anche con la crisi economica e la politica di Gabriella Saba foto di Francesco Cito
72 l’inchiesta
Al paziente non far sapere Come vengono valutate le prestazioni offerte dagli ospedali? E per quale motivo i dati restano nei cassetti degli assessori e non vengono resi pubblici? Quanto è lontano l’obiettivo della trasparenza nel nostro sistema sanitario? di Roberta Villa foto di Dino Fracchia
78 il portfolio
La sedia del regista Mica il cinema significa soltanto Hollywood. Cinema mundi documenta le cinematografie dei quattro angoli del globo, mentre un grande regista, dalla sua postazione, racconta l’effetto che fa di Gianni Amelio foto di Stefano De Luigi
94 il reportage
Tropico del cancro Bella e contaminata: è Vieques, l’isola vicina a Portorico, che sconta l’essere stata per sessant’anni, e fino al 2003, una base americana. I militari sono andati via, ma hanno lasciato alle spalle l’eredità pesante della più alta incidenza di tumori di tutte le Americhe di Alessandro Grandi foto di Emiliano Larizza
I fantasmi - terza puntata Per riportare la calma a Vigata, il sindaco e il vescovo chiamano un famoso esorcista lucano. Peccato che di indemoniati neanche l’ombra
Libri di Alessandra Bonetti Teatro di Simona Spaventa Cinema di Barbara Sorrentini Documentario di Matteo Scanni Arte di Vito Calabretta Design di Claudia Barana Musica di Carlo Boccadoro La giusta causa di Massimo Rebotti
126 le pagine
di Emergency
le rubriche 26 Spiriti liberi
di Giulio Giorello
36 Lessi di Neri Marcorè 54 Televasioni di Flavio Soriga 70 Mad in Italy di Gianni Mura 92 Pìpol di Gino&Michele 93 Decoder di Violetta Bellocchio 93 Buen vivir di Alfredo Somoza 106 Polis di Enrico Bertolino 108 Un fisico bestiale
di Bruno Giorgini
116 .eu di Stefano Squarcina 116 Parola mia
di Patrizia Valduga
117 Il capitale
di Niccolò Mancini
124 La posta del cuore
di Claudio Bisio
128 Per inciso di Gino Strada
il nostro osservatorio 52 Buone nuove 68 L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro
90 Casa dolce casa 104 Cessate il fuoco
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in copertina foto di Francesco Cito
con noi E - IL MENSILE
Fabrizio Ravelli
GIUGNO 2011
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Alessandro Grandi ◆ Antonio Marafioti ◆ Enrico Piovesana Massimo Rebotti ◆ Valentina Redaelli ◆ Nicola Sessa Stella Spinelli ◆ Alberto Tundo Photoeditor Marta Posani ◆ Germana Lavagna Segreteria di redazione Silvina Grippaldi ◆ Elena Recalcati Amministrazione Annalisa Braga
Gabriella Saba
Sarda, giornalista freelance, vive tra Cagliari, Milano e Santiago del Cile. Specializzata in America Latina, collabora con riviste italiane e straniere. Ha scritto per noi Pastorale sarda.
Hanno collaborato
Gianni Amelio ◆ Claudia Barana ◆ Violetta Bellocchio ◆ Enrico Bertolino Mauro Biani ◆ Claudio Bisio ◆ Carlo Boccadoro ◆ Alessandra Bonetti Vito Calabretta ◆ Andrea Camilleri ◆ Casa delle donne per non subire violenza Bologna ◆ Francesco Cito ◆ Raethia Corsini ◆ Emanuele Cremaschi ◆ Alfredo D’Amato ◆ Tano D’Amico ◆ Stefano De Luigi Luciano Del Sette ◆ Alexis Duclos ◆ Alessandra Fava ◆ Brian Finke Dino Fracchia ◆ Andrea Frazzetta ◆ Maurizio Galimberti ◆ Carlo Gianferro ◆ Gino&Michele ◆ Giulio Giorello ◆ Bruno Giorgini ◆ Anna Godeassi ◆ Gael Gonzalez ◆ Guido Guarnieri ◆ Lore Heuermann Crispin Hughes ◆ Emiliano Larizza ◆ Gianfranco Maffei ◆ Niccolò Mancini ◆ Neri Marcorè ◆ Francesca Marzotto ◆ Maddalena Masera Ishiuchi Miyako ◆ Stefano Navarrini ◆ Marco Paci ◆ Maurizio Pagliassotti ◆ Annamaria Palo ◆ Tullio Pericoli ◆ Laila Pozzo rassegna.it ◆ Fabrizio Ravelli ◆ Valentina Ravizza ◆ Gabriella Saba Borislav Sajtinac ◆ Matteo Scanni ◆ Shout ◆ Alfredo Somoza Flavio Soriga ◆ Barbara Sorrentini ◆ Simona Spaventa Stefano Squarcina ◆ Cecilia Strada ◆ Gino Strada ◆ Naoki Tomasini Patrizia Valduga ◆ Mattia Velati ◆ Roberta Villa Agenzie fotografiche ed editori
BeccoGiallo ◆ BuenaVista ◆ Contrasto ◆ Gamma-Rapho Getty Images ◆ Luz Photo ◆ Reuters ◆ VII
Alle biblioteche carcerarie che ne facciano richiesta verrà attivato un abbonamento omaggio La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC esclusa la copertina
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Laureato in Filosofia, dopo aver frequentato il Centro sperimentale negli anni Sessanta, lavora come operatore e poi come aiuto regista in molte pellicole. Debutta dietro la macchina da presa nel 1970 nell’ambito dei programmi sperimentali della Rai. Con Porte aperte, tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, ottiene una nomination agli Oscar. Poi Il ladro di bambini (Gran premio della giuria a Cannes), Lamerica e Così ridevano (Leone d’oro a Venezia) lo consacrano autore di valore internazionale. Per noi ha scritto La sedia del regista.
Francesco Cito
Nato a Napoli nel 1949, inizia l’attività di fotoreporter a Londra. Nel 1980 si reca clandestinamente in Afghanistan, nel 1983 è sul fronte libanese. Si è occupato in particolare di Palestina e Medio Oriente. Vince due volte il World Press Photo e diversi altri premi. Qui ha fotografato la Sardegna dei pastori.
E - IL MENSILE già PeaceReporter Redazione e amministrazione via Vida, 11 - 20127 Milano - Tel 02 801534 - Fax 02 26809458 segreteria@e-ilmensile.it Edito da Dieci dicembre Scarl via Vida, 11 - 20127 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Concessionaria pubblicità Poster pubblicità & p.r. Srl Sede legale e Direzione commerciale: via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma Sede commerciale: viale Gran Sasso, 2 - 20131 Milano Tel 06 68896911 - Fax 06 58179764 - poster@poster-pr.it Stampa Nuovo Istituto Italiano Arti Grafiche Spa via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Distribuzione M-dis Distribuzione Media Spa via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano - Tel 02 25821 - Fax 02 25825306 Distribuzione in libreria: Joo Distribuzione via F. Argelati, 35 - 20143 Milano Servizio abbonamenti e arretrati Picomax Srl viale Sondrio, 7 - 20124 Milano Tel 02 77428040 - Fax 02 76340836 Arretrati 8 euro
Gianni Amelio
Stefano De Luigi
Nato a Colonia nel 1964. È fotografo professionista dal 1988. Ha vinto tre World Press Photo in diverse categorie. Nel 2006 ha intrapreso il progetto Cinema Mundi, che racconta il mondo del cinema alternativo a quello commerciale di Hollywood. I suoi reportage sono pubblicati dai più importanti magazine internazionali. Dal 2008 fa parte dell’agenzia VII/Network.
Alfredo D’Amato
Nato nel 1977 a Palermo. Negli ultimi anni ha realizzato diversi reportage in Africa e nei Paesi dell’ex Unione sovietica. Vincitore di diversi premi, ha esposto in importanti sedi internazionali. Le sue fotografie sono apparse su numerose pubblicazioni in Italia e all’estero. Ha fotografato Io non ho paura.
Alessandro Grandi Milanese dal 1974. Autore di reportage da Bolivia, Haiti, Messico, Paraguay e Venezuela. Coautore dei volumi Guerre in Ombra (Editore PeaceReporter), Guerra alla Terra (Edizioni Ambiente), Haiti: l’isola che non c’era (Ibis Edizioni). Qui ha scritto Tropico del cancro.
Bepi Caroli
Direttore responsabile Gianni Mura Condirettore Maso Notarianni Art director Federico Mininni Caporedattori Angelo Miotto ◆ Assunta Sarlo Redattori Gabriele Battaglia ◆ Christian Elia ◆ Luca Galassi
Scrive per la Repubblica da una trentina d’anni. Ha fatto cronaca giudiziaria a tempo pieno per otto anni. Poi l’inviato, scegliendo di non specializzarsi, così era molto più vario e divertente il panorama dei fatti e delle persone. Ha scritto per lo più di cronaca italiana, ma anche (malvolentieri) di politica. E poi occasionalmente di esteri, comprese tre guerre: ex Jugoslavia, Kosovo, Iraq. Gli piacciono le storie della gente, e i dubbi più che le certezze. Ha intervistato Marco Paolini.
Neri Marcorè
Diplomato come interprete parlamentare, il suo estro artistico lo conduce verso il mondo dello spettacolo. Ha inizio così una lodevole carriera televisiva, cinematografica, teatrale, radiofonica e di doppiatore. Noto al grande pubblico per la partecipazione a trasmissioni tv di grande successo e per la conduzione decennale di “Per un pugno di libri”. Restando in tema, su E cura la rubrica Lessi.
Roberta Villa
Medico e giornalista scientifico, sei figli, da quando ha messo piede in una redazione non ha più indossato un camice bianco. Appartiene da sempre alla squadra dell’agenzia Zadig e collabora con il Corriere della Sera e altre testate su carta e online. Per noi si è avventurata nei meandri della sanità italiana.
storia 11 - Eleonora Cavallo
Bambini di mondo storia raccolta e fotografata da
Maurizio Pagliassotti
Eleonora Cavallo è originaria di Modica, Ragusa. Ha 26 anni, dal 2006 è emigrata a Torino, dove fa la maestra elementare precaria. L’anno scorso è stata chiamata a insegnare matematica in una scuola del quartiere Porta Palazzo, dove nove alunni su dieci sono figli di stranieri.
Volevo fare la maestra da sempre, ma nella mia terra, a Modica, è impossibile. Cinque anni fa lavoravo nello studio di un cardiologo e un giorno squilla il telefono. Il destino mi chiama. Due settimane di supplenza disponibili a 1.300 chilometri di distanza. La prima reazione è un sonoro rifiuto. Ma come è possibile, penso, che per due settimane di lavoro, seguite dall’ignoto, uno debba mollare tutto e andare dall’altra parte d’Italia? Non è giusto. Ma alla fine faccio la valigia e parto, con il cuore il gola. Arrivo all’aeroporto di Torino. Prendo la navetta e arrivo in centro, mi sento piccola. Unica fortuna è che ad accogliermi ci sono due miei cari amici che all’inizio mi danno anche ospitalità, così ritrovo un po’ di calore familiare. Poi arriva il primo giorno di scuola. È una quinta elementare, i bambini sono poco più bassi di me o addirittura più alti. Impatto duro, mi sembra di essere dentro un uragano. Le due settimane passano. Sono pronta a tornare in Sicilia, la valigia è sul letto, ma squilla il cellulare: è la segreteria di una scuola che mi offre un’altra microsupplenza. Accetto e tiro il fiato. Da quel momento capisco che la mia vita per un po’ di tempo sarà legata a quel telefono e all’angoscia. Ma il mestiere mi appassiona e tengo duro. Il 2006 e l’anno successivo li vivo così, nell’attesa. Cambio scuola in continuazione ed è difficile instaurare un rapporto pedagogico con i bambini. D’estate torno a casa in vacanza e scopro, anno dopo anno, che tutte le amiche che hanno studiato con me sono emigrate da qualche parte. Lo scorso anno, una nuova rivoluzione. Arrivo alla scuola elementare di Porta Palazzo, quartiere multietnico famoso per il suo vivacissimo mercato rionale. Entro in classe e vedo tutti i colori del mondo. Bambini senegalesi, cinesi, nord africani, romeni e un paio di italiani. Qualcuno parla la nostra lingua, qualcuno mette insieme pochi vocaboli, altri invece sono muti come pesci perché sono appena arrivati. Ma la babele
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linguistica non è un problema: in classe c’è sempre un “anziano” che si offre di spiegare al nuovo compagno che cosa sta dicendo la maestra. Si siedono gli uni vicini agli altri e confabulano. Mi capita di vedere scene buffe: cinesi che imprecano in napoletano oppure russi a cui scappa qualche parolaccia in arabo. E alla fine io stessa ho imparato parole in quasi tutte le lingue del mondo. Certo vedere un cinese che racconta la storia dell’antica Roma mi sorprende, ma ancor più mi sorprende la naturalezza con cui lo fa. In classe talvolta c’è un gran baccano forse perché questi bambini hanno maggiore voglia di correre, saltare, muoversi, giocare. In questo contesto non è possibile pensare di lavorare nella calma. Ma quando la maestra dice basta è basta sul serio. La percentuale di bambini non italiani nella mia scuola sfiora il 90 per cento. Per fortuna l’istituto è molto ben organizzato e i docenti collaborano bene, si sostengono. Non dimentico mai che anch’io sono una migrante come loro. Anzi, essere giunta in questo delirio, ha abbattuto molti pregiudizi che io stessa avevo. Qui ho instaurato buoni rapporti anche con i genitori che spesso considerano l’insegnante una vera istituzione a cui affidare con cieca fiducia il proprio figlio. «Se l’ha detto la maestra è giusto», questo dicono i genitori dei miei piccoli studenti. Appartengono a quella fascia della popolazione che più di tutte sta soffrendo i colpi della crisi. Famiglie per cui anche l’acquisto di un semplice compasso può destabilizzare il budget di spesa. Nemmeno io ho certezze, anzi con questa riforma scolastica potrei perfino perdere tutto e tornare in Sicilia. Non so come andrà a finire, ma sarebbe bello se riuscissi a ottenere una cattedra a tempo indeterminato, magari qui a Porta Palazzo.
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storia 12 - William K. Mayom
Io,ragazzo perduto storia raccolta da
Alberto Tundo
William K. Mayom è uno dei Lost Boys of Sudan, nome che indica i sudanesi del Sud costretti, ancora bambini, a fuggire dalla guerra civile e dagli attacchi dell’esercito di Khartoum contro i loro villaggi. Dopo 14 anni trascorsi in campi profughi di Etiopia e Kenya, nel 2001 è arrivato negli Stati Uniti, dove ha potuto studiare. Ha una moglie, Mary, e un figlio, Deng. Lavora come responsabile di piano all’Harbor’s Hedge, una casa di riposo di lusso di Norfolk, Virginia. Il 9 gennaio ha votato al referendum che ha deciso la secessione del Sud Sudan.
Avevo una vita felice. Ricordo che abitavamo in una bella casa in mezzo al verde. Passavo le mie giornate a giocare con i cani, le galline e i tanti animali che aveva mio padre. Lui era un pastore: aveva polli, capre, mucche da cui ricavava latte e carne che vendeva al mercato insieme ai formaggi che produceva. Di quel periodo ricordo le giornate calde, lunghissime. No, a scuola non ci andavo, come tutti i miei amici. Noi eravamo bambini neri e cristiani del sud del Sudan e non parlavamo l’arabo, né i nostri genitori volevano che venissimo assimilati e convertiti all’islam. Ma queste cose non le capivo fino in fondo. Mi ricordo solo di giornate che sembravano non finire mai ed ero felice così. Poi tutto è cambiato. Erano più o meno le tre di un pomeriggio del novembre 1987. Mi trovavo a casa con i miei cugini e i miei zii. Mio padre era andato nella giungla con il suo bestiame. Mia madre, invece, era fuori a raccogliere la legna. All’improvviso sentimmo raffiche di mitragliatrice, in lontananza. Poi, tre colpi più forti, come di cannone. E subito dopo una nuova scarica di mitra, ma questa volta i colpi sembravano più vicini. Uscimmo nel cortile. Gli abitanti del villaggio stavano scappando e venivano verso di noi. Qualcuno si fermò un secondo per avvisarci: «Scappate, presto, scappate che stanno arrivando». E noi fuggimmo nella giungla. Non avevo bisogno di chiedere chi si stesse avvicinando. Questo lo sapevo. Era l’esercito del Sudan con le varie milizie che
lo appoggiavano. Nel mio Paese c’era la guerra civile, che era cominciata nel 1983 e che è finita solo nel 2005. Spesso avevo sentito i grandi parlare di altri villaggi attaccati dagli uomini del governo di Khartoum, ma non pensavo che sarebbero arrivati a Biong. E invece arrivarono. E io scappai, con quello che avevo, cioè niente, senza poter prendere nulla con me, senza abbracciare mamma e papà. Pensavo che sarei tornato a casa poco dopo e invece non tornai quella sera, né quella dopo. Non tornai più. Ci chiamano “Lost Boys of Sudan”, ma sinceramente non capisco perché. Noi non siamo, né ci sentiamo, persi. Dispersi, questo sì. Abbiamo lasciato le nostre case per sfuggire alla morte e, se non sapevamo dove stavamo andando, sapevamo sicuramente dove non si doveva tornare e questo era già qualcosa. Quel pomeriggio aspettammo nascosti nella giungla. Si fecero le cinque, poi le dieci e infine arrivò mezzanotte e continuava ad arrivare gente che fuggiva da altri villaggi. Dicevano che i soldati si stavano avvicinando e che non eravamo sicuri nemmeno lì. Parlavano di persone uccise e piangevano. Così ci rimettemmo in cammino. Camminammo per giorni. Alcuni non avevano scarpe né vestiti. Arrivammo al confine con l’Etiopia, lo superammo e fummo sistemati in un campo profughi. Lì siamo rimasti fino al 1991, quando il regime di Menghistu fu rovesciato, scoppiò la guerra con l’Eritrea e il governo smise di passare le razioni alimentari a noi
Crispin Hughes [luz]
profughi. Da lì fuggimmo in Kenya e trovammo rifugio nel campo di Kakuma, gestito dalle Nazioni unite, dove sono stato fino al 2001, quando un’organizzazione umanitaria mi portò negli Stati Uniti. Lì ero un cittadino e non più un profugo. L’impatto però fu duro. Era tutto troppo diverso e io ero troppo confuso. Eccitazione e totale confusione: ecco cosa provavo. Ricordo che sull’aereo non toccai cibo: tutto aveva un sapore e un odore strano. Tutto era diverso: le persone, il loro inglese, i luoghi. È difficile immaginare come l’aeroporto di New York potesse sembrare a un ragazzo che aveva passato gli ultimi quattordici anni in campi profughi. Appena arrivato, con un gruppo di altri Lost Boys, fui accolto dalla Prima Chiesa Battista di Newport News, Virginia, che ci mise a disposizione un appartamento di tre stanze, con affitto pagato per tre mesi. Il primo lavoretto che trovai era presso un lavaggio auto: guadagnavo 5,15 dollari all’ora. Ma questo accadeva nove anni fa. Oggi sono un uomo, mi sono laureato, come mio fratello David che ha preso un master in Finanza all’Università del Michigan. Considero l’istruzione l’occasione della mia vita. Ho avuto una possibilità e sento il dovere di usarla, per ricostruire il Sud Sudan che ora è un Paese indipendente. Non posso ricostruire la mia famiglia, invece. Le mie due sorelle, Achok e Lith, e l’altro mio fratello, Jok, sono morti in un attacco, così come le mie due sorelline adottive e mio padre,
ucciso nel 1991. Ho creduto a lungo che anche mia madre fosse morta. Ma mi sbagliavo. Alla fine degli anni Novanta le arrivò la voce che c’erano dei ragazzi sudanesi in un campo kenyota. Avevamo riempito i formulari della Croce rossa che servivano a rintracciare i parenti rimasti in Sudan. Sembra uno scherzo, ma lei non riuscì a raggiungere Kakuma se non quando io me ne ero appena andato. I ragazzi che arrivarono negli Stati Uniti subito dopo mi raccontarono di una donna che era arrivata al campo chiedendo di me. A lungo pensai che si trattasse di uno scherzo. Finché non raccontai la storia a una suora, che mi scattò delle fotografie e partì per il Kenya. Al campo di Kakuma cercò mia madre e gliele consegnò, portandomi quelle che aveva fatto a lei. Ci sentimmo al telefono, per la prima volta, nel 2003. Sono riuscito a riabbracciarla solo nel 2006, dopo 19 anni di separazione. Non racconto, per pudore, l’emozione che provai e ancora provo quando ripenso a quel momento. Ma so che la ritroverò quando tornerò in Sudan. Perché ci tornerò, per ricostruirlo, con altri ragazzi come me che sembravano persi e invece si sono ritrovati.
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storia 13 - Penda
Lacrime di sale storia raccolta da
Alessandra Fava foto
Francesca Marzotto
Penda, 22 anni, di etnia peulh, è nata a Niaga, un villaggio nel nord del Senegal, vicino al lago Retba, detto anche lago Rosa, che si trova a 40 chilometri dalla capitale Dakar, sulla Grande Costa. Ha iniziato a lavorare alla raccolta del sale quando aveva sette anni, insieme ad altri cinque fratelli. Promessa a Salif quando aveva nove anni, si è sposata a dodici. Per ora Salif non ha preso altre mogli. «Una moglie un problema, due mogli due problemi, tre mogli tre problemi», ripete il marito, citando un detto comune tra i senegalesi.
Dieci conchiglie, undici conchiglie, dodici conchiglie. A volte mentre trasporto un catino dietro l’altro ripeto il numero. Altre volte canto: mi fa sentire meno il caldo bruciante del sole. Le conchiglie le metto in un barattolo mentre scarico un contenitore di sale. Poi torno alla barca di Salif, mio marito. Carico un altro catino di sale. Torno a terra. Scarico anche quella sul mucchio grigio, ancora fresco. Altra conchiglia nel barattolo. E così via. Quando stiamo bene, io e Salif, lavoriamo solo di giorno. Se abbiamo bisogno di soldi, si raccoglie anche di notte. Quando la luna è piena, il sale riluce e non c’è bisogno di illuminazione. Peraltro, la luce elettrica non c’è neppure a Niaga, il nostro villaggio. Figuriamoci qui sul lago Rosa. Lo chiamano così perché di mattina presto ha qualche ombra violacea. Quando però il sole si alza, diventa grigio come il metallo. Ma, alla fine della giornata, io non ci vedo nessun colore. Gli occhi mi bruciano per il salino che impregna l’aria. Anche a Salif bruciano gli occhi. La sera gli faccio degli impacchi con acqua tiepida e foglie di mbuday, l’espressione in dialetto serere per indicare la Ceiba Pentandra, conosciuta anche come kapok. Ma la mattina dopo siamo di nuovo qui e l’impacco non serve più a niente. Tanti hanno smesso di lavorare nel lago perché lacrimavano in continuazione. Per ora noi ce la facciamo. Sono giovane. A Salif ho dato due figli, Woula e Oumar, di otto e sei anni. Ce n’era un altro, ma è morto prima di nascere. Fino a qualche anno fa anche noi donne stavamo a mollo nell’acqua. Poi ci sono stati tanti aborti e ora lavoriamo solo a terra. In acqua sta Salif. Sale sulla barca si sposta un po’ al largo e con una pala lavora il fondale, rimuove la crosta. Tira su il sale bagnato che sta
sul fondo e riempie la barca. Il nostro sale è prezioso perché è iodato. Un sacco qui in Senegal vale mille sefa, ma so che in Mali e in Mauritania, lo rivendono anche per tremila sefa. Siccome è un buon lavoro, qui ci sono tremila persone, vengono da cinque villaggi della zona. La regola numero uno è l’onestà. Nessuno ruba il sale e tutti devono contare il loro carico senza imbrogliare. Certo, ogni tanto scoppiano delle liti. Allora si va in fondo alla spiaggia, alla gendarmerie, dove si riuniscono i responsabili dei villaggi del lago. Sono loro che dirimono le controversie tra i raccoglitori, chi riempie i sacchi da 25 chili quando il prodotto è asciutto e chi carica i sacchi sui camion. Alla fine si trova sempre un accordo. Se lavoriamo dall’alba al tramonto, Salif prende anche 25mila sefa al giorno (38 euro circa, metà dello stipendio mensile di un lavoratore senegalese). Io arrivo a 15mila sefa. Guadagniamo bene. Ma le case qui dietro, quelle, nessun senegalese può permettersele: costano più di 50 milioni di sefa e hanno anche la piscina. Sono state comprate dai francesi e dagli americani contenti di vedere il lago Rosa e di essere a un passo dalle dune della Parigi-Dakar e dall’oceano. Il mare è a pochi chilometri. Ma noi non ci andiamo mai.
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storia 14 - Massimiliano De Cinque
Lunga vita al pc storia raccolta da
Raethia Corsini foto Andrea [luz]
Frazzetta
Massimiliano De Cinque ha 41 anni. È nato in provincia di Chieti. Il militare prima e la vita poi lo hanno portato al Nord. Vive in provincia di Varese con sua moglie Nadia e le due figlie, Alice e Aurora. Lavora alla reception di Telelombardia a Milano. Un anno fa ha avviato il progetto Nuova vita (www.progettonuovavita.it).
Un giorno mia figlia, otto anni, era al computer a casa nostra con una compagna di scuola. Si divertivano con uno di quei cd di gioco e apprendimento. Così dissi: «La prossima volta che Alice viene a casa tua lo porta, così potete giocare». Lei mi rispose: «Noi non abbiamo un computer a casa». Non tutti possono permettersi un pc. Un po’ come succedeva trent’anni fa con la tv. Io me ne ricordo perché anche noi a Ortona a Mare, dove sono nato, tiravamo avanti a fatica: io e mio fratello abbiamo cominciato a lavorare a dodici anni. Così ho riesumato un mio vecchio pc, rispolverato quel che avevo imparato all’Istituto tecnico e nella taverna di casa, tra fili, schede elettroniche, cavi e viti, l’ho fatto funzionare. E poi l’ho regalato all’amica di mia figlia. Era felice e i genitori grati. È questo che mi ha fatto
scattare la molla. Da solo, sempre nella taverna, dopo l’orario di lavoro ho iniziato a raccogliere pc dismessi, cambiare i pezzi rotti con altri usati, ma funzionanti, per regalarli a chi ne ha bisogno: anziani vicini di casa e bambini delle scuole nei dintorni. Solo dopo ho scoperto che così contribuivo, seppur in piccolo, anche a salvaguardare l’ecosistema. Io non sapevo che ogni anno nel mondo si producono 50 milioni di tonnellate di rifiuti Raee (Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) che non si sa come smaltire. O meglio, si portano in discarica. Qualche azienda li ricicla come prevede la legge, ma siccome costa troppo finisce che la maggior parte di questi rifiuti viene spedita in Africa oppure in India, in Vietnam o in Cina. Lì vengono bruciati e i fumi sono tossici. Insomma, un disastro. Parlandone in casa, al lavoro, con gli amici e alla scuola di mia figlia, ho pensato di passare a una seconda fase del progetto: cercare di fare rete, sensibilizzare più gente possibile incluse istituzioni, scuole e media locali. Ho avuto molti incoraggiamenti, ma per un bel po’ siamo rimasti in due. La stampa invece ci ha dato davvero una mano, tanto che le richieste di riciclo ci sono arrivate proprio in seguito ad articoli e trasmissioni. È così, per esempio, che siamo riusciti a dare un computer a Livio, un signore di ottant’anni di Bologna, che non aveva più la sua macchina da scrivere: «Non ci credevo mica, sa, che fosse tutto vero», mi ha detto. Siamo riusciti a consegnare anche alcuni computer alla scuola di Olgiate, dove vivo ormai da molti anni. In quell’occasione c’era anche un assessore, poi non lo abbiamo più sentito. Ora nel progetto siamo in sette, tutti più bravi di me in elettronica: gli altri sono ingegneri per davvero. Insieme abbiamo costituito l’associazione di volontariato Nuova vita. Il progetto ha preso quota, addirittura dall’Inghilterra ci hanno chiesto se possono mandare a noi un mucchio di computer che devono smaltire. Quando ci troviamo tutti insieme nella taverna di casa mia a rimettere insieme i pezzi di un computer siamo contenti e ci divertiamo, ma siamo anche un po’ preoccupati di non riuscire a fare fronte a tutto. In più, là sotto casa non ci sta più neanche uno stuzzicadenti e mia moglie vorrebbe tornarci a stirare. Un’azienda, la Cassano Magnago Servizi, ci ha offerto, in comodato d’uso per due anni, un suo capannone per lo stoccaggio del materiale da riciclare, ma il lavoro continueremmo a farlo in taverna. Ci servirebbe invece uno spaziolaboratorio per lavorare tutti insieme e rispondere meglio alle richieste che arrivano. E poi nei nostri sogni questo luogo potrebbe diventare un punto d’incontro e di apprendistato per ragazzi in cerca di una formazione pre-lavoro, invece di lasciarli per strada.
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storia 15 - don Robert Saeed Jarjis
Com’è cambiato il mio Iraq storia raccolta da
Valentina Ravizza
Don Robert Saeed Jarjis, 37 anni, è un sacerdote cristiano nato e cresciuto a Baghdad. Arrivato in Italia alla fine del 2004 per i suoi studi teologici, ha girato l’Europa. Parla italiano, arabo, francese, inglese e tedesco per poter comunicare con gli amici sparsi tra il vecchio Continente, gli Stati Uniti e il nord Africa. Ad aprile è tornato in Iraq per occuparsi della diocesi affidatagli dal vescovo Mikhael al Jamir.
Prima la bomba esplosa fuori dalla mia parrocchia, il 19 aprile. Poi quella che la mattina di Pasqua ha ferito quattro persone davanti alla chiesa del Sacro Cuore, nel distretto di Karrada. A Baghdad rischio la vita ogni giorno per il semplice fatto di essere cristiano. Sono tornato nel Paese dove sono nato e cresciuto dopo sei anni di studi all’estero e questo potrebbe trasformarsi nella mia condanna a morte. C’è grande tensione in tutta la capitale e secondo le autorità la situazione peggiorerà: sembra che diverse auto cariche di esplosivo siano entrate in città senza alcun controllo e si temono altri attentati. Anche se l’Iraq è la mia terra, ogni volta che esco di casa per celebrare la messa o visitare i fedeli temo di essere ucciso. Da ragazzo i miei amici musulmani mi facevano gli auguri per Natale e Pasqua e io li facevo a loro per Aid al Adha e alla fine del Ramadan. Oggi Baghdad è tornata a essere divisa in tribù e la minoranza cristiana è più discriminata che mai, soprattutto a livello economico: gli iracheni non danno lavoro ai loro fratelli non musulmani. Chi può scappa, fugge al Nord, quelli che rimangono lo fanno solo perché sono troppo poveri per partire. Nella mia parrocchia ci sono tante famiglie che vivono in case in affitto pagando 300mila dinari al mese (circa 250 dollari), praticamente l’intero stipendio del capofamiglia, tanto che per comprare da mangiare hanno dovuto vendere tutti i mobili. Ma non accettano di chiedere aiuto. Ho creato un fondo per aiutarle, ho addirittura regalato loro il mio primo salario, ma come posso assistere tutti? Prima non era così, non so dove è il nuovo Iraq che ci hanno promesso e dove ci stanno portando. Il mio è un Paese ricco, ma il popolo soffre di una povertà
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che aumenta. È incomprensibile per me l’odio che ha invaso la società dagli anni Novanta, dopo la guerra del Golfo, quando è iniziato il declino economico e altre mani sono entrate negli interessi del Paese. Ma è solo dal 2003 che le ostilità sono diventate così evidenti. Quante chiese sono state bombardate, quanti preti sono stati massacrati dopo quell’anno? Addirittura lo scorso 31 ottobre una bomba è scoppiata dentro la chiesa siro-cattolica di Saiydat al-Najat (Nostra Signora della Salvezza). Sono morte 46 persone: tra loro c’erano nove bambini e due sacerdoti, i miei cari amici don Thaer e don Wasim. Avrei potuto esserci anch’io. L’invasione americana ha avuto un effetto negativo sulla situazione generale dell’Iraq. I cristiani non si sentono più al sicuro nelle case e nei luoghi di preghiera, eppure non hanno mai voluto rispondere con violenza. Però la comunità si è chiusa: per difendersi i fedeli hanno imparato a non essere solo buoni come colombe, ma sapienti come serpenti. Io non provo odio verso nessuno, come potrei odiare un popolo in cui ho tanti amici? Anzi, come potrei odiare ed essere ancora cristiano? Non sono un angelo, sono un essere umano e ho paura. Sono un prete e ho pure studiato all’estero, quanto basta per essere considerato un occidentale e quindi una minaccia da eliminare. Ma intorno a me sento anche la presenza di tante persone disposte ad aiutarmi e ho trovato in questa gente una fede straordinaria, nonostante le terribili circostanze in cui viviamo. E sento vicini i miei amici europei, che mi dimostrano ogni giorno, via mail o attraverso Facebook, la loro partecipazione e il loro sostegno.
