Mensile Valori n. 131 2015

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Cooperativa Editoriale Etica

Anno 15 numero 131 settembre 2015

€ 4,00

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Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità MERCATO DELL’ARTE TRA SPECULAZIONI E RICICLAGGIO

finanza etica

BENESSERE COLLETTIVO MODELLO SOCIALE EUROPEO SUGLI ALLORI FUKUSHIMA IL DISASTRO È GIÀ COSTATO 50 MILIARDI DI EURO

internazionale

Dove va la Cina? 9 788899 095116

ISBN 978-88-99095-11-6

Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NE/VR.

economia solidale

La svalutazione dello yuan è l'ultimo segnale di una nuova fase: la crescita impetuosa è finita. Per non perdere consenso, Pechino va a caccia di una “nuova normalità”. Con l'incubo di bolle finanziarie e il rischio di una guerra monetaria


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valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


editoriale

LE OMBRE SUL SOGNO DI PECHINO di Silvia Menegazzi

L’AUTORE

SILVIA MENEGAZZI

È assegnista di ricerca presso il dipartimento di Scienze politiche dell’università Luiss Guido Carli di Roma. Sinologa, ha vissuto molti anni in Cina effettuando lunghi periodi di studio e ricerca presso diversi atenei cinesi. Ha conseguito un master in Relazioni internazionali presso l’OAS (School of Oriental and African Studies) di Londra e un dottorato in Teoria politica alla Luiss Guido Carli. Fa parte della redazione del portale d’informazione sulla Cina contemporanea Cinaforum.net. Può essere contattata al seguente indirizzo: menegazzi@luiss.it. valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

L

a Cina è entrata in una nuova fase di sviluppo. La base del suo modello – credito facile, manodopera a basso costo e politica economica fortemente orientata all’export – sembrerebbe, a detta di molti, ormai logora. La Cina del futuro sarà caratterizzata da uno sviluppo “normale”: una crescita annua del 6-7% (stima la Banca mondiale), garantita dal sostegno dell’aumento della domanda interna e, in particolare, dei consumi privati. In Asia, così come per molti altri Paesi in Africa o in America Latina, il modello cinese, alternativo alle politiche neoliberiste di matrice occidentale, è apparso per lungo tempo come vantaggioso e, per alcuni aspetti, da imitare. Quando però, nel 1978, Deng Xiaoping diede il via alla trasformazione del sistema economico grazie al pacchetto di riforme economiche più famoso della storia asiatica – le “Quattro Modernizzazioni” (agricoltura, industria, scienza e tecnologia, difesa) – in pochi avrebbero scommesso che, di lì a una manciata di anni, la Cina avrebbe raggiunto un elevato livello di prosperità e ricchezza. Nei primi anni Duemila, con le politiche attuate in seguito al 9° Piano quinquennale (1996-2000) e, in particolare, con l’accelerazione della riforma delle imprese pubbliche, l’industria di Stato attraversò una rapida crescita sia in termini di produttività sia di profittabilità. Non a caso, il tasso di crescita del Pil annuo nel decennio 2000-2010 è stato tra il 10 e il 12%. Il programma annunciato dalla leadership cinese nel 2011 per il 12° Piano quinquennale (2011-2016) ha evidenziato invece un modello di crescita destinato a differire profondamente da quello che ha guidato il Paese negli ultimi trent’anni, basato su tre principali obiettivi: una maggiore occupazione, l’aumento dei salari e la conseguente riallocazione dell’incremento del reddito dai risparmi alla spesa. Riuscirà la quinta generazione

al potere guidata dal carismatico leader Xi Jinping a garantire tutte le riforme necessarie al Paese? Per molti aspetti, quello della Repubblica Popolare Cinese è un percorso ancora tutto in salita, caratterizzato dalla necessità di attuare ingenti riforme strutturali sia in ambito economico che politico. Tra le sfide maggiori, figurano non solo l’aumento della domanda interna e quindi la crescita dei consumi, ma anche la diminuzione della forbice delle disuguaglianze economiche, il divario di sviluppo tra zone urbane e campagne, la riforma del sistema finanziario, la questione ambientale e l’invecchiamento della popolazione. La profonda crisi del mercato immobiliare, unita allo scollamento tra enfasi borsistica e redditività delle aziende, ha fortemente contribuito ad aggravare la crescente bolla economica, ma rappresenta solo uno dei motivi che spiegherebbero la tempesta finanziaria abbattutasi sulla Borsa di Shanghai lo scorso luglio facendo tremare le economie di tutto il mondo, Paesi emergenti in testa. A tutto ciò, si è aggiunta la recente svalutazione della moneta, che ha visto lo yuan perdere il 4,65 per cento di valore in soli tre giorni, spaventando i mercati internazionali e gli investitori stranieri. Ed è pur vero che, appena trentasette anni dopo le riforme inaugurate dal Piccolo Timoniere, una Cina modernizzata e arricchita gioca oggi un ruolo di primaria importanza nello scenario internazionale. Di fatto, con ogni probabilità la Cina diventerà la prima economia mondiale in valori assoluti entro il 2019, superando gli Stati Uniti. Il sogno cinese esemplificato nelle parole di Xi Jinping come il miglioramento delle condizioni di vita del popolo e nella costruzione di una società armoniosa sembrerebbe dunque dietro l’angolo. Il tutto dipenderà da come la leadership al potere deciderà di affrontare le insidie lungo il suo cammino. ✱ 3



sommario

settembre 2015 mensile www.valori.it anno 15 numero 131 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 ROC. n° 13562 del 18/03/2006 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Circom soc. coop. consiglio di amministrazione Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Maurizio Gemelli, Emanuele Patti, Marco Piccolo, Sergio Slavazza, Fabio Silva (presidente@valori.it). direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Mario Caizzone, Danilo Guberti, Giuseppe Chiacchio (presidente) direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) caporedattore vicario Emanuele Isonio (isonio@valori.it) redazione Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano (redazione@valori.it) hanno collaborato a questo numero Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Alberto Berrini, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Luca Martino, Mauro Meggiolaro, Valentina Neri, Paola Baiocchi, Andrea Vecci grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Carsten Frenzl, Ian A. Holton, Giovanni Panozzo, Giovanni Verlini (IAEA), Steve Webel, Pasu Au Yeung distribuzione Press Di - Segrate (Milano)

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Annuali

Euro 38 Euro 48 Euro 28 Euro 48

Biennali Euro 70 Euro 90 Euro 50 Euro 85

fotoracconto 01/04 Il traffico caotico nella notte di Beijing è la migliore testimonianza di un Paese in piena trasformazione che ha davanti a sé grandi opportunità e sfide altrettanto cruciali. Su tutte: affrontare le enormi disuguaglianze che si sono create al suo interno nonostante i propositi ufficiali del regime.

dossier

8 DOVE VA LA CINA?

L’inattesa svalutazione dello yuan, decisa dalla Banca centrale cinese, è l’ultima prova di una crescita ormai in frenata. Ma molti sono i temi che dovrà affrontare il governo: dalla crisi ecologica alle bolle azionarie che rischiano di minare la stabilità interna.

global vision finanza etica

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L’arte mondiale preda del denaro Chi guadagna dai Comuni in crisi? Buona finanza, numeri in crescita

19 22 24

la mappa del mese Terremoto greco economia solidale

28

Modello sociale, quante lodi per l’Europa L’impresa sociale conquista il mondo Sicurezza alimentare in balìa del meteo Zalando. Se questo è un lavoro

31 33 36 38

social innovation internazionale

43

Fukushima, il disastro costa 50 miliardi Obama senza armi nella lotta alle lobby Export-boom per l’arsenale di Seul Sacrifici umani per il dio Pallone

45 48 50 52

bancor

54

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fotoracconto 02/04

È una realtà complessa da comprendere la Cina, per chi ha lenti a contatto forgiate dalla cultura occidentale: il retaggio di un impero millenario, una popolazione di oltre un miliardo e trecento milioni di persone divise in cinquantacinque etnie, le “nuove” solide basi gettate dalla Rivoluzione culturale di Mao Zedong, un Partito unico sempre più onnipresente che però, a differenza di altre esperienze totalitarie fallimentari, ha garantito una impennata impressionante al Prodotto nazionale e ai redditi. Ma a quale prezzo? Disuguaglianze sociali evidenti, un impatto ambientale 6

impressionante (la Cina è ormai il primo produttore di CO2, il 60% delle sue falde acquifere è contaminato, come il 16% del suolo e il 20% dei terreni agricoli). C’è poi il fronte irrisolto dei diritti umani mai veramente concessi, delle libertà civili per le minoranze sempre negate, dei diritti sindacali tutelati solo sulla carta. E nel prossimo futuro, bolle speculative in fase di esplosione, dall’immobiliare, alla finanza, alle quotazioni borsistiche. Eppure il castello di carte è ben lungi dal crollare: mostra anzi di essere vivo, vegeto e con legittime mire di espandere la propria influenza

a livello planetario. Un mondo nel mondo, a sua volta composto da tante tessere come un mosaico che più di un fotoracconto richiederebbe una imponente mostra fotografica. Per leggerlo (e legittimamente giudicarlo) occorre quindi camminare sulle uova. Tenendo conto, per quanto possibile, dei tanti fattori in gioco. Una visione parziale impedirebbe di capire come mai, nonostante tutto, un modello con milioni di pecche continua ad avere un innegabile consenso sociale. E renderebbe impossibile proporre correttivi realisticamente accettabili.

Passerà alla storia come “rivoluzione degli ombrelli” quella a cui ha assistito Hong Kong dal 26 settembre 2014: la decisione del Congresso del popolo di ammettere alle elezioni solo i candidati scelti dal Partito comunista spinse migliaia di studenti a occupare le strade davanti alla sede del Governo. Da lì prese il via una serie di manifestazioni fino a metà dicembre alle quali aderirono centinaia di migliaia di cittadini.

FOTO: HTTPS://WWW.FLICKR.COM PASU AU YEUNG

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global vision

Una “pace cartaginese”

Lezioni al mondo dalla piccola Grecia di Alberto Berrini

n questo luglio 2015 si è concluso l’ennesimo capitolo del “caso Grecia”, che, è importante non dimenticare, scoppiò nel maggio 2010, all’indomani della grande recessione mondiale 2008/2009. Si tratta chiaramente di un capitolo di un libro ancora lontano dall’essere giunto alla conclusione. Se da un lato è stato infatti scongiurato il default dello Stato ellenico con un nuovo salvataggio, dall’altro è evidente che siamo molto distanti dall’aver individuato un percorso economico che porti il Paese fuori dall’emergenza. L’accordo Grecia-Troika (Ue, Fmi, Bce) si è alla fine trovato, ma, come avrebbe detto Keynes, si tratta di una “pace cartaginese”: nel 1919 l’economista inglese, delegato del Ministero del Tesoro britannico, abbandonò polemicamente la Conferenza di pace di Versailles, sostenendo che le eccessive riparazioni di guerra imposte alla Germania avrebbero condotto questo Paese a una gravissima crisi economica senza per altro produrre alcun sostegno alla depressione post-bellica dei Paesi vincitori.