Q
di
Christian Elia
foto
Alfredo D’Amato
Io non
Che cosa succede in Palestina, scivolata a fondo pagina mentre il mondo arabo si ribella? A distanza di pochi giorni l’uno dall’altro vengono assassinati Juliano Mer Khamis a Jenin e Vittorio Arrigoni a Gaza. Che cosa succede in Palestina? L’unica novità è il movimento 15 marzo. Ragazzi che chiedono ad Hamas e Fatah di tornare uniti per lottare per l’indipendenza. Usando mezzi di lotta non violenti, cambiando il dentro oltre che il fuori. Vittorio e Juliano hanno sostenuto questa mobilitazione, l’unica che sia riuscita a unire Gaza e Cisgiordania. Hanno pagato per questo? Di certo c’è che questi ragazzi non si arrendono
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ho paura
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Juliano Juliano Mer Khamis è stato attore, regista e attivista. Ma soprattutto, come raccontano i suoi due cognomi, è stato il sogno di un’identità libera, israeliana quanto palestinese, in cui un aspetto non elide l’altro e l’arricchisce. Suo padre, Saliba Khamis, palestinese cristiano, è stato tra i fondatori del Partito Comunista palestinese, sua madre, Arna Mer, ebrea israeliana, una delle più note attiviste per la difesa dei diritti dei palestinesi. Dopo aver servito anche nei corpi speciali israeliani, decide di vivere in Cisgiordania, a Jenin, nel campo profughi della città palestinese. Ha dato vita, con sua madre, nel 1988, al Freedom Theatre, del quale era direttore. Il teatro venne raso al suolo dall’esercito israeliano nel 2002, ma ha riaperto nel 2006. Juliano lavorava con i giovani del campo profughi, offrendo il teatro come alternativa alla strada e alla violenza. Al lavoro della madre, Juliano ha dedicato Arna’s children, un documentario sulle storie dei ragazzi passati negli anni dal teatro. È stato assassinato, a 53 anni, il 4 aprile 2011. Di sè diceva: «Sono palestinese al cento per cento. Sono ebreo al cento per cento». In questo, per tutta la vita, non ha visto nulla di strano.
Zakaria Zakaria Zubeidi, 35 anni, nasce a Jenin, in una famiglia di otto figli. Suo padre, attivista di Fatah, muore di cancro in carcere. Sua madre perde la vita, nel 2002, colpita mentre si affaccia alla finestra di casa durante un’operazione dell’esercito israeliano. Zakaria conosce le prigioni israeliane a tredici anni. Rilasciato dopo gli Accordi di Oslo, nel 1994, diventa un protagonista della Seconda Intifada. Nei primi anni della lotta, si segnala come uno dei leader delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, formazione militare legata al partito Fatah. Zakaria diventa una delle persone più ricercate da Israele. Nel 2006 la svolta. Decide di tornare al Freedom Theatre, per collaborare con Juliano Mer Khamis, in un nuovo tipo di lotta. Quella per l’emancipazione culturale dei ragazzi del campo profughi di Jenin. Nel 2007, in cambio della consegna delle armi, Israele gli concede l’amnistia.
Un bianco abbagliante, quattro donne in cerchio sotto il sole a picco, strette come a proteggere i marmocchi che si stringono alle loro gonne. Un gatto, pigro, gira alla larga. Sono l’unico elemento vivo di un incrocio anonimo, nella geometria soffocante del campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Una strada laterale, accanto a un campetto di calcio. Da quel vicolo, il 4 aprile scorso, è spuntato il killer di Juliano Mer Khamis. Si è messo davanti alla macchina, ha sparato, ha ucciso il regista. «Juliano ha fermato la macchina. Poteva travolgerlo, passargli sopra. Io credo che l’avrei fatto, così, senza pensarci. Sopravvivere non è qualcosa su cui devi star troppo a riflettere. Juliano no, lui non l’avrebbe mai fatto». Zakaria Zubeidi si guarda attorno, come se vedesse le case del campo profughi per la prima volta. Invece è nato qui, è cresciuto e ha combattuto in queste strade. La Seconda Intifada ne ha fatto uno dei leader della lotta armata, uno degli uomini più ricercati da Israele. Poi ha deciso che si poteva combattere in un altro modo. «La Terza Intifada sarà fatta dai ragazzi: attori, cantanti, ballerini, scrittori. Un esercito così non lo ferma nessuno. Con la violenza abbiamo ottenuto solo morte e distruzione. Tutti hanno chiuso gli occhi, nel mondo, per non vedere la nostra solitudine. La violenza è stata la scusa, come se resistere fosse una colpa». La resistenza, per Zakaria, è una cicatrice. Il suo viso di ragazzo cresciuto troppo in fretta è costellato, come una mappa geografica, dei segni di un ordigno esploso a pochi metri da lui. La resistenza, per lui, è il lutto. Sua madre e suo fratello morti, come il padre anni prima. L’occupazione che diventa questione di famiglia. Per lui la resistenza, adesso, è il Freedom Theatre. «Nel 2006 non ho potuto dire no a Juliano. Lo conoscevo da sempre. Sua madre Arna ha tentato di dare un futuro a me e a tanti ragazzi. Oggi sono quasi tutti morti. Juliano ha voluto riaprire il teatro, costruire sulle macerie di Jenin. Ho capito che aveva ragione. L’avrebbe capito anche quello che ha sparato. Questo è il mio dolore più grande. Avesse dato a Juliano un’occasione, pochi minuti soltanto. L’avesse ascoltato avrebbe capito. E non avrebbe sparato». Zakaria torna in teatro. Il lutto è l’unico spettatore. «Dopo La fattoria degli animali stavamo lavorando ad Alice nel Paese delle meraviglie. Non immaginavo, prima di tornare a lavorare nel Freedom Theatre, quanta politica potesse nascere su un palcoscenico. Non l’ho capito solo io e questo è un problema per molti. Fino a quando parli contro l’occupazione, non c’è problema. Ma se inizi a far riflettere la gente, se inizi a spiegare i meccanismi del potere, diventa un altro discorso. La Palestina vive giorni particolari. Le divisioni interne sono diventate intollerabili per la gente comune. Vedi i politici arrabattarsi, come belve fameliche, per sbranare la carcassa di un potere finto, vuoto. Un avanzo, che Israele getta loro. I palestinesi non ne possono più. Il movimento del 15 marzo ha dato voce a questo disagio. Ragazzi giovani, semplici, più abili a navigare in rete che a sparare, hanno suonato la sveglia. Juliano ne era affascinato, proprio la mancanza di un retroterra politico classico ne faceva un nuovo inizio. Li ha sostenuti,
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aiutati. Ha pagato per questo? Non lo so. L’accordo raggiunto tra Fatah e Hamas va nella direzione indicata dai ragazzi, anche se alle parole devono seguire i fatti. Ma questo movimento, con tutte le sue ingenuità, rappresenta l’unica novità da molto tempo a questa parte. Ci sono persone terrorizzate dalle novità, quelle che hanno paura di perdere il loro potere. Io non so chi ha armato la mano del killer, non so se quella mano sia in Cisgiordania, a Gaza oppure in Israele. Ma mi sembra di conoscerla lo stesso. Come quella che ha ucciso Vittorio. In pochi giorni, due mani, che si chiudono a pugno per colpire il cambiamento. Di Vittorio ricordo un’immagine, con il suo tatuaggio sul braccio. Resistenza. Come si fa a spiegare a coloro che conoscono solo la violenza che Juliano, Vittorio e i ragazzi di questo teatro resistono non solo all’occupazione fisica, ma anche a quella delle menti?».
Nablus in piazza e su fb
I ragazzi che racconta Zakaria non hanno nulla di speciale. Se li incroci per strada, non li distingui da tutti gli altri. A Nablus i ragazzi in giro per le viuzze della città vecchia sono troppi. Orario da scuola, da lavoro. Nel centro della piazza di Nablus, una tenda. Qualche bancale di legno, un paio di sedie sgangherate. Walid sorride incendiandosi di entusiasmo, le mani, veloci, a toccare la cresta appena accennata. «Mi prendono tutti in giro, per questi capelli», denuncia arrossendo. «Gli ho detto che vanno di moda, in Europa, ma non capiscono niente questi». «Certo, solo che qui sei a Nablus, fratello!», ribatte Kayed, alto e bruno, faccia seria e sogni da giornalista. Studenti come il vanitoso Alaa e l’erculeo Diaa. Sempre insieme. «Guardavi la televisione. Egitto, Siria, Yemen, Tunisia, Libia... Non finisce più. Non dovevamo stare a guardare. Ci scambiamo le informazioni con i ragazzi degli altri Paesi, diventiamo golosi», racconta Walid. «Vogliamo cambiare anche la nostra vita. Tra di noi discutevamo: qui c’è l’occupazione israeliana, tutto è diverso. Eravamo divisi. Tutti vogliamo cambiare le cose, ma ci rendiamo conto delle condizioni particolari della nostra situazione. Combattere l’occupazione, certo. Ma bisogna capire quanti e quali sono i modi. Alla fine ci siamo resi conto che la divisione tra i partiti palestinesi, quella tra Gaza e la Cisgiordania, è un ostacolo ancora più urgente. Se vuoi combattere per la tua libertà, come puoi farlo diviso?», si chiede Walid. «All’università abbiamo preso a confrontarci con amici e coetanei e in tanti la pensavano come noi», spiega Diaa. «Con lentezza è maturata una consapevolezza e, con Facebook e i social network, abbiamo iniziato a far girare le nostre idee. La piattaforma è chiara. Non siamo un nuovo partito. È l’ultima cosa di cui la Palestina ha bisogno. Non manchiamo di rispetto a coloro che sono morti combattendo, ma non crediamo che le armi ci regaleranno la vittoria. Chiediamo ai nostri leader, che rispettiamo, di avere il coraggio di un nuovo inizio della nostra lotta per una Palestina libera e indipendente. Una fase in cui l’occupazione non diventi mai più un alibi per corruzione e clientelismo. Siamo scesi in piazza, coordinandoci con i ragazzi di tutta la Cisgiordania e con quelli di Gaza. Non era mai successo prima, mai in una forma così nuova. È stato bellissimo».
Zakaria Zubeidi davanti a un manifesto di Juliano Mer Khamis
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Una signora, con le borse della spesa, si avvicina. Saluta i ragazzi, sorride. E augura buona giornata. «Ecco, questo è stato l’aspetto più bello: siamo stati nella nostra tenda per spiegare alle persone le nostre ragioni. E ha funzionato», commenta Alaa. «Siamo riusciti a far capire quanto sia importante per noi tutto questo. Siamo riusciti a convincerli che non siamo contro nessuno, ma solo a favore dell’unità e del cambiamento. Questo vogliamo. Il 15 marzo, davanti all’università, eravamo poco più di mille. Uno alla volta crescevamo. La sicurezza del campus ha reagito male, ha bastonato qualcuno. Non è colpa loro – commenta Alaa, mentre Diaa, memore di un colpo subìto, si tocca la testa pelata – siamo come alieni per loro. Mancavano le insegne di partito, le solite facce. Li ho visti smarriti. Poi sono arrivati ordini dall’alto e hanno cambiato atteggiamento». Walid ride di gusto: «Prima della manifestazione mio
padre mi sosteneva, diceva che facevamo la cosa giusta. Torno a casa, il 15 marzo, e mi rimprovera. Ma come, dico io? E lui mi dice di portare rispetto al presidente Abbas che ha a cuore noi giovani della Palestina! Solo perché ha mandato in piazza i suoi uomini a portarci tè, panini e coperte! Questa è la mentalità dei vecchi, abituati a ragionare con un padre, non con un capo di Stato». Alaa annuisce, si tocca il pizzetto e riflette ad alta voce: «Non ci fermeremo. Accogliamo con grande soddisfazione l’accordo tra Hamas e Fatah, ma non ci fermiamo. Persone come Vittorio Arrigoni e Juliano ci hanno lasciato un’idea forte: si combatte anche con altri mezzi. Continueremo con iniziative per strada, terremo i ponti con i ragazzi della Cisgiordania e di Gaza, faremo pressioni per l’applicazione delle nostre istanze. Se non siamo liberi ora, non saremo pronti quando, finalmente, la Palestina sarà libera».
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Il caffè di Ramallah
Piazza al-Manar, Ramallah. Il cuore della capitale politica dello Stato che non c’è. La capitale sarebbe Gerusalemme, ma quella è un’altra storia. Shirin e Liana arrivano annunciate da un sorriso. Unghie dipinte, trucco accurato. Avvocato la prima, tecnico informatico la seconda. «Saliamo di sopra, al caffè dove è nato il movimento 15 marzo a Ramallah», dice Shirin. Il posto è identico a una nota catena di caffè statunitensi, solo che si chiama Star and Buck’s, separato. Al secondo piano di un palazzo come mille altri, tra appartamenti e negozietti in quota. Sulle scale un via vai impressionante. «Mettiamoci qui, questo è il nostro tavolo», ammicca Liana. «Sai cosa sono quelle finestre di fronte? Gli uffici dei servizi di sicurezza di Fatah. L’abbiamo fatto apposta», ride divertita, ordinando un gelato che sembra il certificato di morte di un diabetico. «Anche perché noi possiamo permettercelo», chiosa serioso Mohammed, che ha raggiunto le compagne di lotta. Studia scienza politiche. «Lui è l’ideologo!», lo prendono in giro Shirin e Liana, Mohammed si guarda le scarpe sorridendo comprensivo. «Fatah ragiona in modo differente: a Gaza Hamas ha reagito con brutalità, con violenza. Sono terrorizzati dal movimento», spiega Mohammed. «Là, ce lo raccontano ogni giorno i ragazzi, sono molti di più della Cisgiordania. Perché all’occupazione, a un sistema sociale senza speranze per i giovani, si somma anche la repressione dei costumi. Mi basta solo pensarci per sentirmi soffocare. Perdere Vittorio, per quei ragazzi, è stato orribile. Lui era come una finestra sul mondo, per fare arrivare la loro voce fuori da quella prigione. Fatah è più sottile, blandisce il movimento, tenta di farne sue le istanze. Non ha represso, perché per abitudine tende più a tentare di manovrare. Non gli renderemo la vita facile». Shirin annuisce, muovendo la chioma nera e luminosa. «Il 15 marzo, mentre noi sfilavamo, sono arrivati i ragazzi del movimento giovanile di Fatah. Hanno improvvisato un altro corteo, che diceva le nostre stesse cose. Una scena surreale. Ci siamo fermati e abbiamo trasformato il nostro corteo in un presidio. Non ci possono prendere in giro. È il momento di cambiare le cose, in Palestina. Per diventare ancora più forti e lottare, tutti assieme, contro l’occupazione. Devono smetterla di passare il loro tempo a spartirsi appalti e poltrone, è tempo di cambiare tutto. Vedi tutti questi cantieri a Ramallah? Gli appalti li vincono sempre gli stessi, gli amici degli amici. L’occupazione si combatte anche combattendo tutto questo sistema marcio». Ma la gente comune coglie questo passaggio? «Non è facile – racconta Mohammed – noi siamo dei privilegiati. A Jenin, Nablus, Hebron, città dove la situazione è molto più dura, è differente. Stiamo lavorando per far capire alla gente che la battaglia è la stessa, che l’unità ci rende più forti. L’ha capito molto bene il movimento dei prigionieri politici, migliaia di palestinesi che sono in carcere da anni. Hanno subito benedetto il movimento, perché loro più di tutti sanno che la divisione è la nostra fine». Difficile spiegarlo ai ragazzi meno fortunati. «Quella – spiega Mohammed – è la sfida. Andiamo in giro, per quanto ce lo
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L’accordo Il 4 maggio scorso Khaled Meshaal, capo dell’ufficio politico di Hamas, Abu Mazen, leader di Fatah, insieme ai rappresentanti di undici fazioni palestinesi, hanno firmato al Cairo l’annunciato accordo di riconciliazione. L’intesa apre la strada alla nascita di un governo unitario di transizione in Cisgiordania e a Gaza. Con l’accordo si chiude, secondo Abu Mazen, la “pagina nera delle divisioni” tra le due fazioni. Fra le sfide più urgenti da affrontare, l’istituzione di un consiglio di sicurezza incaricato di studiare l’integrazione delle forze di polizia rivali. L’accordo prevede, inoltre, la creazione di una commissione elettorale che porti al voto e il rilascio di prigionieri detenuti nelle rispettive carceri di Ramallah e a Gaza. Hamas e Fatah sono entrate in conflitto nel 2006, quando il movimento islamico vinse le elezioni parlamentari palestinesi, cacciando da Gaza gli oppositori. I Territori occupati seguirono da quel momento percorsi paralleli, divisi politicamente e amministrativamente e governati da due diversi esecutivi. L’accordo è stato criticato da Israele, contrario a trattare con Hamas, considerato un gruppo terroristico.
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permette l’occupazione israeliana a farci conoscere. Tanti sono ancora convinti che l’unica via sia la lotta armata. Non sarà facile, e personalità come Juliano o Vittorio ci mancheranno tanto. Ma non ci fermiamo e l’accordo lo riteniamo una nostra vittoria, anche se c’è ancora molto da fare».
Le barricate di Silwan
Uno dei luoghi, e in Palestina sono tanti, dove per i ragazzi del movimento è difficile farsi ascoltare è Silwan, un sobborgo di Gerusalemme. Il governo israeliano ha deciso di costruire qui un’improbabile città tematica, una sorta di Disneyland a tema religioso. Ogni venerdì i palestinesi, vittime degli espropri, si riuniscono presso il comitato popolare nato per combattere il progetto. Dopo la preghiera, alla spicciolata, arrivano i ragazzi. Giovani, a volto coperto. La fessura dei copricapo lascia scoperti solo gli occhi; cerchi una faccia da duro, trovi un adolescente. Alcuni sono così piccoli che pure le pietre sembrano fuori misura. Arriva un blindato israeliano, lacrimogeni soffocanti ad altezza d’uomo. O di ragazzino. Sassi contro scudi, un tonfo sordo che ha un suono forte come la sua inutilità. «Sei ebreo?», ringhia uno che non avrà quindici anni. «Il movimento 15 marzo? Ma quelli sono solo dei fighetti fottuti, che ne sanno di lotta. Pensano che gli israeliani se ne andranno con l’unità? A me non frega nulla dei partiti, me ne frega di Silwan, della mia casa, della mia gente. Qui non c’è niente, ma ce la vogliono togliere lo stesso. Lotteremo, metro per metro. Siamo giovani, dici? Certo, tutti qui hanno padri e fratelli in carcere e combatte chi resta. E chi torna». I ragazzi hanno eretto una barricata di fortuna. Gli scontri continuano per ore. Se non ci fossero ragazzi contro blindati sarebbe addirittura noioso. All’improvviso, un baleno. Passa l’auto di uno dei coloni che occupano le terre palestinesi. Una grandinata di sassi sfonda i cristalli della sua auto. Scende, imbraccia un M16 da assalto e fa fuoco. Per terra, per fortuna. Non colpisce nessuno, riprendono gli scontri. «Sarebbe bello pensare che basta manifestare per essere liberi», dice uno dei ragazzi, che ora appare stanco e come più vecchio. «Sarebbe bello, essere tutti uniti. Ma la realtà è differente. Vorrei che fosse diversa. Mi piacerebbe dire a loro: ecco noi siamo uniti lo stesso. E adesso tenetevelo il vostro muro», dice indicando il blindato che si ritira. Da questa strada polverosa, dove l’aria è resa irrespirabile dai copertoni bruciati dai ragazzi di Silwan e dai gas dell’esercito israeliano, il caffè dei ragazzi di Ramallah è lontano. «È vero – riflette Mohammed – nessuno lo nega. Quello che per noi del movimento è davvero importante è riuscire a parlare anche con quei ragazzi. Trovare una nuova lingua, per capirci. Stiamo combattendo la stessa lotta. Uniti, come possono essere le persone differenti tra loro».
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L’utopia giovane di
Luca Galassi
foto
Naoki Tomasini
«Voglio riprendermi il mio futuro», dice Ropa. «Voglio avere il diritto allo studio, a un buon lavoro. Il diritto a poter crescere i miei figli in un ambiente senza violenza». Le fa eco Abu Ghassan: «Voglio crederci, voglio sperare. Non abbiamo molte alternative». Sono tutti molto giovani. Ma hanno le idee chiare. Sanno che il sogno, cominciato sull’onda delle sollevazioni nel Maghreb, porterà lontano solo se la loro voce uscirà da Gaza per rientrarvi amplificata e moltiplicata dall’interesse e dalla solidarietà del mondo esterno. “Sono la stragrande maggioranza degli under 25 che incontri nei caffè, al di fuori dell’università, per strada con le mani nelle saccocce vuote di soldi, di impieghi, di prospettive per l’avvenire, ma gonfie di lutto e rabbia sottaciuta”: così scriveva Vittorio Arrigoni, l’attivista che avrebbe trovato la morte, il 15 aprile, nella terra che amava. A sequestrare e uccidere il pacifista, in una vicenda ancora oscura, un commando composto, tra gli altri, da un giordano e da un palestinese, in quel momento ancora a libro paga di Hamas. I giovani gazawi amavano Vittorio e con lui avevano costruito un manifesto per il cambiamento (qui sotto), un grido per rompere il silenzio, l’ingiustizia e l’indifferenza che li hanno precipitati in “un incubo dentro un incubo”, senza spazio per la speranza. Da quel manifesto è nata quella che è ormai chiamata la Primavera di Gaza che, convocata su Facebook, il 15 marzo scorso, ha invaso le piazze della Striscia occupata.
Un caffè del centro di Gaza City: il portavoce del Movimento per la fine delle divisioni si ritrova con Ropa e Abu Ghassan, studenti come lui, per festeggiare l’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah, raggiunto al Cairo il 4 maggio. Un accordo che qualcuno non voleva. «Probabilmente la morte di Vittorio – dice Abu Yazzan – ha accelerato gli eventi. La credibilità di Hamas, il suo controllo territoriale sono stati messi in pericolo. Per questo motivo Hamas non poteva più permettersi di aspettare. Anche se non ci crederemo finché non ci saranno fatti concreti, dall’una e dall’altra parte, noi dobbiamo essere ottimisti. L’accordo del Cairo è comunque un passo avanti per la causa palestinese». Le ostilità tra i due partiti, e i loro interessi particolari, hanno pregiudicato per anni la pace, facendo perdere di vista il nemico comune: l’occupazione israeliana. «È per questo – aggiunge Abu Yazzan – che abbiamo deciso di impegnarci, rischiando in prima persona. Abbiamo cominciato a far girare la voce su Facebook, ma non sarebbe bastato. Siamo andati nei mercati, nei negozi, nelle università, distribuendo dépliant e adesivi per promuovere la marcia del 15 marzo. Siamo scesi a centinaia di migliaia in piazza. Non ce l’aspettavamo, è stato meraviglioso. È successo, semplicemente. Avevamo anche la garanzia, una settimana prima della manifestazione, che i poliziotti di Hamas non sarebbero intervenuti». Invece i ragazzi sono stati attaccati, feriti, arrestati a centinaia. È stato sempre Arrigoni a
Il manifesto del movimento 15 marzo “Vaffanculo Hamas. Vaffanculo Israele. Vaffanculo Fatah. Vaffanculo Onu. Vaffanculo Unrwa. Vaffanculo Usa! Noi, i giovani di Gaza, siamo stufi di Israele, di Hamas, dell’occupazione, delle violazioni dei diritti umani e dell’indifferenza della comunità internazionale! Vogliamo urlare per rompere il muro di silenzio, ingiustizia e indifferenza, come gli F16 israeliani rompono il muro del suono; vogliamo urlare con tutta la forza delle nostre anime per sfogare l’immensa frustrazione che ci consuma per la situazione del cazzo in cui viviamo; siamo come pidocchi stretti tra due unghie, viviamo un incubo dentro un incubo, dove non c’è spazio né per la speranza né per la libertà. Ci siamo rotti i coglioni di rimanere imbrigliati in questa guerra politica e delle notti nere come il carbone con gli aerei che sorvolano le nostre case; siamo stomacati dall’uccisione di contadini innocenti nella buffer zone, colpevoli solo di stare lavorando le loro terre; ci siamo rotti i coglioni degli uomini barbuti che se ne vanno in giro con le loro armi abusando del loro potere, picchiando o incarcerando i giovani colpevoli solo di manifestare per ciò in cui credono; ci siamo rotti i coglioni del muro della vergogna che ci separa dal resto del nostro Paese[...] e ci siamo rotti i coglioni di chi ci dipinge come terroristi, fanatici fatti in casa con le bombe in tasca e il maligno negli occhi; abbiamo le palle piene dell’indifferenza da parte della comunità internazionale, [...]ci siamo rotti i coglioni di vivere una vita di merda, imprigionati dagli israeliani, picchiati da Hamas e completamente ignorati dal resto del mondo. [...] Non vogliamo odiare, non vogliamo sentire questi sentimenti, non vogliamo più essere vittime. Basta! Basta dolore, basta lacrime, basta sofferenza, basta controllo, proibizioni, giustificazioni ingiuste, terrore, torture, scuse, bombardamenti, notti insonni, civili morti, ricordi neri, futuro orribile, presente che ti spezza il cuore, politica perversa, politici fanatici, stronzate religiose, basta incarcerazioni! Diciamo Basta! Questo non è il futuro che vogliamo! Vogliamo tre cose. Vogliamo essere liberi. Vogliamo poter vivere una vita normale. Vogliamo la pace. È chiedere troppo? Siamo un movimento per la pace fatto dai giovani di Gaza e da chiunque altro li voglia sostenere e non si darà pace finché la verità su Gaza non venga fuori e tutti ne siano a conoscenza, in modo tale che il silenzio-assenso e l’indifferenza urlata non siano più accettabili. Questo è il manifesto dei giovani di Gaza per il cambiamento! [...] Costruiremo sogni dove incontreremo muri. (Il testo integrale su www.peacereporter.net)
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raccontare come è finita quella giornata: “Hamas decideva di terminare la festa a modo suo: decine di poliziotti e agenti in borghese hanno accerchiato l’area, e, armati di bastoni, hanno assaltato brutalmente i manifestanti pacifici, dando alle fiamme le tende e l’ospedale da campo. Circa trecento i ragazzi feriti, per la maggior parte donne, una decina con fratture. Per tutta la notte di ieri fuori dall’ospedale al Shifa, nel centro di Gaza City, poliziotti arrestavano i contusi mano a mano che venivano rilasciati dal pronto soccorso”. Abu Yazan è stato tenuto in carcere solo poche ore: «Se fossi rimasto di più, la mia detenzione avrebbe scatenato una sollevazione incontrollabile. Sarei diventato un simbolo della rivolta, e Hamas, lo sappiamo, non
vuole eroi nella Striscia». Il movimento è un insieme di tre formazioni spontanee: Gaza Youth Breaks Out (I giovani di Gaza escono allo scoperto), 15 marzo (il giorno della marcia) e 15 giugno (il giorno d’inizio della guerra arabo-israeliana del 1967). I giovani non vogliono affiliazioni politiche, anche se dovranno trovare una formula per poter dialogare con i partiti politici che parteciperanno alle elezioni, che, secondo l’accordo, dovranno tenersi alla fine dell’anno. «Non abbiamo e non vogliamo bandiere, se non quella palestinese. Ma vogliamo creare una commissione di monitoraggio per vigilare sull’accordo, per denunciare ogni violazione dell’intesa che porterà alle elezioni», conclude Abu Yazan. Ropa ha diciott’anni. Non teme eventuali nuove ri-
torsioni da parte della polizia di Hamas: «Io non ho paura. Anche i miei genitori mi hanno spinto a manifestare. Ho sei sorelle, e sono tutte nel movimento. Ci sono anche molti nostri cugini. Perché dobbiamo avere paura? Perché dobbiamo combattere tra di noi quando abbiamo un solo nemico da affrontare? Dobbiamo concentrare le nostre forze per l’indipendenza, la pace, la libertà e per la Palestina unita». Il movimento vuole esortare la gioventù di Gaza a riappropriarsi del suo futuro: «A livello sociale – spiega Abu Ghassan – chiederemo a tutti di fare volontariato, di impegnarsi attivamente per fare pressioni sul governo affinché vengano creati posti di lavoro e più opportunità. Ai giornalisti chiediamo di non strumentalizzarci, di offrire un’immagine di noi non defor-
mata. Siamo indipendenti, e tali vogliamo restare». Studente di Letteratura inglese e francese, nutre ottimismo nei confronti dell’accordo di riconciliazione: «Sono impaziente di vedere la gente di Fatah tornare al lavoro che ha dovuto lasciare quattro anni fa. E la gente che non vota né per l’uno né per l’altro avere le stesse possibilità di trovare un’occupazione. Il futuro è nel rispetto dei nostri diritti. E se vogliamo una soluzione, deve essere una soluzione che garantisce la libertà. La nostra libertà di opinione, di espressione, di movimento. La libertà di poter uscire dalla Striscia di Gaza. E di rientrarvi ogni volta che vogliamo».
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spiriti liberi di
Giulio Giorello
opera di
Lore Heuermann
l’ebbrezza della scelta Due giudizi in cui mi sono occasionalmente imbattuto mi spingono a riprendere un tema che, sotto un diverso profilo, ho già toccato in questa rubrica. Ekbal, nativa di Tripoli (da D, supplemento alla Repubblica, 30 aprile): “A voi italiani fanno più paura i clandestini che un dittatore”. Friedrich von Hayek (La via della schiavitù, 1944; in rinnovata versione italiana pubblicata da Rubbettino, è in questi giorni in libreria): “La responsabilità non verso un superiore ma verso la propria coscienza è l’essenza di ogni morale che meriti di essere chiamata tale”. Che cosa collega una economista libica, ora a Reggio Emilia, a un Nobel (1974, guarda caso per l’economia) scomparso una ventina d’anni fa? Non tanto la stessa disciplina scientifica, quanto un’identica volontà di non sottomissione: se le nostre azioni fossero compiute solo per timore di questo o quel dittatore – o capo carismatico o partito o consorteria o corporazione – potremmo ancora parlare di scelta, e magari di scelta per la virtù? Non sono questioni astratte o esotiche: mentre butto giù queste righe non si è ancora concluso, nel nostro Paese, il dibattito sul testamento biologico. Padroni della nostra vita (e, vorremmo sperare, anche della nostra morte) siamo noi stessi o qualche entità superiore insieme coi suoi “ministri”? Si tratta anche qui di scegliere, e non è una scelta priva di conseguenze: in un caso conterà davvero la volontà espressa dal singolo cittadino, nell’altro il nostro comportamento, anche quando non produca danno ad altri, sarà vincolato da norme dettate da una qualsiasi autorità esterna (per esempio, gli esperti dell’arte medica). In entrambi i casi, se siamo liberi, non lasceremo la scelta in mano altrui. Eppure, un’autorità come Benedetto XVI (non mi arrischierei certo a dire che è un dittatore) non manca di ribadire che il senso vero della libertà «consisterebbe non nell’ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta all’appello dell’essere». E se preferissimo restare “ebbri”? È quella stessa ebbrezza che in non pochi Paesi arabi muove ora cristiani e musulmani insieme e – perché no? – anche atei, agnostici, indifferenti ecc., a rivendicare il proprio diritto all’autodeterminazione sia come popoli sia come individui. Certo, l’autonomia non è mai assoluta, non foss’altro perché è sempre possibile rafforzarla e ampliarla un domani in direzioni oggi impreviste. E che dire dell’Essere (qualcuno lo scrive addirittura con la maiuscola)? Tutto dipende da quella voce con cui esso ci farebbe appello – tanto per restare alla metafora cara a Ratzinger. Ma io non vorrei mai – né di qua né al di là del Mediterraneo – che Dio per chi ci crede, o l’Essere o la natura per chi è di altro avviso, si rivelasse un tiranno teologico o metafisico. Non può essere lecito – persino per chi non aderisce ad alcuna fede religiosa – vederlo invece come un compagno delle nostre lotte e delle nostre speranze: clemente e misericordioso?
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Conversazione con Marco Paolini di
Fabrizio Ravelli
foto
Laila Pozzo
L’attore inquieto Dal Vajont, che ha portato in scena nel 1994, a oggi ci ha insegnato a ricordare con rabbia e anche con umorismo. Oggi dice che la memoria non basta più. Che rischia di essere troppo facile. Che bisogna pensare a una tragedia all’italiana. Perché in giro c’è disperazione e puzzo di miseria. E anche noi spettatori dobbiamo darci una mossa
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Storie italiane in scena Bellunese di 55 anni, Marco Paolini fa teatro dagli anni Settanta, un “teatro di narrazione” di cui è uno dei pionieri. Ha lavorato in diversi gruppi (Teatro degli Stracci, Studio 900, Tag Teatro) e con il Laboratorio Teatro Settimo ha messo in scena, nel 1987, Adriatico, il primo dei suoi Album, serie di lavori semiautobiografici. Nel 1994, con la Cooperativa Moby DickTeatri della Riviera, allestisce Il racconto del Vajont, il suo primo grande successo popolare. Basato sul libro della giornalista e corrispondente dell’Unità, Tina Merlin, e sulle ricerche dello stesso Paolini, ricostruisce la genesi della diga e la catena di colpe e omissioni che portarono al disastro del 9 ottobre 1963. Dopo molte rappresentazioni in luoghi non teatrali (centri sociali, scuole, fabbriche, stazioni) approdò il 12 dicembre 1996 al Piccolo di Milano e il 9 ottobre del ‘97 in diretta tv su Rai 2 dalla diga con un boom clamoroso di ascolti (Oscar della tv come miglior programma dell’anno). Oltre agli Album, ha realizzato la serie dei Bestiari (quelli veneti come Parole mate, L’orto, e quello italiano I cani del gas), e ancora gli Appunti foresti dal Milione - Quaderno veneziano. I suoi principali lavori del cosiddetto “teatro civile” sono I-TIGI Canto per Ustica, Parlamento chimico storie di plastica (sul Petrolchimico di Mestre), Miserabili Io e Margaret Thatcher. L’ultimo, andato in onda nel gennaio di quest’anno su La7, è Ausmerzen, vite indegne di essere vissute, sull’eugenetica nazista. Grande successo televisivo hanno riscosso, sempre su La7, Il Sergente (dall’opera di Mario Rigoni Stern), La macchina del capo Racconto di Capodanno, e Album d‘Aprile. Con Carlo Mazzacurati ha curato tre interviste video ai suoi maestri veneti: Mario Rigoni Stern, Luigi Meneghello (del quale aveva già messo in scena Libera nos a malo) e Andrea Zanzotto. Ha recitato nei film di Mazzacurati (Il Toro, La lingua del Santo, A cavallo della tigre), Nanni Moretti (Caro diario), Daniele Luchetti (I piccoli maestri), Marco Tullio Giordana (Sanguepazzo), Daniele Segre (Manila Paloma Blanca).
Marco Paolini, mi piacerebbe parlare con te di memoria. Dai tempi di Vajont, sono passati 17 anni, mi pare che tu ti sia costruito una memoria di fatti che non avevi vissuto e che questo sia diventato un metodo di lavoro. «Io non ho una memoria particolarmente attrezzata e faccio fatica a tenere il conto dei mesi e delle cose. Mi viene da pensare che, in teatro, ti rivolgi a gente che, prima della fine, già si è dimenticata di quello che avevi cominciato a raccontare ma che, caparbiamente, vuole sentire la storia. E, in questo Paese, non è indifferente la qualità di questa domanda. Quando ho cominciato a raccontare Vajont – era il 1994 – eravamo alla fine di quella che abbiamo chiamato Prima Repubblica. Il Paese aveva delle speranze e delle attese. Sono passati 17 anni e il sentimento più espresso, quando incontro il pubblico, è la disperazione. Ma la domanda di Storia, di storie, di memoria, non è cambiata, anzi è più forte». E quindi? «Io sono in difficoltà ad avallare questo concetto della memoria: la memoria non è una disciplina, non può essere inquadrata, riconosciuta, scritta. È un’acquisizione un po’ aleatoria dell’esperienza che a volte si solidifica e a volte no. Tu dici che mi sono costruito una memoria, ma in realtà ho studiato la Storia, ho letto dei libri, ho raccolto dei materiali. Trasformandoli in oralità, diventa un lavoro da dilettanti: quando traduci in pagine un tuo copione arrivi al massimo a 45. E un libro di 45 pagine non è un libro serio. Però è il massimo che sono riuscito a fare. Però c’è una bella differenza. È una cosa che si fa insieme. C’è un’emozione e una partecipazione della gente che assiste. «È una liturgia, certo, ed è estremamente accattivante. Ma quanto incide sulle persone, quanto è trasmissibile la memoria come fatto artistico? Se la memoria non appartiene alla pratica di un popolo, così come la trasmissione di un mestiere, di una cultura familiare o del territorio per cui hai dei princìpi etici ma anche pratici, continua ad avere il suo valore, ma non ha una funzione di restituzione o di risarcimento. Ho molti dubbi: la memoria che faccio io quando ricostruisco una storia è un conto, ma non so quanto sia trasmissibile». Vorrei tornare indietro. Quando mi hai parlato per la prima volta di Vajont, mi hai detto: ero ragazzino e passando in treno da Longarone, i grandi, guardando in su, parlavano di disgrazia o incidente. Di lì nasce lo scatto per andare a vedere cos’era davvero successo. E poi c’è il treno, che nella tua vita è importante. Hai perfino in casa una stanza dedicata al plastico dei trenini. Che cosa significa per te il treno? «Credo sia una visione laterale della vita, diversa da quella che hai guidando un’auto. È la visione di chi, se sbaglia lato, è fregato. Poi – è una frase che dico nello spettacolo La macchina del capo – finito il marciapiede della stazione, il treno è già in periferia, e lì resta fino al marciapiede successivo. Tutti buttano le cose dietro
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la casa, dove passa il binario: quindi, se usi il binario per guardare, vedi il culo di questo Paese. Il lato B. A me è sempre piaciuto il treno perché la mia conoscenza del mondo è passata dal treno». E tu, che bambino eri? «Lento. Lento a cambiare, a crescere. Abbastanza attaccato alle cose. Quindi un po’ meno avventuroso di altri. Però, quando c’era la banda, in tempo di guerra ero soldato ultimo, considerato quasi inabile al combattimento, ma in tempo di pace, ero capo-ingegnere. Se c’era da costruire una capanna, ero io quello che comandava. Hai dedicato gran parte del tuo lavoro alla ricostruzione dell’infanzia e dell’adolescenza. Facendone una sorta di storia collettiva. «È successo così, in realtà. A un certo punto avevo cominciato a fare questo mestiere. Andavo in giro. Ho cominciato a rendermi conto che già non ricordavo più dov’ero stato. Allora ho preso un quaderno che ho intitolato L’alibi e ho cominciato ad annotare le cose che facevo. Se un giorno vengono da me i carabinieri e mi chiedono: “Tu dov’eri quel giorno?”, io so rispondere. Poi da Alibi è diventato Album che, prima di essere il titolo di alcuni spettacoli, è il principio ordinatore del mio lavoro. Io scrivo solo su quaderni numerati progressivamente. Ormai siamo oltre i sessanta, e sono quaderni grandi. A volte ci metto un anno a riempirne uno, in altri anni ne uso cinque. Lì ci sono le prime note di uno spettacolo, ma anche le lettere o le cose che vanno ricopiate. È la brutta copia di tutto. Il computer ce l’ho, ma lo uso solo come una biblioteca». Nei tuoi Album c’è molta comicità. Mi sbaglio, o con il passare degli anni hai un po’ accantonato le risate? «No, m’è rimasta quella voglia. Ma m’è cresciuta la passione per la tragedia. Il problema è che viviamo in un carnevale, per cui se uno vuole allungarlo può tranquillamente farlo da quaresima a quaresima senza soluzione di continuità. Ma la tragedia è la miseria. In uno spettacolo ho provato a raccontarla». Era Miserabili - Io e Margaret Thatcher. «Sì. Io sento l’odore della miseria, e mi dà fastidio. È come l’umido che vien su da certi muri. Parlo di quella cosa seminata dalla signora Thatcher, ma che noi abbiamo elevato all’ennesima potenza. C’è una canzone di Caparezza che dice “Non siete Stato voi”. Bellissimo, veramente un verso degno di questo compleanno dell’Italia. Un Paese che si è privato del pubblico, che ha una così bassa opinione della cosa pubblica. Io mi trovo costantemente alle prese con la domanda: “Faccio un mestiere che c’entra con queste cose, che cosa posso fare?”. Nel dopoguerra abbiamo creato la commedia all’italiana, però non esiste la tragedia all’italiana. Hanno detto che faccio il teatro civile? Nossignore, io faccio la tragedia all’italiana». Come hai cominciato a fare teatro? «È lo sport che mi è venuto meglio, negli altri mi tenevano in panchina. La realtà è che mi interessava la politica, e il teatro era un bel modo di veicolare
dei messaggi politici. Un teatro pieno di testi: Bertolt Brecht, quello era il mio inizio. Poi mi è venuto in mano il libro di Jerzy Grotowski e mi sono messo a fare le capriole. Cosa c’entrassero le capriole con il testo, ci ho messo quarant’anni a capirlo. Da attore, non ho mai studiato recitazione, e si sente, ma ho studiato il lavoro del corpo nella commedia dell’arte, nel teatro di strada, addirittura nei teatri orientali. Il mio curriculum teatrale sembrebbe un locomotore da manovra che fa avanti e indietro sul binario, o il facite ammuina dei marinai sulla nave. Col tempo, mi rendo conto che certe cose erano il basamento su cui costruire. Quindi le capriole c’entravano, come c’entra la musica. Ho capito tardi di avere una voce che ha delle potenzialità, o meglio una musicalità: io gioco sui colori sporchi, che altri chiamano dialetti. Metto vicine parole-cose, come diceva Luigi Meneghello. Parole che esprimono una sostanza. Se io dico sbrégo, invece di dire taglio, quella s-b-r fa suonare questa cosa con la drammaticità di strappo. Il dialetto è una lingua che non contiene solo la possibilità di canzonare, ma di diventare rivelatrice di altro». Basta leggere Andrea Zanzotto, uno dei tre grandi vecchi che hai celebrato insieme con Mario Rigoni Stern e Meneghello. Il suo dialetto è spesso tragico e forte. Penso che dovresti ricevere un’onorificenza dalla tua regione, in quanto ambasciatore di un Veneto contro i luoghi comuni. «Beh, intanto ricordiamo che le tre videointerviste a Meneghello, Rigoni Stern e Zanzotto sono un progetto partito da Carlo Mazzacurati. È stato lui a dirmi: “Devi venire, devi essere tu”. Venendo
all’onorificenza: se fossi uno stilista forse me la darebbero. Ma sono un attore. In Italia gli attori sono sempre stati non del tutto omologabili: Gustavo Modena o Tommaso Salvini erano dei gran rompipalle, spesso nei guai con la polizia, durante il Risorgimento. Probabilmente io ho un cattivo carattere, per cui mi è difficile prendere sul serio i miei amministratori. Ho una diffidenza istintiva. È inevitabile che fare progetti culturali come i nostri costa dei soldi. Mi dico sempre: se sono coerenti, non mi devono dare dei soldi, perché sanno che non sono d’accordo con loro. Se me li danno una volta, dovrebbero implicitamente riconoscere che quello che faccio ha un significato». E non è così? «No, non è così. Secondo me, è da coglioni leggere il mio lavoro esclusivamente in maniera politica. Io ho la presunzione di far riconoscere il mio lavoro su un piano che non si può mettere all’incasso in termini elettorali. Non lecco culi, dico delle cose, e vorrei che potessero entrare nella discussione, ma non succede mai, né con amministratori di destra né con amministratori di sinistra. Da quando l’intellettuale in televisione è diventato Vittorio Sgarbi, cioé quello in grado di dire “tu sei una capra” per sedici volte senza prendere aria, in modo tale da impedire la prosecuzione del discorso, non ho nessun interesse ad apparire come intellettuale. Pretendo piuttosto di far riconoscere che ciò che
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“M’è cresciuta la passione per la tragedia. Il problema è che viviamo in un carnevale, per cui se uno vuole allungarlo può tranquillamente farlo da quaresima a quaresima senza soluzione di continuità”
“Per me si potrebbero chiudere domani tutti i teatri, azzerare le cose e andare a cercarci un lavoro. E lo dico in maniera dolorosa, mica sarebbe gratis”
dico in teatro non è il trastullo di uno, ma un lavoro intellettuale. E invece nossignori, non è così. Io ho la massima libertà di dire quello che voglio a teatro. Ma quello che dico non trova mai riscontro in altro». Chi sono i tuoi maestri, con o senza virgolette? «In generale, il Novecento. Dopo la seconda guerra mondiale, il teatro ha vissuto la stessa crisi della fisica. Brecht, che cantava le magnifiche sorti del socialismo, ma che aveva scritto la Vita di Galileo, dopo Hiroshima si è chiesto: “Cosa faccio di questo testo?”. Poi penso ai maestri e alle persone più sensibili del teatro: a Tadeusz Kantor, a Peter Brook, a Grotowski, a quelli che vengono dopo la generazione di Konstantin Stanislavskij. Nell’Ottocento c’erano questi attori carismatici, poi ci sono stati uomini che hanno cominciato a pensare a un metodo, i grandi pedagoghi. E c’è stata la guerra in mezzo. Dopo, un sacco di gente
si è chiesta: “Adesso cosa dico, che cosa faccio, da cosa parto?”. Ci sono state le grandi scuole di regia e, dall’altra parte, chi è andato in cerca di contatti con altre tradizioni. Io non ho avuto una persona come maestro, ma dei posti dai quali ho rubato, dove ho potuto incontrare cose che hanno lasciato il segno su di me. Il teatro dove sono cresciuto non aveva il palcoscenico, i velluti, quattro o cinque ordini di palchi e un certo odore di chiuso. Erano stanze, tendenzialmente gelide, dove il pubblico stava di solito abbastanza scomodo. Oppure il pubblico te lo andavi a cercare e il teatro si svolgeva in una scuola, in una piazza, in un mercato, in una fabbrica, in un circolo. Era un’idea di teatro piena di potenzialità, che mi è rimasta dentro per tutta la vita. Per cui, quando sento parlare di tagli, mi vien da ridere, perché si continua a pensare al teatro come al Wwf. Se dovessi scegliere oggi salverei la scuola e butterei a mare il teatro».
Pare che si provi a buttare a mare l’uno e l’altra. «Per me si potrebbero chiudere domani tutti i teatri, azzerare le cose e andare a cercarci un lavoro. E lo dico in maniera dolorosa, mica sarebbe gratis. Ma la mia idea dei teatri è un’altra cosa. Guarda questo vecchio libro, trovato su una bancarella. Sono le illustrazioni dei teatri del Veneto alla fine dell’Ottocento. Le facciate sono sempre così, uguali alle stazioni, porte delle città. Sono spesso l’edificio più importante, con la facciata più bella, in piazza, davanti alla chiesa. La funzione civica del teatro, luogo pubblico, era, alla fine dell’Ottocento, tutt’uno con l’anelito di un Paese giovane, formato da gente giovane, da una classe emergente, la borghesia, che metteva i soldi. Per tutte le loro vanità, magari, ma io sono convinto che questo abbia avuto un valore enorme. Come ce l’hanno le fabbriche che però non ci sono più o sono archeologia industriale. Se questo è il ciclo, niente mi impedisce di pensare
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che domani questi teatri faranno la stessa fine delle fabbriche. Sarebbe la logica conseguenza di come abbiamo buttato via tante cose, come il know-how degli imprenditori. Dopo aver lottato contro i padroni per tutta la vita, mi tocca da vecchio di aver nostalgia dell’attitudine del padrone. Di quello che almeno ci metteva la faccia, che aveva il suo banco in chiesa, una certa responsabilità con la banca... Oggi gli imprenditori ci sono ancora, ma spesso hanno spostato la produzione, e anche i baricentri su cui si reggevano le cose. È ovvio che anche il teatro che rappresentava quel mondo non ha più senso. Abbiamo avuto la rivoluzione industriale più tardiva e più breve, e rapidamente siamo passati oltre, in un oblio che non ha saputo stratificare niente. Fra qualche anno, ai turisti giapponesi faranno vedere Pompei e la Dalmine, come appartenenti a un unico ciclo di archeologia. E dopo mostreranno anche il Carlo Felice di Genova, che non si riesce a tenere
“Penso che il teatro, per avere dignità di esistenza nel tempo che abbiamo davanti, debba guadagnarsela”
aperto, e spiegheranno che una volta, curiosamente, gli italiani vi si riunivano. Archeologia teatrale». Pensi così perché hai cominciato a far teatro fuori dai teatri. Ti ho conosciuto che facevi Vajont, da due anni, in stazioni, centri sociali, fabbriche. E stavi per farlo la prima volta in un teatro, il Piccolo di Milano, ed era il 12 dicembre del 1996. «Sì, e mi hanno anche fatto trovare il palcoscenico occupato da Paolo Villaggio, non hanno neanche tolto le scenografie. Ricordo tutto. Anche il capotecnico, che aveva lavorato con Giorgio Strehler. La sua diffidenza all’inizio, e come, alla fine, venne a stringermi la mano e mi disse: “D’ora in poi, di qualunque cosa tu abbia bisogno in questo teatro, considerami a disposizione”. Ed è stato così. Io sapevo cheVajont apriva le persone». Così è stato. Hai cominciato fuori dai teatri, e l’hai fatto in televisione, in diretta dalla diga. Ha funzionato, bastava guardare le facce degli spettatori. «Sì. Però mi prendo la responsabilità di dire altro. Perché Vajont crea emozione, ma poi non rappresenta un argine rispetto al fatto di ricominciare a usare l’acqua per fini idroelettrici in quella valle? Decisione dei mesi scorsi. Perché quello che fai nell’arte non rappresenta qualcosa che dura nella testa delle persone? La mia frustrazione, ma anche la mia speranza, è che questo mio lavoro serva a qualcosa. Ho la presunzione che il mio mestiere non sia inutile. Però mi chiedo: “Mi sto prendendo troppo sul serio quando faccio le mie cose, oppure no?”. Ecco perché non sono soddisfatto. D’accordo, questa è la società liquida, tutto viene macinato. Ma se mi si dice che faccio un lavoro sulla memoria, il dubbio è: “Non è che si tratta di una cosa alla moda, che funziona come tutto il resto?”». Capisco tutto, ma sei troppo pessimista. «Allora che me lo dimostrino. Io non mi aspetto un pubblico che faccia solo il pubblico. Mi aspetto da questo Paese qualche grado di autorganizzazione della gente che duri nel tempo. Credo che ce ne siano pochi. Ne vorrei conoscere di più. Vorrei far teatro per questa Italia. Come c’è Emergency che, nel tempo, consolida un modo di fare le cose che è possibile a fianco del proprio lavoro. Volontariato puro, ma non per guadagnare indulgenze in paradiso. Il referendum sull’acqua pubblica è una cartina di tornasole. Che ci si riduca a parlarne negli ultimi quindici giorni di campagna, come vorranno i partiti semplicemente per dire “ho vinto” o “ho perso”, questo io non lo lascio fare a nessuno. Non farò campagna elettorale per nessun partito, che stiano alla larga. Voglio gente di destra e di sinistra convinta che l’acqua, l’aria, il suolo non siano merci di consumo. Vorrei far teatro per decine di situazioni, non per gente che protegge il suo giardino, ma vedo
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che nemmeno questo basta. Penso che il teatro, per avere dignità di esistenza nel tempo che abbiamo davanti, debba guadagnarsela. Non deve essere difeso come la Lipu difende le specie in via di estinzione. Il teatro è fatto di gente che deve difendersi da sola. Io sono convinto che questo è un Paese di vecchi e che forse è il caso di mostrare cosa sanno fare i vecchi». Va bene, ma ci sono anche i giovani. Per tornare al Vajont, ci sono dei ragazzi che accolgono i turisti sulla diga. I ragazzi hanno studiato e raccontano nei dettagli come è andata. Se non sbaglio si chiamano “informatori della memoria”. «Noi italiani abbiamo un vizio. Quando le tv raccontano che è stata uccisa una ragazza, intorno a quella casa si forma un via vai di gente, come se si andasse da Padre Pio. Un voyeurismo che prova a cercare giustificazioni, ma che è sempre di merda. Quei ragazzi partono da un impulso non del tutto positivo, ma hanno la possibilità di fare educazione. Quelli che vanno a vedere potrebbero anche non essere solo dei rompiballe, ma persone che imparano. Questo Paese è fondato sulle disgrazie, ma non c’è che questo modo per capire che il 67 per cento del nostro territorio è franoso. Non esiste salvezza nell’affidare al Parlamento la tutela delle nostre cose. Sto diventando, con l’età, sempre più extraparlamentare. Nel senso che non faccio antipolitica, ma sono convinto che il soggetto delle cose sia diverso da quello individuato nella catena di comando. Con l’età, si capisce anche che c’è poco da perdere e tantomeno il tempo». E a che punto stiamo? «Come quando ti svegli dopo una sbornia. La mattina dopo vorresti parlare, però la voce è ancora incerta. Conosco tanta gente che ha dei pensieri mal formulati perché non ha abitudine a dire delle cose, perché si sente stonata. Io sento questa stonatura. E conosco molti artisti che mettono in discussione quello che hanno fatto finora. Oggi c’è una specie di principio oggettivo, quello dell’economia, in cui si parametrano i costi e si danno per scontati i benefici. Questo è il grande equivoco dei bilanci, del Pil: un parametro per i costi, e nessuno strumento per valutare i benefici. Non si riesce a entrare nel merito della qualità, perché sarebbe sempre una valutazione politica. E allora ci deve essere qualcosa che viene prima della politica e che permette di ristabilire un giudizio. Qualcosa di condiviso che è stato maciullato e frantumato. Le conseguenze culturali di un certo modo di trasportare il privato nel pubblico sono queste: è la logica di chi deve offrire dividendi agli azionisti. Però, se si immagina di costruire qualcosa insieme ad altri, di tirar via la gente da casa ci sono delle possibilità. Non serve solo la scuola, serve la piazza. Negli anni di piombo il teatro era quella cosa che permetteva di riportare la gente in piazza, la scusa per uscire di casa la sera, per ritrovare fiducia, per ridare senso alle città. Adesso non ci serve nulla di alternativo. Serve immaginare oltre».
E
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lessi di
Neri Marcorè
opera di
Tullio Pericoli
Tullio Pericoli, Campetto giallo, 2007, olio su tela, cm. 40x40
un cuore con le ali Avvertenze per il lettore: per leggere questo libro è importante essere ben piantati al suolo, possibilmente legati a qualcosa, a una sedia o a una poltrona per esempio. Se siete in piedi, magari in attesa del tram, allora tenetelo con una sola mano, mentre con l’altra vi aggrappate stretti al palo della fermata. Se, infine, non avete nastri, lacci, corde, se state camminando e basta, continuando a sfogliare le sue pagine, allora vi consiglio dei pesi, per esempio dei sassi, da infilare nelle tasche. Perché con Racconti con figure (Sellerio) di Antonio Tabucchi si vola. In barba alla massa e alla legge gravitazionale. Si vola da una pagina all’altra, da pensiero a pensiero, di sogno in sogno. Si parte da un’immagine, un quadro, un’illustrazione. Laddove il pennello del pittore si posa, Antonio Tabucchi comincia a raccontare. Quand’anche la sua penna ha finito l’opera, allora si comincia a volare. Come farfalle. Si vola sugli spartiti degli Adagi, i primi racconti, composti da note di desiderio e di malinconia. Tanta saudade. Saudade per tutti. Alla stazione, guardando l’ultimo treno partire. O ascoltando Chet Baker mentre il cielo si fa cobalto. O in macchina, una sera di pioggia su una diga d’Olanda, accanto alla donna che avete ritrovato moltissimi, troppi, anni dopo, per caso, in un Paese straniero, alla mostra del pittore che tanto avevate amato insieme. Un appuntamento platonico, un dono del destino, un incontro irreale. Chiede la donna al suo vecchio amore: “Qual è il quadro che ti è piaciuto di più?”. Domanda da un milione di euro. Domanda che significa tutto: perché la vita? Perché il tempo? Perché questa pioggia che continua a cadere incessantemente sui finestrini della nostra auto? E perché siamo qui? Forse, per “quei bivacchi di fuochi che dicono fatui”, come direbbe Fabrizio De Andrè. O forse questa storia è un sogno, sì, deve essere così. Perché in questo racconto di Antonio Tabucchi, la donna andrà via, e io, invece, non gliel’avrei permesso. Non dopo quella pioggia, non dopo aver rivisto insieme il quadro dei girasoli, non dopo aver ricordato quella siesta vicino al ponte di Langlois, sul mucchio di paglia. Chissà che partendo, però, la donna non gli abbia fatto dono di una terra d’ombra per accettare meglio la nera malinconia oppure di un verde muschio per calmare l’inquietudine, i colori che la pittrice Maria Helena Vieira da Silva ha lasciato in eredità allo scrittore di questo libro. Ma in queste storie non c’è solo malinconia, c’è anche gioia, letizia, allegria. Quella degli Andanti con brio e delle Ariette, racconti esilaranti, leggeri, dispensatori di buonumore. Vi sarebbe piaciuto fare un provino cinematografico a James Joyce, o a Benedetto Croce, o a Fedor Dostoevskij o, magari, a Robert Louis Stevenson. Guardo il suo ritratto, realizzato da Tullio Pericoli, e sento il vento che gonfia le vele di un vascello che naviga verso un’isola remota, un’isola che non è propriamente un’isola, ma la quintessenza di un’isola, quella che sta rimpiattata dentro tutti noi e che significa l’altrove. Mi sembra di sentire il vento davvero, l’aria mi rialza in volo, mi trascina fino a Lisbona. Mi lascio cadere su una sedia del Caffè Orchidea. Anche io oggi ho un appuntamento importante. «Buongiorno Pereira, come sta?». Incredibile, è proprio come me lo immaginavo. Ha già ordinato una limonata. Mi auguro che ci abbia messo poco zucchero, ma in fondo sono affari suoi. «Ordiniamo un’omelette?». So di fare bella figura perché ricordo che è il suo piatto preferito. Lui mi fissa ma non mi parla, vuole che continui a sognare, sognare, sognare...
A
di
Luciano Del Sette
foto
Carlo Gianferro
Universo
Testaccio
Le prime a sparire saranno le “grida”. Quelle grida che facevano somigliare, seppure in misura fisica infinitamente più piccola, il mercato romano di Testaccio alla Boqueria di Barcellona. Dal banco della Pescheria Trinca non arriverà più l’incitamento all’acquisto ittico, «Daje ar gamberone!». Il lunedì, dalle sei e mezza del mattino e fino alla chiusura, Enzo pizzicagnolo giallorosso e Federico fruttarolo biancoceleste, rispettivi banchi l’uno davanti all’altro, non si scambieranno più cortesie calcistiche del tipo: «Ve siete affumicati er cervello!», «E voi ve siete venduti alli americani!». Nina, molte primavere sulle spalle e
carrello per la spesa al seguito, non sentirà più il suo nome urlato con affetto di lunga data dal macellaio, dal norcino, dal verduraio. Il silenzio delle grida, ancora prima delle saracinesche abbassate e dei centododici banchi vuoti, sarà il segnale che, davvero, la storia del mercato di Testaccio, centosei anni, è finita. Il nuovo
La nuova piazza? La progetta il quartiere Un progetto partecipato, con una componente di assoluta novità che conferma lo spirito combattivo di Testaccio. Generalmente, i progetti che rientrano in questa tipologia, vengono messi a punto dalle istituzioni e poi sottoposti ai pareri dei cittadini. Qui è successo l’esatto contrario. L’associazione Testaccio in piazza, avvalendosi della collaborazione di un gruppo di professionisti, ha ipotizzato, dal maggio 2010, una serie di soluzioni per la piazza. I rendering sono stati sottoposti ai pareri dei residenti nel corso di assemblee ed esposti pubblicamente per diversi giorni, così da stimolare idee e commenti. Il progetto vincente è risultato quello che prevede il ripristino del quadrato di platani originale e la collocazione di una fontana al centro dello spazio. Molti vorrebbero che la fontana fosse quella delle anfore, simbolo del rione, spostata molti anni addietro in piazza dell’Emporio. Ma non c’è preclusione a una fontana nuova. La chiusura dell’area tramite una cancellata divide i testaccini su due fronti che si equivalgono. I fondi saranno comunque accantonati, e la decisione verrà presa soltanto dopo un periodo di sperimentazione senza barriere. La copertura in cemento sarà abbattuta, conservandone però una porzione per creare una struttura destinata ad accogliere mostre, incontri, assemblee di quartiere. Il Comune ha espresso parere positivo nei confronti del progetto, offrendosi anche come tramite per ulteriori finanziamenti da parte di sponsor privati.
Nelle pagine precedenti: il banco del norcino Fabio. Regina indiscussa, la porchetta di Ariccia Molti dei centododici banchi di Testaccio aprono ogni giorno da più di un secolo. ▶ Tra le “grida” quotidiane, altissime sono quelle di Enzino, tifoso sfegatato della Roma. ▶▶ La signora Trinca, titolare dell’Antica Pescheria, va orgogliosa da sempre del suo pesce freschissimo e di essere nonna dell’attrice Jasmine Trinca
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mercato, in fondo a via Galvani, a un passo dall’ex Mattatoio, il Macello, ormai è quasi pronto. Questione di un paio di mesi al massimo, poi il trasloco. Hai un bel dire alla gente che “là” tutto sarà pulito, ordinato, luminoso; che anche, a proposito di mercati cittadini, l’Unione europea impone regole al suo grande popolo, Testaccio compreso. La gente magari capisce, ma nel fondo del cuore non accetta. Specialmente gli anziani. A Nina, la passeggiata quotidiana sotto le volte in cemento costruite negli anni Cinquanta regala quattro chiacchiere, la certezza di scendere da casa e trovarsi in mezzo agli altri, ai suoi. E vuoi mettere il sabato? Intorno alla tettoia, nasce il gran bazar: tessuti, casalinghi, vestiti, merci varie da uno a cinque euro; davanti a ogni chiosco, davanti a ogni banco, fila garantita. Nell’attesa, si parla di sole e di pioggia (soprattutto di pioggia, così antipatica ai romani), si confrontano gli acciacchi e i malanni, si ricordano date e persone, si accarezza un pupo in carrozzina; si “ruba” a quel gran capatore (pulitore) di carciofi che è Vincenzo, mentre chiacchiera con la signora Anna, la ricetta delle zucchine, tonde come bocce, da far ripiene con tonno e champignon; si ride quando un venditore chiama “stellina” e “giovanotto” due clienti decisamente avanti nell’età, oppure richiama l’attenzione di un signore dalla chioma candida apostrofandolo con un «dimme, moretto!». Il mercato è fatto anche di nomi. Sono cambiati con il trascorrere degli anni, ma non hanno mai tradito la scelta di un lavoro tramandato di generazione in generazione. Il banco di Carmelo, soltanto pomodori di qualità che lui abbina e combina dopo che il cliente gli ha spiegato cosa ne vuol fare, apre ogni mattina da quarant’anni. I due banchi macelleria di Mauro Sartor, presidente dell’associazione Testaccio in piazza, hanno superato il mezzo secolo di presenza. Conta cinquantasei primavere il banco di frutta e verdura condotto da Rita e Vincenzo. Età altrettanto rispettabile hanno, con buona certezza, i banchi dei fruttaroli Mattia, Filippo, Bruno, Franco; del norcino Fabio, la cui faccia fatica a spuntare in mezzo a un autentico delirio di porchette di Ariccia, salumi, insaccati, prosciutti; di Franco, che con Francesca e Gianni governa una foresta di piante e fiori. Poi ci sono i cognomi, sui quali si può scherzare sulle corde di una scanzonata ironia, come fa Mastroianni che esibisce, appese ovunque, le foto del suo grande omonimo Marcello; o dei quali si va orgogliosi, ma discretamente, come nel caso della signora Trinca, pescivendola verace e splendida nonna dell’attrice Jasmine. L’edicola del mercato, aperta nel 1906, rimarrà l’unica testimonianza del mondo cui apparteneva. Capitano di lungo corso in un mare di giornali, è stato per decenni Enrico Ferruggia detto Righetto, scomparso nel 2007, tre anni prima delle ottanta candeline. Una figura che non apparteneva soltanto a Testaccio, e che l’allora sindaco Walter Veltroni ricordò pubblicamente con profondo affetto. La figlia Paola, insieme al marito Fabrizio e al fratello Giuseppe, ne ha raccolto l’eredità. «Nun ce vojo pensà», ti risponde se le chiedi cosa proverà il giorno che tutti saranno andati via. Lei, Paola, racconta di quando la copertura della piazza non esisteva ancora, e lo spazio abbracciato dai platani sembrava immenso. In mezzo ai banchi chiusi e avvolti dai teli, giocavano i bambini, a fine giornata e la domenica,
▲ Data al 1906 l’apertura dell’edicola Ferrugia. Enrico, detto Righetto, è stato per decenni il giornalaio più popolare del Testaccio. La figlia Paola, insieme al marito Fabrizio e al fratello Giuseppe, sono i suoi degni eredi. Paola è schierata in prima linea nell’associazione Testaccio in piazza per la riqualificazione dell’area
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Mongolfiera giallorossa
sconfinando in mezzo a strade dove le automobili erano poche. «Noi testaccini ce l’abbiamo nel sangue di camminare fuori dai marciapiedi, non ci piacciono». E fuori dai marciapiedi si continua a camminare, anche se le decine di auto parcheggiate senza alcuna decenza hanno trasformato in obbligo una consuetudine. Paola prosegue: «Si poteva trovare un’altra soluzione, che permettesse al mercato di restare qui. Si poteva ristrutturarlo, facendo tutto quello che bisognava fare per mettere in regola le strutture e gli impianti. Noi avremmo aspettato il tempo necessario, accettando una sistemazione provvisoria da qualche parte. È stato fatto per altri mercati della città. Invece non hanno voluto». Dice “noi” Paola, e non importa se l’edicola rimarrà al suo posto. Dicono “noi” anche i proprietari dell’Enoteca Palombi, in piazza dal 1907; la macelleria Nasini, sempre stipata di gente, senza che questo accenda rivalità con i banchi; le mercerie avvolte nel mantello un po’ polveroso del buon tempo antico; la pasticceria di Zio, dolce istituzione testaccina; il Bar di Zi’ Elena, che anni addietro faceva la “réclame” al suo gelato con un sonetto stampato sui bicchierini di cartone. Recitava: “Si vòi magnà er gelato co la panna/fatto co robba scerta, la più bona/e lavorata come Dio comanna,/ viè da Zì Elena detta la Zinnona:/te fa un gelato degno d’un poema/che viè a gustallo tutta quanta Roma”. Questo senso della collettività è una caratteristica che non appartiene
solo alla gente del mercato. Tra il 1981 e il 1985, il Comune avviò una serie di progetti per la trasformazione di alcuni quartieri cittadini. L’editore Palombi li ha raccolti in una collana di volumi, dove, accanto alle planimetrie degli architetti e alle relazioni scientifiche, trovano spazio interventi storici e sociologici. Nel volume che riguarda Testaccio, Carla Salanitro, partendo dall’epoca romana, arriva al Novecento, e del contesto testaccino di quel secolo afferma: «[...] Si parla di quartiere operaio rispetto agli altri quartieri popolari di Roma perché si è caratterizzato nel tempo come un gruppo sociale capace di definire e di organizzarsi anche politicamente su questioni e rivendicazioni che riguardano l’abitazione e i servizi [...]. I fatti dimostrano uno stato di conflittualità mai spento e un dato di identità tra gli abitanti e il proprio quartiere ancora forte». Verso le due del pomeriggio le saracinesche si abbassano mostrando i segni della loro età. L’unico suono tra le volte in cemento è quello dell’acqua che sgorga dai nasoni, così si chiamano le fontanelle pubbliche di Roma. Di lì a un’ora, lo metterà a tacere il frastuono dei mezzi che raccolgono i rifiuti e lavano per terra. D’accordo: è brutto, è vecchio, il mercato di piazza Testaccio. E allora andiamo a vedere quello nuovo. Via Galvani inizia all’angolo con la caserma dei Vigili del fuoco, per sfociare nello slargo dell’ex
Adesso, in via Giovanni Branca 32, c’è un punto scommesse Snai. A ricordare le glorie del passato restano soltanto i muri esterni dipinti in giallorosso e qualche scritta. Lì c’era il Testaccio Roma Club, nato nel 1969 e sfrattato nel giugno 2009. In quattro decenni, il club più glorioso della città aveva raccolto iscritti da tutta Italia e da tante parti del mondo. Venivano di persona, oppure scrivevano dagli Stati Uniti, dal Brasile, dalla Corsica, per comprare la sciarpa, il cappellino, la maglietta con la scritta Roma Club Testaccio. Arrivavano per ammirare i cimeli: le sedie dipinte con i colori sociali, la statua del gladiatore romanista sopra un capitello, le bottiglie firmate dai calciatori, le fotografie e i vecchi filmati. Tra mille aneddoti, il presidente Sergio Rosi ne ricorda due. «Un giorno si presenta un socio, spingendo una carrozzina. Dentro c’è sua figlia, dodici giorni. Mi guarda e mi dice: “Je faccio respirà l’aria. Faje la tessera, che cominciamo subito a daje ’n’educazione”». Scudetto 2001, un mese e mezzo di follie. «Un tizio costruì una mongolfiera dipinta con i colori della squadra. La mettemmo al centro di Santa Maria Liberatrice, e mentre si alzava in cielo (non ci avrei mai creduto) facemmo saltare il fantoccio di una zebra (il simbolo della Juventus) imbottito di petardi». Il Testaccio Roma Club ha una nuova sede, in via Ghiberti, dietro la chiesa di Santa Maria. Meglio di niente. Ma, inutile dirlo, non è più la stessa cosa.