I

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Keynes sosteneva che in quella conferenza nessuno aveva posto attenzione al «fondamentale problema economico di un’Europa che languiva di fame e si sgretolava davanti ai loro occhi. (…) Chiedendo l’impossibile hanno sacrificato la sostanza all’apparenza, e alla fine perderanno tutto». A questo punto è sicuramente difficile fare previsioni sugli sviluppi del “caso Grecia”. L’esito dipenderà sia dalle successive scelte di politica economica dell’Europa ma anche dall’evoluzione dell’economia mondiale attualmente alle prese con ben più gravi pericoli, almeno per le dimensioni in gioco. In particolare, il rallentamento della Cina e il possibile scoppio della bolla finanziaria presente in questo stesso Paese. Ma, fin da ora, possiamo trarre almeno due significative riflessioni. La politica economica europea tende a confondere “riforme strutturali” e “tagli di spesa pubblica”. Le prime, sicuramente in alcuni casi necessarie, soprattutto in alcuni Paesi (è difficile negare che le legislazioni relative al mercato del lavoro e welfare richiedano profonde revisioni alla luce dell’evoluzione del sistema economico mondiale) non coincidono con i secondi. I tagli di spesa devono tenere in grande considerazione anche il momento congiunturale in cui dovrebbero essere attuati. È infatti proprio la contrazione dell’economia ad essere il principale ostacolo all’attuazione di un piano di riforme. Inoltre, il più grande fallimento dell’economia di mercato del secondo dopoguerra (“crisi subprime”) in particolare nel suo ambito finanziario, è stato trasformato dalla narrativa neoliberista in un problema di eccesso di spesa pubblica. La grande crisi provocò un tentativo di governance mondiale dell’economia suggellato dal neonato G20 (Londra, aprile 2009), che diede fondamento politico alle politiche antirecessive già attuate e da attuare per evitare il crollo dell’economia mondiale. Di quel tentativo non rimane nulla se non nelle specifiche politiche economiche realizzate nelle diverse aree economiche del pianeta. Sappiamo che soprattutto Europa e Stati Uniti hanno preso strade assai differenti. Ma al di là dei risultati, il “deficit democratico” segnalato dall’incapacità della politica di governare l’economia, oggi più di allora, rimane una ferita aperta sul futuro dello sviluppo mondiale. E “la piccola Grecia” è lì a dimostrarlo. ✱ 7


DOSSIER

A CURA DI matteO cavaLLitO

L’economia che rallenta, la crisi ecologica, le bolle immobiliari e azionarie impongono riflessioni profonde al governo di Pechino

fotoracconto 03/04

Valori vi guida in un viaggio tra i punti di forza, le fragilità e le ambizioni future di un sistema ancora oggi poco compreso in Occidente

Una visione crepuscolare della piazza antistante la Torre Yueyang, monumento principale della città omonima, nella provincia dello Hunan. Il simbolo della potenza imperiale fatta edificio (è tra le tre più celebri della Cina meridionale): costruita nel 716 per scopi di difesa, domina l’antica porta occidentale della località e permette di tenere sott’occhio il sottostante lago Dongting.

10 / La ricerca della normalità 12 / Borsa, case e debiti: il Paese delle bolle 14 / Aspettando la rivoluzione verde 16 / La via di Pechino al consenso

DIETRO DELLA


STEVE WEBEL

LE QUINTE NUOVA CINA


DOSSIER DIETRO LE QUINTE DELLA NUOVA CINA

La ricerca della normalità L’economia cinese si espande al ritmo più basso dal 1990: la frenata appare fisiologica, anche a causa delle trasformazioni che attraversano il Paese. Dietro l’angolo l’esigenza di aprire una nuova fase

G

li osservatori più allarmisti parlano già di “guerra valutaria”. Gli analisti più cauti, al contrario, si limitano a ipotizzare una semplice scossa di aggiustamento. Ma la sensazione prevalente, in ogni caso, è che l’attendismo sia d’obbligo. Almeno fino all’agognata contromossa targata Fed. Ci vorranno settimane, o più probabilmente mesi, per decifrare fino in fondo il reale significato del coup de théâtre realizzato da Pechino lo scorso agosto. I tre interventi di svalutazione compiuti dalla banca centrale (PBoC) nello spazio di tre giorni, assicurano le autorità cinesi, avrebbero già ricondotto la moneta nazionale al suo reale valore di mercato, scongiurando, con ogni probabilità, ulteriori “correzioni” future. Ma le rassicurazioni ufficiali, inutile negarlo, non sembrano sufficienti per placare il nervosismo di Europa e Stati Uniti, che nel deprezzamento artificiale dello yuan vedono soprattutto uno stimolo all’export del dragone e, va da sé, una minaccia implicita alla salute delle bilance commerciali delRitmi di cRescita deLL’ecOnOmia naZiOnaLe: 1980-2017 FONTE: BANCA MONDIALE (HTTP://DATA.WORLDBANK.ORG). *STIME. LUGLIO 2015

16 15,2

14

14,3

14,2

12 10

10,6

7,0

6 4 2

2010

2005

2000

1995

1990

1985

1980

2015* 2016* 2017*

3,9

0

10

6,9

7,1

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le grandi economie del Pianeta. In attesa di nuovi sviluppi, in ogni caso, una cosa sembra essere certa: l’operazione compiuta dalla PBoC non è che l’ultimo segnale, in ordine di tempo, di una nuova fase storica. Una contemporaneità fatta di cambiamenti sostanziali, dettati, inevitabilmente, dai grandi numeri.

FRENATA CONTROLLATA Nel 2015, dicono le stime della Banca Mondiale, l’economia cinese dovrebbe crescere del 7,1%, il ritmo di espansione più basso da 25 anni a questa parte, segnando così il quinto rallentamento consecutivo su base annuale. Un trend che pare destinato a confermarsi anche in futuro (vedi GRAFICO ) ma che non giustifica, in ogni caso, una visione allarmista. «Una crescita del 6-7% annuo è perfettamente normale» spiega Carlo Filippini*, professore emerito di Economia politica dell’Università Bocconi di Milano. «Nel confronto con il resto del mondo negli ultimi 70 anni, semmai, la vera anomalia era costituita dall’espansione a doppia cifra del Pil per più di 30 anni». Il rallentamento dell’economia cinese, spiega ancora, appare quindi del tutto fisiologico. Non l’effetto di una crisi vera e propria, insomma, quanto piuttosto il sintomo di una transizione consapevole guidata dalle scelte del governo: la crescita a doppia cifra percentuale da perseguire a tutti i costi, si pensa da qualche tempo a Pechino e dintorni, non fa più parte dell’agenda nazionale. Quello che serve, ora, è al contrario un’espansione “di qualità”, uno sviluppo decisamente meno frenetico e più cauto: un “new normal”, come si ripete da qualche tempo, che garantisca un certo equilibrio e non si traduca, come in passato, nella corruzione di massa e nella devavalori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


DIETRO LE QUINTE DELLA NUOVA CINA DOSSIER

stazione ambientale – due problemi che l’esecutivo sta affrontando da qualche anno con impegno crescente – e che, ovviamente, allarghi i confini stessi della presenza cinese nel mondo, in senso economico e politico (vedi BOX ). Due dimensioni che tendono a sovrapporsi.

LE CARENZE DEL WELFARE LOCALE I cambiamenti strutturali sperimentati dalla Cina, nota ancora Carlo Filippini, si riflettono sia sul lato dell’offerta – «l’incremento del peso dei servizi sull’economia» – sia su quello della domanda. «I consumi interni, in particolare, stanno crescendo ma sono ancora bassi rispetto alla media delle economie più avanzate. In queste ultime, tipicamente, la somma di spesa pubblica e consumi familiari ammonta all’80% circa del Pil contro il 50% circa registrato in Cina. Un livello ancora ridotto su cui pesa l’elevata propensione al risparmio». I margini di espansione, quindi, non sembrano mancare. Ma le insidie sono dietro l’angolo. A sottolinearlo, in particolare, è proprio la parabola del risparmio, il cui accumulo, in Cina, è una tradizionale conseguenza delle carenze del welfare locale. Un apparato fortemente limitato, quest’ultimo, soprattutto nel caso del sistema sanitario che, ricorda Silvia Menegazzi, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Luiss di Roma e collaboratrice del portale Cinaforum, «resta piuttosto inadeguato, con buona parte delle cure tuttora a carico dei cittadini». La crescita del risparmio, di per sé, rappresenta ovviamente un fenomeno positivo. Ma il guaio, ovviamente, è che di fronte a un mercato finanziario pericolosamente volatile, la presenza di un’ingente massa di capitali che chiede soltanto di essere investita rischia di gettare ulteriore benzina sul fuoco. Non è un mistero che siano stati anche i fondi degli investitori retail (leggi: i privati cittadini) a gonfiare le Borse di Shanghai e Shenzen nel loro semestre mirabilis. E non è un mistero, né una novità, che a patire maggiormente le perdite siano stati soprattutto coloro che non avevano i mezzi per sopportarle nel loro successivo periodo horribilis, vale a dire gli stessi risparmiatori (vedi BOX a pagina 12). Il crac della “bolla cinese” sperimentato dai mercati finanziari a inizio estate ha attirato l’attenzione sulle borse. Ma le turbolenze del sistema finanziario, come spiegheremo in queste pagine, costituiscono soltanto uno degli aspetti problematici che caratterizzano il modello di sviluppo cinese. Stimolandone, e va da sé condizionandone, l’evoluzione stessa. [m.Cav.] ✱ * L’intervista integrale è pubblicata su www.valori.it valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

UNA PreseNzA globAle il boom Degli ACQUisTi Di imPrese esTere

Una crescita a ritmi sempre più sostenuti. È quella evidenziata dalle acquisizioni di imprese estere (o di quote di progetti di queste ultime) da parte delle società cinesi. Nel 2014, ricorda tra gli altri il quotidiano finanziario londinese City AM, le imprese di Pechino hanno operato acquisizioni all’estero per quasi 47 miliardi di dollari, dieci volte tanto l’ammontare registrato nel 2004, e il trend, assicurano gli osservatori, è destinato a confermarsi anche quest’anno. «Per la prima volta dal 2010 ci attendiamo quattro trimestri consecutivi di crescita del volume delle operazioni» ha sostenuto in particolare Iain Macmillan, analista di Deloitte, ripreso dallo stesso quotidiano. Un’espansione su cui potrebbe pesare l’atteso via libera che dovrebbe condurre il gigante cinese dell’Hi Tech Tsinghua all’acquisto della statunitense Micron con un’operazione record da 23 miliardi. I numeri impressionano, ma i risvolti non sono solo finanziari. «È stato dopo le Olimpiadi del 2008 che la Cina è uscita davvero allo scoperto con l’obiettivo di trasformarsi in un Paese di primo piano anche in senso geopolitico» spiega Silvia Menegazzi, ricercatrice dell’Università Luiss di Roma. «Pechino punta ad avere un peso politico internazionale che sia pari a quello economico» osserva ancora Carlo Filippini, dell’Università Bocconi. «Uno degli strumenti chiave per il raggiungimento di questo obiettivo è quello di investire direttamente all’estero in modo strategico, ovvero acquisendo quote di banche o società industriali di alto livello». Ad oggi, ha ricordato di recente la CNBC, le 10 maggiori operazioni condotte dagli investitori cinesi (la maggior parte delle quali negli ultimi quattro anni) nel mercato statunitense hanno movimentato da sole oltre 30 miliardi di dollari (vedi INFOGRAFICA ).

LE TOP 10 DELLE ACQUISIZIONI CINESI NEGLI USA

01 03 05 07 09

SHUANGHUI INTERNATIONAL  Smithfield Foods Alimentare, 2013

$ 7,1 mld

02

CHINA INVESTMENT CORP  Blackstone (10%) Finanza, 2007

$ 3,0 mld

04

DALIAN WANDA  AMC Entertainment Holdings Entertainment, 2012

$ 2,6 mld

06

CNOOC

 Progetto estrattivo Chesapeake Energy (33%) Petrolio, 2010

$ 2,2 mld

08

ANBANG INSURANCE

 Waldorf Astoria Immobiliare, 2015

$ 1,95 mld

FONTE: NOSTRE ELABORAZIONI DA CNBC, “HOPE FOR TSINGHUA? THE CHINA-US DEALS THAT DID GO THROUGH” (15 LUGLIO 2015). LE ACQUISIZIONI RIGUARDANO SOCIETÀ O PROGETTI SPECIFICI DI QUESTE ULTIME. TRA PARENTESI LA QUOTA ACQUISITA.