▲ Sfrattato dopo quarant’anni di gloriosa attività dalla storica sede di via Branca, il Testaccio Roma Club con i suoi cimeli ha trovato nuova ospitalità in via Ghiberti ◀ ▲ ▲ L’ingresso all’ex Mattatoio, in fondo a via Galvani, che oggi ospita una sezione del Macro (Museo di Arte Contemporanea) ◀ ▲ Il sentiero che porta alla cima del Monte dei Cocci ◀ ◀ Uno scorcio del nuovo mercato, in fase di completamento ◀ ▼ Maestri e allievi a uno dei tanti corsi gastronomici promossi dalla Città dell’Altra Economia
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Mattatoio, che adesso ospita una sezione del Macro (Museo di Arte Contemporanea), una sede della Facoltà di Architettura dell’Università Roma Tre e la Cae (Città dell’Altra Economia). Ma prima, sulla sinistra, chiuso da un cancello, c’è l’ingresso al Monte dei Cocci. Venticinque milioni di frammenti di anfore, questa la stima, dentro cui Roma caput mundi trasportava il grano, l’olio e il vino per sbarcarli al vicino porto dell’Emporio, furono accumulati a formare un colle alto un centinaio di metri. L’erba non è mai riuscita a coprire, e mai ci riuscirà, i detriti di terracotta. Spuntano dai fianchi dell’altura, ci cammini sopra mentre sali durante la visita; fanno da sfondo alle insegne dei locali della movida di Testaccio, delle trattorie, dei “grottini” antichi, divenuti depositi e cantine. Per molti secoli, a partire dal Medioevo e fino a gran parte dell’Ottocento, lo spazio tra il Monte dei Cocci e le mura fu di pubblico uso. Prese il nome di “Prati del popolo romano”, campagna dove i cittadini andavano per le gite fuori porta di Pasquetta, le Ottobrate, i festeggiamenti del carnevale. I Prati conobbero gloria calcistica tra il 1929 e il 1940, nello stadio in legno che ospitava le partite di calcio dell’Associazione sportiva Roma. La prima sfida avvenne con il Brescia, il 3 novembre 1929, battuto per due reti a una. Dai Cocci al nuovo mercato è questione di pochi passi. Quel che si vede, dietro le recinzioni, è un insieme di strutture basse e squadrate, collegate tra loro da passaggi aperti. Spuntano le gru, segno di lavori ancora da ultimare. Sulle facciate degli edifici spiccano
mattonelle color argilla, forse richiamo alle anfore di romana memoria. La cortina che “nasconde” i cantieri lungo via Galvani è costituita da giganteschi rendering, simulazioni a computer dell’opera finita, stampati su tessuto. Rappresentano il parcheggio sotterraneo, una piccola piazza come punto di ritrovo, il centro commerciale, l’area archeologica nata dalle scoperte durante le opere di scavo. Il rendering del mercato arriva alla fine, esemplificato da un paio di botteghe appena. E allora viene da chiedersi se quell’ultimo posto sia soltanto un caso. O rappresenti, invece, il simbolo, il segno, della perdita definitiva di una memoria e di un’identità. “[...] E in mezzo ai platani di piazza Testaccio/il vento che cade in tremiti di bufera/è ben dolce, benché radendo i capellacci/e i tufi del Macello, vi si imbeva/di sangue marcio, e per ogni dove/agiti rifiuti e odore di miseria./È un brusio la vita, e questi persi/in essa, la perdono serenamente,/ se il cuore ne hanno pieno: a godersi/eccoli, miseri, la sera: e potente/in essi, inermi, per essi, il mito rinasce... Ma io, con il cuore cosciente/di chi soltanto nella storia ha vita,/potrò mai più, con pura passione operare/se so che la nostra storia è finita?”. Pier Paolo Pasolini, da Le ceneri di Gramsci.
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Viareggio testo e illustrazioni di
Gianfranco Maffei con la supervisione editoriale di BeccoGiallo
Il processo Ha preso il via il 16 maggio al Tribunale di Lucca il processo sul disastro ferroviario di Viareggio. Nell’ambito delle indagini preliminari, vengono condotti gli accertamenti tecnici sull’asse, la cisterna, il picchetto e altri componenti delle vetture. Il calendario dell’incidente probatorio vedrà impegnati i periti fino al prossimo 2 novembre, data in cui è prevista la consegna della loro relazione e il confronto con le parti. Secondo il presidente del Tribunale, Gabriele Ferro, il dibattimento in aula dovrebbe partire a ridosso dell’estate 2012. Fra i 38 imputati spiccano i nomi dell’amministratore delegato delle ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, di quelli di Rete ferroviaria italiana e di Trenitalia, Michele Mario Elia e Vincenzo Soprano, e del presidente della Gatx Austria, Johannes Mansbart. Contro di loro, lo scorso 7 marzo, si sono costituite 349 parti civili: oltre 300 sono persone fisiche ma ci sono anche ditte private, la Cgil e la Uil, il Comune di Viareggio, la Presidenza del Consiglio dei ministri, la Provincia di Lucca e la Regione Toscana. I timori dei parenti delle vittime sono concentrati sull’approvazione della legge sul processo breve che potrebbe incidere sia sulla prescrizione dei reati che sui tempi processuali. Dice Gianfranco Maffei: «Non dovrebbero esserci problemi relativi ai diversi gradi di giudizio ma noi lotteremo affinché venga riconosciuto l’omicidio volontario e non colposo. Il prossimo 25 giugno costituiremo, poi, un’associazione di associazioni che, oltre alla nostra onlus Il mondo che vorrei, riunirà anche i comitati per le vittime della Moby Prince, della ThyssenKrupp, di Ustica e così via».
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Il 29 giugno 2009 il treno merci 50325 Trecate-Gricignano deraglia nella stazione di Viareggio, e la fuoriuscita di gas da una cisterna di Gpl provoca un incendio. Nel rogo perdono la vita 34 persone. L’autore di queste tavole, Gianfranco Maffei, è uno dei familiari delle vittime: il cognato, Alessandro Farnocchia di 44 anni, è morto in seguito alle ustioni riportate nell’incendio. Maffei non è un disegnatore professionista: “Sono un bagnino – racconta – con una grandissima passione per i fumetti editi da Sergio Bonelli e per i manga giapponesi. Ho proposto a BeccoGiallo le mie tavole sulla tragedia viareggina per approfondire, grazie alla forza delle immagini, ciò che è accaduto quel giorno”.
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Buone nuove a cura di Gabriele
Battaglia
illustrazioni Marco
Paci
14 aprile, Argentina
L’ultimo dittatore militare argentino, l’ottantatreenne Reynaldo Bignone, presidente tra il 1982 e il 1983, è condannato all’ergastolo per tortura e omicidio degli oppositori politici tra il 1976 e il 1983. Bignone sta già scontando una condanna a venticinque anni per l’assassinio di 56 persone all’interno della base militare di Campo de Mayo (di cui è stato vicecomandante) ed è imputato in un altro processo per il rapimento sistematico dei figli dei prigionieri politici che venivano poi assegnati ad altre famiglie.
15 aprile, Italia
A Torino, la sentenza per la strage alla ThyssenKrupp condanna l’amministratore delegato Harald Espenhahn a sedici anni e mezzo per omicidio volontario e non per omicidio colposo, come era sempre successo in casi analoghi. Per la prima volta si riconosce quindi il dolo nei comportamenti di un’azienda in cui si è verificato un incidente sul lavoro. Nel processo per il rogo che la notte del 6 dicembre 2007 uccise sette operai, la Corte d’assise di Torino accoglie la tesi della “negligenza consapevole” di chi avrebbe dovuto investire sulla sicurezza antincendio e non lo ha fatto, “accettando il rischio” di un incidente. È una sentenza destinata a fare giurisprudenza e che potrebbe influire anche sui molti processi in corso per le morti da amianto.
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19 aprile, Cina
Il governo cinese rivela che entro il 2015 intende quasi raddoppiare i salari dei lavoratori dipendenti di fascia bassa. Si farà leva sulla legge sul contratto di lavoro – in vigore dal 1 gennaio 2008 – all’interno della quale sarà inserito un meccanismo di contrattazione collettiva dei salari. Il fine dichiarato è quello di mettere i lavoratori al riparo dall’inflazione, soprattutto alimentare, che ha colpito duro in Cina come in tutto il mondo. La misura, insieme ad altre, vuole ridurre le crescenti diseguaglianze sociali e permettere alla grande massa dei lavoratori di accedere a consumi più elevati: una Cina meno “fabbrica del mondo” e più mercato, anche per i prodotti occidentali.
21 aprile, Israele
Decine di importanti intellettuali e artisti israeliani dichiarano pubblicamente il proprio appoggio alla creazione di uno Stato di Palestina entro i confini del 1967. Lo fanno nello stesso luogo di Tel Aviv in cui nel 1948 Ben Gurion fondò lo Stato di Israele. Leggono un proclama volutamente simile a quello adottato allora, in cui danno “il loro benvenuto a una Dichiarazione palestinese di indipendenza” e affermano che “la completa fine dell’occupazione israeliana è una condizione fondamentale per la libertà di ambedue i popoli, per la piena attuazione della Dichiarazione israeliana di indipendenza e per l’indipendenza dello stato di Israele”. Tra i firmatari del proclama vi sono una ventina di titolari del Premio di Israele e artisti di fama, come lo scrittore Yehoshua Sobol, l’attrice Hanna Meron e l’accademico Zeev Sternhell.
1 maggio, Bolivia
Il presidente Evo Morales dichiara di volere abrogare un decreto di legge del 1985 che di fatto istituzionalizzava il neoliberismo. In un discorso nella città mineraria di Huanuni, dice di voler “seppellire il decreto” e “mettere fine a vent’anni di neoliberismo”. Di fatto, Morales intende proseguire con la nazionalizzazione delle industrie strategiche, tra cui quella mineraria, passando prima per una soluzione di compromesso: aumentare il carico fiscale sulle grandi compagnie del settore. Il vicepresidente, Álvaro García Linera, rivela che della modifica legislativa si occuperà una commissione composta da rappresentanti del governo, della Central Obrera e di altre organizzazioni della società civile.
3 maggio, Palestina 27 aprile, Sierra Leone
Celebrando il cinquantesimo anniversario della indipendenza dalla Gran Bretagna, il 27 aprile 2011 il presidente della Sierra Leone Ernest Koroma commuta le condanne a morte di quattro uomini e una donna. Si prolunga così una moratoria di fatto: le ultime esecuzioni nel Paese hanno avuto luogo nel 1998.
28 aprile, Russia
Una corte moscovita condanna due ultranazionalisti russi per l’omicidio della giornalista di Novaya Gazeta Anastasia Baburova e dell’avvocato difensore dei diritti umani Stanislav Markelov. La corte ha stabilito che l’esecutore materiale del duplice omicidio è Nikita Tikhonov. Fu lui che il 19 gennaio 2009, nel centro di Mosca, sparò alle due vittime, poco dopo una conferenza stampa in cui Markelov si era espresso contro la scarcerazione di Yuri Budanov, un ex colonnello condannato per crimini di guerra in Cecenia. Yevgenya Khasis, partner dell’assassino, l’aveva precedentemente aiutato a procurarsi l’arma del delitto e si era dedicata al pedinamento di Markelov per scegliere il momento più adatto al delitto. L’intenzione di Tikhonov era quella di uccidere solo l’avvocato; ha sparato anche alla giornalista perché quest’ultima avrebbe potuto riconoscerlo. Secondo Reporter senza frontiere, la condanna potrebbe sancire la fine dell’impunità di fatto per questo genere di delitti.
28 aprile, Spagna
Eta, l’organizzazione armata basca, invia numerose lettere a industriali baschi e navarri comunicando che mette fine all’impuesto revolucionario, il pizzo che costituisce il principale mezzo di sostentamento per l’organizzazione. Le estorsioni ai danni degli imprenditori finiranno “come conseguenza del cessate il fuoco dichiarato il 10 di gennaio scorso”. È una scelta politica che si inquadra nella proposta di pace della stessa sinistra basca: un doppio dialogo – militare e politico – sotto supervisione internazionale, che dovrebbe portare all’autodeterminazione dei cittadini baschi e allo smantellamento di Eta.
Il direttore d’orchestra Daniel Barenboim tiene un Concerto per la pace a Gaza con venticinque musicisti che si riuniscono per l’occasione nella Orchestra for Gaza e che suonano Eine Kleine Nachtmusik e la Sinfonia No. 40 di Mozart. Entrano in territorio palestinese dall’Egitto, attraverso il valico di Rafah. Il sessantottenne Barenboim, cittadino israeliano nato in Argentina, è contrario all’occupazione dei Territori e possiede la cittadinanza onoraria palestinese dal 2008, convinto che il proprio doppio status possa servire d’esempio per la convivenza tra i due popoli: «Il nostro conflitto è quello tra due popoli convinti di avere il diritto di vivere nello stesso piccolo pezzetto di terra. Quindi, i nostri destini sono legati». Barenboim ha già suonato più volte in Cisgiordania con la West-Eastern Divan Orchestra, che ha fondato nel 1999 con Edward Said e che è costituita da giovani musicisti israeliani e arabi.
9 maggio, Brasile
Quasi la metà della foresta amazzonica sarà ufficialmente protetta per legge. Lo afferma uno studio di due associazioni brasiliane – Instituto Socioambiental e Instituto do Homem e Meio Ambiente da Amazonia – che ha calcolato la superficie totale delle aree già sottoposte a tutela o che il governo di Dilma Rousseff intende salvaguardare. Se si considera invece il totale del Brasile, le zone protette raggiungono ormai il 53 per cento dell’intero Paese. Il problema restano i controlli per far rispettare la tutela ambientale: c’è una guardia forestale ogni 1.800 chilometri, mentre avanza la deforestazione illegale.
televasioni di
Flavio Soriga
illustrazione
Borislav Sajtinac
equivoche libertà Quando sarò vecchio tornerò a casa, forse, nella mia terra millenaria di vacanze e basi militari, olio buono e poligoni di tiro, nuraghi e villette a schiera, e alle porte di Uta, forse, avrò una piccola casa e una veranda da cui si vedrà l’albero che avrò appena piantato nell’orto, come in una canzone di Franco Madau, e avrò la barba bianca e lunga, forse, e moltissime rughe che si vedranno soprattutto quando sorriderò. E spero che succeda spesso, di sorridere con calma e saggezza, e che la campagna verde della Marmilla e quella del Campidano mi diano ancora la pace che mi danno adesso, senza quel po’ di ansia che mi danno adesso, che sono troppo irrequieto, ancora (l’età, credo). Ma comunque meno irrequieto di certi opinionisti che vedo in tv, certi quarantenni incravattati esagitati che si dannano per sembrare brillanti e originali e controcorrente, e arrivano a sostenere qualunque idiozia, per farsi ascoltare. Come un conduttore o giornalista radiofonico a cui ho appena sentito dire, in un programma televisivo del mattino, che il fatto che ci siano donne che vendono il proprio corpo ai potenti non è una brutta cosa, è il segnale che c’è la libertà, è il segnale che la civiltà occidentale è sana, e meno male che esiste, questa cosa, altrimenti saremmo in un mondo talebano. Quando sarò vecchio ascolterò molto la radio, e soprattutto radio3, “Tutta la città ne parla”, per esempio, che è un programma che fa capire qualcosa di questo Paese, con degli ospiti che non strillano e non si dannano per dire cose strabilianti, che cercano di ragionare con un po’ di buon senso, invece che provocare, come dicono sempre quelli della tv, di ospiti, che strillano e strepitano e sembra che ti vogliano spiegare il mondo daccapo, e alla fine partoriscono idee come questa: che se una donna vende il suo corpo a un potente per dei soldi, o per fare carriera, non è una cosa triste per quella donna, che avrebbe potuto farsi valere nel mondo per merito e impegno, studiando e lavorando come fanno moltissime donne e moltissimi uomini, no, prostituirsi è una cosa bella perché è la spia che il sistema occidentale funziona, e c’è la libertà. Come no? (“Vorrei vivere in un film di Wes Anderson e vederti in rallenty quando scendi dal tram – quei personaggi dei film di Wes Anderson idiosincratici, più simpatici di me – e i cattivi non sono cattivi, davvero – e i nemici non sono nemici, davvero – ma anche i buoni non sono buoni, davvero – proprio come me e te me e te me e te me e te me e te me e te me e te me e te me e te” – Wes Anderson, I Cani, 2011).
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Vacanze in caicco
Vacanze in catamarano
Vacanze in barca a vela
Vacanze in houseboat
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Vacanze in bicicletta
Organizzazione tecnica: Circolo Viaggi
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di
Gabriella Saba
foto
Pastorale
Francesco Cito
L’estate scorsa, improvvisamente, esplose la lotta dei pastori in Sardegna. Presidi, cortei, qualche scontro con la polizia. A quasi un anno di distanza che fine hanno fatto le loro richieste? Alle radici di una mobilitazione molto lontana dai toni folcloristici con cui, spesso, è stata descritta. Fatta di rapporti complicati con la politica, di leader amati o discussi, di paura della crisi economica. E soprattutto della passione per un lavoro che «ti fa sentire il richiamo della foresta»
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sarda
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Pecorino amaro È crollato, in pochi anni, da 6,50 euro a 4,85. Colpa della qualità: scarsa, secondo molti, e poco adatta al gusto che cambia. E infatti gli americani utilizzano oggi il pecorino romano, mischiato ad altri, per grattuggiare; in questo modo il formaggio diventa meno competitivo. Il problema, per i pastori sardi, è che gli industriali calcolano il prezzo del latte basandosi su quel pecorino, il formaggio più economico prodotto in Sardegna. Che è come dire che si calcola il prezzo del petrolio partendo da quello della benzina. I premi all’esportazione previsti dalla Ue intanto sono spariti. Bruxelles ne ha riconosciuti altri ai pastori in crisi, ma sono molto più esigui. Si chiamano, per esempio, premi per il “benessere animale” o “indennità compensativa per il presidio del territorio”. A parte questo l’Unione europea non prevede più aiuti diretti. Al loro posto ci sono adesso finanziamenti per interventi strutturali, ma, rispetto alla crisi del pecorino, questa è un’altra storia.
La grande casa in pietra è degli anni Cinquanta. Nella sala da pranzo un caminetto acceso, tegami in rame alle pareti e un orologio a pendolo. Assunta Melis, la capofamiglia, siede davanti al fuoco in costume sardo e muccadori nero. Intorno al tavolo Guido e Giuseppe, i figli maschi, mangiano salsiccia scura e lasagne. Sono le sette e mezza e sono appena rientrati dal lavoro: badare alle pecore e mungere il latte in un posto vicino che si chiama Suttamonti. Guido e Giuseppe, 45 e 50 anni, sono pastori e la loro giornata comincia alle cinque. Alle quattro e mezza, se si considera l’ora di sveglia. «Come va il lavoro?». Un simultaneo scrollare delle teste, sorrisi amari, una risposta tirata: «E come vuoi che vada. Il problema è che il latte ce lo pagano nulla. Quindici anni fa, arrivavamo a guadagnare dieci milioni al mese e adesso, quando va bene, andiamo in pari». Scene di pastorizia da Esterzili, paesino di 770 anime nel cuore della Barbagia di Seulo che in inverno sembra un luogo fantasma. Stradine silenziose
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e case in pietra che si sono svuotate con gli anni, mano a mano che i vecchi morivano e i giovani se ne andavano. In dieci anni Esterzili, che potrebbe essere il paese simbolo di un storia comune a molti, si è spopolato del 50 per cento. Anche i pastori si sono ridotti alla metà, e adesso sono una ventina sì e no. Fare il pastore è faticoso e non rende, i ragazzi preferiscono lavorare come forestali, o vanno nelle città a cercare fortuna. Non che sia rose e fiori, nel resto della Sardegna. Disoccupazione giovanile tra le più alte in Italia, e anche il futuro è cupo. Molti dei venti pastori rimasti a Esterzili hanno marciato l’estate scorsa con Felice Floris, il pastore pasionario, insieme agli altri da tutta la Sardegna, per far conoscere al mondo i loro problemi. O, meglio, per chiedere alla Regione sarda che li risolvesse. Per inciso: la storia che troverete qui sotto non è folcloristica né letteraria, ma è un racconto fatto di numeri, di rapporti complicati con la politica e con più personaggi di una soap opera.
La lotta
Primo dei problemi: il prezzo del latte che i caseifici comprano ancora a 65 centesimi al litro come vent’anni fa (quando era arrivato a costare 1.650 lire), peccato che le spese siano aumentate di oltre il cento per cento. In altre parole: ai pastori il latte costa mediamente 90 centesimi al litro ma loro lo vendono a 65 che poi diventano 54 calcolando l’Iva, metti altri 30 centesimi di premi comunitari e, quando va bene, il pastore finisce in pari. Felice Floris, dunque, è il leader del Movimento pastori sardi, nato negli anni Novanta e che, silente per vent’anni, si è risvegliato l’estate scorsa per cavalcare la causa e renderla pubblica, non solo per quei quattro gatti che se ne occupavano prima. Non è che a tutti i pastori Floris piacesse, ma la maggior parte lo ha seguito comunque in quell’avventura dai contorni epici che, in pochi mesi, li ha portati a occupare porti e strade, aeroporti e perfino il palazzo del Consiglio regionale, il 19 ottobre: in quell’unica manifestazio-
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ne sfociata in violenza, una parte dei manifestanti ha occupato una sala del Consiglio regionale e altri, in piazza, svuotavano i cassonetti e lanciavano bottiglie alla polizia. «Occupare il Parlamento sardo», dice oggi Ornella Demuru, ai tempi segretario del partito indipendentista Irs, Indipendèntzia Repùbrica de Sardigna, «è stato un gesto profondamente sbagliato». A una parte di Irs non era piaciuta la battaglia di Floris, e non perché non trovassero legittime le proteste. «Il problema è che il Mps chiedeva sussidi e noi crediamo invece che servano diritti e non denaro. In altre parole, la protesta andava fatta contro i caseifici privati e non contro la Regione». La crisi dei pastori, dunque. Quattordicimila aziende che, in gran parte, hanno smesso di rendere. Eppure il latte prodotto dalle pecore sarde è, dicono, tra i migliori al mondo. Le pecore in questione sono quasi tre milioni e producono il 60 per cento del latte ovino nazionale. I pastori lo danno alle cooperative di cui sono soci o, nel caso in cui non facciano parte di una
di queste, lo vendono ai caseifici privati. Il 53 per cento viene impiegato per produrre pecorino romano, uno dei tre Dop sardi e che finisce in gran parte negli Stati Uniti, ma negli ultimi due anni le vendite in quel mercato si sono ridotte del 30 per cento. Una bella botta per i pastori, tanto più che da tempo l’Unione europea ha sospeso gli aiuti che gonfiavano del doppio il prezzo del latte (i cosiddetti premi all’esportazione). Nella sua prima piattaforma, Felice Floris chiedeva proprio il ripristino di quei “premi”, che è come dire la luna. E non la ottenne, ovvio. Però a quel punto la Regione smise di nicchiare. E cominciò a trattare, rapidamente, con tutte le parti in causa: non solo il Mps, ma anche le associazioni di categoria come Coldiretti, Copagri e Cia.
La trattativa
Il risultato di tutto questo è stata la legge 15, l’ultima iniziativa di Andrea Prato, assessore all’Agricoltura a cui pochi mesi dopo è stata ritirata la delega. Personaggio discusso, Prato sembrava un manager più che un politico, dotato di piglio innovativo ma con la discutibile abitudine di fare promesse impossibili. La legge che ha firmato – molto meno vantaggiosa di quella che aveva promesso – riconosce un de minimis straordinario fino a ottomila euro per tre anni per i pastori che rientrino in certe categorie, e aiuti per 120 milioni ai trasformatori. Invita i pastori a consorziarsi in organizzazioni di produttori e promette l’istituzione di una “stanza di compensazione” per pianificare la produzione del latte, smaltire le ecce-
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denze, diversificare i formaggi. Infine, l’ex assessore aveva assicurato (ma questo non figura nella legge) di avere convinto gli industriali a negoziare il prezzo del latte con i pastori. «Una bugia», assicura Pietro Tandeddu, coordinatore regionale di Copagri e una vita nell’agricoltura. «Gli industriali non si sono mai impegnati a sedersi a un tavolo e negoziare». Deve essere che l’amore per la pastorizia si tramanda con i geni, di padre in figlio. Sta di fatto che la maggior parte di coloro che si occupano di quel mondo sono figli di pastori, o pastori a loro volta. Oppure lo sono stati. Persone come Marco Scalas che, brillantemente avviato alla carriera di ufficiale, l’abbandonò quando sentì «il richiamo della foresta». Pastore ma anche, oggi, presidente della Coldiretti
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sarda a cui sono iscritti moltissimi di quelli che hanno marciato l’anno scorso con Felice Floris. Della sua permanenza nell’esercito, a Scalas è rimasto il piglio e manca poco che batta un pugno sul tavolo quando dice: «Dov’era, Felice, negli anni in cui noi ci battevamo per i prezzi del latte? Dove era il suo Mps?». Lo chiamano così: Felice, senza cognome, come le rockstar in Sudamerica. A Marco Scalas non è piaciuto che abbiano accusato la sua associazione di essere addomesticata ed è intuibile che non abbia fatto i salti di gioia quando Felice ha portato in piazza la protesta dei pastori, guadagnandosi la ribalta nazionale e delegittimando, di fatto, le associazioni di categoria. Subito dopo, la Coldiretti ha organizzato a sua volta una manifestazione a cui
Pecore e pennelli Per trent’anni ha fatto la pastora. Poi, alla soglia dei sessant’anni, ha smesso per diventare pittrice. Dal 1981 dipinge persone e greggi, scene di vita sarda e laziale. Maria Bonaria Manca è nata a Orune, un paesino della Barbagia, nel 1925. Aveva poco più di vent’anni quando si trasferì, con la famiglia, a Tuscania, vicino a Viterbo. A molte delle domande risponde cantando e non è che non ci sia più con la testa. Semplicemente, spiega, le viene meglio esprimersi in musica, o con i pennelli. Strano mestiere, per una donna, quello del pastore. «Strano perché? Avevamo un grande gregge e dovevo aiutare i miei cinque fratelli». Sveglia all’alba, mungitura e poi pecore al pascolo. «Esattamente. Facevo tutte queste cose e in più tessevo, confezionavo vestiti con la lana che filavo io stessa. Facevo il formaggio». E delle richieste dei pastori in Sardegna? «Penso che l’industria ha rovinato tutto, e che per i pastori è finita un’epoca. E anche, che la gente si accontenta meno di un tempo». In Sardegna però lei non faceva la pastora. «No. La mia famiglia era distinta. Non che mi vergogni di avere fatto quel lavoro. Voglio solo dire che ho cominciato a farlo a Tuscania». Poi, di punto in bianco, si è messa a dipingere. «Ho sentito l’esigenza di raccontare con i pennelli la mia esistenza. Ho dipinto migliaia di quadri e affrescato la mia casa con murali, ho realizzato mostre in tutta Europa, mi hanno dedicato un libro e persino un film». L’Unesco l’ha premiata come ambasciatrice della cultura sarda. «È stata una bella cosa».
hanno partecipato quindicimila pastori, ma era comunque sulla scia di Floris. Per Scalas, la legge 15 è una bufala, e non ha risolto alcun problema, a cominciare dal prezzo del latte che è ancora a 65 centesimi. «I caseifici privati continuano a fare i loro prezzi ma la colpa non è loro», tuona. «La colpa è dei pastori che non fanno cartello». Di questa legge, a Scalas non convince nulla; per esempio pensa che il consorzio, che dovrebbe realizzarsi sul modello di quello del Parmigiano reggiano, abbia bisogno di «gente con le contropalle» (esattamente come il suo omologo). E che le organizzazioni di produttori su cui punta la legge per aggregare i pastori saranno, in molti casi, organizzazioni di prestanome: pastori che gli industriali “legano” assicurando una caparra sull’acquisto del latte che permetta loro di non finire alla fame. Per ora, le Op funzionanti sono due e non soffrono di questi problemi. Una è della Coldiretti e l’altra è di Felice Floris. Il quale, oltre alla sua azienda ovicaprina, ha questa azienda a Sanluri, paesino a un’ora da Cagliari in cui raccoglie il latte
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di seicento aziende, lo analizza e pastorizza per poi mandarlo agli acquirenti. Lo compra a 65 centesimi al litro e lo vende a 75 e benché molti pastori pensino che dall’intermediazione ci guadagni, per ora sono speculazioni («Guadagno 15mila euro all’anno, come presidente»). L’Op di Floris si chiama Aspi ed è una palazzina color latte con il murale di un pastore che munge a mano una pecora. Nel grande spiazzo di fronte alla costruzione c’è un camion per la raccolta, e nelle sale interne una sfilata di giganteschi cilindri in acciaio. Intorno alla palazzina, edifici grigi e silenzio. Piante grasse e ibiscus sbucano dalle aiuole. Felice Floris mostra con orgoglio la sua creatura. «Ce ne fossero altri cinque o sei di questi centri e si vedrebbe la differenza». Ha 56 anni e la faccia asciutta, è piccolo e nervoso e si accende come una miccia. «Ma di cosa stiamo parlando, alla fine? Gli studiosi non capiscono un cazzo. Se il settore agropastorale venisse valorizzato, potrebbe dare lavoro a 40-50mila persone». L’ex assessore pensava ai futuri pastori come imprenditori con agriturismo. «Ma noi vogliamo essere pastori e nient’altro, e come tali produciamo ambiente, prodotti di qualità, ed è per questo che bisogna sostenerci con un sussidio».
La controparte
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Felice Floris sta alzando il tiro da un po’ di tempo. Con alcuni dei suoi pastori del Mps è andato alla Borsa, e vuole costituire un movimento transnazionale che faccia tremare l’Unione europea. Per molti, però, non è questa la strada. «Perché Felice va alla Borsa e al Parlamento, ma non va a Thiesi, dove ci sono gli industriali?», si chiede Gesuino Muledda, ex assessore all’Agricoltura e oggi segretario del Partito dei Rossomori. «Non bisogna camuffare la controparte, la controparte sono gli industriali». È una galassia molto articolata, questa della pastorizia, in cui i problemi si confondono, e non c’è aspetto su cui non sorga un contenzioso. Uno di questi è la disunità dei pastori. Un altro, quella storia della diversificazione del formaggio. Tore Pala è presidente della cooperativa di Nurri, una delle più grosse della Sardegna e sindaco di Isili, e valuta questi aspetti con equità. È un signore distinto di 55 anni, parte politica Rossomori. Il suo gregge conta 600 pecore. La sua cooperativa produce all’80 per cento pecorino romano. «La colpa non è solo degli industriali. Uno dei motivi per cui abbiamo smesso di esportare è che il nostro pecorino è di scarsa qualità. Un altro motivo è che i pastori sono disuniti, e non fanno cartello. E infatti le cooperative chiudono, o funzionano male». Non solo chiudono. Il problema dei caseifici sociali è che non riescono a commercializzare i prodotti. «Ci sono presidenti di cooperative che pretendono di fare i direttori tecnici, e di occuparsi di cose che non conoscono», spiega Pietro Tandeddu. «E invece ci vorrebbero persone preparate, giovani che parlino le lingue, che abbiano fatto i master». La maggior parte delle cooperative vendono il formaggio ai trasformatori, perché non sono in grado di commercializzarlo. Non sono nemmeno in grado di diversificare, e non si schiodano da quel pecorino romano che piace sempre meno. Paolo Mannoni, di Thiesi, è il proprietario di uno dei caseifici più
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forti dell’isola. Tra gli industriali, è quello che gode di miglior fama. Intelligente e barroso, dicono di lui. Barroso, in sardo, è una versione soft di arrogante. Il 50 per cento del pecorino che produce è romano. Gli altri formaggi li vende a prezzi più alti. Eppure paga il latte, anche lui, 65 centesimi. «È il prezzo internazionale», dichiara. Signor Mannoni, in Toscana lo pagano intorno a un euro. «Ma lo producono in quantità minori. Non mi dirà anche lei che la colpa è degli industriali?». Di chi è la colpa? «Non c’è una colpa. Da quando hanno tolto gli aiuti ci siamo trovati tutti esposti al mercato. E anche gli imprenditori sono in difficoltà». Lui non crede che si debba diversificare. «Abbiamo diversificato moltissimo, ma ormai il mercato è saturo». Nello stradone che scende da Esterzili verso la campagna, un gruppo di pastori guarda il panorama in silenzio. Oltre la strada, valli cupe e rocce. Siete contenti di questa legge? Qualche minuto di silenzio prima che Giosuè Porcu, il più giovane, si decida a rispondere: «Floris ci ha promesso tante cose, e non ci ha dato niente. Gli scioperi andavano fatti contro gli industriali». Come vedete il futuro per i pastori? «Male. Gli industriali non pagheranno di più, e questo lavoro sarà solo un modo per passare il tempo».
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Il mestiere
Nella sua casa anni Cinquanta, Guido Melis ha esaurito quanto ritiene ci sia da dire sull’argomento. È alto e sottile e indossa jeans e scarponcini. È anche passabilmente fiero del suo lavoro, peccato non si guadagni. Nel suo paese, è uno dei pochi ad avere la mungitrice meccanica. È un sostenitore di Gianfranco Fini, come molti pastori della zona e come Giuseppe. Le cinque sorelle, invece, si definiscono «extraparlamentari di sinistra». Il Mps, d’altronde, è apolitico. Guido Melis, non è che ci impazzisca, per Floris («più che un pastore, è un industriale»). Però ammette che, senza di lui, nessuno avrebbe fatto nulla. Anche per Tore Pala è lo stesso. Guido e Giuseppe, e anche Tore Pala, sono tra quelli a cui piace il pecorino romano. Dicono che è tra i formaggi migliori che si producono in Sardegna, basta portare la salatura al 5 per cento, da quel 7 per cento che praticano molte aziende. «Chi ne parla male non l’ha assaggiato», si scalda Guido. Guarda la notte fuori dalla finestra, sono le otto e mezza e a quest’ora, di solito, sta già dormendo. «Se mi piace fare il pastore? C’è l’attaccamento alla terra, e poi l’identità, e mi piace l’ambiente. Ma se ci fosse un’alternativa…». Si alza senza finire, lasciando quei punti a galleggiare nell’aria.
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L’Italia è una Repubblica a cura di
12 aprile, Sarroch (Ca)
15 aprile, Serravalle di Chienti (Mc)
13 aprile, Lasnigo (Co)
16 aprile, Preseglie (Bs)
È morto alla Saras di Sarroch Pierpaolo Pulvirenti, 30 anni, dipendente di una ditta esterna. Stava effettuando lavori di manutenzione di un serbatoio, quando è stato investito da un getto di idrogeno solforato.
Stava guidando il suo trattore e ha sbandato finendo fuori strada. È accaduto a un operaio lombardo di 36 anni, Roberto Dominioni, morto in un incidente stradale durante l’orario di lavoro.
13 aprile, Santa Maria Capua Vetere (Ce) Era alla guida del suo camion con betoniera in un cantiere. Il mezzo ha urtato una lastra di cemento che, abbattendosi sulla cabina dell’automezzo, l’ha schiacciata. La vittima si chiamava Sergio Giusti, aveva 42 anni. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra l’11 aprile e il 10 maggio. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.
14 aprile, Merate (Lc)
Enzo Ghilardi, 49 anni, era in servizio come autista. Il camion che guidava è rimasto schiacciato contro una recinzione.
14 aprile, Calambrone (Pi)
Un lavoratore del cantiere Quadrilatero si trovava sul cestello di una galleria in costruzione con un collega. Entrambi sono precipitati e per uno di loro la caduta è stata letale. La vittima è Costantin Caprus, 29 anni.
Lavorava nei campi ed è rimasto schiacciato dal proprio trattore. Così è deceduto un agricoltore di 64 anni, Giambattista Vassallini.
17 aprile, Rivalta (Re)
Verso le cinque del mattino Daouda Thea, ghanese di 23 anni, stava andando in scooter al caseificio dove lavorava. Un’auto l’ha investito e ucciso.
18 aprile, Castelmola (Me)
Stava manovrando il braccio meccanico di una betoniera, ma improvvisamente il mezzo ha urtato i cavi dell’alta tensione. Così è rimasto folgorato Giuseppe Marchese, un operaio di 45 anni.
18 aprile, Lanciano (Ch)
Si chiamava Antimo Ciccarelli e aveva 57 anni. Ha subìto un incidente nel cantiere in cui lavorava: è scivolato su un pezzo di ferro ed è morto dissanguato per la recisione dell’arteria femorale.
Due operai sono morti in un cantiere edile: erano impegnati nel montaggio di una parete in legno che ha ceduto e li ha schiacciati. Si chiamavano Yaroslav Iankinechi, ucraino di 34 anni, e Metushi Grobaz, albanese di 41 anni.
14 aprile, Gioia del Colle (Ba)
18 aprile, Candiana (Pd)
14 aprile, Travo (Pc)
19 aprile, Esine (Bg)
14 aprile, Cessole (At)
21 aprile, Pieve di Soligo (Tv)
Auras Bentea, operaio romeno di 31 anni, ha perso la vita per una caduta: è scivolato dal tetto del capannone in costruzione su cui stava lavorando.
Stava lavorando sul proprio trattore. Franco Scotti, 75 anni, è finito schiacciato dal mezzo che si è rovesciato probabilmente a causa dell’erba bagnata.
Maurizio Cirio, 44 anni, ha perso la vita nei campi: stava guidando il trattore in un terreno di sua proprietà, quando il mezzo si è rovesciato e lo ha schiacciato in un punto di forte pendenza del terreno.
14 aprile, Santa Vittoria in Matenano (Fm) Morso da una vipera mentre lavorava la terra, Domenico Vittori, agricoltore di 73 anni, è morto dopo tre giorni di ricovero in ospedale.
15 aprile, San Giorgio in Bosco (Pd)
Un operaio di 50 anni, Michele Zoccarato, è rimasto vittima di un incidente nello stabilimento dell’Acqua Vera: impegnato nel reparto di imbottigliamento, l’uomo è rimasto schiacciato da una pressa.
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Luca Stacco, 27 anni, stava effettuando un montaggio su un tetto. È stato schiacciato da un pannello fotovoltaico che si è staccato dalla costruzione.
Fornaio bergamasco di 39 anni, Christian Marino è morto sul colpo a causa di un incidente stradale in orario di lavoro. Il suo furgone si è scontrato con un’auto.
Stava guidando una macchina agricola che si è rovesciata. L’incidente è accaduto a Luciano Dal Col, allevatore di 47 anni, mentre trasportava un carico di concime.
21 aprile, Frosinone
Paolo Trillò, imprenditore ed ex consigliere comunale di 55 anni, è morto in un incidente stradale mentre rientrava da una trasferta di lavoro.
21 aprile, Bologna
Faceva il meccanico. Stava provando la moto di un cliente per un intervento di riparazione. Claudio Roversi, 44 anni, è morto in un incidente stradale.
22 aprile, Ortignano (Ar)
Un agricoltore è stato travolto dal suo trattore mentre lavorava in un campo. Il suo nome era Ivo Bianchini, aveva 65 anni.
fondata sul lavoro 22 aprile, Mercatale Valdarno (Ar)
Silvio Boni, agricoltore di 78 anni, è rimasto schiacciato da una macchina agricola.
23 aprile, San Silvestro (Mn)
Autotrasportatore di 54 anni, Eros Pincella, è precipitato dal tetto del suo camion che stava caricando di mangime.
3 maggio, Mottola (Ta)
Francesco Liuzzi, operaio di 52 anni, è caduto da un’impalcatura mentre installava un impianto fotovoltaico in una tipografia. È morto il giorno dopo in ospedale.
3 maggio, Orte (Vt)
26 aprile, Alfiano Natta (Al)
Il suo camion si è ribaltato in autostrada per un incidente stradale. La vittima è un conducente romeno di 41 anni, che stava trasportando un carico di gasolio.
27 aprile, Napoli
Paolo Vittori, operaio di 72 anni, è stato travolto da un muro di cemento armato in un cantiere edile. L’uomo lavorava alla ristrutturazione di un appartamento.
27 aprile, Sermide (Mn)
Mentre potava le piante nel terreno di sua proprietà, in località Suna, Federico Simonich, 54 anni, è caduto dal decespugliatore, precipitando per circa 10 metri. Forse un malore la causa dell’incidente.
27 aprile, Sulmona (Aq)
Un operaio romeno di 46 anni, Marin Josef Rasu, è morto in un cantiere in seguito a una ferita all’addome. Stava trasportando un cavalletto quando è inciampato, finendo su una delle punte.
Faceva il cantoniere comunale e aveva 49 anni. Giorgio Coppo è stato travolto dal crollo di un terreno, mentre lavorava a una tubatura.
L’operaio Antonio Cavallini, 45 anni, socio di una ditta di pulizie, stava lavando i vetri del capannone di eternit su cui si era arrampicato. La struttura ha ceduto e l’uomo è precipitato al suolo.
Lavorava come subacqueo e stava svolgendo alcune riparazioni in una centrale elettrica. Ottavio Baumgartner, 21 anni, è annegato nel corso di un’operazione di raffreddamento delle turbine.
3 maggio, Sagrado (Go) 3 maggio, Verbania 4 maggio, Olbia
Due piloti dell’Elicompany stavano effettuando verifiche periodiche alle condutture di metano nei pressi di Sulmona. Il loro elicottero ha urtato i fili dell’alta tensione ed è precipitato. Si chiamavano Danilo Ricuperati e Matteo Franchini. Avevano 32 e 27 anni.
7 maggio, Rialto (Sv)
28 aprile, Zapponeta (Fg)
7 maggio, Baiardo (Im)
28 aprile, Barzanò (Lc)
7 maggio, Sorso (Ss)
29 aprile, Crotone
9 maggio, Cadelbosco Sopra (Re)
Erano in servizio su una strada provinciale, uno dei due ha perso il controllo della vettura che si è ribaltata. Le vittime sono due carabinieri, Mauro Fatone di 31 anni e Ugo Ragusa di 46 anni.
Manuela Tatiana Zecchina, 46 anni, è rimasta impigliata in una macchina impastatrice del salumificio in cui lavorava. È morta a causa delle gravi ferite al capo.
Dipendente comunale di 51 anni, Giuseppe Sirianni stava effettuando un lavoro di manutenzione sul tetto di una casa. È precipitato da un’altezza di circa cinque metri.
Massimiliano Arado, 35 anni, è morto nel vivaio forestale di Pian dei Corsi. Stava rimettendo in funzione una benna quando la ruspa lo ha colpito.
Un agricoltore di 72 anni, Franco Banaudo, è morto dissanguato dopo che la motozappa che stava utilizzando gli è sfuggita di mano stritolandogli una gamba e recidendo l’arteria femorale.
Nicolino Magliona, un pensionato di 82 anni, è stato ucciso da una motozappa mentre arava un terreno nelle campagne di Marritza.
Sauro Olivi ha subìto ferite letali a causa di un incidente con un tornio, nell’azienda agricola di sua proprietà. È morto in ospedale, a quattro giorni dall’infortunio.
Mauro Atzori, 30 anni, era impiegato in un’agenzia di pompe funebri. È rimasto intossicato dai solventi per sigillare le bare, ed è morto dopo due giorni di ricovero in ospedale.
2 maggio, Ginosa (Ta)
Il titolare di una ditta di lavori edili stradali, Vito Traetta, stava eseguendo una manutenzione nella sua proprietà. La cabina di una pala meccanica si è abbassata accidentalmente e l’ha schiacciato. Aveva 54 anni.
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11 aprile - 10 maggio morti sul lavoro
Maurizio Galimberti
2 maggio, Macomer (Nu)
sono un uomo da marciapiede mad in italy di
Gianni Mura
illustrazione
Stefano Navarrini
Sarà una mia impressione, o un mio incubo metropolitano, ma a Milano molti ciclisti stanno diventando carnivori. Potrei usare un aggettivo meno ambiguo: incattiviti, aggressivi, incarogniti, scorretti. Ma per abitudine alla pedalata, almeno finché non sono arrivato a vivere in città e, parallelamente, al quintale, ho sempre visto i ciclisti come esseri miti e insieme coraggiosi, perché un conto è pedalare a Gualtieri, sull’argine del Po, e un conto in corso Buenos Aires. Erbivori, insomma, come i grandi sauri. Oltre alle pedalate mi soccorrevano le letture pro-bici. Oriani, Stecchetti, Panzini, Buzzati, Malaparte, Brera, Caproni, Raschi, e le canzoni pro-bici, da Yves Montand a Luca Ghielmetti. Nella mia zona, vicino alla stazione Centrale, già due vecchiette sono state stirate da ciclisti sul marciapiede e, quanto a me, l’ho schivata di un pelo. Sentendo un forte scampanellio mi sono spostato a destra mentre il carnivoro provvisto di casco passava in tromba a sinistra. Bingo, ma di pura fortuna, perché lui non sapeva da che parte mi sarei spostato e io non avevo il tempo di controllare la sua direzione. E poi, se i nomi hanno un senso, un marciapiede è riservato a chi cammina a piedi, pratica antichissima e non ancora vietata, anche se si può pensare che chi va a piedi è un povero disgraziato, l’ultimo anello della catena, o forse un povero e basta, dunque automaticamente sospetto e privo di diritti. In parole povere (appunto) calpestabile. Il marciapiede in francese, trottoir, fa pensare a una roba per cavalli. Una scampanellata sul marciapiede è più credibile della sirena di un catamarano, a Milano, e già un ciclista che suona il campanello conserva tracce d’erbivoro. Avvisa. I più, nemmeno quello e poi ti guardano con molta severità, come a chiederti che cazzo ci stai a fare tu sulla loro strada. È in questo momento che si percepisce il carnivoro. Dalla sua certezza di crociato. Il Signore degli Asfalti è con lui. Sarà Darwin o Lamarck? Evoluzione della specie o adattamento all’ambiente? Tutt’e due. Capisco i ciclisti, sottoposti alle vessazioni delle auto, delle moto, dei motorini, esposti ai pericoli di un fondo stradale sconnesso e ricco di buche, illusi da promesse di piste ciclabili che nemmeno in Olanda. Ma non è volando sulle strisce pedonali, o pedalando contromano o sui marciapiede che troveranno rivalsa. E nemmeno passando col rosso, tanto chi gli prende il numero di targa? Che sia una forma di autodifesa (capaci di essere rapaci), che sia il punto esclamativo di un’esasperazione lenta, che sia parte di una guerriglia non dichiarata, che sia la legge della giungla, che sia un po’ di tutto questo, non è un buon segnale. C’è sempre bisogno di un nemico. Come pedone e ancor più come direttore di E devo prendere le distanze, capisca chi può.
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l’inchiesta Le prestazioni degli ospedali da tempo sono catalogate e analizzate con grande attenzione. I dati di questo monitoraggio non vengono resi pubblici. Perché? Alla scoperta del sistema di valutazione della sanità italiana tra concorrenza e modelli contrapposti. Con un obiettivo ancora lontano: la trasparenza
Sulle scrivanie degli assessori alla Sanità delle Regioni italiane c’è un documento importante, che per il momento resta rigorosamente top secret. Contiene un confronto degli esiti delle cure in tutti gli ospedali e le Asl d’Italia, incentrato su una serie di indicatori scelti sulla base di criteri internazionali ed esperienze già in atto a livello regionale. Fuor di metafora, i primi risultati del Programma nazionale di valutazione degli esiti sono in realtà raccolti in un sito, a cui solo le persone autorizzate possono accedere con apposite password e username. Una modalità che sembra sospetta: non è soprattutto il cittadino che deve farsi operare ad aver diritto di sapere dove ha maggiori probabilità di portare a casa la pelle, così come accade negli Stati Uniti o in Gran Bretagna? «In linea di principio certamente sì, così come fa da un paio di anni la Regione Lazio per la quale anche ho lavorato», risponde Carlo Perucci, che per l’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) è direttore scientifico del progetto. «Tuttavia, proprio l’esperienza a livello regionale ha mostrato i possibili rischi di errore che esistono nella raccolta e nell’analisi dei dati, un’eventualità che si amplifica con tutte le differenze che esistono a livello nazionale». Se, per esempio, ci si basa solo sulle schede di dimissione ospedaliera, può sembrare che al Sud il rischio di morire nel mese successivo a un infarto sia la metà che altrove. Merito della dieta mediterranea? Piuttosto conseguenza del fatto che il dato, riferito alla mortalità intraospedaliera, non tiene conto della prassi di mandare a casa a morire il malato, o dimetterlo come se fosse ancora vivo quando in realtà è già deceduto.
I numeri e le interpretazioni
«La pubblicazione dei dati in questo momento, in cui dobbiamo soprattutto mettere a punto il meccanismo per garantirne l’affidabilità, rischierebbe di scatenare un pandemonio mediatico senza fondamento, con il pericolo di interrompere questo
Al paziente non far sapere tentativo virtuoso di misurare la sanità per poterla migliorare», sostiene l’epidemiologo romano. «Non si tratta di stilare pagelle, ma di individuare i punti deboli del sistema per correggerli», interviene Lucia Borsellino, dirigente generale del Dipartimento di attività sanitarie e osservatorio epidemiologico della Regione Sicilia. «In questo modo si possono definire obiettivi chiari da dare ai direttori generali delle Asl, sapendo anche, dal confronto con altre realtà, che sono raggiungibili». L’esempio della Toscana parla chiaro. «C’è un indicatore di esito su cui siamo molto sicuri, che si presta poco a errori, ed è la proporzione di fratture del femore dell’anziano che viene operata entro 72 ore dal momento del ricovero in ospedale», aggiunge Perucci. La buona pratica medica vorrebbe che l’intervento avvenisse entro 24 ore, ma per essere generosi si è deciso di prevedere un criterio più elastico. «Nel biennio 2006-2007, in alcune aree del Nord la percentuale di anziani che arrivava in sala operatoria entro tre giorni era già del 65 per cento, un valore considerato buono, mentre nel Lazio e in alcune regioni del Sud, poco più di un malato su dieci usufruiva in tempi ragionevoli di questo trattamento. In Toscana, è bastato inserire questo parametro tra gli obiettivi dei direttori generali delle Asl a cui erano correlate le indennità di risultato per passare dal 33 a oltre il 45 per cento nel biennio successivo, un aumento del 50 per cento in termini relativi». «Sapere di avere, per le stesse malattie, ricoveri in ospedale molto più lunghi che in altre parti di Italia o ad alto rischio di inappropriatezza – riprende la Borsellino – ci ha indicato una prima strada da seguire per ridurre gli sprechi». In questo modo, senza doversi arrabattare nei meandri della statistica o allontanarsi troppo da casa, anche il cittadino trae più vantaggi da un miglioramento globale del servizio. Ciò non toglie che con il tempo, quando il metodo sarà affinato, la trasparenza dovrà avere la meglio. «In realtà la gente vuole che queste classifiche
di
Roberta Villa
foto Dino [buenavista]
Fracchia
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siano fatte in maniera trasparente, ma poi le consulta poco, anche laddove sono accessibili liberamente online», interviene Sabina Nuti, della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, l’economista che ha coordinato per il ministero un’altra ricerca di confronto tra le diverse regioni italiane, in cui la performance è rappresentata tramite bersagli più o meno centrati. «Lo scopo è soprattutto quello di innescare una competizione sana, basata sulla qualità». Un concetto, questo, che sta scardinando la storica opposizione tra i diversi sistemi regionali italiani, avvicinando sempre più tra loro il modello della Regione Lombardia di Formigoni, che, almeno in teoria, lascia al cittadino la scelta tra le diverse strutture, e quello toscano, in cui la maggior parte delle prestazioni è erogata dal pubblico. I migliori risultati non si misurano solo in relazione al numero di interventi eseguiti, ma soprattutto sulla percentuale di quelli riusciti. E questi dati si devono conoscere, perché il paziente possa fare una scelta davvero libera e consapevole. La reputazione di un medico o di un centro ospedaliero incide molto nella scelta: ma chi può dire quanto è fondata? Certo non i malati, che rispetto agli operatori soffrono di una evidente “asimmetria informativa”. Troppo spesso al paziente, sempre più considerato alla stregua di un qualunque cliente, non sono date le informazioni che gli servono per decidere. Il mercato delle auto non sarebbe davvero libero se si basasse solo sulla pubblicità, senza riviste che analizzano e sviscerano impietosamente qualità e difetti di ogni nuovo modello. Così, se si vogliono mettere in concorrenza i produttori di servizi sanitari, occorre che il cittadino abbia strumenti per confrontarli che vadano oltre la qualità dei servizi alberghieri o la cordialità degli operatori, che pure sono importanti. In modo che la competizione tra medici e strutture avvenga sì, ma in base alle loro capacità e non a criteri economici.
Lombardia versus Toscana
«Il mercato della sanità è guidato dall’offerta più che dalla domanda», precisa Perucci. «Difficilmente il paziente rifiuta di sottoporsi a un esame o a una cura, se è il medico a consigliarla». Il rischio è che questi consigli non siano sempre disinteressati. «È questo uno dei limiti del cosiddetto modello lombardo», prosegue Nuti. «Quando la legge regionale 31 del 1997 sancì la libertà di scelta del luogo di cura e di assistenza da parte del cittadino, non si tenne conto del fatto che egli, nella stragrande maggioranza dei casi, non ha gli strumenti né per obiettare a una prescrizione del suo medico, né per individuare il centro più competente nel suo caso». Nel 95 per cento dei casi, il criterio seguito, nella tanto enfatizzata scelta del paziente, è semplicemente quello della maggiore vicinanza a casa. E a decidere a quali accertamenti o cure sottoporre il cittadino è solo il medico, che spesso finisce con l’essere gravato da un intollerabile conflitto di interessi. Da qui gli scandali che si sono susseguiti negli anni successivi, culminati nel caso di Pier Paolo Brega Massone, accusato di aver effettuato di routine, alla Clinica Santa Rita di Milano, interventi del tutto inutili per i malati, ma efficacissimi per far schizzare in alto il fatturato. Anche senza arrivare a casi di competenza della magistratura, chi vive in Lombardia, accanto all’eccellenza, tocca con mano ogni giorno gli sprechi di un’eccessiva medicalizzazione: risonanze magnetiche al primo cenno di mal di schiena o al ginocchio, Moc a tappeto, ecografie aggiunte di routine alla mammografia di screening per il cancro al seno, e via così. «Da qualche anno però gli amministratori lombardi hanno cercato di correre ai ripari», prosegue Nuti. «Da un lato hanno intensificato i controlli da parte dei Noc, i nuclei delle Asl incaricati di verificare che le prestazioni fornite dagli ospedali corrispondano alle necessità dei cittadini; dall’altro hanno fissato dei tetti alle prestazioni, per non correre il rischio che si abusi di quelle più vantaggiose dal punto di vista economico, stabilendo inoltre che le loro tariffe possano diminuire anche nel corso dell’anno». Sull’altro versante, all’inizio del nuovo millennio, anche il cosiddetto modello toscano mostrava i suoi limiti. Tutti chiedevano soldi, ma non c’erano strumenti per capire se in cambio gli ospedali rispondevano alle esigenze dei cittadini. Enrico Rossi, allora assessore, oggi presidente della Regione Toscana, chiese alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa – l’unica università in Toscana che non gestisce anche un ospedale, ed è quindi al riparo da evidenti conflitti di interesse – di identificare un elenco di criteri che permettessero di valutare la qualità del servizio offerto. «Abbiamo così scoperto, nell’ambito di una regione molto omogenea dal punto di vista culturale, sociale e politico, enormi differenze tra una città e l’altra, e tra le diverse Asl», racconta Sabina Nuti. Una variabilità che in parte può dipendere da dif-
Professione infermiere Pediatri e anestesisti hanno lanciato l’allarme: nel giro di qualche anno in Italia mancheranno i medici di molte specialità. «Ma per gli infermieri l’emergenza dura già da 15 anni», puntualizza Annalisa Silvestro, presidente dell’Ipasvi, la Federazione dei Collegi degli infermieri. Secondo l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, oggi l’Italia è il penultimo Paese in Europa con circa sette infermieri ogni mille abitanti, seguito solo dalla Grecia. «Non è solo questione di numeri, ma di organizzazione», commenta la presidente. «Se si consentisse una diversa organizzazione dei reparti ospedalieri, basata più sulla complessità delle esigenze assistenziali che non sulla patologia, oltre ai malati ne trarrebbe guadagno anche l’efficienza». La carenza numerica comunque resta, e contribuisce alle difficoltà quotidiane di professionisti il cui ruolo è oggi sempre più riconosciuto in linea di principio, sebbene non in egual misura dal punto di vista economico. Gli infermieri stessi sono sempre più consapevoli della loro professionalità e desiderosi di imparare e tenersi aggiornati, come dimostra l’entusiasmo con cui rispondono ai corsi di formazione a distanza: dal 15 dicembre scorso, quando, grazie ai fondi del ministero della Salute ha preso il via sulla piattaforma Fad In Med il nuovo progetto di formazione a distanza voluta dall’Ipasvi e dalla Fnomceo, la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, si sono già iscritti più di 17mila tra infermieri, infermieri pediatrici e assistenti sanitari, contro meno di tremila medici. «I turni massacranti e le difficoltà di sviluppare la propria carriera, anche sotto il profilo economico, hanno allontanato per molti anni i giovani dall’intraprendere la professione», ammette Silvestro, che spiega anche così l’apporto continuo di personale straniero, pari oggi circa al 10 per cento dei 370mila infermieri italiani, una percentuale che non ha pari in altri campi. «I colleghi stranieri sono benvenuti – dichiara la presidente – ma non dovrebbero essere la soluzione. La stessa Organizzazione mondiale della sanità scoraggia le migrazioni di personale sanitario che rischiano di lasciare sguarniti i Paesi in via di sviluppo. Per fortuna, però – conclude – le cose stanno cambiando e molti ragazzi valutano con grande interesse la scelta di diventare infermiere, come dimostra la crescita esponenziale del numero dei candidati alle prove di ammissione ai corsi di laurea».
In queste pagine immagini dal corso di infermieristica dell’Università di Milano, presso l’ospedale San Carlo
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ferenze nella composizione della popolazione (per esempio, quando è mediamente più anziana), ma più spesso deriva dall’inappropriatezza delle cure: da qualche parte si fa troppo, da qualche altra si fa troppo poco. A Prato, per esempio, è molto più facile che a Viareggio essere ricoverati per una bronchite cronica, che, nella maggior parte dei casi, si potrebbe benissimo curare a casa propria. Ma la percentuale di bambini nati in sala operatoria, pari al 9 per cento, è addirittura inferiore all’obiettivo del 15 per cento stabilito dall’Organizzazione mondiale della sanità. Niente tetti rigidi, né sanzioni se si sfora il numero dei cesarei: semplicemente, prima di passare al bisturi, il ginecologo deve sentire il parere di un collega, e il giorno dopo gli si chiede di spiegare al primario le sue ragioni.
Come si usa il denaro?
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Una delle parole chiave per scuotere la sanità è accountability che, come altre di uso comune nel mondo anglosassone, forse non a caso è difficile da tradurre con un solo termine in italiano: significa che bisogna render conto a qualcuno, nel caso specifico di come si usa il denaro attinto dalle tasse dei cittadini per fornire loro un servizio adeguato. Un’altra è governance: la volontà delle istituzioni di tenere le redini della spesa garantendo che soddisfi i reali bisogni dei cittadini, non che gonfi le tasche di medici, case farmaceutiche o imprenditori della sanità. Il tutto senza criminalizzare necessariamente l’intervento dei privati, che non sempre è sinonimo di affarismo senza scrupoli, così come il pubblico non deve necessariamente scontare l’equità con l’inefficienza. Nella rossa Emilia Romagna la metà degli interventi di cardiochirurgia si fa in case di cura; in Lombardia, la quota appaltata al privato è minore che nel Lazio o in Sicilia. «È soprattutto una questione di equità – insiste Perucci – oggi viviamo il paradosso di un sistema sanitario che è al vertice delle classifiche internazionali, ma è vissuto con insoddisfazione dalla maggior parte dei cittadini». Solo il 35,8 per cento ne è
contento, secondo il rapporto Italia 2011 pubblicato a gennaio da Eurispes. «Questa apparente discrepanza si spiega con il fatto che, in linea teorica, il nostro Paese garantisce una copertura universale che pochi altri Paesi danno, ma in pratica raziona le poche risorse in maniera iniqua, con l’aggravante di farlo in modo implicito. Mi spiego: sulle pareti di nessun Pronto soccorso si leggerà che, in caso di infarto, gli uomini più giovani e di più elevato livello socio-economico hanno una priorità d’accesso in terapia intensiva, ma i numeri dicono che questa categoria ha il 30 per cento di probabilità in più di usufruire di questo servizio rispetto alle donne di una certa età e di più bassa estrazione sociale». Anche le liste d’attesa vengono scavalcate facilmente da chi ha le conoscenze giuste e sa sempre a chi rivolgersi a colpo sicuro. «Così come era stato concepito – spiega l’epidemiologo romano – il sistema sanitario, a cui si contribuiva in relazione al reddito e si attingeva in relazione al bisogno, aveva una funzione redistributiva. Così come è oggi, invece, amplifica le disuguaglianze». Per Perucci la competizione tra pubblico e privato dovrebbe svolgersi sul terreno dell’efficienza: «Ci sono eccellenze ed esempi di malasanità in entrambi i settori. A mio parere – prosegue – entrambi dovrebbero essere accreditati con gli stessi criteri ed essere soggetti al conseguimento di standard minimi. La mortalità nel mese successivo a un by-pass deve essere inferiore all’un per cento: i centri che non raggiungono questo obiettivo dovrebbero perdere l’accreditamento, pubblici o privati che siano».
B
Privati ovunque «Offresi Pronto soccorso, con laboratorio analisi e radiologia annessa. Vista sul parcheggio. Ottime condizioni. Rendita garantita». Certi annunci non si trovano sui giornali, e la maggior parte dei cittadini nemmeno lo sa, ma, anche negli ospedali che si definiscono pubblici, la quota di servizi appaltati all’esterno è in crescita. Si è cominciato con la mensa e le pulizie, i parcheggi e l’informatica, ma ormai siamo arrivati alla gestione delle emergenze. Capita a Conegliano Veneto, in una delle regioni in cui il servizio sanitario dà il meglio di sé, ma presto l’iniziativa sarà estesa ad altre città. Perché no, se serve a risparmiare i soldi dei cittadini? Forse perché non è ben chiaro come queste società esterne riescano a offrire gli stessi servizi a costi ridotti. In parte è perché possono prevedere una maggiore flessibilità nell’uso dei dipendenti, liberi dai contratti del pubblico. In altre parole, possono prevedere di mandare più personale in pronto soccorso nelle settimane “calde” dell’epidemia influenzale e indirizzarlo a coprire altre esigenze in diversi periodi dell’anno. Ma è lecito pensare che queste strutture siano più “elastiche” anche sulla necessità dei turni di riposo o che peschino i loro professionisti tra quelli più giovani e meno esperti, che non hanno ancora trovato una collocazione più stabile. Per la radiologia è facile: fanno tutto i tecnici e il medico passa una volta al giorno a leggere le lastre e a stilare i referti, senza perdere altro tempo. Nei centri dialisi invece il risparmio si può ottenere in un altro modo, appaltando il servizio a grandi multinazionali che acquistano i materiali necessari in quantità tali da strappare un prezzo più competitivo. Ma c’è un rischio. «Bisognerebbe controllare che in questi casi, a fini di lucro, non si sottopongano i pazienti a più interventi o trattamenti – o più precocemente – di quelli che occorrono davvero», commenta Giuseppe Remuzzi, responsabile della Divisione di nefrologia e dialisi degli Ospedali Riuniti di Bergamo.