10

CHINA INVESTMENT CORP  Morgan Stanley (9,9%) Finanza, 2007

$ 5,6 mld

LENOVO

 Motorola Mobility Holdings Hi Tech, 2014

$ 2,9 mld

CHINA PETROCHEMICAL  Progetto estrattivo Devon Energy (33%) Petrolio, 2012

$ 2,4 mld

LENOVO

 IBM's x86 server unit Hi Tech, 2014

HUA CAPITAL, CITIC CAPITAL, GOLDSTONE INVESTMENT (CONSORZIO)

$ 2,0 mld

+

$ 1,86

 OmniVision Technologies Hi Tech, 2015

mld

11


DOSSIER DIETRO LE QUINTE DELLA NUOVA CINA

Borsa, case e debiti Il Paese delle bolle Dalla speculazione immobiliare a quella azionaria. I mercati cinesi, grazie al contributo di moltissimi piccoli risparmiatori, si espandono a ritmi elevati. Condizionati da un indebitamento crescente e dall’aumento del rischio

I

l numero, spaventoso, è 1.479. Sono i punti bruciati dall’indice della Borsa di Shanghai, la principale del Paese, tra il 12 giugno 2015, data del picco storico, e il 3 luglio scorso, l’ultima giornata di contrattazioni che ha preceduto la prima, momentanea, inversione di tendenza. In termini relativi significa -28,6% in tre settimane. In termini di capitalizzazione, qualche migliaio di miliardi di dollari bruciati dall’onda del ribasso, con il conto che sale a quota 3,5 trilioni di biglietti verdi includendo nel calcolo l’altra maxi-piazza borsistica della Cina continentale, quella di Shenzhen. Un crac a 12 zeri. Equivalente – per fare un paragone – a qualcosa come il Pil della Germania, la quinta economia del mondo. Nelle settimane seguenti, complici le misure d’emergenza del governo, le perdite sono state parzialmente riassorbite. Ma la successiva ricaduta sperimentata a fine luglio ha riacceso la tensione riportando alla ribalta quell’affermazione che analisti e commentatori avevano tenuto a lungo nel cassetto: “è scoppiata la bolla cinese”. Amen.

sUi merCATi fiNANziAri viNCoNo solo i grANDi

la parabola della borsa cinese si sarebbe tradotta essenzialmente in un trasferimento di ricchezza “dall’uomo della strada al ricco”, ovvero dai piccoli investitori ai grandi azionisti capaci di “fare cassa” in tempo. Lo ha sostenuto David Cui, analista di Bank of America, in una nota ripresa a luglio da Business Insider. Determinanti i tempi e modi dell’investimento: dopo aver sperimentato la crescita del valore dei titoli, i grandi operatori hanno accelerato la vendita di questi ultimi – tra il mese di gennaio e il maggio di quest’anno, nota Cui, le vendite nette effettuate dai maggiori azionisti sono state pari a 360 miliardi di yuan (58 miliardi di dollari) contro i 100 miliardi annuali medi registrati prima del 2014 – trovando il sostegno della forte domanda dei piccoli risparmiatori che, nota Cui, hanno finito per puntare tutto sulle opportunità offerte dal mercato. Inevitabile, dopo il crollo della Borsa, che a patire le maggiori conseguenze siano stati proprio questi ultimi. 12

CRESCITA ARTIFICIALE Il termine chiave è decoupling, letteralmente “sganciamento”. Ovvero una divergenza tra due fenomeni apparentemente collegati tra loro. Come espansione e crescita dei mercati, per dirne una. E l’esempio non è certo casuale. Nell’ultimo anno e mezzo, come si diceva, l’economia cinese ha registrato un rallentamento record. Eppure, nel medesimo periodo, il principale indice borsistico del Paese, quello di Shanghai, è cresciuto del 145% con un’accelerazione clamorosa nel primo semestre 2015 (vedi GRAFICO ). Ad aprile, rivelava un’indagine di State Street Corporation, una società finanziaria di base a Boston, l’81% dei piccoli risparmiatori cinesi affermava di operare in Borsa almeno una volta al mese. Negli Stati Uniti, osservava la ricerca, si superava di poco quota 50%. In Giappone ci si attestava al 60%. Alla fine di maggio, Shanghai e Shenzhen capitalizzavano insieme circa 10,3 trilioni di dollari, circa il doppio del controvalore del Nikkei, l’indice di riferimento della Borsa di Tokyo. Il contributo dei risparmiatori al boom della Borsa è difficile da quantificare ma di certo non può essere ignorato. «Buona parte del denaro che affluisce nella Borsa – notava di recente la CNN – viene da investitori individuali che in passato avevano messo i loro risparmi nel mercato immobiliare. Ora che la bolla sperimentata da quest’ultimo si sta sgonfiando, ecco che gli stessi investitori si lanciano sui titoli azionari». E qui l’inciso è d’obbligo, ovviamente. «Nei decenni passati centinaia di milioni di lavoratori si sono trasferiti dalle campagne alla città con il sostegno del governo» ricorda Carlo Filippini, professore emerito di Economia politica alla Bocconi di Milano. «Un fenomeno non privo di conseguenze visto che la costante emigrazione verso le città ha frenato la pressione salariale alimentando inoltre la domanda di alloggi che ha favorito la forte crescita valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


DIETRO LE QUINTE DELLA NUOVA CINA DOSSIER

l’iNDebiTAmeNTo vAle Tre volTe il Pil

28,2 trilioni di dollari, ovvero il 282% del Pil. È il valore totale dei debiti pubblici e privati cinesi stimato dalla società di ricerca e consulenza McKinsey. Il dato evidenzia come la clamorosa crescita dell’indebitamento nazionale viaggi a ritmi superiori rispetto all’espansione dell’economia: i 2.100 miliardi totali registrati a inizio secolo equivalevano all’epoca al 121% del Pil contro il 158% del controvalore rilevato sette anni più tardi (7,4 trilioni) (vedi GRAFICO 1 ). Determinante la crescita dei prestiti ai cittadini e il crescente effetto leva sperimentato dalle società finanziarie (vedi GRAFICO 2 ). Se dal 2000 al 2014 il peso del debito governativo sul Pil è più che raddoppiato (dal 23 al 55% del Pil), quello registrato dai debiti dei privati cittadini è quasi quintuplicato (dall’8 al 38%). Rispetto al 2000, il peso dell’indebitamento delle società finanziarie vale quasi dieci volte tanto (dal 7 al 65% del Pil). Più contenuta l’espansione dei prestiti alle società non finanziarie, che nel medesimo periodo è cresciuta “appena” del 50% (dall’83 al 125% del Pil). FONTE: MGI COUNTRY DEBT DATABASE; MCKINSEY GLOBAL INSTITUTE ANALYSIS (FEBBRAIO 2015). *1° SEMESTRE.

[in % sul Pil]

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38

250 200

250

valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

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23 2000 Governo Imprese

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24 7

0

100

65 55

42

0

2007 2014* Soc. finanziarie Cittadini

25

15

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121

5

7,4

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2000 2007 % sul Pil Valore assoluto

2014*

0

apre le porte a una fase restrittiva. Difficile che il governo possa utilizzare ancora a lungo lo strumento del credito per stimolare la crescita. Più probabile, a questo punto, che si faccia il ricorso alla leva fiscale». Il new normal, in fondo, è anche questo. [m.Cav.] ✱ La bORsa di shanghai 2014-15

FONTE: YAHOO FINANCE (HTTPS://IT.FINANCE.YAHOO.COM/), ACCESSO AL 31 LUGLIO 2015.

5500,00 5000,00 4500,00 4000,00 3500,00 3000,00 2500,00 2000,00

2015-07

2015-05

2015-02

2014-09

2014-06

1000,00

2014-03

1500,00 2014-01

L’accumulo del risparmio privato cinese è storia nota. Ma la sua parabola di crescita non basta a spiegare il fenomeno della corsa all’investimento. Ad alimentare la bolla azionaria, nota ad esempio Massimo Scolari, segretario generale di Ascosim, associazione delle Società di consulenza finanziaria, sarebbero stati «acquisti finanziati in larga parte dal credito, come evidenzia, per altro, l’incremento del debito privato nel Paese». Un vero e proprio fardello, quest’ultimo, cresciuto a ritmi assai più sostenuti rispetto all’economia e che, ad oggi, varrebbe qualcosa come 28.200 miliardi di dollari (vedi BOX ). Quello dell’indebitamento crescente resta un problema essenziale. In parte per ovvie ragioni di trasparenza – l’attendibilità dei dati forniti dalle amministrazioni locali cinesi è da tempo in discussione (vedi Valori n. 97, marzo 2012) – in parte per le sue ricadute di sostenibilità in un contesto di politica espansiva (il quantitative easing di Pechino, per così dire) che il governo continua a promuovere in risposta al rallentamento economico e in cui i margini di manovra sembrano destinati a restringersi. «È dal 2008 che il governo cinese sostiene la crescita con una politica creditizia espansiva» spiega ancora Massimo Scolari. «La sensazione, però, è che si sia arrivati ormai a una situazione non più sostenibile che

100

30

282

20

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20 8

UN FARDELLO DA 28MILA MILIARDI

[in % sul Pil e in trilioni di dollari]

200

125

150

FONTE: MGI COUNTRY DEBT DATABASE; MCKINSEY GLOBAL INSTITUTE ANALYSIS (FEBBRAIO 2015). *1° SEMESTRE.

2,1

300

2. iL PesO deL debitO 2000-2014

28,2

1. i debitORi cinesi: 2000-2014

2014-11

del prezzo degli immobili». Gli effetti, verrebbe da dire, sono noti: città fantasma, case vuote dal valore “incerto”, fallimenti e debiti. Tutte ragioni sufficienti per indurre molti investitori a cambiare obiettivo e a trasferire, di conseguenza, la medesima dinamica della bolla da un ambiente speculativo a un altro. Diventando, a conti fatti, le inevitabili vittime della successiva “correzione” del mercato (vedi BOX ).

13


DOSSIER DIETRO LE QUINTE DELLA NUOVA CINA

Aspettando la rivoluzione verde Lo sviluppo economico nazionale ha generato un impatto enorme sull’ambiente. La situazione resta critica. Ma il cambio di rotta, a quanto pare, è già iniziato e promette di ridurre l’uso del carbone

M

eno 5,2%. È la variazione dell’ammontare totale di emissioni di CO2 originate dalla combustione delle fonti fossili (la principale causa di rilascio di biossido di carbonio nel panorama delle attività umane) registrata in Cina nei primi quattro mesi del 2015 nel confronto con il medesimo periodo dell’anno precedente. A rivelarlo, lo scorso mese di maggio, un’analisi a cura di Greenpeace/Energydesk China che ha evidenziato, in particolare, la forte inversione di tendenza nell’utilizzo del carbone. Nel mix delle fonti fossili, rileva infatti l’indagine, il consumo di quest’ultimo è diminuito del 7,7%, sempre su base annuale, tra l’inizio di gennaio e la fine di aprile. Determinante il calo della produzione – meno 7,4% in 12 mesi – grazie soprattutto alle iniziative del governo che, di recente, ha imposto la chiusura delle operazioni in oltre un migliaio di miniere. Un se14

gnale chiaro, quest’ultimo, del cambio di rotta imposto con sempre maggiore fermezza dall’esecutivo in campo ambientale.