La sedia
di
Gianni Amelio
foto Stefano [vii network]
De Luigi
L’immagine classica è diventata parodia: il regista accomodato sull’apposita sedia (la sedia da regista, appunto) col berretto in testa e il megafono in mano, pronto a dispensare ordini a tecnici e scagnozzi. Lo si vede ancora in qualche vecchia foto in bianco e nero
della Hollywood dorata o dell’antica Cinecittà. A quei tempi, quando anche gli esterni venivano ricostruiti in teatro di posa, il regista, sempre in tenuta eccentrica, non alzava il culo dal suo trono e aveva l’aria di chi, invece di lavorare, è contento che lavorino gli altri.
del regista
di
Erri De Luca
foto
Nicolas Henry
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Russia
Un cameraman riposa sul set moscovita di Trust Service della regista Elena Nikolaeva
Si racconta che, a forza di stare seduto, qualche regista si appisolasse, e allora sottovoce nasceva il dibattito: «Lo svegliamo magari con una cannonata, o facciamo finta di niente e così il tempo passa e ci riposiamo anche noi?». Da giovane, quando facevo l’aiuto nei western, ne ho visti dormire parecchi nella controra madrilena, e
anche i cavalli erano contenti. Ma oggi dov’è il regista? Quasi sempre seduto, anche adesso. Seduto davanti a un monitor che rimanda l’inquadratura in tempo reale, mentre l’operatore muove la macchina e gli attori recitano poco lontano. È un vizio che abbiamo preso tutti da parecchi anni. Uno strumento utile di controllo
è diventato un mezzo di cui non possiamo più fare a meno, che ci rassicura. Quando le cose funzionano, l’immagine di quel piccolo monitor ci sembra un assaggio delle bellurie che vedremo sul grande schermo. E la sera ci addormentiamo più tranquilli. Lo vidi per la prima volta, questo monitor di control-
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Iran
L’assistente alla regia si prepara per una scena sul set di un film di guerra a Teheran
lo, su un set di Jerry Lewis alla Paramount, qualche decennio prima che arrivasse anche da noi. A parte la meraviglia, lo trovai sacrosanto in quel caso. Lewis dirigeva se stesso e si sdoppiava: prima dietro la macchina a studiare l’inquadratura e, poi, davanti a farsi riprendere, senza che nessuno gli dicesse va bene o
è da rifare. Per lui il controllo immediato era una necessità, un dono del cielo. Ma per noi comuni registi, per noi che ci accontentiamo di stare solo dietro la cinepresa, che cos’ha di speciale questa macchinetta che si chiama combo? È una delle tante risorse che la tecnologia regala ogni giorno a un’arte che forse non
“Ho passato la mia vita con la testa tra le nuvole, attraverso il cielo. Io e mio marito abbiamo portato in Brasile le prime mongolfiere”
ne ha bisogno. Tutti o quasi troveranno una ragione per non poterne fare a meno, io per primo. Perché, oltre ai vantaggi pratici, il combo ha un effetto ipnotico: ci protegge dal caos che abbiamo intorno, ci dà la prova che dal disordine del nostro lavoro può nascere un’armonia, una sintesi preziosa. Ma confesso che ogni
tanto vorrei tornare indietro, ai tempi (che ho vissuto) in cui provavi tu stesso i movimenti della cinepresa, con l’occhio all’obiettivo, il macchinista che spinge il carrello e tu che cerchi il percorso giusto, il ritmo, il senso dell’inquadratura. E poi, quando il motore è partito, ti concentri sugli attori, li segui da vicino, di
Iran
Un’attrice e una donna della troupe preparano una scena di The Hidden Meaning, girato a Teheran dal regista Rusagh Karimi
sicuro li aiuti con la tua presenza. La tecnica fa passi da gigante, ma forse non sono tutti passi in avanti. Qualcosa si perde strada facendo. Oggi invidio il regista che gira il suo film tenendo la macchina a spalla. L’inquadratura sarà traballante, imprecisa, ma trasmetterà il respiro del suo autore, avrà
meno precisione ma più sentimento. Come in tante riprese di Pasolini, quando lui stesso afferrava la macchina a mano per cogliere al volo una luce prima che svanisse per sempre. Il cinema, diventato oggi troppo ricco e onnipotente, ci sorprenderà ancora se ritornerà povero. Chi non ha
mai lavorato in un film dice che il set è un mercato dove si comprano e si vendono menzogne. Samuel Fuller lo definiva un campo di battaglia (e dava il via alle riprese con un colpo di pistolaâ&#x20AC;Ś). Fellini usava una metafora suggestiva: il set è una nave il cui capitano (il regista) tiene la rotta, poniamo, verso ovest,
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India
La stella di Bollywood, Sneha, sul set del film Aadi Vishnu girato a Hyderabad nel marzo 2008
ma tutta la flotta spinge per andare dall’altra parte. È vero ma non è sempre così. Dagli scontri e dagli imprevisti dipendono spesso i buoni risultati (guai alla calma piatta durante la lavorazione: ne verrà fuori un film addormentato…). Non sono pochi i registi che trovano nella tensione e nelle burrasche lo stimolo per
mettersi alla prova, per non accontentarsi della soluzione più facile. Col tempo ho imparato a diffidare dei due estremi opposti: di chi sostiene di “divertirsi molto” e di chi si ammala per lo stress. Il bello del mestiere di regista è appunto quello di essere anche un mestiere. Chi ha intelligenza non può fare a meno
di certe regole, e anche di addomesticare il proprio carattere. La libertà assoluta, magari utile e lecita in altri campi, nel cinema è un valore inutile e qualche volta dannoso. Il cinema lo fai con gli altri, rubando il talento dove lo trovi e senza fartene accorgere. Fellini, quando parlava
della ciurma che gli cambiava la rotta, lo diceva con un sorriso, sapeva che senza quei marinai ostinati, la sua nave sarebbe colata a picco.
E
Nigeria
Unâ&#x20AC;&#x2122;attrice durante le riprese del musical Zam Zam diretto da Mohammed Yakubu a Kaduna nel gennaio 2008
Lontani da Hollywood Cinema Mundi è un progetto fotografico sul mondo del cinema alternativo a quello della colossale fabbrica dei sogni di Hollywood. Ideato da Stefano De Luigi nel 2006, Cinema Mundi racconta le diversità delle produzioni cinematografiche attraverso l’obiettivo della fotocamera. Ogni scatto è una tappa che include, accanto ai film europei, anche quelli asiatici e sudafricani, produzioni
contemporanee cinesi con un background storico-propagandistico, biografie religiose iraniane, biografie russe in vecchio stile comunista, così come i famigerati film di Bollywood in India e Nollywood in Nigeria. Un’appassionata raccolta che valorizza le differenze culturali, storiche e sociali di Cina, Russia, Iran, Argentina, Nigeria, India e Corea del Sud. L’obiettivo del fotografo
cattura le peculiarità di ogni Paese per far risaltare i valori creativi di queste cinematografie. «È un universo culturale – dice l’autore – lontano dall’industria cinematografica anglofona, universalmente considerata leader del settore». Stefano De Luigi ha vinto il World Press Photo 2008 nella sezione Single Art Stories, per un’immagine scattata sul set di un film a Buenos Aires.
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Cina
Le riprese del film sulla Lunga Marcia, girato nell’August First Film Studio di Pechino
Casa dolce casa a cura di Stella
Spinelli
illustrazione
Guido Guarnieri
12 aprile, Cervinara (Av)
Da otto anni, da quando la sua primogenita si era sposata con un ragazzo del posto, viveva a Cervinara e gestiva un bar del centro. Si sentiva a casa e non aveva intenzione di seguire il compagno fino a Santiago di Cuba, loro città d’origine, dove Juan Rodríguez voleva tornare. Di fronte all’ennesimo rifiuto, lui l’ha uccisa soffocandola con un cuscino. Poi si è impiccato con il cavo di un computer. È accaduto nella loro casa, in camera da letto. Enedina Arias aveva 56 anni e Juan, 58, era il padre dei suoi due figli. È stato uno di loro, 18 anni, a trovare i corpi.
15 aprile, Case di Manzano (Ud) Era geloso di sua moglie e l’ha uccisa. Gianfranco Turolo, 73 anni, ha sparato tre colpi con il fucile da caccia a Giuliana Drusin, 67 anni.
17 aprile, Lucca Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dal 10 aprile al 10 maggio. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2010 sono state 127.
Faceva la badante Laura Giannarini, 44 anni, era nata a Pieve di Cadore, in provincia di Belluno, ed era fidanzata con Igor Paolinelli, quarantenne, lucchese. È stato lui ad ucciderla, pare per motivi di gelosia: si è presentato all’appuntamento con lei armato di pistola e le ha sparato cinque colpi a bruciapelo. L’omicida ha poi confessato.
20 aprile, Acquappesa (Cs)
Giuseppe Gerardi, 36 anni, è uscito in piena notte in preda a una crisi isterica, gridando e suonando tutti i campanelli delle case del centro di Acquappesa. Alda, la sorella di 51 anni, lo ha seguito a piedi, cercando invano di calmarlo. Durante l’ennesimo tentativo di farlo ragionare lui è salito in auto, e inserendo la retromarcia, l’ha investita. Non solo: è passato sul corpo di Alda altre due volte per poi fuggire. I soccorsi sono stati inutili. Giuseppe Gerardi è stato rintracciato il mattino seguente: era nascosto fra gli scogli della spiaggia di Cetraro ed è stato arrestato per omicidio volontario.
25 aprile, Gavirate (Va)
Alessandra Porcheddu aveva 32 anni. Insieme al fratello Federico, il giorno di Pasquetta, era andata a trovare il padre in un residence di Gavirate, dove si era trasferito dopo la separazione dalla loro madre. I tre hanno cominciato a discutere. L’uomo, 69 anni, finanziere in pensione, ha annunciato ai figli l’intenzione di riappacificarsi con la moglie.
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Di fronte al parere contrario dei due giovani, ha reagito con estrema violenza e li ha feriti entrambi con un coltello. Alessandra è morta subito dopo, mentre Federico è sopravvissuto.
26 aprile, Crevalcore (Bo)
Aveva 50 anni Maria de Assis Johnson, brasiliana, in Italia da anni. È stata uccisa con un colpo alla testa. A sparare il suo ex compagno, Stefano Moruzzi, 60 anni che non voleva accettare la fine della loro storia. “Ho ucciso la mia fidanzata, adesso vado ad ammazzarmi”, ha scritto in un sms all’amico di sempre. E così ha fatto. Il suo corpo è stato trovato senza vita dai carabinieri in un casolare di campagna vicino a Crevalcore, nel bolognese.
30 aprile, Canosa di Puglia (Bt)
Si chiamava Lakbira El Hayidi, aveva 40 anni, era marocchina, da pochi mesi era in Italia e faceva la badante. Da qualche tempo aveva cominciato una relazione con Cosimo Damiano Pastore, 49 anni, che però era decisa a troncare. Aveva saputo che il suo uomo aveva scontato dieci anni in un manicomio giudiziario per aver ucciso la moglie e che, per quell’omicidio, era stato ritenuto incapace di intendere e di volere.
6 maggio, Prato
La telefonata di allerta ai carabinieri – «Correte, correte, mandate subito l’ambulanza in via Firenze 123. Mia moglie è morta» – è stata fatta da Giuseppe Milazzo, 37 anni che, dopo aver riattaccato, si è ucciso. L’omicidio-suicidio è avvenuto a Prato, nella casa dei due, dove c’era anche la più piccola delle due figlie di quattro anni, mentre l’altra, una ragazza di 16 anni, era a scuola. La bambina era davanti alla tv e sembra non si sia accorta di quanto stava succedendo nella sua stanza, al piano di sopra. Durante l’ennesimo litigio, probabilmente dovuto all’imminente separazione, Giuseppe si è procurato un coltello da cucina e ha colpito più volte la moglie, Desirée Zumia, 34 anni, fino a ucciderla con una coltellata alla gola. Dopo aver lanciato l’allarme, si è barricato nella stanza piazzando un comò di fronte alla porta e si è suicidato facendo harakiri. Ad aprire ai carabinieri la figlioletta, che poi è tornata a guardare i cartoni animati. Le due sorelle sono state affidate ai nonni.
Un anno e mezzo dopo a Giarre
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Il 27 aprile a Giarre (Ct) è stato condannato all’ergastolo il sottufficiale dell’aeronautica militare Salvatore Capone, 38 anni, che il 12 novembre del 2009 durante una lite, cosparse di alcool sua moglie, Maria Rita Russo, di 31 anni, per poi darle fuoco. La donna morì dopo dieci giorni di agonia in ospedale. Nell’incendio rimasero feriti anche i loro due figli gemelli che, all’epoca, avevano tre anni. Capone dovrà anche risarcire le parti civili: 50mila euro ciascuno ai due gemelli, 20mila euro ciascuno ai genitori di Maria Rita e 10mila euro alla sorella.
un mojito per dimenticare pìpol di
Gino&Michele
foto Alexis Duclos [gamma-rapho/getty images]
Quando prendi atto del tipo di uomini politici che certe ragazze frequentano pur di essere elette, ti rendi conto di quanto debbano odiare la necessità di lavorare per mantenersi. *** Ci piacerebbe sapere: c’è un Paese occidentale in tutto il pianeta che concede a una improbabile politica come la Santanchè uno spazio televisivo vasto come quello che l’Italia le affida? In qualsiasi altro Paese d’Europa una così non farebbe nemmeno “L’isola dei famosi”. Nonostante ciò al cinema preferiamo la televisione. È più vicina alla toilette. *** Ogni volta che ci sono le elezioni ci sentiamo dire sempre più frequentemente: se non vuoi votare il partito vota la persona. E da un po’ in molti ci stanno anche credendo. Ma poi, perché? Scusa, ma che mi frega delle persone... Quelle, devo dare per scontato che non mi tradiranno. Permettetemi: io voto un’idea, un modo di leggere la realtà e di costruire il futuro. *** Otto von Bismarck, quello della bistecca con l’uovo, affermava che non si dicono mai tante bugie quante se ne dicono prima delle elezioni, durante la guerra, dopo la caccia. E tra l’altro l’uovo sulla bistecca è buono, tanto che stentiamo a credere che sia un’invenzione culinaria tedesca. *** Ernest Hemingway, il grande scrittore che “inventò” all’Avana la Bodeguita del medio e il Floridita («My mojito in la Bodeguita, my daiquiri in el Floridita»), impose all’Harry’s Bar di Venezia il Martini cocktail (2/3 gin, 1/3 Martini dry) più secco della storia. “Si prende un bicchiere dal frigorifero; poi un’oliva e la si lascia lì, su un piattino, abbastanza appartata. Si versa il gin nel bicchiere. Si prende la bottiglia di Martini dry, la si appoggia davanti al bicchiere di modo che si guardino tra di loro. Dopo qualche secondo si sposta la bottiglia di Martini. A quel punto si prende il bicchiere e si beve il gin”. Leggenda metropolitana? *** Di certo Hemingway scrisse: “Conosco la guerra come poche altre persone al mondo e nulla mi è più rivoltante di essa”. È vero, Hemingway conobbe la guerra. Si arruolò, tra l’altro, prima nella Croce rossa, poi come volontario a fianco degli italiani nella guerra del ’15-’18. Ferito e ricoverato a Milano – fu operato più volte a una gamba – si innamorò di un’infermiera americana, Agnes Hannah von Kurowsky, che però non lo volle sposare. Sarà stato per via dei suoi Martini un po’ troppo solidi? *** Questa vicenda ci fa venire in mente una storiella popolare che qui riportiamo nella versione scritta da Romano Bertola. “Quando mio nonno, tenente di cavalleria, fu ferito durante la Prima guerra mondiale ricevette in ospedale la visita di una giovane crocerossina. Era graziosissima e tutta fremente di aneliti dannunziani. Ella si avvicinò al letto del ferito e, guardando rapita la benda insanguinata che cingeva la sua fronte, gli chiese: ‘Come vi chiamate?’. ‘Tenente Ferruccio Ercolani – rispose il nonno – e voi?’. Lei abbassò gli occhi: ‘Io... Io mi chiamo come... come quella cosa cui voi eroici soldati pensate sempre nell’ardore della battaglia...’. ‘Bernarda?’. ‘No, Vittoria.’”.
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buen vivir di
Alfredo Somoza
abbasso i cancelli
decoder di
Violetta Bellocchio
foto
Brian Finke
poveri campioni
Sul cammino dell’eroe vanno messi molti ostacoli, tutti superabili. Se poi l’eroe è maschio, giovane e bello, dovrà per forza sconfiggere un mostro. Capita spesso nei film sportivi “tratti da una storia vera”: Cinderella Man trasforma un pugile solo temibile in uno che minaccia di uccidere il buono e stuprargli la vedova. E se non ci sono avversari da demonizzare? Si scava nel passato del campione, si cercano povertà, malattia, trauma. L’ultimo ragazzo prodigio del basket americano si chiama Perry Jones III: gioca nel campionato universitario, ma potrebbe passare ai professionisti entro l’anno; alle spalle ha una famiglia modesta ma cristiana, un allenatore severo ma giusto e una madre in attesa di trapianto cardiaco. Bingo. Più attenzione si dedica a Jones, più aumentano i sacrifici sopportati dai suoi cari, e fioriscono i dettagli come «a quindici anni Perry aveva l’acne, è stato l’allenatore a comprargli la cremina apposta». Ecco una vera storia di riscatto. E non importa se il successo sportivo si misura su dati concreti, che dovrebbero parlare da soli. Era già accaduto al nuotatore Michael Phelps, con il trionfo alle Olimpiadi del 2008 che portò alla luce il suo vecchio disturbo da deficit dell’attenzione, sconfitto grazie allo sport (e all’amore di mamma). E ricordatevi il coro di “poverino” con cui fu accolto Adriano al suo arrivo in Italia: calciatore sì, ma anche e soprattutto figlio delle favelas. Un’ossessione pericolosa. E a volte è proprio l’eroe la prima vittima. Quando Perry Jones III andava ancora al liceo, sua madre restò indietro con le rate del mutuo e ottenne un prestito dal suo allenatore. Per le regole dei non professionisti, questo equivale ad “aver ricevuto benefit inaccettabili”. Risultato: Jones è sospeso per il resto del campionato. Le autorità pare lo sapessero da mesi, ma, guarda un po’, sono intervenute solo quando la sua famiglia è finita sulle pagine del New York Times. Perché va bene la favola, ma a tutto c’è un limite.
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All’inizio diventò privato qualche spartitraffico, nel senso che un commerciante lo curava e lo “proteggeva” perché non rubassero le piante, poi qualche piazza venne recintata per evitare visite notturne, e toccò anche alle spiagge, privatizzate per l’uso esclusivo dei turisti o come set per qualche isola dei famosi. Anche i grandi shopping center, spuntati come funghi in America Latina, sono diventati simbolo della privatizzazione dello spazio pubblico, visto che vengono costruiti sui migliori terreni delle città, a discapito dell’edilizia popolare, dei servizi e del verde pubblico. Il fenomeno più preoccupante è stato poi quello della moltiplicazione dei barrios cerrados, i quartieri chiusi nei quali i ceti più abbienti si sono rifugiati, piccole città satellite complete di servizi e praticamente autonome. Negli anni Ottanta in America Latina il processo di frammentazione e privatizzazione dello spazio pubblico è stato inarrestabile e senza paragoni con altre zone del mondo. L’egoismo sociale e la strumentalizzazione della violenza sono stati la base ideologica per la disarticolazione dei centri urbani, con la rinuncia al ruolo storico di integrare in un unico tessuto le diversità, e con l’inizio della separazione fisica tra gli abitanti. Un processo che ha comportato un abusivismo “di lusso”, perché spesso i quartieri o le spiagge private sorgono su terreno demaniale. La lotta in atto in diversi Paesi per recuperare lo spazio pubblico sottratto è anche voglia di un modello di società inclusiva e non a isole sociali o razziali. A Bogotá c’è stata un’ondata di proteste che ha portato alla riapertura dei parchi cittadini senza limitazioni e anche a Cartagena il malessere dei residenti del centro storico, patrimonio dell’Unesco, si traduce in petizioni e proteste perché non vengano espropriati gli abitanti di un quartiere che si vorrebbe soltanto per i turisti. Stesse lotte a San Paolo, in Brasile, e nel quartiere della Boca a Buenos Aires. Questo nuovo fronte rivendicativo coinvolge diversi sindaci che iniziano a ridare dignità e accessibilità agli spazi pubblici e a esigere il rispetto delle normative e il pagamento delle tasse da parte degli abitanti dei quartieri chiusi, finora vissuti praticamente nell’illegalità. È una delle nuove bandiere di lotta contro l’eredità della cultura neoliberista che, se ormai non viene quasi più rivendicata, continua però a pesare sulla ricostruzione dei legami comunitari spezzati nei decenni passati.
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Tropico del cancro
Vieques
di
Alessandro Grandi
foto Emiliano [contrasto]
Larizza
Un’isola vicino a Portorico, bellissima e contaminata. Per sessant’anni è stata usata dalla Marina statunitense come base navale, campo di addestramento e discarica per bombe e rifiuti tossici. Dal 2003 la popolazione si è liberata dei militari ma non del loro lascito. Qui l’incidenza dei tumori è la più alta di tutte le Americhe
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Vieques, Usa Conosciuta come la Isla Nena, l’isola piccola, Vieques è stata fino al 1941 un luogo molto importante per la coltivazione della canna da zucchero. L’invasione dell’esercito statunitense poi la trasformò in uno dei più grandi poligoni di tiro al mondo. Nel 1953 l’Assemblea municipale approvò una risoluzione che condannava la presenza militare americana e chiedeva a Washington la restituzione delle terre occupate. Nell’ottobre del 1992 la Us Navy, non tenendo conto delle numerose proteste della popolazione locale, sganciò sull’isola 25 tonnellate di esplosivo. Durante le manovre venne utilizzata una grande quantità di napalm e, senza informare le autorità di Portorico, la Marina usò anche proiettili all’uranio impoverito. Pare che dal 1999 i militari abbiano testato un’arma computerizzata, la Phalanx Block AB-1, che per la sua pericolosità e tossicità era stata vietata dalla Commissione americana per la moratoria nucleare. Con l’aumento delle proteste, nel 1999 anche il reverendo statunitense Jesse Jackson organizzò una marcia di solidarietà con la popolazione. Il 4 maggio 2000 la Marina, insieme agli agenti dell’Fbi e con l’aiuto della polizia di Portorico, smantellò alcuni accampamenti che ospitavano i dimostranti: 213 gli arresti. Tre anni dopo, il ritiro e l’abbandono delle strutture militari.
È scesa fortissima nelle ultime ore la pioggia a Vieques, isolotto di 136 chilometri quadrati a sei miglia marittime dall’isola di Portorico, Stato libero e associato agli Stati Uniti. Siamo ai Caraibi in un punto particolare: uno dei vertici del temuto Triangolo delle Bermuda. Per le strade di Isabel II, il villaggiocapoluogo, si respira un’aria molto calda e umida. Quando i raggi del sole tornano a far brillare di bianco le spiagge, le palme si tingono di un verde così intenso da sembrare finte. Ma l’isola di Vieques, nonostante l’apparenza, è uno dei luoghi più inquinati e pericolosi del pianeta. Bombe esplose e inesplose. Navi affondate con i loro carichi tossici a poche centinaia di metri da spiagge tropicali. Una natura sventrata da colpi di cannone e ridotta a un colabrodo. Foreste assediate dal cemento armato dei depositi per le munizioni. E una popolazione colpita in modo anomalo da varie forme di tumore. Per sessantadue anni l’isola è stata occupata dalla Marina da guerra degli Stati Uniti d’America. I militari sono arrivati nel 1941 e se ne sono andati nel 2003, grazie anche al grande movimento pacifico cui hanno dato vita gli abitanti dell’isola. Un gruppo di uomini, donne, e anche bambini, che nel corso degli anni ha combattuto, senza armi, contro l’esercito più potente del mondo. Washington si appropriò di due terzi dell’isola, grazie all’approvazione da parte del Congresso della Ley Pública 247. La parte occidentale e quella orientale finirono nelle mani dei militari. Nella parte centrale vennero costretti a trasferirsi, in alcuni casi anche con metodi violenti, tutti i residenti, una comunità piccola formata da meno di diecimila persone. Gli statunitensi hanno preso in affitto il territorio e per questo hanno pagato fino all’ultimo una somma annua di svariati milioni di dollari. «La Marina ci dava lavoro. Erano sempre disposti a spendere denaro nei nostri negozi. L’economia dell’isola era fiorente», dice timidamente Maria, una commerciante, ma sono davvero in pochi a rimpiangere quei tempi. Ilcia Guadalupe, attivista del movimento, riconosce che a Vieques in passato giravano più soldi, «ma vogliamo fare paragoni? Il denaro in cambio di un’isola distrutta? No, io a queste manovre militari ho sempre detto no».
Una colonia della colonia
I crateri causati dalle bombe nella zona del poligono di tiro, visti dall’aereo
«Siamo una colonia della colonia», dicono qui non appena si affronta l’argomento. Sembra una cantilena. La ripetono tutti. Già nel 1948, solo sette anni dopo l’arrivo dei militari, Don Pedro Albizu Campos, uno dei politici locali più importanti, accusava la Marina e il governo di Portorico – che lui definiva “coloniale” – di perpetrare un genocidio contro la popolazione di Vieques. Oggi le argomentazioni sono ancora le stesse. «Son puertoriqueño y creo en la Independencia de Puerto Rico, las libertades civiles y las causas justas, (sono portoricano e credo nell’indipendenza di Portorico, nelle libertà civili e nelle cause giuste). E Portorico è una causa giusta e civile», dice Salvador Tio, importante avvocato di San Juan, studioso di indipendentismo. «Siamo una colonia degli Stati Uniti e nessuno lo può negare. E Vieques è una colonia di Portorico per il semplice fatto che è stata costretta a subire decisioni che arrivavano da altrove».
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Basta fare un giro per l’isola per rendersi conto che, come sostiene Tio, «decenni passati sotto le bombe di un esercito che testava le sue armi sono stati una vera sciagura per tutto: per l’ambiente, l’economia e la popolazione». Quasi tutti a Vieques hanno o hanno avuto un parente colpito dal cancro. Esiste un piccolo quartiere soprannominato barrio de la muerte, dove l’incidenza dei tumori non ha avuto pietà. È come se il senso di vulnerabilità avesse reso i sopravvissuti ancora più sensibili nel preservare la vita che li circonda, l’ambiente e gli animali. I cavalli sono quasi venerati come le mucche in India. I pellicani, tra i più colpiti, oggi sono tornati a popolare l’isola. Quando i viequensi indicano un’iguana (che da queste parti chiamano gallina de palo) per descriverla usano parole armoniose e abbassano la voce, quasi non volessero disturbarla. Ma con la stessa familiarità possono parlarti delle armi da guerra: AK-47, elicotteri o incrociatori. Conoscono il piombo, l’uranio e il napalm. Sull’isola ne hanno viste tante. «Ci sono stati episodi clamorosi», conferma Ivan, una montagna fatta a uomo che sott’acqua nuota con la semplicità di una sirena, pescatore da sempre, in prima linea nella lotta. «Scene veramente epiche. Decine dei nostri barchini lanciati contro le navi da guerra per impedire lo svolgimento delle manovre. Senza armi, solo con le nostre barche, l’esperienza nel guidarle e la conoscenza del mare». Non trema la voce di Ivan mentre racconta. Il suo sguardo si dirige lontano come a indicare il luogo delle battaglie. Ma il tono, fiero e greve allo stesso tempo, fa intendere che la lotta è stata un’esperienza forte. «Per metterci in fuga dalla zona dove c’era il poligono di tiro, la parte di isola maggiormente esposta ai bombardamenti, la Marina ci sparava. Non scherzo. Dal cielo sfrecciavano gli aerei a bassa quota, quasi sfiorando il mare, e sganciavano vicino alle nostre imbarcazioni delle bombe finte: enormi palle di cemento che non appena colpivano l’acqua causavano uno spostamento di onde pazzesco. E oggi facciamo strane scoperte. Come pesci con più di un organo genitale o aragoste con troppe chele e antenne. Queste cose la natura non le fa».
Sott’acqua
Parte dell’area ovest di Vieques ancora oggi non è accessibile al pubblico per via delle centinaia, forse migliaia, di bombe inesplose. È impossibile andare a vedere che cosa succede lì chiedendo un permesso: non verrebbe mai rilasciato. Più facile seguire vie meno tradizionali. E allora, dopo un minuzioso piano, si può anche progettare un blitz non autorizzato all’interno della restricted area. La zona è la più ricca di spiagge da sogno. In poche decine di minuti dal piccolo e caratteristico molo di Esperanza, barrio dell’isola che si affaccia sul mar dei Caraibi, si raggiungono le acque prospicienti la zona militare offlimits. Con una buona maschera,
▲▲▲▲Quel che resta della “Cafetera”, un isolotto completamente distrutto dai bombardamenti della Marina ▲▲▲La pista di decollo e atterraggio all’interno di Camp Garcia, la base militare statunitense ▲▲I depositi delle armi: un cartello indica il peso delle bombe presenti all’interno ◀Pericolo esplosione bombe
Robert “Rabin” Siegal, leader della protesta popolare contro la Marina, portavoce del Comité pro rescate y desarrollo de Vieques e presidente dell’archivio storico dell’isola
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un paio di pinne e un po’ di fiato, e dopo essersi tuffati a una dozzina di metri di profondità, ci si imbatte in una nave enorme: la Us Killen. La carcassa è arrugginita ma ogni sua parte si riconosce chiaramente. I pesci si rifugiano in ogni anfratto. Il contrasto del colore e delle ombre con la luce del sole rende queste acque cupe, tristi e desolate. La Us Killen è una nave da guerra utilizzata fin dagli anni Quaranta per manovre militari nucleari. Quando non serviva più, l’hanno affondata con tutto quello che c’era dentro e sopra. I cannoni e le ogive sono ancora lì, si possono vedere e toccare. Sono alla portata di qualsiasi sub dilettante. Altri due colpi di pinna ed ecco anche i bidoni sospetti. Sono chiusi e il mare ha evidentemente fatto il suo lavoro. Non si capisce cosa contengano, di sicuro non acqua di rose. Non ci sono scritte. E poi ancora bombe, probabilmente inesplose, piantate come alberi nei fondali a creare monumenti lugubri.
Pericolo di morte
A terra la situazione non è migliore. Nella zona ad accesso vietato identificata con un cartello con il pericolo di morte (per chi vìola la legge sono previsti l’arresto e una multa di 150mila dollari), una distesa infinita di bandierine azzurre, gialle e bianche indica la presenza di materiale esplosivo o residui di proiettili. Sulle bandierine alcune sigle numeriche. Tutto intorno un silenzio rotto solo dal rumore delle onde che si infrangono sulla battigia. Nell’area est invece è stato impiantato un gigantesco radar di enorme potenza in grado di intercettare fino a distanze superiori alle 500 miglia. «Dicono che serva per la lotta al narcotraffico. A tutti gli effetti è puntato verso le coste del Venezuela, che si trovano appunto a quella distanza», racconta Robert Siegal, Rabin per gli amici, direttore dell’archivio storico di Vieques e leader del Comité pro rescate y desarrollo de Vieques. «È vero che dal primo maggio di otto anni fa la Marina ha abbandonato Vieques, ma la pace non si ottiene solo con la smilitarizzazione del territorio», spiega ancora Rabin che nel 2002, per alcune manifestazioni di disobbedienza civile, è stato arrestato insieme ad altre decine di persone e rinchiuso per sei mesi in un carcere federale della Florida. «È necessario quindi che le istituzioni si impegnino a fondo per bonificare l’ambiente che ancora oggi è gravemente contaminato». Il governo di Portorico, tramite un programma federale, sta tentando di ripulire la zona più esposta alle manovre, ma i lavori vanno a rilento. Per la decontaminazione viene impiegato personale locale ma, dopo un volo sopra la zona dei lavori, programmato per le sei del mattino, prima che lo spazio aereo venga chiuso, è chiaro che non vengono fornite adeguate protezioni. Solo un casco e dei guanti. Gli abiti sono quelli degli operai che a sera rientrano nelle loro case.