IL NODO EMISSIONI Ma qui occorre fare un passo indietro di qualche decennio, tornando, per così dire, all’origine del problema. Tra il 1990 e il 2006, notava in passato l’Agenzia ambientale olandese (Netherlands Environmental Assessment Agency), le emissioni di biossido di carbonio derivanti dall’utilizzo delle fonti fossili sono aumentate su scala globale del 35% circa. Nel maggio del 2007, la stessa agenzia annunciava l’atteso sorpasso della Cina che, con emissioni per 6,2 miliardi di tonnellate registrate nell’anno precedente, aveva conquistato il poco invidiabile primato in classifica davanti allo storico leader mondiale della CO2: gli Stati Uniti. Da allora il trend di crescita è stato confermato e gli allarmi sulle conseguenze per l’ambiente si sono susseguiti senza sosta. Nel 2014, tuttavia, è arrivata la prima svolta: nel corso dell’anno, hanno riferito le autorità cinesi, la produzione nazionale di carbone è calata del 2,1% su base annuale registrando così la prima contrazione del XXI secolo. Nello stesso anno, ha ricordato l’Agenzia Internazionale per l’Energia (International Energy Agency, IEA), le emissioni globali di CO2 provocate dal settore energetico sono rimaste invariate, evidenziando la prima “stagnazione” in condizioni di espansione economica (la crescita del Pil globale) in quarant’anni. Uno stop su cui pesa il calo cinese: un meno 2% nella dispersione di biossido di carbonio dal comparto fossile tra il gennaio e il novembre dello stesso anno. Nel giugno scorso, uno studio della London School of Economics ha addirittura ipotizzato che la Cina possa raggiungere il suo picco di emissioni totali (da combustione fossile e da altri fattori, come cementificazione e deforestazione) entro il 2025, avviando valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


DIETRO LE QUINTE DELLA NUOVA CINA DOSSIER

così l’atteso processo di decrescita con cinque anni di anticipo rispetto alla data obiettivo (il 2030) fissata in precedenza dal governo.

ALLARME INQUINAMENTO A confermare l’ipotesi è Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia, che ricorda come, a fronte delle analisi disponibili, la Cina potrebbe «anticipare sensibilmente» la data del picco rispetto alle previsioni iniziali. Secondo Onufrio, l’attesa inversione di tendenza potrebbe essere già in corso, anche se «gli obiettivi climatici di Pechino», sebbene «più seri e incisivi rispetto al passato», al momento «non sono ancora adeguati». Il fatto è che anni di crescita basata sul carbone hanno portato con sé due aspetti critici: l’ampio utilizzo delle risorse idriche (associato proprio alla produzione di carbone) e, ovviamente, la qualità dell’aria. «L’inquinamento dell’aria in Cina è estremamente preoccupante» spiega ancora a Valori. «Sull’impatto da Pm 2.5 (il cosiddetto “particolato fine”, ndr), alla cui esposizione è associata una significativa mortalità, abbiamo prodotto un rapporto relativo a 31 delle città cinesi capoluogo di regione che indica in 275mila il numero di morti premature all’anno». Proiettando il dato sull’intera popolazione cinese nello stesso arco temporale, conclude, «avremmo oltre un milione di morti».

foNTi riNNovAbili leADershiP globAle

PROVE DI SVOLTA Il quadro, insomma, resta poco rassicurante. Ma gli spunti di ottimismo non mancano. Da un lato, infatti, c’è l’impressionante crescita del comparto rinnovabili che vede la Cina sempre più leader mondiale del settore, come confermano i dati Frankfurt School/UNEP/BEF (vedi BOX ). Dall’altro c’è la sensazione di un impegno ad ampio raggio che pare identificare un rinnovato impegno nella stessa agenda politica in materia ambientale. Quelli orientati verso la riduzione dell’impiego di carbone nel mix energetico, ricorda infatti Onufrio, non sono gli unici sforzi messi in campo negli ultimi tempi dal governo cinese. «La campagna Detox di Greenpeace per l’eliminazione di sostanze tossiche dal settore tessile ha il suo epicentro proprio in Cina» spiega ancora. L’adesione «di diverse aziende» attive nel Paese ai criteri imposti dall’iniziativa («l’eliminazione progressiva di undici classi di sostanze chimiche»), precisa, avrebbe già determinato un riscontro favorevole da parte dell’esecutivo nella regolamentazione dei composti pericolosi nel settore tessile. «Il XII piano quinquennale incoraggia a sostituire i perfluorurati e include diverse sostanze – tra cui i nonilfenoli, banditi a metà luglio dall’Unione Europea – nella lista delle “sostanze prioritarie” che le aziende dovranno tracciare, sia in fase di utilizzo sia di smaltimento, e che in prospettiva dovranno essere eliminate». Un buon inizio. [m.Cav.] ✱

Primo importatore mondiale di petrolio, primo emittente globale di CO2. Ma anche primo investitore del Pianeta nel comparto delle risorse rinnovabili. È la Cina odierna, fotografata dal più recente rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA, maggio 2015). Un Paese tuttora ampiamente dipendente dalle fonti fossili, certifica la relazione, ma decisamente proiettato, al tempo stesso, verso le risorse “verdi”. Nel corso del 2014, dicono le cifre dell’ultimo rapporto congiunto (marzo 2015) della Frankfurt School of Finance & Management, del Programma per l'Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) e di Bloomberg Energy Finance (BEF), la Cina ha investito nel comparto rinnovabili 83,3 miliardi di dollari, il 33% in più rispetto all’anno precedente (nonché il 2677% in più rispetto al 2004 - vedi GRAFICO ), che garantiscono a Pechino la leadership mondiale davanti agli Stati Uniti, secondi con 38,3 miliardi mobilitati lo scorso anno. Nel Paese, ricorda il direttore esecutivo di Greenpeace Italia, Giuseppe Onufrio, «la produzione di elettricità da fonte eolica ha superato quella nucleare già da due anni, mentre gli investimenti nel solare fotovoltaico continuano a crescere in modo sorprendente, al punto che nel solo 2014 la Cina ha installato tanto solare quanto gli Stati Uniti in tutta la loro valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

storia». Per il 2015, precisa, si prevede «una nuova potenza installata pari a 35 GW, non distante dal totale installato a livello globale nel 2010». Gli investimenti cinesi, dicono le cifre del rapporto Frankfurt School/UNEP/BEF, coprivano nel 2014 il 31% circa del totale mondiale (vedi GRAFICO ) contro il 6,7 registrato nel 2004. Ad oggi, ricorda l’ultimo rapporto IEA, le rinnovabili coprono meno del 10% dei consumi energetici nazionali (grazie soprattutto al contributo dell’idroelettrico) ma Pechino, nota il rapporto, ha annunciato di voler raggiungere per lo meno quota 15% entro il 2020.

investimenti annuaLi neLL’eneRgia RinnOvabiLe: 2004-14

FONTE: NOSTRE ELABORAZIONI DA FRANKFURT SCHOOL-UNEP CENTRE/BNEF, “GLOBAL TRENDS IN RENEWABLE ENERGY INVESTMENT 2015”, MARZO 2015.

300

278,8

250

237,2

270,2 256,4 231,8

200

181,8 153,9

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100

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72,9

50

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0

3

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83,3 25,7 11,1 16,6

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49,1

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2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014

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DOSSIER DIETRO LE QUINTE DELLA NUOVA CINA

La via di Pechino al consenso Ricchezza e investimenti: la crescita economica ha creato negli anni un diffuso sostegno sociale. In futuro arriverà forse qualche concessione sui nuovi diritti. Ma non sul fronte della democrazia

I

l 5 giugno di 26 anni fa il leggendario scatto realizzato dal reporter dell’Associated Press Jeff Widener fece conoscere al mondo il “rivoltoso sconosciuto”: l’uomo che da solo, pacato e con una busta in meno, fronteggiava una colonna di carri armati. Era la sintesi fotografica della rivolta morente. L’immagine simbolo della repressione di piazza Tienanmen, soglia concettuale con cui siamo soliti rimarcare l’esistenza di un prima e di un dopo nella recente storia cinese. Da allora, dicono i dati della Banca mondiale, il Pil pro capite del Paese è cresciuto (al netto dell’inflazione) del 2358%, trasformando la Cina in una nazione immensamente più ricca. Ma non per questo più libera e democratica nel senso “occidentale” degli aggettivi. Sul fronte del lavoro e dei diritti sindacali, al tempo stesso, la situazione pare addirittura peggiorata (vedi BOX ) mentre la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, come se non bastasse, è cresciuta in modo sorprendente. A metà degli anni ’80, ammetteva lo scorso anno il People’s Daily, l’organo ufficiale del Partito Comunista, ripreso nell’occasione dal britannico Guardian, il livello di disparità misurato dall’Indice di Gini (0=perfetta uguaglianza, 1=disuguaglianza assoluta) si collocava a quota 0,45. Nel 2012, dicono le cifre ufficiali, il coefficiente era salito a 0,73 (contro lo 0,39 degli Usa, lo 0,34 del Regno Unito e lo 0,32 dell’Italia, i tre Paesi più diseguali dell’area Ocse). Un dato, quello cinese, che evidenziava forti disparità geografiche nei livelli del reddito disponibile, capace di oscillare tra i 7mila dollari procapite di Shanghai, il doppio della media nazionale, e i 1.600 del Tibet (vedi MAPPA ).

LA SFIDA DELLA POPOLARITÀ Le “criticità”, come si dice in questi casi, sono diventate insomma ancora più evidenti. Eppure, nel corso degli anni, il consenso generale non sembra averne risentito. Anzi. Nel 2002, sottolinea un sondaggio 16

del Pew Research Centre (luglio 2008), il 52% dei cinesi valutava positivamente lo stato dell’economia mentre il 48% si dichiarava soddisfatto della “direzione intrapresa dal Paese”. Nel 2008, afferma la stessa indagine, le percentuali erano salite rispettivamente all’82 e all’86%. A detta dei ricercatori i livelli più alti del mondo. La domanda, ed è questo il punto essenziale di tutta la questione, è inevitabile: al di là di ogni giudizio morale, è possibile per la Cina continuare a fare a meno delle tipiche libertà civili senza che la cosa produca eccessive tensioni? «C’è una parte di popolazione che resta consapevole della mancanza di democrazia ma la maggioranza dei cinesi, in ogni caso, non vede un’alternativa nel sistema democratico occidentale» spiega Silvia Menegazzi, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Luiss di Roma e collaboratrice del portale Cinaforum. Un consenso dipendente dalla crescita? «Probabilmente sì» aggiunge. «Ma la questione non riguarda tipicamente i “diritti” nel modo in cui li intendiamo noi occidentali. In altre parole è come se vi fosse un bilanciamento tra lo sviluppo economico e altri settori del consenso politico». È un problema essenziale, soprattutto per gli anni a venire. «In futuro, in condizioni di crescita “normale” dunque, il governo dovrà probabilmente estendere ulteriori diritti anche se non si tratterà ovviamente dei tipici diritti democratici quanto piuttosto di altri aspetti che nella società cinese vengono percepiti come estremamente importanti». Tra questi «il permesso di spostarsi liberamente e di risiedere ovunque nel Paese» ma anche «la riforma del sistema sanitario» (poche, a oggi, le cure erogate gratuitamente), «la garanzia di rinnovamento della classe dirigente» (gli alti funzionari cinesi lasciano ogni incarico dopo i 68 anni di età), la maggiore tutela dell’ambiente e la lotta alla corruzione. «Un problema molto sentito», quest’ultimo, che ha indotto il governo «ad avviare nel 2012 un giro di vite apprezzato dalla popolazione». valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


DIETRO LE QUINTE DELLA NUOVA CINA DOSSIER

oNg e risArCimeNTi: le NUove bATTAglie siNDACAli

«Dal ’92 in avanti la situazione è peggiorata e negli ultimi anni si è assistito a una vera e propria svolta autoritaria. All’epoca di Tienanmen il sindacato ufficiale aderì persino alla protesta. Oggi sarebbe impensabile. Gli arresti di avvocati del lavoro di questi giorni (luglio 2015, ndr) vanno in questo senso». Lo sostiene Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl, intervistato da Valori, a tre mesi di distanza dal suo ultimo viaggio in Cina. Una “missione” che ha permesso ai rappresentanti del sindacato italiano di incontrare alcuni colleghi cinesi, impegnati da tempo in quella che nel Paese resta un’attività complessa in un contesto sempre più

TANGENTI, PIAGA STORICA Il tema è centrale. E non solo da oggi. A innescare le proteste del 1989, scriveva nel giugno dello scorso anno il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, «non fu tanto il desiderio di democrazia quanto piuttosto l’indignazione per la corruzione dei funzionari pubblici»; 18mila dei quali, stima l’Accademia cinese per le Scienze sociali, sarebbero riusciti tra il 1995 e il 2008 a portare fuori dal Paese asset complessivi per 145 miliardi di dollari. Una massa di capitali che potrebbe aver ritrovato in seguito la strada di casa. Nel 2012, l’ultimo anno per il quale sono disponibili i dati elaborati dalla Conferenza Onu sul Commercio e lo Sviluppo (Unctad), gli investimenti esteri diretti in Cina sono stati pari a 112 miliardi. 65 sono arrivati da Hong Kong, prima fonte di investimento esterno, 7,8 dalla seconda in classifica: le Isole Vergini Britanniche, uno dei più noti paradisi fiscali del mondo. Il Giappone, per fare un paragone, ne ha investiti “solo” 7,4, gli Usa 2,6 circa. Dalle Isole Cayman, lo stesso anno, sono arrivati circa 2 miliardi di dollari, mezzo miliardo in più dell’ammontare investito dalla Germania. Per l’economista e professore emerito della Bocconi, Carlo Filippini, la spiegazione suggerita dei numeri appare piuttosto intuitiva. «È evidente che una quota non piccola di investimenti esteri sia costituita da denaro cinese rimesso in circolazione nel Paese» spiega a Valori. «L’apertura agli investimenti dall’estero permette alla Cina di attrarre tecnologia di ultima generazione ma anche di recuperare capitali». Come dire, uno “scudo fiscale” de facto a beneficio dell’unica risorsa di cui la Cina non sembra in grado di fare a meno per il mantenimento del suo equilibrio: la crescita, ovviamente, con le sue evidenti ricadute in termini di consenso. Alla fine di tutto, in fondo, è sempre una questione di numeri. [m.Cav.] ✱ valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

critico. Ci sono i colossi come Foxxconn, con i loro atteggiamenti «smaccatamente antisindacali», ovviamente, ma c’è anche la crescente «delocalizzazione produttiva di alcuni comparti verso aree caratterizzate da un più basso costo del lavoro come Laos, Vietnam e Cambogia» che si traduce nella chiusura di numerosi impianti, in assenza, in molti casi, di un risarcimento ai lavoratori. Il sindacato ufficiale in Cina conta oltre 280 milioni di iscritti ma apparirebbe in definitiva sostanzialmente «simbolico e innocuo». Da lì l’attività “alternativa” basata sull’iniziativa di piccole Ong, chiamate a cercare sostegno in una normativa spesso ignorata. «La legge cinese a tutela dei diritti sindacali è piuttosto ampia ma al momento c’è ancora uno scarto notevole tra le norme scritte e la loro applicazione» ricorda ancora Bentivogli.

diFFeRenZe RegiOnaLi dei Redditi

FONTE: NOSTRA ELABORAZIONE DA NATIONAL BUREAU OF STATISTICS OF CHINA (WWW.STATS.GOV.CN), “CHINA STATISTICAL YEARBOOK-2014”, FEBBRAIO 2015. *TASSO DI CAMBIO AL 31/12/2013.

8 32 7 6 31

5

1 3 4

30

2 15

29 28 26 23

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16

Beijing Tianjin Hebei

Shanxi

Inner Mongolia Liaoning Jilin

Heilongjiang Shanghai Jiangsu

Zhejiang Anhui

Fujian

Jiangxi

Shandong Henan

11

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24 25

20

Reddito disponibile in yuan 40.830,0 26.359,2 15.189,6 15.119,7 18.692,9 20.817,8

Reddito disponibile in dollari 6.745,12

Regione

4.354,54

17

2.497,78

19

2.509,33 3.088,07 3.439,11

18

20 21

15.998,1

2.642,89

22

42.173,6

6.967,09

24

4.918,83

26

3.505,20

28

15.903,4 24.775,5 29.775,0 15.154,3 21.217,9 15.099,7 19.008,3 14.203,7

19

21

[Rapporto yuan/dollaro = 0,1652]

Regione

9

12

17 18

< 1.500 US$ 1.500-3.000 US$ 3.001-4.500 US$ 4.501-6.000 US$ > 6.000 US$

10

16

27

2.627,25 4.092,92

23

25

2.503,49

27

2.494,47

29

2.346,45

31

3.140,16

30

32

Hubei

Hunan

Guangdong Guangxi Hainan

Chongqing Sichuan

Guizhou Yunnan Tibet

Reddito disponibile in yuan 16.472,5

Reddito disponibile in dollari 2.721,25

23.420,7

3.869,11

16.004,9 14.082,3 15.733,3 16.568,7 14.231,0 11.083,1 12.577,9

2.077,86 2.077,86 1.809,67

12.947,8

CINA (media nazionale)

2.737,15

1.830,92

10.954,4

Qinghai Xinjiang

2.599,14

1.610,17

14.371,5

Ningxia

2.326,40

9.746,8

Shaanxi Gansu

2.644,01

14.565,8 13.669,6 18.310,8

2.374,18 2.138,98 2.406,27 2.258,22 3.024,94 17



FINANZA ETICA

L’ARTE MONDIALE PREDA DEL DENARO

P

di Emanuele Isonio

Autori che decuplicano le quotazioni in pochi mesi, gallerie e case d’aste che aprono filiali in Paesi a bassa tassazione, poche persone che decidono quali sono le tendenze future: il settore della creatività è ormai in mano a speculatori ed evasori valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

assare in una manciata di mesi da 7mila a oltre 400mila dollari di vendita: aveva fatto scalpore anche tra gli osservatori specializzati l’impennata di quotazioni registrata dalle opere di Oscar Murillo. Lui, colombiano classe 1986, viene presentato come il nuovo Basquiat a giustificazione di tanto successo. Ma il suo caso non è isolato. Lucien Smith di anni ne ha tre in meno, ma il suo acrilico su tela “Secret Life of Men” è passato da 10mila a 319mila dollari. Come loro, di esempi potrebbero farsene a decine. Fino a quello, clamoroso, dell’83enne Gerhard Richter che ha visto il suo “Abstraktes-Bild” venduto per 30 milioni di sterline, record per un pittore europeo vivente (un prezzo «irrimediabilmente eccessivo», l’ha definito lui stesso). Segni di un mercato dell’arte impazzito, nel quale i prezzi degli artisti contemporanei salgono e scendono senza apparente motivo. Volatilità di gusti, minimizzano alcuni. Ma, a osservare bene il fenomeno, c’è qualcosa di molto

Il riciclaggio di denaro diventa un soggetto artistico nell’opera Money laundering della statunitense Karon Melillo De Vega 19


finanza etica arte drogata

5 ANNI FA, LA DENUNCIA DI HOULLEBECQ

“Damien Hirst e Jeff Koons si spartiscono il mercato dell’arte”. È il titolo del quadro a cui lavora il pittore Jed Martin all’inizio de “La carta e il territorio”, penultimo romanzo dello scrittore francese Michel Houllebecq (2010). Hirst è noto per i suoi corpi di animali sezionati e immersi in formaldeide. Koons per quadri e sculture di gusto kitsch che ironizzano sul consumismo sfrenato americano. Le opere di entrambi valgono decine di milioni di dollari. Jed Martin alla fine non riesce a rappresentare l’espressione di Koons e quindi squarcia la tela e ne calpesta i resti. In seguito diventerà famoso esponendo una serie di gigantografie di carte stradali Michelin rielaborate al computer. Una riflessione cinica sulla condizione umana con il mondo assurdo dell’arte contemporanea a fare da sfondo. Premio Goncourt 2010. [M.M.]

meno innocente a muovere il tutto. Certificato anche dall’economista Nouriel Roubini, durante il World Economic Forum di Davos. «Ci piaccia o no, il mondo dell’arte è usato per aggirare ed evadere tasse. Ed è anche usato per lavare denaro sporco, perché si può comprare un’opera per mezzo milione, senza mostrare il passaporto e trasportarla dove si vuole».

VENDITE RECORD DA CHRISTIE’S Il mercato dell’arte planetario ha letteralmente spiccato il volo: l’anno scorso – calcola la European Fine Art Foundation – ha raggiunto i 68 miliardi di dollari, vicino a doppiare i livelli 2009 e sopra anche il precedente record del 2007. Come cartina di tornasole bastano gli andamenti delle vendite di gallerie e case d’aste: Christie’s ha incrementato le vendite del 12% a 5,1 miliardi nel 2014, Sotheby’s ha raggiunto i sei miliardi, su del 18% in appena un anno. Una montagna

di denaro in circolazione, condizione ideale per fare dell’arte terreno fertile del riciclaggio. A consolidare il quadro, una globalizzazione che allarga la platea di potenziali acquirenti (i cinesi hanno acquistato più di un miliardo di dollari in arte l’anno scorso) e una pressoché totale mancanza di regole, che permette di comprare senza controlli. E le transazioni, inevitabilmente, si spostano verso aree a bassa tassazione. Di gole profonde nel settore ce ne sono parecchie. Basta garantire loro il più totale anonimato: «Perché mai acquistare un’opera di Fontana in Italia con l’Iva al 22% quando è possibile farlo in Francia al 5% e poi farselo spedire a casa?» ci racconta un analista con sede a Milano. «I grandi mercanti internazionali agiscono come le migliori multinazionali. Hanno sedi fiscali nei Paesi che agevolano di più lo scambio e, nonostante abbiano sedi in tutto il mondo, finalizzano le vendite so-

lo dove più conviene ai loro clienti». Per di più, se l’arte è un bene su cui investire come tanti, si può comprare un’opera senza volerla nemmeno avere a casa. E i grandi mercanti finiscono per lasciarle nei depositi doganali. Con esiti paradossali: la Societé des Ports Francs de Genève (la città svizzera è uno dei massimi porti per questo tipo di attività) ha un magazzino di 140mila metri quadri (oltre 20 volte lo stadio di San Siro). Un quarto dello spazio è occupato da quadri e sculture.