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◀ La tomba dove è sepolta Milivy, deceduta a cinque anni a causa di una rara forma tumorale
Diritto alle cure «Vogliamo un ospedale moderno, un ospedale che possa offrire tutti i servizi di cui i nostri cittadini hanno bisogno», dice il sindaco di Vieques, Evelyn Delerme-Camacho. «La nostra gente non deve essere costretta a viaggiare fuori dall’isola, con i tempi, le difficoltà e il denaro che questo comporta, per una chemioterapia o per la dialisi». Il sindaco ha scritto a Washington, alla Casa Bianca, e ha chiesto con insistenza alla rappresentante del Grupo Interagencial sobre Puerto Rico, Cecilia Muñoz, la realizzazione di un ospedale pubblico e all’avanguardia. Non solo. Delerme-Camacho ha insistito con gli Stati Uniti perché accelerino il processo di bonifica dalle sostanze nocive che si sono accumulate in tanti decenni di presenza militare.
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Più 52 per cento
«Il fatto più eclatante che abbiamo potuto riscontrare nei nostri studi è l’alta incidenza del cancro nella popolazione dell’isola di Vieques rispetto a quella della vicina Portorico», spiega Cruz Maria Nazario, professore di Epidemiologia e Biostatistica, dal suo studio all’interno dell’università, a San Juan. «Dagli anni Settanta si è registrato un aumento esponenziale di questa malattia. Possiamo dire che i nostri studi hanno messo in relazione la presenza di sostanze pericolose per l’organismo umano con l’azione della marina militare statunitense. Anche perché a Vieques non ci sono aziende inquinanti e la popolazione non è diversa da quella che vive a Portorico». Nel 1997 il dipartimento de Salud ha pubblicato un documento secondo cui esiste effettivamente un’incidenza particolare del cancro in questa zona, ma senza svelarne le cause. Altri studi dell’università locale hanno poi dimostrato che gli uomini di Vieques, rispetto a quelli di Portorico, sono più soggetti a leucemie, mielomi e tumori a prostata, esofago, faringe e vie urinarie. Tra le donne, gli organi particolarmente colpiti sono retto, utero, polmoni e bronchi, faringe, esofago e cervello. Più in generale, i casi di tumore o di leucemia tra gli abitanti di Vieques superano del 52 per cento la media dell’intero continente. La malattia non ha risparmiato quasi nessuno. Nemmeno Milivy, morta a cinque anni nel 2002. È stata scelta come simbolo della lotta dai viequensi che alla fine sono riusciti a ottenere la tanto sospirata vittoria sull’esercito americano. Dopo sessant’anni.
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Myrna Pagán, membro della Comisión de Salud del Comité pro rescate y desarrollo de Vieques, è sopravvissuta a una forma di tumore molto invasiva. «Io mi sono salvata grazie a cure efficaci – sorride oggi – ma non è così per tutti»
a cura di
Antonio Marafioti foto Gael Gonzalez [reuters/contrasto]
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Libia Marocco Algeria Somalia Sudan Uganda Nigeria Costa D’Avorio Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dall’11 aprile al 10 maggio, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi. Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.peacereporter.net
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Il 2 maggio, quattro persone, una donna e tre bambini, sono morte per l’esplosione di una bomba piazzata in una moschea di Charsadda nella provincia nordoccidentale di Khyber-Pakhtunkhwa, a 100 chilometri da Abbottabad, dove, il giorno prima, un commando di Navy Seals statunitensi aveva ucciso Osama Bin Laden. La deflagrazione dell’ordigno ha completamente distrutto l’edificio e danneggiato il perimetro esterno della stazione di polizia distrettuale che, in base ai primi rilievi, sarebbe stato il bersaglio principale dell’attentato.
Oltre venti persone, tra cui alcune donne e bambini, sono state uccise nel corso di un attacco delle forze paramilitari sudanesi. È accaduto lo scorso 14 aprile nella regione petrolifera del Kordofan meridionale. Il vicegovernatore della regione, Abdelaziz al-Hilu, ha accusato Ahmed Harun, suo superiore ma appartenente a un partito politico rivale, di aver organizzato l’attacco. Le Popular Defense Forces hanno colpito El-Faid Oum Abdoullah, il villaggio di origine di al-Hilu, uccidendo – secondo quanto ha raccontato lo stesso funzionario – «più di venti persone e bruciando, dalle prime luci dell’alba, tra le trecento e le cinquecento case». Ahmed Harun, membro del Ncp (National Congress Party) del presidente Omar al-Bashir, è attualmente ricercato dal Tribunale penale internazionale per presunti crimini di guerra commessi in Darfur.
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Afghanistan Pakistan India Thailandia Filippine
Messico Tre bambini, di uno, tre e quattro anni, sono morti dopo che una bomba molotov lanciata da ignoti è esplosa all’interno della loro abitazione. L’episodio si è verificato il 15 aprile a Ciudad Juárez, considerata la città più violenta del Messico, con oltre tremila omicidi solo lo scorso anno. La madre delle tre vittime, che era in casa al momento dell’attacco, è riuscita a salvarsi. Gli inquirenti, che collegano l’attentato alla guerra della droga, hanno raccontato che la donna aveva i capelli e i vestiti in fiamme. I vigili del fuoco hanno trovato i corpi di due dei tre bambini sotto i loro letti. La narcoguerra messicana è costata la vita a oltre 34mila persone in poco più di quattro anni.
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Siria Sono 112 i civili uccisi dalle forze di sicurezza siriane, durante le manifestazioni che venerdì 23 aprile sono scoppiate in varie città: un bilancio provvisorio delle proteste contro il regime di Bashar al-Assad che continuano a scuotere il Paese. Tra le vittime, secondo quanto riferito dai siti di attivisti e dissidenti, ci sarebbero anche una bambina di quattro anni e un bambino di dodici. Alla manifestazione, organizzata a livello nazionale con il nome di Good Friday, hanno preso parte sia i cittadini musulmani che quelli cattolici, uniti contro le politiche di al-Assad che, il giorno prima, aveva abrogato lo stato di emergenza in vigore dal 1963. I cecchini in divisa, appostati sui tetti dei palazzi, hanno sparato indiscriminatamente sulla folla provocando un massacro. Dagli Stati Uniti è arrivata ferma la condanna del presidente Barack Obama nei confronti del governo di Damasco. La Casa Bianca ha giudicato «vergognoso» l’uso della violenza contro il popolo.
fare, non fare, disfare Mi scuso sin d’ora per la divagazione (già da adolescente venivo chiamato il dottor Divago per questa mia tendenza che negli anni ogni tanto si ripropone, un po’ come la peperonata durante la notte). Ricordo l’adagio morettiano, su un palco, durante una delle solite, tristi sfilate di dirigenti della sinistra italiana: a confronto il congresso del Pcus sembava un film di Woody Allen. Moretti, a un certo punto, disse rivolgendosi mi sembra a D’Alema: «Per favore, dite qualcosa di sinistra». Secondo me si sta ancora aspettando e mi sembra che siano sempre di meno ad aspettare, divisi in particelle e corpuscoli che mirano solo a superare lo sbarramento del 4 per cento per sopravvivere. Ricordo ben sapendo che oggi governa la destra, ma nemmeno lì si capisce bene cosa sia destro e cosa di abbastanza sinistro. Si sono ribattezzati Governo del Fare. In effetti fa, e disfa, come meglio crede, senza dire però cosa sta facendo, non facendo. Siamo al paradosso: la politica da sempre è stata arte di parole, di negoziati, di alleanze, di conflitti più o meno sotterranei. Ora invece non si limita a far accadere. Fa. Poi succede che qualcuno (i cittadini, putacaso) ne chieda conto, e il governo s’indispettisce. Prendiamo l’esempio del nucleare, dopo la catastrofe giapponese. Il governo prima temporeggia e non dice, poi tituba e non parla, e alla fine sospende il programma. La gente, per una volta, si sveglia dal torpore pre-elettorale. È previsto un referendum, accorpato a quello sull’Acqua pubblica e, udite udite, a quello sul Legittimo impedimento. Dopo un po’ di tira e molla, sempre senza dire nulla né di destra né di centro né di sinistra, Berlusconi, bello come il sole (si fa per dire), viene fuori e snocciola: «Ma sì, cribbio, abbiamo sospeso e annullato il programma nucleare solo per fermare i referendum». Ecco dunque smascherato il nuovo gioco, il Gioco dei Tre Referendum. Non originalissimo: evoca quello delle tre tavolette che si fa sui mezzanini di stazioni e metrò, ma può funzionare. Mentre ti bloccano il Nucleare e tu lo segui con la coda dell’occhio, sparisce, impedito in modo illegittimo, anche il Legittimo impedimento. Al dunque, il Governo del Fare fa, ma continua a non dire nulla di destra, del tipo: «Che cosa penso dei referendum? Me ne frego!». E intanto come sempre la sinistra si interroga al suo interno (ormai è diventata campione mondiale di Sgomento e Indignazione), la Lega sonnecchia e l’Udc aspetta. Tutti gli altri, sempre attenti al 4 per cento. E i cittadini votano. Solo che con questa legge elettorale sembra di votare in playback, ovvero sei convinto di avere parlato tu, ma qualche abile ventriloquo ha già espresso il tuo parere e s’è impossessato della tua opinione. È vero che nella vita si può anche cambiare opinione, per carità. Ma scambiarla o scipparla questo no, sia chiaro che questo non si può fare nemmeno nel Governo del Fare.
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polis di
Enrico Bertolino
illustrazione
Mauro Biani
Ist 235x330+4_Emergency.indd 1
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un fisico bestiale di
Bruno Giorgini
foto
Ishiuchi Miyako
a mani alzate Alle 8.16 del 6 agosto 1945 sulla città portuale di Hiroshima veniva sganciata little boy, la prima bomba atomica, da un aereo statunitense su ordine del presidente Truman. In pochi minuti morirono oltre 130.000 (centotrentamila) persone, che diventeranno in pochi anni 300.000 (trecentomila) e ancora nel 2002 le persone colpite dalla ricaduta radioattiva ammontavano a 285.000 (duecentottantacinquemila). Nel 1959 Alain Resnais racconta una grande storia d’amore che si svolge proprio a Hiroshima, Hiroshima mon amour. Ebbene a tutt’oggi nessuno ha potuto scrivere Chernobyl mon amour, e ancor meno si potrà filmare Fukushima mon amour. La catastrofe nucleare che le ha investite è, nonostante un numero di morti inferiore, molto più disperata e disperante, nessun amore può sorgere. Senza scampo biologico e/o mentale. A Chernobyl dal 26 aprile 1986, data della fusione della centrale, i lupi sono sopravvissuti divorando i cani, mentre i vecchi che, nonostante i divieti sono tornati nel perimetro, vengono usati come cavie per vedere fino a che punto le particelle radioattive li stanno, anno dopo anno, divorando. A Fukushima la catastrofe non si limita alla terra e all’aria, ma investe anche il mare. L’aria viene inquinata dall’emissione di vapori radioattivi, la terra dalla percolazione dei liquidi radioattivi da fusione, come a Chernobyl. Poi c’è l’acqua del mare. Nell’oceano sono state sversate, per ammissione della stessa Tepco, specialista in menzogne, almeno 15.000 (quindicimila) tonnellate di acqua altamente radioattiva. Supponete di raccogliere un bicchiere d’acqua marina a Porto Corsini, coloratene le molecole di rosso, quindi ributtatele in mare. Se dopo qualche mese andate a Sidney, raccogliendo un bicchiere d’acqua oceanica conterete alcune decine delle vostre molecole rosse di Porto Corsini. Se sono radioattive... con quel che segue, cioè nessun lembo di mare sarà indenne. In una foto da Fukushima si vede un bambino con le mani alzate, mentre uomini ricoperti con tute bianche ne misurano la radioattività. Somiglia in modo impressionante alla famosissima foto del bambino ebreo con le mani alzate sotto la minaccia dei fucili, durante un rastrellamento dei nazisti nel ghetto. La sostanza è la stessa: un crimine contro l’umanità, commesso poco a poco in una lenta agonia che può durare secoli. Ripeto: secoli.
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Questa foto fa parte di una serie chiamata Hiroshima: Ishiuchi Mikayo ha fotografato i vestiti indossati dalle vittime della bomba atomica, conservati all’Hiroshima Peace Memorial Museum. Il titolo di ogni foto riporta anche il nome di chi ha donato il capo al museo. Le opere sono in mostra alla Kunsthaus di Amburgo dal 20 maggio al 17 luglio 2011 (c) Ishiuchi Miyako – hiroshima #9 R.Ogawa
LIBIA, MISURATA / Un team di EMERGENCY sta lavorando dall’11 aprile in un ospedale di Misurata, in Libia. Chirurghi e infermieri curano le vittime di guerra in un luogo che, fino al nostro arrivo, non disponeva di uno staff specializzato.
Il tuo 5x1000
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I fantasmi di
Andrea Camilleri
illustrazioni
Shout
Queste pagine Continua il racconto inedito di Andrea Camilleri. Se vi siete persi i primi capitoli, li trovate sul sito www.e-ilmensile.it. Buona lettura.
Andrea Camilleri È nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre 1925. Dall’età di 24 anni ha lavorato come regista e sceneggiatore per il teatro e la tv. Dal 1977, per vent’anni, ha insegnato regia all’Accademia nazionale di arte drammatica. Nel ‘78 l’esordio nella narrativa, ma è nel 1992 con La stagione della caccia (Sellerio) che diventa un autore di successo. Nel 2010 ha ricevuto il Premio letterario Piero Chiara alla carriera, l’ultimo di una serie.
tre La novità promissa ci fu, ma fu amara assà per il sinnaco. ’Nfatti l’indomani a matino la diligazioni vinni chiamata dal sigritario del pispico al palazzo viscovili. Sò cillenza Pinnarello appariva tanticchia ’mbarazzato. «C’è stato uno spiacevole equivoco – disse – e penso sia doveroso da parte mia riferirvelo». Il sinnaco si sintì moriri il cori. «Di che si tratta?». «Come vi dissi l’altra volta, mi ero riproposto di far venire qua don Agazio Palinferro, che è un notissimo esorcista che vive in Basilicata…». «E non è venuto?», spiò il sinnaco. «Di venire, è venuto – fici il pispico – anzi, si è generosamente sobbarcato a un viaggio terribile per la sua età». «Quanti anni ha?», addimannò don Basilio. «Novanta. Ma è ancora lucido e vigoroso». «Mi perdoni, ma l’equivoco?», ’ntirvinni il profissori. «Ecco, ieri sera don Agazio, pur essendo stremato dal viaggio, ha voluto venirmi a salutare. E qui è saltato fuori l’equivoco». «Sì, ma di che si tratta?». Il sinnaco stava accomenzanno a perdiri la pacienza. «Ecco, io ho parlato con sua eccellenza il vescovo di Napoli, gli ho raccontato la faccenda e l’ho pregato di dire a don Agazio di venire qua. E quello è venuto». «Ma dov’è l’equivoco?», spiò il profissori. «L’equivoco nasce dal fatto che sua eccellenza il vescovo di Napoli ha detto a don Agazio di correre subito a Montelusa perché c’era bisogno di lui. E don Agazio ha obbedito». Il sindaco, dintra di lui, principiò a biastemiari. «Ma ieri sera – continuò il pispisco – quando gli ho parlato di fantasmi, è caduto dalle nuvole. Nessuno gliene aveva fatto cenno. Credeva di essere stato chiamato per liberare degli indemoniati. Una cosa sono i diavoli, ha detto, e una cosa sono i fantasmi. Ha aggiunto anche che con questi ultimi non ha nessuna confidenza». «E quindi?», spiò il profissori. «E quindi ha deciso di riposarsi ventiquattrore e poi di ripartirsene». «Non può farlo», disse addeciso il sinnaco. «Ci rovina». Il pispico allargò le vrazza. «Per sua consolazione posso dirle che ho telefonato in Vaticano per sapere se esistono preti abilitati a esorcizzare i fantasmi. Mi ha risposto il cardinale Spannocchia in persona, è la massima autorità in materia, chiarendomi che la categoria a tutti gli effetti non fa parte delle schiere diaboliche. Tutt’al più si tratta di anime irrequiete, bisognose di preghiere». Il profissori fici ’na pinsata. «Eccellenza, potremmo parlare con don Agazio?». «Certamente». Il pispico sonò un campanello, trasì il sigritario. «Accompagni questi signori da don Palinferro». Patre Agazio faciva ’mpressioni. Era priciso ’ntifico a ’no schelitro assittato supra a ’na pultruna. Il sindaco gli arrifirì quello che era capitato a Vigàta dall’apparizioni del primo moschitteri in po’. «Ho capito benissimo», disse il parrino. «E non posso fare altro che confermare quanto ho detto a sua Eccellenza».
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Il sinnaco arrivò ’n municipio correnno alla velocità di un furgaroni, seguitato a tri passi di distanzia dagli altri dù della diligazioni che non ce la facivano a starigli allato. «Trovami a Turi Persica e portamillo ccà senza perdiri un minuto», disse alla prima guardia comunali che s’attrovò davanti. «Digli che c’è un problema per il rinnovo della licenza». Turi Persica aviva ’na bancarella al mercato del pisci. «Scusi – fici don Basilio appena la guardia fu nisciuta – ma le ci ha fatto fari tutta ’sta gran curruta, e ’sta gran sudata, sulo pirchì Turi non avi la licenzia a posto?». «Chiuiti la porta e statimi beni a sintiri», disse il sinnaco. Il profissori la chiuì. «Mentri parlavo con don Agazio m’è vinuto di fari ’na pinsata. E se metti caso stasira Turi, doppo aviri veduto novamenti il fantasma, addiventa un indemoniato? Patre Agazio, in questo caso, non sarà obbligato a ’ntirviniri?» «Io penso di sì», disse don Basilio. «Io nni sugno sicuro. Patre Agazio gli fa gli scongiuri, alla scena facciamo assistiri la stampa e la giunta è salva. I comunisti se la possono annare a pigliari in quel posto». «Ma Turi accetterà?», spiò il profissori. «C’è un argomento col quale Turi si convinci sempri. Questo.», concludì il sinnaco. E stropicciò il pollice e l’indici. Quella sira Turi annò alla taverna un’orata prima del solito. Perciò alle unnici era già ’mbriaco come a ’na signa. Murmuriò un saluto e niscì fora. Faciva un friddo che tagliava la facci. Lo scarricatori portuali Micheli Blandino, con la mogliere Sciaveria, bitava al piano terra di vicolo Cardillo nummaro tridici, il carritteri Cosimo Barlacca, con la mogliere Mansueta e dudici figli, bitava puro lui al tridici ma al primo piano, mentri il guardio notturno Giurlanno Sofà, con la mogliere Afflitta e tri figli, stava ’n facci a loro, al vintidù, dall’altra parti del vicolo. Tutte queste pirsone, che potivano essiri massimo le unnici e mezza, sintero la voci dispirata di un omo che faciva: «Aiuto! Il fantasma! Aiuto! Il fantasma!». Giurlanno Sofà, Afflitta e tri figli raprero il balconi e s’affacciaro; Micheli Blandino, mentri Sciaveria s’affacciava al balconi, scinnì in strata; Cosimo Barlacca, Mansueta e tutti i dudici figli, compreso Robertino di anni quattro, s’apprecipitaro nel vicolo. Arriconobbero a malappena, nell’omo che s’arrutuliava ’n terra con ’na vava biancastra alla vucca, e biastimiava e santiava contro Dio, la Madonna e tutti i santi, a Turi Persica. Micheli Blandino era quello che l’accanosciva meglio. Perciò gli s’avvicinò, si calò verso di lui e gli spiò: «Che ti senti, Turi?». Per tutta risposta arricivitti un potenti cavucio nei cabasisi che lo fici cadiri ’n terra. Si mise a lamintiarisi per il dolori. Allura Turi si susì con l’occhi spirdati e fici, con una voci accussì cavernosa e potenti che lo sintì tutto il vicolo: «Non sugno Turi, ’u dimonio sugno!». E mentri tutti sinni scappavano facennosi la croci e dicenno giaculatorie, il guardio notturno Giurlanno Sofà pinsò bono di scaricare in aria tutto intero il carricatore del sò revorbaro. Manco deci minuti appresso sul posto s’attrovaro il sinnaco, il vici sindaco, don Bartolo, i sei giornalisti, il commissario Bennici e dù agenti. Cchiù ’na trentina di paisani. Turi si era livato tutti i vistiti e continuava a rutuliarisi ’n terra biastemianno.
I fantasmi
«Ma a noi basterebbe che lei venisse a Vigàta, impartisse una benedizione ad alcune case del quartiere e…». «Ma non si tratta di benedizioni!», scattò don Agazio. «Si tratta di esorcismi! Io, dopo un lungo combattimento, riesco a scacciare il demonio che si è impossessato di un corpo umano! Lo capite o no? E qui mi pare che nessun fantasma si sia impossessato di nessuno!». «E chi ce lo dice?», fici don Basilio. «Ma figlio mio, queste persone che hanno incontrato i fantasmi, cadono a terra contorcendosi? Hanno la bava alla bocca? Bestemmiano? Dicono oscenità? Rinnegano Dio?». «Per la verità, no». «E allora?». E proprio in quel momento, quanno tutto pariva perso, il dimonio, certamente lui, disse ’na cosa all’oricchio del sindaco. «Lei quando se ne riparte, padre?», spiò al parrino. «Dopodomani pomeriggio».
Shout Alessandro Gottardo è nato a Pordenone nel 1977. Dopo il liceo artistico a Venezia, ha frequentato il corso di illustrazione all’Istituto europeo di design di Milano. Ha vinto diversi premi, in particolare negli Stati Uniti, tra cui le medaglie d’oro e d’argento della Society of Illustrators di New York e la medaglia d’oro della Society of Publication Designers. I suoi lavori sono comparsi su varie testate internazionali tra cui: The New York Times, The Washington Post, Time, The New Yorker, The Economist, Esquire, Le Monde, Guardian.
I fantasmi
«È chiaro che l’anima addannata del fantasma gli è trasuta dintra», disse il sinnaco. «E ora che facemo?», spiò don Bartolo. «Domani matina presto vado a Montelusa e fazzo viniri il bravo esorcista che è arrivato», fici il sinnaco. «Ma non si può lasciarlo così tutta la notte», disse Bennici. «Se volete, lo posso portare in commissariato. Lo metto in cella di sicurezza e lo faccio macari sorvegliare, accussì non fa danno né a se stesso né agli altri». «D’accordo», disse il sinnaco. Appena che i dù agenti gli misiro le mano di supra, Turi reagì a pidate e a cazzotti. Doppo un quarto d’ura di lotta, l’agenti ebbiro la meglio. Ma si scordaro di pigliari macari i vistiti di Turi che nella confusioni non s’accapiva indove erano ghiuti a finiri. Doppo tanticchia, uno dei dù agenti s’apprisintò a Bennici che era nel sò ufficio. «Vado a pigliarigli i vistiti». Tornò doppo ’na mezz’orata. «Non c’era cchiù nenti. I giornalisti e quelli del vicolo si sono spartuta la robba». «Com’è la cella?». «Fridda assà». «Vabbeni, dagli ’na coper…». Si firmò, taliò all’agenti. «Avisti tu l’idea d’annare a pigliarigli i vistiti?». «Nonsi. Me lo spiò lui. Mentri stava a rutuliarisi e a biastimiare, si firmò, mi taliò e disse: “Pi favori, vammi a pigliari i vistiri masannò ccà moro di friddo”. Accussì disse». Bennici ristò tanticchia pinsoso. Po’ parlò. «Piglia un cato dallo sgabuzzino. Inchilo con l’acqua cchiù fridda che attrovi e portamillo ccà». «Dal cannolo pubblico la pigliai, ghiazzo pare», fici l’agenti tornanno. «Annamo». Si susì, niscero dall’ufficio, si firmaro davanti alla cella. Turi continuava a ruturliarisi e a santiari. «Rapri la porta», disse il commissario. L’agenti raprì. «Dammi il cato». L’agenti glielo passò, il commissario lo pigliò con le dù mano e scagliò l’acqua gelita, con tutta la forza che aviva, contro a Turi. Il quali si firmò di botto, si susì a mezzo e disse, arraggiato: «E che minchia! Mi voliti fari viniri la purmunìa?». «Vai a inchiniri novamenti il cato», fici il commissario all’agenti, per tutta risposta. Turi confissò alli tri di notti. Oramà era accussì ’mbarsamato per il friddo che pariva priciso ’ntifico a un baccalà. Alli otto del matino Bennici tilefonò al questori. «Ho la confessione firmata, signor questore. Il sindaco gli aveva promesso cinquemila lire in contanti e la licenza gratis». «Va bene, ho capito. Ma non dica niente a nessuno, è un ordine, ne va della sua carriera». Alli otto e mezza il questori chiamò a sò cillenza il Prifetto. «Signor questore, mi raccomando caldamente! Dica a questo suo commissario di tenere la bocca chiusa! Cristo, se questa faccenda la vengono a sapere i giornalisti, qua rischiamo di saltare tutti!». Alle novi sò cillenza il Prifetto tilefonò a sò cillenza il pispico di Montelusa. «Per carità di Dio, che nessuno ne sappia niente! Se trapela qualcosa di questa storia, caro Prefetto, consegniamo il comune di Vigàta ai comunisti!». Alli novi e mezza il sinnaco s’apprisintò al sigritario di sò cillenza il pispico e gli disse che doviva parlari d’urgenzia con don Agazio. «Non può riceverla. Sta facendo le valigie. Tra mezzora parte, ha anticipato». «Ma si tratta di un indemoniato che ha necessità assoluta di soccorso, d’aiuto…». «A questo proposito, sua Eccellenza ha qualcosa da dirle. Mi segua», fici il sigritario. Il sinnaco accapì che c’era timpesta in arrivo.
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Continua sul prossimo numero
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parola mia di
Patrizia Valduga
biblico a chi?
.eu di
Stefano Squarcina
foto Emanuele Cremaschi [luz]
Lampedusa nulla insegna
È come se l’Unione europea avesse preso un grande spavento di fronte alla primavera araba. Invece di felicitarsene e gioire insieme a quei popoli che stanno lottando per i loro diritti, l’Europa sembra rimpiangere i vecchi tempi, quando poteva contare sulla complicità di corrotti regimi autoritari per tenere a bada la loro gente. Il controllo e la repressione dei flussi migratori rimane l’ossessione della politica euromediterranea. Durante l’ultimo vertice di Roma, Italia e Francia sono scivolate nell’eurofobia isterica con la loro richiesta di ristabilire i controlli alle frontiere nazionali, in barba al Trattato di Schengen, solo perché 25mila tunisini hanno bussato alle loro porte. Lampedusa è il fallimento della politica italiana ed europea sull’immigrazione: saltati i sigilli repressivi di Gheddafi o Ben Alì i flussi sono ripresi, a conferma che la loro sospensione si doveva esclusivamente alle più volte denunciate e remunerate persecuzioni di migranti in Libia e Tunisia. La rivolta araba ha suonato la fine della politica euromediterranea sin qui concepita: l’Unione per il Mediterraneo di Sarkozy non ha più senso, così come quella immaginata dal Processo di Barcellona. Ci prova ora la Commissione europea a mettere insieme i cocci, proponendo la stipula di un nuovo “Partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa” che abbia l’ambizione “di sostenere senza riserve l’aspirazione dei popoli a godere delle stesse libertà che noi consideriamo diritti”. Bruxelles dice di volersi dotare di una nuova strategia, ma nel documento si trovano gli errori di sempre, segno che si vuole ignorare apertamente il vero senso delle rivoluzioni arabe. “L’aumento della capacità di contrasto dell’immigrazione nei Paesi di origine” è ancora la condizione per accedere al partenariato, mentre i soliti “Accordi per la liberalizzazione del mercato dei beni e servizi” – dal drammatico impatto sociale – vengono presentati come strumenti obbligatori di cooperazione. Esattamente quello che è stato fatto finora. Con ben pochi risultati, come dimostra Lampedusa.
C
Va di moda l’aggettivo “biblico”: “esodo biblico”, “migrazioni bibliche”, “tempi biblici”, “proporzioni bibliche”, “potenza biblica”… Per chi rispetta la lingua, “biblico” significa soltanto “che si riferisce alla Bibbia, che è narrato dalla Bibbia”. Il Battaglia riporta, per la verità, anche un altro significato: “Che ha i caratteri della Bibbia: il senso drammatico, la solennità, la concisione, ecc.”. Ma questo significato presuppone un’uniformità che la Bibbia (dal greco tà biblía, i libri) si guarda bene dall’avere: il libro più antico è fatto risalire al XII secolo a.C., gli ultimi intorno al II, ai tempi di Catone e di Terenzio, per intenderci; raccolgono racconti, cronache, leggi, codici, poesie religiose, epiche, d’amore. Dire che uno scritto ha uno stile biblico sarebbe come dire che un vestito è di colore arlecchino. Oggi in che senso si usa “biblico”? Nel senso di straordinariamente grande. E che cosa c’è di straordinariamente grande nella Bibbia? La Palestina è più piccola della Lombardia e in parte deserta; i discendenti di Abramo che vanno in Egitto spinti dalla fame non dovevano essere in numero immenso, e neppure il loro Esodo di conseguenza; in Egitto ci si arriva in tre salti, e nel deserto pure; lì stanno per quarant’anni (il tempo del governo di Mubarak e di Gheddafi); i deportati in Babilonia non sono che gli abitanti della città di Gerusalemme... Non c’è niente di immenso, di smisurato in tutto questo e si potrebbe tagliar corto e dire, per scoraggiare l’uso sbagliato e banalizzante di un aggettivo squisitamente tecnico, che la Bibbia è una storia di qualche tribù nel raggio di un tiro di schioppo. E però alcuni patriarchi sono vissuti un numero d’anni inaudito: Noè 950, Matusalemme 969… “Forse era ver, ma non però credibile/ a chi del senso suo fosse signore”, potremmo dire con Ariosto. E allora? Allora l’idea che si ha della Bibbia viene forse dai film americani degli anni Cinquanta, e “biblico” oggi non vuole dire altro che “kolossal”.
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il capitale di
Niccolò Mancini
foto
Naoki Tomasini
la tratta delle banche
Soldi, soldi, soldi e ancora soldi. Di questo hanno bisogno le principali banche italiane a poco più di due anni dalla gigantesca crisi che ha rischiato di mandare gambe all’aria l’intero sistema finanziario mondiale e che ha avuto nel fallimento del colosso statunitense Lehman Brothers il momento più drammatico. Da allora nei soli Stati Uniti sono state 348 le banche che hanno “bruciato” i soldi dei propri clienti dichiarando fallimento, un filotto che ha avuto, in tempi di sempre maggior globalizzazione, inevitabili conseguenze sulla struttura creditizia europea in particolare in quei Paesi considerati “finanziariamente più evoluti”, come Svizzera e Gran Bretagna, dove molti istituti sono stati salvati solo grazie all’intervento dello Stato. In Italia, grazie per una volta alla nostra cosiddetta arretratezza, di fallimenti non se ne sono visti anche se non possono essere che definiti salvataggi il ricorso di molti istituti ai cosiddetti “Tremonti Bond”, quelle obbligazioni emesse dalle banche bisognose di liquidità e sottoscritte interamente dal ministero del Tesoro a fronte di importanti garanzie da parte delle banche stesse che ne limitano inevitabilmente l’azione. Ma ai banchieri essere soggetti a troppi controlli non piace e così, forti anche della richiesta delle autorità europee di rafforzare il patrimonio degli istituti creditizi, per riuscire ad assorbire eventuali nuove crisi finanziarie, hanno iniziato in questo primo semestre 2011 una serie di aumenti di capitale che consentiranno da un lato di restituire i soldi prestati loro dallo Stato e dall’altra di avere una struttura patrimoniale più solida. Secondo voci ufficiose, la cifra necessaria a dare la tranquillità alle nostre banche sfiora i 40 miliardi di euro, solo una minima parte dei quali già raccolti. Il paradosso in tutto questo è che le autorità che impongono alle banche di avere i conti in ordine sono le stesse che consentono un uso spregiudicato della finanza evitando di mettere regole e controlli più stringenti come testimoniano i conti recentemente pubblicati da Deutsche Bank, da cui si evince che ben il 40 per cento dell’intero bilancio del colosso tedesco è legato a quegli stessi prodotti per i quali sono falliti Lehman e numerosi altri istituti in giro per il mondo.
A
Teatro
Ricette umane di
di
Alessandra Bonetti
300 millilitri di latte, 250 grammi di grasso di rognone, 100 grammi di zenzero candito. La vita di Igor scorre come un libro di ricette. Ma dietro ogni ingrediente c’è una storia: la sua nascita, segnata da una carenza di ossigeno che gli ha provocato un deficit cerebrale, la mamma che lo ha abbandonato, una strana ragazza dai capelli verdi, gli amici della cooperativa sociale dove lavora. A impastare questo bizzarro Pranzo di famiglia di Renate Dorrestein è la nonna, un’ex hippie con una lunga coda di cavallo. Ma d’altronde per Igor la normalità non è una dote. Così come la famiglia: «Famiglia? Già, cos’è, di preciso? Un padre, una madre e due bambini? Che penosa carenza di senso pratico, e fantasia». Dalla cucina ipercalorica e multietnica di Amsterdam, alle italianissime crostate alla marmellata di Tetano, secondo romanzo del giovane Alessio Torino. La storia inizia d’estate, in un piccolo paese dell’Appennino, dove fra il bar e la panetteria del corso, il nipote di nonna Vera trascorre ogni anno il mese d’agosto. «Anche a me piaceva, da piccolo», gli dice il padre, che si è trasferito a Roma per scampare al destino di operaio alla vetreria del posto. Qui ci sono i boschi, i giri in bicicletta, la diga e le bacche di rosa canina che gli amici vendono a Franco del bar che le usa per aromatizzare la grappa. Una frase – «con quella virgola in mezzo» – che il ragazzino comprenderà solo alla fine di quell’estate tragica, passata a costruire con Tetano una zattera per solcare il fiume. Asciutto, crudele e impaziente come lo sguardo di un bambino, il romanzo è anche uno spaccato della provincia italiana, coi suoi riti, i profumi e i soprannomi. Una realtà italiana che talvolta rende sgomenti. Una pausa di riflessione la offre Chiarelettere che riscopre brevi scritti, discorsi e phamplet. Il primo era stato Odio gli indifferenti di Gramsci, ora è la volta di Discorso sulla servitù volontaria del francese Étienne de La Boétie: un centinaio di pagine, scritte alla metà del Cinquecento ma tremendamente attuali in cui, più che ai tiranni, il filosofo parla ai sudditi. Anche a quelli di oggi, che il “sovrano” lo eleggono a suffragio universale. Pranzo di famiglia, Guanda, 17 euro, 250 pp. Tetano, minumum fax, 14 euro, 250 pp. Discorso sulla servitù volontaria, Chiarelettere, 7 euro, 127 pp.