STRANE PRESENZE TRA I CLIENTI DELLE ASTE Accanto all’evasione c’è poi l’ampia zona della speculazione. Altrettanto grigia, e, se possibile, ancora più scabrosa. Le voci raccolte sono unanimi: il mercato è in mano a galleristi e curatori. Sono loro a decidere la quotazione di un’opera, loro che decretano ascesa e declino degli artisti, loro che indirizzano le scelte degli acquirenti. Un pugno di persone di grande influenza: come Sheikha Al-Mayassa bint Hamad bin Khalifa Al-Thani, direttrice della Qatar Museums Authority (un miliardo di dollari di investimenti), sorella dell’emiro del Qatar; Iwan Wirth, gallerista zurighese (proprietario della Hauser & Wirth); Hans Ulrich Obrist, anche lui zurighese, forse il più noto dei curatori, co-direttore della storica Serpentine Gallery londinese, Larry Gagosian, gallerista statunitense di origini armene al top delle top gallery (vedi INFOGRAFICA ). «Ogni galleria – ci racconta un altro insider – ha una propria scuderia di

i padroni del mercato (e degli artisti)

GAGOSIAN

PACE

TRA GLI ARTISTI RAPPRESENTATI*

TRA GLI ARTISTI RAPPRESENTATI*

Damien Hirst, Yayoi Kusama, John Currin 20

New York

Chuck Close, David Hockney, Kiki Smith

05

04

03

02

01 New York e altre otto sedi

* In grassetto gli autori delle opere rappresentate nelle foto

DAVID ZWIRNER

EMMANUEL PERROTIN

HAUSER & WIRTH

TRA GLI ARTISTI RAPPRESENTATI*

TRA GLI ARTISTI RAPPRESENTATI*

TRA GLI ARTISTI RAPPRESENTATI*

New York

Marlene Dumas, Chris Ofili, Karin Mamma Andersson

Parigi e Hong Kong

Sophie Calle, MR., KAWS

Londra, New York e Zurigo

Louise Bourgeois, Paul McCarthy, Rashid Johnson valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


arte drogata finanza etica

gli indici dell’arte: Belli e impossiBili

Artprice, Mei Moses, Artnet. Quando si parla di mercato dell’arte non si può fare a meno di citare uno di questi tre indici internazionali: linee seghettate che prendono il volo verso l’alto o crollano in basso come un qualsiasi titolo azionario e vengono confrontate con il rendimento medio delle borse mondiali. Ma quanto sono veramente utili gli indici dell’arte? Se si guarda ai dati di Tefaf (The European Fine Art Fair), la più grande fiera internazionale dell’arte, la risposta pare scontata: il 53% delle vendite di opere d’arte si perfeziona in forma privata, grazie a gallerie e mercanti. E solo il 47%

passa attraverso aste pubbliche con prezzi trasparenti. I tre indici citati riescono quindi a rappresentare poco meno della metà delle vendite, dato che non si conoscono i prezzi delle transazioni private. Non solo: come sostiene l’esperta Kathryn Tully sulla rivista Forbes, le opere che non riescono a trovare un compratore in asta (25% del totale) non rientrano negli indici. Inoltre, i prezzi delle opere vendute in quantità sempre maggiore attraverso aste online non sono in genere pubblicati. Tra i sistemi di calcolo usati dai diversi indici ci sono però differenze significative. Mei Moses include solo le opere d’arte che siano state vendute in asta più di una volta, misurando le differenze di prezzo tra le diverse vendite. Artnet include anche i risultati delle aste online (quando disponibili) e i prezzi di opere

vendute anche una sola volta. Mentre Artprice dà la possibilità agli abbonati di crearsi indici ad hoc, basati su singoli artisti ed è costruito usando una metodologia simile a quella di Mei Moses. Le diverse metodologie usate portano a risultati molto diversi: solo per fare un esempio l’indice globale di Mei Moses ha avuto un rendimento dello 0,47% nella prima metà del 2014 mentre l’Artnet Contemporary C50 ha reso il 120% nello stesso periodo. «Tutti questi indici sono utili nella misura in cui si consideri quali opere ed artisti includono», sostiene Kathryn Tully. «Senza dimenticare che si concentrano tutti sulla parte di aste che ha maggior successo e sono diversi dagli indici di Borsa». Sugli indici dell’arte, infatti, non si può investire in quanto le opere sono interamente nelle mani di investitori privati e non fluttuano libere nei mercati. ✱

artisti spesso legati a loro da obblighi d’esclusività (se li violano sono professionalmente morti)». Molti i ragazzini poco più che maggiorenni. Selezionati con criteri opinabili («Il valore estetico non c’entra. Se una galleria decide che un corpo smembrato è l’ultimo trend, tutti lo vorranno avere, anche se esteticamente ripugnante»). Pompati per far bruciare loro le

tappe («agevolati da compratori che spesso non capiscono nulla di arte e comprano qualsiasi cosa gli si suggerisce»). Con azioni anche oltre la legalità: inviati delle gallerie presenziano alle aste per far lievitare i prezzi, finché non raggiungono le cifre da loro volute. E poi, per molti, c’è un crollo opposto. Che colpisce anche insospettabili: Damien Hirst, noto per il suo

teschio diamantato da 50 milioni di sterline, ha toccato l’apice nel 2007 e, 36 mesi dopo, è tornato ai livelli di un decennio prima. Sulla possibilità che la bolla esploda come molte altre, non tutti concordano. Una cosa è invece certa: «Ormai nell’arte – ammette con rammarico una curatrice attiva in Sudamerica – è come giocare d’azzardo in Borsa». ✱

di Mauro Meggiolaro

Noti tra gli addetti ai lavori ma poco affidabili: coprono meno della metà del mercato

WHITE CUBE Londra

ARTISTI RAPPRESENTATI*

Tracey Emin, Gilbert & George, Marc Quinn valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

09

08

07

06

JONATHAN LEVINE

GERING & LOPEZ

LAZARIDES GALLERY

ARTISTI RAPPRESENTATI*

TRA GLI ARTISTI RAPPRESENTATI*

TRA GLI ARTISTI RAPPRESENTATI*

New York

EVOL, Mario Martinez, Natalia Fabia, AJ Fosik

New York

José Antonio Hernández-Díez, Todd James

Londra

Banksy, Ron English, Antony Micallef

10

V1 GALLERY Copenhagen

TRA GLI ARTISTI RAPPRESENTATI*

Dearraindrop, Peter Funch, Anika Lori 21


finanza etica dissesto pubblico

Chi guadagna dai Comuni in crisi? di Paola Baiocchi

La Corte dei conti denuncia: per i tagli ai trasferimenti dello Stato, gli enti locali inaspriscono le tasse e le Regioni riducono gli investimenti. I casi di crack sono in rapido aumento. E la finanza privata brinda

I

l Comune di Roma è stato salvato (per ora) dal fallimento grazie al decreto “salva Roma”, che fa arrivare aiuti straordinari dello Stato alla Capitale e salva anche Napoli, a cui sono “state temporaneamente sospese le procedure esecutive a carico” in modo che i creditori non possano chiederne il fallimento. Anche Brescia e Venezia hanno già beneficiato di un decreto simile. Un privilegio che ai Comuni più piccoli non viene riservato, lamenta Rita Rossa, sindaco di Alessandria, la cittadina piemontese con meno di 100mila abitanti che per prima,

IL BARATTO AMMINISTRATIVO SCONTI SULLE TASSE IN CAMBIO DI LAVORI

Per far fronte a bilanci sempre più risicati, i Comuni ricorrono a una forma moderna di baratto: il cittadino fa un lavoro per l’amministrazione? In cambio ne riceve uno sconto sulle tasse comunali, proporzionale all’impegno profuso. La possibilità è stata introdotta lo scorso novembre dal decreto “Sblocca Italia” (convertito nella legge 164 del 2014) che all’articolo 24 prevede la riduzione dei tributi sia per singoli cittadini, sia per associazioni. Il primo ad aderire è stato Massarosa, un comune di circa 23mila abitanti vicino a Viareggio, in provincia di Lucca, che ha istituito un apposito albo per raccogliere le adesioni al “volontariato civico”, al quale per ora si sono iscritti cento volenterosi, più sei cooperative del Terzo settore. Anche municipi più grandi, come Napoli e Trento, hanno preparato i regolamenti per approfittare del baratto amministrativo. Per aderire servono la maggiore età, l’idoneità psico-fisica e l’assenza di condanne. Dopo un mini-corso di formazione, sotto la guida di un tutor, i cittadini eseguiranno lavori come la pulizia dei tombini, la tinteggiatura delle scuole, la potatura delle siepi o il taglio dell’erba. Interventi che possono pesare significativamente sui bilanci comunali e che per i cittadini si tradurranno in uno sconto al momento del pagamento della Tari e della Tasi. Un’iniziativa di sostegno, quindi, per le famiglie alle prese con la diminuzione dei redditi e con la contrazione del welfare pubblico, ma che porterà anche una riduzione di tutti quegli appalti che danno da vivere a migliaia di piccole imprese e cooperative di servizi. [Pa.Bai.] 22

nel 2012, ha dovuto dichiarare il dissesto per un buco di cento milioni di euro. Il dissesto finanziario degli enti locali è un istituto introdotto nel 1989 e modificato poi talmente tante volte da aver prodotto – afferma il Ministero dell’Interno – “stratificazioni di norme” sui crack già in atto “per i quali erano già iniziate le procedure della liquidazione” e da rendere “necessario regolare, attraverso norme transitorie, le diverse situazioni in cui sono venuti a trovarsi gli enti”. Un barocchismo di regole, emendamenti e codicilli che contribuisce ad allontanare i cittadini dalla gestione della cosa pubblica e inibisce l’attività sociale degli enti locali, ormai meri gestori di entrate e uscite.

PIÙ DI 100 CASI IN DUE ANNI Dal 1989 al 2012, secondo la Corte dei conti, 460 enti locali hanno fatto crack. Nei due anni successivi 108 sindaci hanno chiesto alla magistratura contabile di aderire a un piano di riequilibrio finanziario. Il motivo principe di questa accelerazione sono i tagli imposti dai vari governi alle autonomie territoriali, che Raffaele Squitieri, presidente della Corte, nella relazione del 27 luglio scorso, quantifica in 40 miliardi (il 2,4% del Pil) tra il 2008 e il 2015. Ma se la cifra è spaventosa, il dato completo è ancora peggiore: a queste sottrazioni infatti “si accompagnano ulteriori 22 miliardi di tagli nei trasferimenti provenienti dallo Stato” alle Regioni e agli enti locali. “Cui vanno aggiunti – precisa l’organismo contabile – i tagli al finanziamento del fabbisogno del sistema sanitario gestito dalle Regioni, per complessivi 17,5 miliardi tra il 2009 e il 2015”. Nella relazione firmata da Squitieri è contenuta la risposta su come gli enti locali hanno bilanciato la valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


dissesto pubblico finanza etica interessi passiVi sUlle spese correnti degli enti locali

FONTE: DATI SIOPE AGGIORNATI AL 3.4.2015 – ELABORAZIONI: CORTE DEI CONTI, RELAZIONE SUGLI ANDAMENTI DELLA FINANZA TERRITORIALE; IMPORTI IN MIGLIAIA DI EURO

Tipologia di intervento

2011

2012

Interessi passivi a Cassa depositi e prestiti - gestione Tesoro Interessi passivi a Cassa depositi e prestiti - gestione CDP S.p.A. Interessi passivi ad enti del settore pubblico per finanziamenti a breve Interessi passivi ad enti del settore pubblico per finanziamenti a medio-lungo Interessi passivi ad enti del settore pubblico per anticipazioni Interessi passivi ad altri soggetti per finanziamenti a breve Interessi passivi ad altri soggetti per finanziamenti a medio-lungo Interessi passivi ad altri soggetti per anticipazioni Interessi passivi ad altri soggetti per depositi Interessi passivi ad altri soggetti per oneri derivanti da operazioni di cartolarizzazione

245.695 1.363.703 7.817 56.505 6.181 9.591 690.329 16.128 904

238.107 1.355.957 5.362 50.770 4.100 8.031 663.057 18.917 1.339

Altri interessi passivi e oneri finanziari diversi, inclusi interessi di mora TOTALE INTERESSI PASSIVI

218.722

61.253 2.682.110

117.937

Interessi passivi per operazioni in derivati

riduzione dei trasferimenti correnti dello Stato: “Hanno inasprito la pressione fiscale, mentre le Regioni non potendo azionare la leva fiscale hanno compresso le funzioni extra-sanitarie e sacrificato, soprattutto, le spese di investimento”. Comportando squilibri economico-sociali tali che la Corte si interroga se esista ancora una corrispondenza tra le funzioni attribuite agli enti territoriali e le risorse loro rese disponibili dal “vincolo di pareggio”.