Simona Spaventa
Diavolo d’un Matthew Bourne. Lui che ha osato popolare Il lago dei cigni di Ciajkovskij non di delicate fanciulle sulle punte, ma di virili cigni in calzamaglia, rigorosamente maschi. Un trionfo planetario, consacrato perfino dal finale del film Billy Elliot, cui sono seguite altre ardite invenzioni, da una Carmen garagista bisessuale in un sobborgo italoamericano anni Sessanta (The Car Man) al Dorian Gray ragazzo copertina, simbolo perverso del contemporaneo consumista. Spettacoli cult, creazioni che, al di là del puro aspetto coreografico, sono travolgenti per respiro narrativo e potenza teatrale: doni capaci di acciuffare anche lo spettatore non specialista. Ora il regista e coreografo londinese, classe 1960 e una passione per la danza tardiva (iniziò a 22 anni, senza mai diventare ballerino professionista), dopo un mese di tutto esaurito al Sadler’s Wells Theatre di Londra, arriva al Ravenna Festival, unica tappa italiana per la sua nuova Cinderella. Completa riscrittura di una prima versione del 1997, per Bourne la favola di Prokof ’ev diventa pretesto per raccontare la Londra devastata dai bombardamenti nazisti della Seconda guerra mondiale, e in particolare il terribile London Blitz del 1940 sotto il quale si cercano e si amano una ragazza povera e un pilota della Raf. Un allestimento cupo, scandito dal frastuono delle bombe che si mescola alla musica in un avvolgente effetto di surround sound, e insieme sognante, con le tante citazioni dei film in bianco e nero dell’epoca, da Scala al Paradiso di Powell e Pressburger a Breve incontro di David Lean. Un’idea scaturita direttamente dalla musica di Prokof ’ev nella quale, secondo Bourne, «dietro alla magia da favola dei gran walzer e delle mazurke alla Ciajkovskij, batte un cuore più cupo e drammatico». La sua Cenerentola debuttò al Bolshoi nel 1946, ma era stata scritta durante la guerra. «Ho avuto la sensazione – prosegue Bourne – che quell’epoca buia della nostra storia in qualche modo fosse rimasta catturata nella musica e ho voluto trasferirla in un’ambientazione dai toni scuri e romantici. Perché quello era un periodo in cui il tempo era tutto, l’amore si trovava e si perdeva all’improvviso e il mondo danzava come se non ci fosse un domani». Cinderella di Matthew Bourne Teatro Alighieri, Ravenna dall’8 al 12 giugno
Simon Annand
Libri
Domani
Cenerentola sotto le bombe
Documentario Cinema
Ridere di al Qaeda di Barbara
Sorrentini
Si può scherzare sul terrorismo islamico? La prima risposta, sensata, sarebbe no. Però, se l’ironia è efficace, non gratuita o di pessimo gusto, frutto di un’attenta osservazione della realtà, allora lo sberleffo assume una funzione di analisi e di critica efficace. Il lavoro che il regista inglese Chris Morris ha intrapreso per Four Lions, il primo film che si può collocare a pieno titolo nell’era post Bin Laden, nasce da questo presupposto. Abituato ai ritmi televisivi e radiofonici della Bbc, Morris per più di vent’anni ha scritto, condotto e animato programmi comici e satirici sul canale più seguito in Inghilterra. E si vede: per la costruzione surreale delle immagini, le idee visivamente incisive, il montaggio pensato per un pubblico impaziente, per le battute e i tempi comici rispettati fedelmente dal suo gruppetto di protagonisti, attori spigliati e di varie nazionalità (Riz Ahmed, Arsher Ali, Nigel Lindsay, Kayvan Novak). Quattro uomini simpatizzanti di al Qaeda progettano un attentato nella città inglese in cui vivono, non sanno come costruire un ordigno, come girare il video per la rivendicazione e come evitare i controlli di sorveglianza. Le riunioni strategiche sembrano assemblee condominiali, le prove con le cinture di esplosivo, nel giardino in cui allevano le pecore, devastanti. Sono così sprovveduti, incapaci e dementi che alla fine, non fa nemmeno così ridere vederli esplodere per sbaglio e scappare travestiti da pupazzi in gommapiuma tra la folla di una parata per bambini. Quando Chris Morris illustra la preparazione fatta sul campo, mitiga i dubbi. In occasione della presentazione del film all’ultimo Torino Film Festival, il regista ha fatto cenno ai suoi tre anni di conversazioni con esperti di terrorismo, imam, polizia, servizi segreti e cittadini musulmani. «Anche quelli che sono stati addestrati alla jihad riferiscono della frequenza di situazioni farsesche – spiega Morris – spesso le cellule di terroristi seguono le dinamiche delle feste di addio al celibato e del calcetto». Four Lions prende spunto da tutti questi aspetti tragicomici, che includono la paura e le profonde debolezze umane degli stessi attentatori. C’è quello che prova il telecomando facendo esplodere un corvo carico di candelotti, chi si brucia accendendo un cerino o quello che vuole apparire elegante nel videotestamento. Non fanno simpatia come I soliti ignoti, danno sui nervi come i protagonisti di un reality show, anche se il film è stato definito dalla critica inglese una black comedy. In questi ritratti c’è una vena dissacratoria, anche un po’ eccessiva e fastidiosa (soprattutto nella versione doppiata), ma in questo realismo grottesco, in cui si attende invano l’arrivo dei buoni, nessuno si salva.
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Four Lions di Chris Morris, dal 3 giugno
Questa è la mia terra di
Matteo Scanni
Ecco una storia essenziale, che riappacifica l’istanza documentaria con la ricerca formale. A 30 chilometri da Gerusalemme, il conflitto israelo-palestinese deflagra in un’odiosa versione a bassa intensità. Barricati nel centro storico di quella che considerano il cuore della Terra promessa, protetti da duemila soldati dell’Idf, le forze armate israeliane, seicento coloni ebrei tengono sotto scacco 160mila palestinesi, costretti a vivere nella loro città da estranei prossimi allo sfratto. Hebron, appunto. Quel che si vede in This is my land: Hebron non è altro che la vita di tutti i giorni. L’applicazione chirurgica del “principio di separazione” con reti e grate, gli espropri sistematici delle abitazioni, i continui episodi di umiliazione e sopraffazione, il clima generale di follia. In sintesi: l’annichilimento di ogni speranza di convivenza tra le due comunità. Le esplosioni di odio dei coloni sono raccontate in presa diretta dai due registi e attraverso filmati d’archivio forniti dalle organizzazioni per i diritti umani Breaking the Silence e B’Tselem. L’uso esplicito della violenza è appannaggio delle donne e dei ragazzini, che non si fanno scrupoli a insultare, spintonare, picchiare, sputare, lanciare pietre ai vicini palestinesi. Le interviste sui due fronti sono lucide, disarmanti. L’intensità del racconto, a tratti insopportabile, ricorda i migliori lavori di James Miller (Death in Gaza). Per quanto involontariamente, questo bellissimo documentario riporta alla memoria le pagine più fosche di William Sheridan Allen su Nordheim, cittadina dell’Hannover dove, dal 1930 al 1935, una piccola comunità politica stracciò le regole del patto sociale e abbracciò a piccoli passi il delirante progetto hitleriano, arrivando a espungere deboli e diversi dal proprio corpo. Il nazismo come patologia della democrazia, era la tesi. Hebron chiede gli occhi del mondo per riaprire la strada del dialogo. This is my land: Hebron di Giulia Amati e Stephen Natanson www.thisismylandhebron.com
Dal ruolo della donna alla libertà di stampa: sei interviste non scontate a giovani del Burkina Faso per raccontare il presente di un Paese africano raramente coperto dai media tradizionali. Mon Faso di Anaïs Dombret e Sylvain Pioutaz www.monfaso.net
Design
La coscienza nel piatto
Arte
Enrico Cattaneo
di Claudia
L’invasione degli spazi urbani di Vito
Calabretta
Il museo del Novecento di Milano, pur all’interno di uno spazio architettonico problematico, appena nato è già diventato un soggetto importante della città. La collezione ne racconta la storia artistica senza paura di mettere insieme capolavori e opere meno convincenti. È curata con criteri scientifici seri, ben documentati in un catalogo Electa. Tra le prime mostre che si affiancano all’esposizione della collezione c’è Fuori! Arte e Spazio urbano. Non è altisonante, non propone alcuno spettacolo ma suggerisce al pubblico una esperienza storica concreta e invita al paragone con l’oggi: come viene vissuta e presentata l’arte pubblica? Proprio fuori dal museo, tra l’altro, se ne vede un esempio, La montagna di sale di Mimmo Paladino: l’opera è sbattuta male nella piazzetta e circondata da un inopportuno steccato. Fuori! propone, con piglio documentario, una specifica esperienza dell’arte italiana che ha avuto luogo tra il 1968 e il 1976, quando gli spazi delle città venivano occupati, talvolta anche invasi, dall’azione degli artisti. Gli interventi sono i più vari e, nella manica al piano terra del museo, sono ricostruiti attraverso video, suoni – purtroppo non ben separati gli uni dagli altri – e fotografie. Importanti sono quelle dedicate da Ugo Mulas a Campo Urbano, manifestazione che si svolse a Como nel 1969. Sono proiettate su uno schermo in sequenze perché, come spiega Valentina Mulas, «già dal 1967 Ugo Mulas stampava direttamente i fotogrammi di intere sequenze di scatti perché la cosa importante nella fotografia, secondo lui, più che il singolo istante riprodotto nell’immagine, è il processo mentale che porta alla raccolta del documento». Concepita quindi come offerta documentaria su una fase interessante dell’arte italiana, la mostra offre anche uno spunto per riflettere su come la fotografia possa essere insieme opera artistica e documento della realtà, anche di quella costruita dagli artisti che invadono gli spazi urbani. Fuori! Arte e Spazio urbano 1968-1976 , Museo del Novecento, Milano Palazzo dell’Arengario, piazza del Duomo 12, dal 14 aprile al 4 settembre
Barana
SuperFarm è un ibrido tra fattoria urbana e supermercato partecipativo in cui il “cliente” ha un ruolo attivo nella catena della produzione alimentare. Coltiva, pesca, sceglie prodotti a chilometro zero. Presenti al Salone Satellite 2011, Hafsteinn Júliússon, Joana Pais e Rui Pereira, designer della Spd (Scuola politecnica di design a Milano), non propongono solo nuovi oggetti, ma un progetto che punti sul cambiamento dei comportamenti e degli stili di vita. Perché il design deve dare una risposta a un problema molto serio: nel 2050 quasi l’80 per cento delle persone risiederà nei centri urbani e il numero totale della popolazione mondiale crescerà di almeno tre miliardi di individui. Per produrre cibo, mantenendo le attuali tecniche, sarà necessario molto più territorio. Cosa fare? I tre designer credono che coltivare le città e conquistare un ruolo propositivo nella catena della produzione alimentare siano la nuova frontiera. La voglia di orto si respira ovunque, soprattutto a Milano con l’Expo alle porte: insalate e pomodori spuntano nei giardini delle scuole, nei cortili e sui balconi. SuperFarm fa un passo avanti e promuove un modo di coltivare e consumare il cibo che inviti a interagire con la natura all’interno delle città, a integrarla nel quotidiano; educare, capire, rispettare l’ambiente, ma anche l’uomo, attraverso un’alimentazione sana. Ne è un esempio Wheel of Nutrition, il piatto che indica il corretto apporto nutrizionale. Si punta
sull’importanza di comprendere la dimensione etica della filiera alimentare e scegliere un approccio più sostenibile oltre che sano. Si stabiliscono logiche diverse da quelle acquisto-consumo: prima di poter comprare nuovo cibo e assumere nuove calorie, è necessario bruciarle. L’obiettivo è quello di creare, attraverso un’azione diretta sul territorio, una consapevolezza forte perché, come dice Michael Pollan, professore di Berkeley: «Creare la coscienza di quello che mangi è una responsabilità verso il mondo». www.superfarm.it www.scuoladesign.com
Boccadoro
A sorpresa, come un meteorite infuocato, piomba sul mercato questo straordinario doppio cd contenente l’ultima esibizione dal vivo di Bob Marley, registrata a Pittsburgh il 23 Settembre del 1980. Accompagnato dai fedelissimi Wailers – molti dei quali anch’essi scomparsi negli anni successivi al concerto – e registrato direttamente dal banco del mixer con un risultato che se ne frega delle finezze hi-fi ma restituisce l’incredibile impatto che questo gruppo sapeva produrre in concerto, Live Forever è un documento eccezionale che non deluderà i numerosissimi fan del rastaman Marley. Questa tournée seguiva l’uscita dell’album Uprising e, oltre a celebri hit allora recenti come Could You Be Loved e Redemption Song, la scaletta comprendeva anche classici come No Woman, No Cry, Positive Vibration, Crazy Baldheads e Natural Mystic. Nonostante avesse avuto un vero e proprio tracollo fisico due giorni prima e le sue condizioni di tenuta sul palcoscenico sembrassero estremamente precarie, Marley non dà affatto l’impressione di soccombere alla malattia che lo stava divorando, anzi; interpreta con entusiasmo brani cantati milioni di volte come se fosse agli esordi della carriera. La ritmica di Carlton Barrett e Aston “Family Man” Barrett è come sempre incendiaria e sostiene in maniera unica la voce di Marley e i cori delle I Threes, mentre l’organo Hammond di Earl Lindo riempie lo spazio acustico di accordi ad alta temperatura espressiva. Le sonorità sono caldissime, il pubblico è scatenato, lo stereo sembra emettere aria satura di spliff e il concerto si trasforma in una festa per orecchie e cervello. Yea Mon!! Bob Marley, Wailers: Live Forever (Cd Island) euro 24,90
La giusta causa
di Carlo
[courtesy of universal music]
Musica
Il fuoco del reggae
Scegliere di Massimo
Rebotti
“Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano”. Sarebbe il caso che la frase, di John Stuart Mill, tornasse d’attualità in Italia nelle prossime settimane. Dalla morte di Eluana Englaro sono passati oltre due anni. La vicenda di una donna, in stato vegetativo per oltre diciassette anni in seguito a un incidente stradale, accese un dibattito, mobilitò emozioni e opinioni attorno alla questione della fine della vita. Il caso fu anche l’occasione per stomachevoli strumentalizzazioni politiche. Ma, si disse – forse si sperò – che il tema, una volta arrivato in parlamento, sarebbe stato affrontato con un dibattito civile, pacato e ricco di ragionevoli dubbi come una materia di questo genere impone. Ora ci siamo. Il parlamento si appresta a discutere di come “regolare” la fine della vita di tutti coloro che, per restarne in qualche modo aggrappati, dipendono e dipenderanno da terapie, macchinari e nutrizioni forzate. «Sono scoraggiato, fare discussioni nel merito ormai è impossibile». Maurizio Mori è il presidente della Consulta di bioetica e sul dibattito in parlamento non ha fiducia: «Lì, ormai, i confronti non si fanno più». Eppure il tema è di una tale portata che, se ben affrontato, potrebbe far fare un salto in avanti di civiltà al discorso pubblico sui temi della vita, l’autodeterminazione di sé, i modi per morire. L’attenzione e la partecipazione dei cittadini ci sarebbero pure: nei mesi scorsi, per esempio, decine di Comuni hanno raccolto in anticipo le “volontà” di molte persone, sono nati siti che si propongono lo stesso obiettivo: «Il testamento biologico – prosegue Mori – è una testimonianza importante, ma simbolica. Con la legge che ha in mente il centrodestra non varrà nulla». Maurizio Mori insegna Bioetica all’università, si occupa da molti anni di questi temi, durante la vicenda di Eluana Englaro, si è particolarmente speso per difendere un punto di vista laico. Quasi si scusa della sua sfiducia di oggi: «Se Berlusconi si è messo d’accordo con il cardinal Bertone io non ci posso fare niente». Poi, in un ultimo sforzo da professore che cerca il lume della ragione, aggiunge: «Vede, il paziente si allea con il medico contro la malattia. È un legame profondo. Ma quando una persona non è più capace, cosa succede? Questo progetto di legge sancisce che non può disporre di sé. Non è terribile?».
122 www.consultadibioetica.org www.lamiascelta.it
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per il commercio equo
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Camminare è una n o è u virtù, il turism e peccato mortal Werner Herzog
Camminare in piccoli gruppi sui sentieri del mondo
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ESTERO 16-30 lug Zanzibar L’altra costa
22 - 26 giu Toscana Versilia: dai monti al mare con i muli
29 set - 9 ott Basilicata Coast to Coast
Dal catalogo 2011-2012 .................ESTATE 2011 Croazia Brac e Hvar: tra terra e mare 9 - 15 lug Toscana, Romagna Casentino: Borghi e Conventi 9 - 16 lug Marocco Il trek del Toubkal 10 - 17 lug Toscana Lunigiana Terra di passi e di parole 24 - 30 lug Alto Adige, Veneto Alta Via delle Dolomiti n.1 24 - 30 lug Liguria Da Portovenere a Portofino 30 lug - 6 ago Abruzzo Santi e Briganti in Majella 6 - 13 ago Campania Cilento A piedi al mare 6 - 13 ago Piemonte Il sentiero occitano in Val Maira 6 - 14 ago Campania Cilento A piedi al mare 13 - 20 ago Piemonte Valdesi Il Glorioso Rimpatrio 14 - 21 ago Francia Vercors L’oasi naturale 21 - 27 ago Lombardia Stelvio Il Sentiero della Pace 21 - 27 ago Italia, Slovenia e Croazia Da mare a mare 26 ago - 3 set
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la posta del cuore di
Claudio Bisio
cuore@e-ilmensile.it illustrazione
Anna Godeassi
Confesso che mi piace leggere le vostre lettere, molto diverse tra loro. A volte mi emozionano, a volte mi fanno sorridere, a volte le condivido così tanto che non saprei come rispondere o commentare, a volte mi spiazzano. Comincerei con una appartenente a quest’ultima categoria. Non ho il cuore, posso partecipare? Quando si parla di avere fegato, o cervello, ecco che mi sento chiamata in causa, ma no, quando si parla di avere cuore, no, non si parla di me. Cinicamente circondata da amiche con grande cuore, da una famiglia che ti aspetta con il cuore in mano, da un uomo che ti cerca con la luce del cuore, io il cuore non l’ho mai dovuto usare. Diciamo che è a riposo. Solo nel lavoro ho imparato che se non hai il cuore non vai da nessuna parte. Allora ho progettato le fasi necessarie per assomigliare a chi il cuore davvero lo usa. Ho rubato i sentimenti ai colleghi, ho spremuto ogni vena del mio corpo, sì, ma nessuna traccia del vero mio cuore. Solo una parvenza di umana gentilezza da utilizzare a piccole dosi. Quando è morto un amico, quando ho soppresso il mio cane, quando ho rinunciato all’amore, ecco forse era il mio cuore che faceva male, ma il cuore di cui parla Emergency per me non funziona. Mi mancano le istruzioni per usare questo organo. Forse le troverò con voi. Katia Provo a risponderti con un paio di lettere di due ragazze con età ed esperienze molto diverse tra loro: Laura, una sedicenne (che oltre a Ligabue cita pure Pascal) il cui sogno è “essere utile agli altri”, e Isabella che probabilmente quel sogno l’ha già realizzato e ci racconta una piccola storia davvero toccante. Chissà, cara Katia, che questi due racconti non ti diano qualche “istruzione”, come dici tu, “per usare questo organo...”. “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non comprende”. Come dice il filosofo Pascal, il cuore ci porta a realizzare ciò che per la nostra ragione potrebbe sembrare assurdo. Mi chiamo Laura, ho 16 anni e vivo in un piccolo paese della provincia di Roma. Ho un sogno che fino a mesi fa non sfiorava minimamente “l’anticamera” del mio cervello. Oggi il mio sogno è quello di diventare un medico chirurgo per seguire i passi di Emergency e di tutti coloro che dedicano la vita agli altri. Io credo che il cuore debba avere delle forti ragioni che non abbiano nulla a che fare con la ragione, perché per seguire certe strade non basta, non serve proprio. Non esistono cose belle e soddisfacenti che non provengano dal cuore perché la bellezza è portata dall’istinto e dalla spontaneità.
Credo che per seguire strade del genere non bisogna pensarci, ma seguire l’istinto, essere un po’ “irragionevoli” e pazzi. Lo so, è rischioso, ma chi rischia evidentemente crede profondamente in quello che fa. E come dice Luciano Ligabue: “Se uno non crede non spera, se non spera non ci prova e se non ci prova non cambierà mai niente”, ed io, nella mia vita, voglio cambiare qualcosa! Laura Caro Claudio, ti scrivo per raccontarti una “storia di cuore” vissuta in prima persona. Due anni fa sono partita con un gruppo di volontari in Angola e, tra i tanti luoghi visitati, ci siamo recati in un villaggio chiamato Canjala, dove è stata realizzata una scuola elementare, e abbiamo portato con noi dei giocattoli per i bambini: bolle di sapone, pittura, palloncini. Sono arrivati in tanti in quel posto apparentemente deserto, dai villaggi vicini. Hanno saputo della nostra presenza in tempi record, come hanno fatto non so, non ci sono cellulari, ma la voce si è sparsa. Quaranta bambini, forse più, erano davvero tanti, hanno giocato con noi tutto il pomeriggio e, prima che facesse buio, sono tornati ai loro villaggi. La mattina dopo abbiamo lasciato incustodita la stanza dove dormivamo, dov’erano anche le nostre valigie, e, al ritorno, abbiamo scoperto alcuni bambini che uscivano di corsa da quella stanza. Pensammo si fossero intrufolati alla ricerca di altri giocattoli, e invece no, ci avevano portato un dono: tre piante di manioca, un tubero con il quale prevalentemente si nutrono. Non immagini la nostra sorpresa, non sapevamo davvero che fare, a parte dire grazie. Il cibo è davvero prezioso per chi non ne ha in quantità industriali, e allora, quanto era grande la loro riconoscenza per privarsi magari del pranzo, pur di offrirci qualcosa in cambio? Questi bambini senza esperienza, senza cultura, mi hanno insegnato qualcosa di grande: il cuore si può usare in diversi modi, oppure lo si può spontaneamente, istintivamente, seguire... Isabella G. Per finire, da parte di Alba: Un pezzetto di cuore, e un pensiero, per Vittorio Arrigoni e per tutti quelli che sanno abolire confini e pregiudizi.
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Prima le donne e i bambini di
Cecilia Strada
foto
Mattia Velati
All’inizio degli anni Novanta circolava in Afghanistan un editto religioso che, tra le altre cose, vietava alle donne di “camminare con orgoglio”. I talebani non avevano ancora preso il potere: questa fatwa non era espressione del loro oscurantismo, quanto di un sentimento e di una cultura, per così dire, più o meno equamente distribuita tra i vari signori della guerra locali, che a loro volta raccoglievano il consenso e la tradizione di una buona parte del Paese. Emergency ha iniziato il suo intervento in Afghanistan nel 1999, nel valle settentrionale del Panshir, in quella zona controllata dall’Alleanza del Nord dove i talebani non sono mai arrivati. La vita quotidiana delle donne del Panshir, però, non era molto diversa da quella che facevano nel resto dell’Afghanistan rurale: come dice un vecchio proverbio, “ci sono due posti per la donna, la casa e la tomba”. Ed è in questo contesto che Emergency, dopo avere aperto un Centro medico chirurgico ad Anabah, una rete di ventotto posti di primo soccorso e centri sanitari e un secondo Centro chirurgico a Kabul, ha cominciato a pensare di aprire un Centro di maternità. Le motivazioni cliniche non mancavano: un tasso di mortalità materno-infantile tra i più alti al mondo, l’assenza di strutture specializzate e gratuite per seguire la gravidanza e il parto, un tasso di natalità altissimo che aumenta i rischi per la madre e per il bambino. Quando abbiamo cominciato a parlare di questo progetto, però, amici e colleghi di altre organizzazioni ci hanno cortesemente dato dei pazzi: «In un posto in un cui le donne devono chiedere il permesso al marito per uscire di casa, voi volete aprire un centro di ostetricia e ginecologia? Se vi va bene sarà deserto, e avrete buttato via dei soldi, se vi va male vi cacceranno a fucilate fuori dal Paese. È una follia». A Emergency, diciamolo, queste follie piacciono. Ci piace vederle trasformarsi in progetti, giorno dopo gior-
no. E infatti il Centro di maternità, dal 2003 a oggi, ha visitato più di 68mila donne, ha fatto nascere oltre undicimila bambini, superando ormai i trecento parti al mese, ha effettuato 3.600 interventi chirurgici, ha garantito assistenza prenatale nei Centri sanitari di Emergency sparsi nella valle del Panshir e nelle province circostanti. Ma non solo. Presso il Centro di maternità – «Che bello un posto in cui gli uomini non possono entrare», per citare le parole della ministra della Sanità afgana mentre visitava le corsie – lavorano solo donne: ostetriche e ginecologhe internazionali e trentacinque donne locali che nel Centro hanno ricevuto formazione specializzata. All’inizio, il personale locale veniva da Kabul: nella valle del Panshir nessuna lavorava fuori casa e ogni giorno il pulmino di Emergency faceva la spola tra la capitale – dove la pressione culturale e familiare non era così forte – e il Centro di Anabah. Nel primo periodo di attività, abbiamo dovuto anche fare i conti con l’opposizione delle autorità religiose: il mullah locale, durante la preghiera del venerdì, aveva vietato a personale e pazienti di percorrere la strada principale per andare e venire dal Centro, obbligandole a un tortuoso giro per le montagne…Disonorevole era lavorare fuori casa, disonorevole percorrere la pubblica via per andare a farsi curare. Poi qualcosa ha iniziato a cambiare. La testa delle donne ha iniziato a cambiare: e soprattutto quella dei loro mariti, padri, fratelli. Che, lentamente, si sono resi conto che lavorare nel Centro era tutt’altro che disonorevole. Che le loro donne stavano imparando un mestiere qualificato, che avrebbero portato a casa uno stipendio, migliorando le condizioni di vita della famiglia, che sarebbero state stimate dalle altre donne e dagli altri uomini del villaggio per il loro lavoro, importante per la comunità. Nei mesi scorsi abbiamo festeggiato l’assunzione delle prime cinque ragazze originarie della valle del Panshir. È una piccola rivoluzione. Ma, soprattutto, è la loro rivoluzione.
Nell’ottobre 2001, quando è scoppiata quest’ultima guerra in Afghanistan, tra le varie bugie che ci hanno raccontato per giustificare l’intervento militare della coalizione internazionale c’era anche “la liberazione delle donne dall’oppressione e dall’oscurantismo” o, con un’immagine forte, “la liberazione dal burqa”. Sono passati dieci anni e, naturalmente, i burqa sono rimasti dov’erano. L’esperimento del Centro di maternità di Anabah – un esperimento di diritti praticati attraverso il lavoro e l’istruzione, anziché di diritti declamati a suon di bombe – invece ha funzionato. Qualcosa è cambiato. Certo non “la condizione delle donne afgane”: ma nella comunità attorno al Centro, lì, nella vita delle donne c’è qualcosa che prima non c’era. Una possibilità, un’immagine di futuro alternativo. Oggi, al cambio turno del personale, le ragazze escono a testa alta dal cancello dell’ospedale. Le bambine della scuola al di là della strada le salutano sorridendo, e ci piace pensare che a farle sorridere sia l’idea che queste ragazze portano con sé: che lavorare fuori casa non sia un disonore, ma una vittoria per tutti. Oggi, le ostetriche e le infermiere afgane che lavorano per Emergency camminano sulla strada principale: con grande orgoglio.
Il Centro in numeri Città: Anabah, valle del Panshir Inizio attività cliniche: giugno 2003 Aree di intervento: ostetricia e ginecologia, neonatologia Capacità: 25 posti letto Struttura del Centro: reparto di ostetricia, sala visita, ecografia, sala parto, terapia intensiva (5 posti letto), stanza di isolamento (3 posti letto), uffici e magazzino Il laboratorio e la sterilizzazione sono condivisi con il Centro medico-chirurgico di Emergency ad Anabah Personale locale: circa 35 tra personale medico e non medico Personale internazionale: una ginecologa e due ostetriche Pazienti ricoverati: 16.959 Interventi chirurgici: 3.698 Pazienti trattati in ambulatorio: 68.079 Bambini nati nel Centro: 11.213 (dati dall’apertura della struttura alla fine di marzo del 2011).
U Emergency ricerca ostetriche e ginecologhe per il Centro di Anabah.
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Le interessate possono trovare maggiori dettagli sul sito www.emergency.it nella sezione “Lavora con noi”. Per candidarsi occorre inviare una mail a curriculum@emergency.it, allegando un dettagliato CV, oppure utilizzare l’application form sul sito.
per inciso di
Gino Strada
foto Tano
D’Amico
fermiamoli in tempo Quando penso al futuro dei giovani, al mondo in cui si troveranno a vivere, ho paura. E anche qualche senso di colpa, perché il loro mondo sarà quello che noi gli consegneremo. Dove stiamo andando? Ce ne stiamo accorgendo? Ho trovato agghiacciante rileggere, dopo molti anni, Storia del Terzo Reich dello storico statunitense William Shirer. La descrizione della nascita e dello sviluppo del nazismo in Germania mi ha indotto a qualche riflessione su ciò che sta succedendo nel nostro Paese. Berlusconi non è Hitler, sia chiaro. E non lo sono neppure, per ora, quei rozzi e violenti istigatori all’odio e al razzismo che lo circondano. Mi sembra però – e questo mi dà angoscia – che tra i due periodi storici vi siano analogie preoccupanti nelle dinamiche sociali, nel modo in cui un processo di imbarbarimento viene vissuto e affrontato dai cittadini. A differenza di altri, Hitler andò al potere vincendo le elezioni. Elezioni libere per quanto possano essere libere le elezioni. Estese e consolidò il consenso attraverso anni di propaganda – e in molti casi anche di pratica – della “cultura” dell’odio, della vendetta, della guerra. Il delinquente che nel 1923 sparava in aria in una birreria di Monaco alla fine divenne Hitler. Alla fine. Un violento capopopolo non è diventato il Führer in una notte, prima ci furono dieci anni di voglia di guerra, di voglia di avere un nemico da uccidere. I cittadini tedeschi ed europei non seppero cogliere i sintomi precoci di una malattia potenzialmente mortale. Nessuno nei primi anni Venti, neppure chi lo sosteneva, si era “immaginato” Hitler. Quel delinquente ha potuto diventare Hitler perché era stato tollerato, sottovalutato, e ha potuto diffondere la “cultura” della guerra. Non fu fermato in tempo. Credo che alla fine noi europei ci ritrovammo Hitler perché in quei dieci anni non si fece abbastanza per contrastare quel cammino di barbarie. Io soffro nel vedere l’Italia: un Paese con una democrazia a pezzi, dove il potere incita volgarmente i cittadini a essere indifferenti, egoisti, intolleranti, ignoranti. E poi violenti e poi razzisti. E soffro nel vedere che in Italia la casta politica non ha alcuna voglia di invertire la rotta. Tutti insieme – governo e opposizione – nello scegliere la guerra. Tutti insieme nel demolire gli ultimi frammenti di res publica. Tutti insieme nel culto del dio denaro. Soprattutto del proprio. E soffro molto nel vedere che ancora una volta i cittadini hanno difficoltà a reagire. La voglia ci sarebbe, ma è spesso vanificata da frustrazione, indifferenza, rassegnazione, dal “non crederci più”. E si finisce per digerire tutto, un passo dopo l’altro. Non mi piace dove stiamo andando, anzi mi spaventa. Il mondo che noi di Emergency vogliamo è banalmente una società, anziché una giungla. Una società civile, che rispetta e coltiva alcuni semplici princìpi, indiscutibili e non negoziabili, perché sono i diritti di ognuno e di ciascuno di noi, membri di quella società. Il manifesto di Emergency non è un programma utopico. Al contrario, vivere in una società pacifica, giusta, solidale e rispettosa è un nostro diritto di cittadini. Un diritto che la casta politica ci ha espropriato e che bisogna riconquistare. In fretta, prima che sia troppo tardi.
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