“LO VUOLE L’EUROPA” I tagli imposti dai governi sono, infatti, solo la parte tecnica di “un nuovo disegno politico-istituzionale”, di cui la Corte segnala “taluni rischi potenziali” legati all’applicazione “del concorso degli enti territoriali agli obiettivi di finanza pubblica” dopo la modifica dell’articolo 119 della Costituzione, che potrebbero ripercuotersi “sugli equilibri economici e sul raccordo tra i livelli territoriali di governo”. Insomma gli enti locali devono concorrere al pareggio di bilancio che ci chiede l’Europa, anche se questo comporta una modifica degli assetti sociali della cui entità pochi percepiscono i contorni. Naturalmente c’è chi ha valutato bene le ricadute economiche del passaggio istituzionale: i pagamenti per rimborso prestiti e per interessi passivi, sono maggiori verso soggetti diversi dalla Cassa depositi e prestiti (vedi TABELLA in alto): i Comuni, compressi tra vincoli di bilancio e stretta creditizia, ricorrono sempre più alla finanza privata. Non è un caso che l’agenzia di rating Moody’s abbia lanciato una nuova struttura dedicata al mercato del debito pubblico europeo, Moody’s Public Sector Europe (Mpse): «Prevediamo – ha dichiarato il suo consigliere delegato, David Rubinoff – un accresciuto interesse verso il credito al settore pubblico europeo, da parte di una vasta gamma di investitori». ✱ valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

5.283

4.041

54.255 2.521.873

2013

214.370 1.298.156 5.514 45.444 3.197 13.577 557.945 28.649 1.056 3.886

94.636

52.582 2.319.011

2014

Var. % 2013-2014

Var. % 2011-2014

6.023

55,02

14,00

202.668 1.245.769 5.388 42.405 6.754 8.656 544.016 35.013 603

-5,46 -4,04 -2,29 -6,69 111,24 -36,25 -2,50 22,21 -42,94

69.679

57.926 2.224.898

-26,37

10,16 -4,06

-17,51 -8,65 -31,07 -24,95 9,26 -9,75 -21,19 117,09 -33,32 -68,14

-5,43 -17,05

spese e serViZi: doVe tagliano i comUni?

FONTE: DATI SIOPE AGGIORNATI AL 3.4.2015 - ELABORAZIONI: CORTE DEI CONTI - SEZIONE DELLE AUTONOMIE

Tipologia di servizio Contratti di servizio per trasporto Contratti di servizio per smaltimento rifiuti Contratti di servizio per riscossione tributi Lavoro interinale Altri contratti di servizio Incarichi professionali Organizzazione manifestazioni e convegni Corsi di formazione per il proprio personale Altri corsi di formazione Manutenzione ordinaria e riparazioni di immobili Manutenzione ordinaria e riparazioni di automezzi Altre spese di manutenzione ordinaria e riparazioni Servizi ausiliari e spese di pulizia Utenze e canoni per telefonia e reti di trasmissione Utenze e canoni per energia elettrica Utenze e canoni per acqua Utenze e canoni per riscaldamento Utenze e canoni per altri servizi Acquisto di servizi per consultazioni elettorali Accertamenti sanitari resi necessari dall'attività lavorativa Spese postali Assicurazioni Acquisto di servizi per spese di rappresentanza Spese per gli organi istituzionali dell'ente-Indennità Spese per gli organi istituzionali dell'ente - Rimborsi Buoni pasto e mensa per il personale Assistenza informatica e manutenzione software Trattamento di missione e rimborsi spese viaggi Spese per liti (patrocinio legale) Altre spese per servizi Rette di ricovero in strutture per anziani/minori/handicap e altri servizi connessi Mense scolastiche Servizi scolastici Organismi e altre Commissioni istituiti presso l'ente Spese per pubblicità Global service Collaborazioni coordinate e continuative (Co.co.co.) Rimborsi per il coordinamento nazionale dell'ambiente TOTALE PRESTAZIONI DI SERVIZI

Var. % 2011-2014 6,39 42,76 8,91 -34,13 14,16 -14,22 -29,94 -32,75 81,78 6,69 0,41 21,75 2,99 -6,57 35,77 40,13 14,94 -1,74 19,96 20,77 22,36 6,82 -54,76 -9,17 -15,37 -3,28 28,50 -18,81 5,41 0,04 21,41 11,15 16,35 -7,31 -42,87 7,49 -100,00 n.a. 17,53 23


finanza etica fondi virtuosi

Buona finanza numeri in crescita di Corrado Fontana

Performance positive per il comparto degli investimenti responsabili. L’obiettivo del profitto è vincolato a parametri di etica, sostenibilità ambientale e sociale. Ma fra i piccoli risparmiatori restano marginali

la crescita degli asset SRI nel mondo

C

FONTE: GLOBAL SUSTAINABLE INVESTMENT REVIEW 2014, GSIA

+60%

RIA USD 945 bn CANADA

+76%

US SIF USD 6.572 bn

+55%

+32%

EUROSIF USD 13.608 bn

ASRiA USD 53 bn

EUROPA

ASIA

USA

+34%

RIAA USD 180 bn

AUSTRALIA/NUOVA ZELANDA [in miliardi USD]

+61% Totale attività SRI USD 21.358 bn

resce l’attenzione verso la finanza che investe in modo socialmente responsabile (Social Responsible Investing - SRI). Comprensibilmente, poiché crescono molto i volumi delle risorse impiegate e l’incidenza rispetto al totale degli investimenti finanziari sul Pianeta. A scriverlo è l’ultimo rapporto pubblicato da Global Sustainable Investment Alliance, la rete transnazionale dei soggetti che operano nel settore, che quantifica in oltre 21mila miliardi di dollari (per l’esattezza 21,4) questo mercato a livello globale: e se nel 2012 il controvalore era pari soltanto a 13mila miliardi, si è passati in due anni dal 21,5% del patrimonio totale gestito professionalmente al 30,2%. Mostrando inoltre una tendenza positiva piuttosto consolidata: l’Europa è davanti a tutti per valori assoluti (13.600 miliardi) negli investimenti vincolati da criteri di sostenibilità ambientale, sociale e di governance (i cosiddetti

Boom etico? È presto per esUltare di Mauro Meggiolaro

Dietro al balzo in avanti, strategie di esclusione spesso troppo morbide. I criteri più rigorosi sono alla base di appena il 3,6% degli investimenti. E in Italia il dato è fermo al palo da otto anni 24

Ormai per gli investimenti socialmente responsabili (SRI) in Europa non bastano più i miliardi. Almeno dal 2007 si ricorre alle migliaia di miliardi o “trilioni” (nel senso anglosassone del termine). Cifre che vanno al di là della nostra capacità di immaginazione e ci parlano di grandezze smisuratamente elevate. Parenti dei fantastiliardi di Paperon de’ Paperoni. Un successo dell’etica negli investimenti che pare non conoscere battute d’arresto. Ma è davvero

così? Se si guarda al rapporto pubblicato dalla Global Sustainable Investment Alliance (GSIA), i dubbi non mancano. Prima di tutto per quanto riguarda la qualità degli investimenti etici. Come evidenziato dalla GSIA, gli approcci all’investimento etico sarebbero almeno sette: dai semplici criteri di esclusione all’analisi approfondita di ogni impresa. Se ci si allontana dai dati aggregati e si scende nel dettaglio delle statistiche, si scopre che, in realtà, buona parte valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


fondi virtuosi finanza etica

ESG). Gli Stati Uniti d’America spiccano invece per le proporzioni della crescita del loro comparto SRI (+76% rispetto al 2012), che tuttavia a livello mondiale rimane rappresentato al 99% da queste due regioni più il Canada (assai staccato), lasciando le briciole ad Asia e Australia. Non solo. Secondo l’istituto di ricerca francese Vigeo, che analizza le attività cosiddette retail (i piccoli risparmiatori), a giugno 2014 il numero di fondi dediti in Europa all’investimento responsabile era nutrito (957), con un aumento impetuoso concentrato nel decennio 20002010, la Francia massimo centro di attrazione e l’Italia fanalino di coda. Il patrimonio retail gestito secondo criteri ESG in Europa vale circa 127 miliardi, ma il mercato SRI restava dominato da investitori istituzionali (banche, fondi, gestori di grandi portafogli) per il 96,6% nel 2013 (rispetto al 94,1% di due anni prima), stando ai dati pubblicati dal rapporto Eurosif European SRI Study.

TANTI MODI PER TAGLIARE “I CATTIVI” Numeri a parte, è interessante comprendere come queste notevoli masse di risorse economiche vengono impiegate: le principali strategie di investimento responsabile stanno infatti ampliando la misura della propria applicazione, ma ciascuna segue logiche differenti. Tra le sette strategie più diffuse in Europa sono tre quelle che assorbono la maggior parte degli investimenti. In primis, le cosiddette “esclusioni”, che, attraverso una scelta esplicita a priori, non considerano “investibili” singoli emittenti (fondi, società), settori o interi Paesi in base a determinati principi e valori concordati (ad esempio rifiutando chi abbia a che fare con armi, pornografia, tabacco, test su animali); c’è poi il norms-based screening, ovvero una selezione degli investimenti basata sul rispetto di standard emanadei “trilioni” investiti oggi in modo socialmente responsabile in Europa si basano su strategie piuttosto rudimentali: il normsbased screening, che fa riferimento al rispetto da parte delle imprese (nelle quali i fondi investono) di “uno o più standard internazionali” (Global Compact, trattati internazionali), attira da solo cinque trilioni di dollari, mentre ben 9,43 trilioni di dollari sono investiti in fondi che adottano anche un solo criterio di esclusione (strategia negative screening/exclusions): fuori tutte le società che producono armi e dentro tutte le altre (anche se inquinano o non rispettano i diritti umani), solo per fare un esempio. valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

«ECCO COME DECIDIAMO CHI FAR FUORI»

«Ogni sei mesi Etica Sgr aggiorna il proprio portfolio di “aziende investibili”. Le analisi condotte dalla nostra Area Ricerca si basano su esami di un ampio spettro di fonti», spiega Roberto Grossi, responsabile comunicazione di Etica Sgr, società di gestione risparmio, emanazione di Banca Etica. Grossi mette così in luce l’aspetto essenziale di dover garantire l’effettiva sostenibilità degli investimenti a chi ci mette il denaro. Una necessità che vale naturalmente per tutti gli istituti che, come Etica Sgr in Italia, scelgono di operare in modo esclusivo nell’intermediazione finanziaria del mercato SRI, e sulla base del rispetto di requisiti ESG definiscono interamente la propria offerta d’investimenti. Da qui l’adozione per ciascun istituto di diversi strumenti (informazioni istituzionali, database ed enti certificatori specializzati, questionari periodici, report e pareri di ong e comunità locali, notizie di stampa), nonché l’importanza di frequenti verifiche, talvolta con esiti drastici: «Il Canada e i suoi titoli di Stato sono stati esclusi dell’universo investibile dei fondi di Etica Sgr nel 2012» ricorda Grossi. «Una sospensione confermata anche negli anni successivi perché il Paese presenta criticità ambientali: l’abbandono del Protocollo di Kyoto nel 2011 e della Convenzione Onu sulla desertificazione nel 2013, lo sfruttamento delle sabbie bituminose per l’estrazione di petrolio e gas». Un’estromissione “esemplare” ed economicamente pesante, quella del Canada, ma che segue gli stessi meccanismi di funzionamento di altri casi simili, come quello per cui quattro fondi statali svedesi hanno venduto le azioni di alcune società ad aprile scorso: la canadese Agrium, che produce fertilizzanti, e poi Motorola Solutions e la compagnia mineraria Barrick Gold. Società accostate a episodi di violenza e spionaggio a danno delle comunità locali, e ad attività che hanno determinato disastri ambientali.

ti da istituzioni internazionali riconosciute, come il Global Compact dell’Onu su diritti umani, tutela dell’ambiente, diritti dei lavoratori e lotta alla corruzione, le Linee Guida dell’Ocse sulle multinazionali, o le Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. C’è infine l’ESG Integration, che considera in fase d’investimento sia l’analisi finanziaria sia i fattori ambientali, sociali e il grado di democrazia negli organi decisionali) attuando quindi una valutazione integrata di tutti questi aspetti. ✱

Non è un caso che, come riporta la ricerca di GSIA, il negative screening sia la strategia di investimento SRI più seguita a livello globale. L’approccio più completo, e cioè il best-in-class, che seleziona le imprese in base a decine di criteri sociali, ambientali e di governance, individuando appunto le “migliori della classe”, ha un peso tutto sommato marginale: 486 miliardi di dollari in Europa, appena il 3,6% del totale degli investimenti etici, se si sta ai numeri del rapporto GSIA. Se poi si guarda al dato disaggregato sull’Italia, cosa che è possibile fare solo all’interno dei rapporti Eurosif/Vigéo, la delu-

 LINK Global Sustainable Investment Alliance (GSIA) www.gsi-alliance.org Forum per la Finanza Sostenibile (FFS) www.finanzasostenibile.it Eurosif www.eurosif.org

sione aumenta. La strategia best-in-class nel nostro Paese è applicata solo a 3,91 miliardi di euro di asset: lo 0,23% degli investimenti in fondi comuni, più o meno la stessa percentuale di otto anni fa. Ci si può consolare con l’aumento degli investimenti effettuati sulla base di un qualche criterio di esclusione (496,6 miliardi di euro nel 2013, +11,2% rispetto al 2011) – in particolare nel settore degli armamenti – grazie a grandi società come Generali, Cattolica Assicurazioni o Pioneer. Una scusa buona per stappare uno spumantino vivace. Lo champagne è meglio tenerlo per tempi migliori. ✱ 25



la bacheca di valori ?? finanza etica

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La CSR fa bene agli affari

I ricchi pazzi per il Lussemburgo

Le imprese che adottano forme di responsabilità sociale (nota anche come CSR) possono godere di migliori performance aziendali: una società di consulenza statunitense ha indagato il legame tra le iniziative di social responsibility e il ritorno economico degli investimenti. Se ben ideati, spiega la ricerca, tali progetti possono portare a un aumento del fatturato anche oltre il 20%. Crescerebbero inoltre la produttività (+13%) e la fidelizzazione dei clienti (+60%). Il valore totale di un brand, alla fine, potrebbe apprezzarsi fino all'11%.

I patrimoni dei Paperoni mondiali non sembrano spaventati dalle riforme imposte dalle pressioni mondiali al Lussemburgo in senso di una maggiore collaborazione e trasparenza. Gli asset gestiti dalle banche del Paese hanno continuato a crescere nel 2014, raggiungendo quota 318 miliardi di euro (il 4% in più rispetto al 2013 e +15% rispetto a sette anni prima). Oltre la metà dei patrimoni (il 10% in più del 2011) è di clienti che hanno in Lussemburgo più di 20 milioni a testa. Scendono i clienti meno facoltosi, che sono oggi il 9% contro il 15% del 2011.

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Classe media: crescita lenta

I MIGLIORI TWEET DEL MESE

La povertà scende negli ultimi anni a livello globale (gli individui che dispongono di meno di 2 dollari al giorno sono passati dal 29% al 15%) ma la classe media mondiale stenta a decollare. I dati più recenti si riferiscono al 2011: il 71% della popolazione del Pianeta viveva con meno di 10 dollari al giorno, contro il 79% di dieci anni prima. In pratica, se la povertà assoluta continua a diminuire, lo sviluppo della middle class è molto lento. E territorialmente concentrato: il fenomeno riguarda soprattutto Cina, Latinoamerica ed Est Europa. % di capitale di rischio investito nel periodo 2006-2013 - cifre in miliardi di dollari

I LEADER NEL VENTURE CAPITAL MONDIALE FONTE: ERNST & YOUNG

Canada 7,1

Israele 13,1

India 9,9

Cina 33,05

Ipotesi ZDF basata su carte USA: Deutsche Bank salvata da crisi 2008 grazie a manipolazione LIBOR? 9 luglio Mauro Meggiolaro @meggio_m

Abolizione Imu prima casa=55€ risparmio per 8 milioni di persone (redditi medio-bassi); 827€ per ricchi. (Cit. Cgil) La manovra fiscale che serve: meno tasse su lavoro, più tasse su consumo di risorse #carbontax 3 agosto Francesco Ferrante @FranFerrante

Hong Kong is turning into a huge market for the sharing economy

[Hong Kong si sta trasformando in un enorme mercato per la sharing economy] 14 agosto Business Insider @businessinsider

COLOSSI USA PESANO PIÙ DELLE BORSE VALORI

Europa 55,4 USA 254,6

valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

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numeri della terra

TERREMOTO GRECO

I numeri dell’austerità FONTE: BRI

CREDITI DALLE BANCHE AGLI STATI 80 -97,5%

-99%

-97,7%

-69,9%

-84,5%

-90%

1

-67,7% -60%

70 -70%

60 50

-80%

40 30 20

-90%

10 0

4

Austria Belgio Francia Germania Italia Paesi Bassi Spagna

-100%

BOLLETTE CONGELATE

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Nell’inverno 2014 il 44% del totale degli immobili di Atene dotati di caldaie centralizzate ha rinunciato al riscaldamento per mancanza di fondi. [FONTE: COMPAGNIA EPA]

Nel 2013, ogni mese, la luce è stata staccata a 30mila famiglie, colpevoli di non aver pagato la bolletta. [FONTE: EKATHIMERINI]

Esposizione delle banche europee nei confronti della Grecia [mld euro] Variazione % Dicembre 2009 Settembre 2014 Esposizione degli Stati europei nei confronti della Grecia Dicembre 2009 [valore 0] Settembre 2014

di Andrea Barolini Due Paesi come Francia e Germania non detenevano neppure un euro di debito greco nel dicembre del 2009, mentre le loro banche ne possedevano rispettivamente 79 e 45 miliardi. Cinque anni dopo, i rapporti si sono invertiti: le banche francesi sono scese a 1,81 miliardi, quelle tedesche a 13,51 miliardi. Mentre i bilanci statali dei due Paesi hanno incamerato esposizioni pari a 46,5 e 62 miliardi. Di fatto, un immenso travaso di titoli “tossici” dai bilanci bancari a quelli statali (ovvero da soggetti privati alla collettività). Si tratta solo di uno dei molti volti della crisi greca. Fatta anche di migliaia di suicidi, di tasse sui poveri aumentate del 337%, di investimenti scesi del 40%, di Pil crollato del 25%, di milioni di persone che non possono curarsi, di una recrudescenza dell’Aids, di condomini ateniesi che tengono le caldaie spente in inverno, di luce elettrica staccata a 30mila famiglie al mese. E, a fronte di tale stretta draconiana, non si è neppure risolto il problema dei conti pubblici, che anzi sono peggiorati. Perché, nel rapporto debito/Pil, il rigore ha inciso talmente tanto sul denominatore Pil da rendere vani gli sforzi effettuati sul numeratore debito. 28

LE SCUOLE DI ATENE HANNO FAME

Il 25% delle famiglie degli studenti di 64 scuole ateniesi soffre la fame. Il 60% di tali famiglie non dispone di cibo sufficiente. E il 3% non dispone nemmeno di energia elettrica nella propria abitazione. [FONTE: ISTITUTO PROLEPSIS]

L’ECONOMIA NAZIONALE

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Nel primo semestre 2015 le spese dello Stato sono state pari a 23,2 miliardi di euro, contro i 26 miliardi dello stesso periodo del 2014. L’avanzo primario è stato pari a 1,88 miliardi nel primo semestre, dopo i 707 già registrati nei primi sei mesi del 2014. [FONTE: AFP] Il 77% dei 206 miliardi di aiuti, distribuiti in 23 tranche alla Grecia da Ue e FMI, sono stati usati per ricapitalizzare banche straniere e locali, e per ripagare il debito. [FONTE: ATTAC AUSTRIA]

A causa della crisi e della risposta ad essa il Pil greco è sceso del 25%. [FONTE: DATI UFFICIALI] Negli anni dell’austerity gli investimenti sono scesi del 40%, toccando il livello del 2000. [FONTE: MACROBOND] Nonostante l’austerità, il debito greco è cresciuto continuamente, passando dal 125% del Pil del 2009 al 175% circa attuale. [FONTE: FMI]

valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


anatomia di un disastro

DISOCCUPAZIONE

3

Anno

2010 2011 2012 2013

FONTE: FMI

Disoccupazione prevista 11,8% 14,6% 14,8% 14,3%

Disoccupazione reale 12,6% 17,7% 24,3% 27,3%

I RICCHI SORRIDONO I POVERI NO

Negli anni dell’austerity le tasse sui ricchi sono salite del 9%, quelle sui poveri del 337%. I ricchi hanno inoltre perso meno del 20% del loro reddito, i poveri l’86%. [FONTE: INSTITUT FÜR MAKROÖKONOMIE UND KONJUNKTURFORSCHUNG]

FISCO (TROPPO) AMICO DEGLI ARMATORI

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La Costituzione greca concede esenzioni fiscali alla casta degli armatori e non prevede alcuna tassazione dei profitti prodotti all'estero. La lobby degli armatori vale il 7% del Pil.

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ENERGIA SPORCA E COLABRODO Produzione

Domanda

Importazioni nette

Energia

(19.604 MW, di cui 77% 1,6 5 317,9 4.354 316,3 4.349 61% 39% da carbone e PETROLIO GAS PETROLIO GAS PETROLIO GAS IMPORTATA PRODOTTA IN CASA 22% rinnovabili) [petrolio in migliaia di barili al giorno - kb/d] / [gas in migliaia di metri cubi all'anno - mcm/y] FONTE: IEA 2012

Puntando sul solare ed eliminando il petrolio, si potrebbero risparmiare almeno 800 milioni di euro all’anno. E al momento è sfruttata appena un sesto della capacità eolica stimata del Paese (1800 MW su 12. 000). 12000). Molto indietro anche sull'efficienza energetica: un greco usa 3 volte l’energia l'energia di un finlandese per riscaldarsi.

[FONTE: ENERGYPEDIA SU DATI BANCA MONDIALE, IEA, GREENPEACE, WWF]

SPESE MILITARI

La Grecia tra il 1980 e il 2014 le ha abbattute dal 6,2 al 2,2%. La media Ue è dell'1,6%. [FONTE: SIPRI]

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ISOLE AGEVOLAZIONI, ADIEU

Non le Ionie, né Creta ma molte altre delle 6mila isole godono di un’Iva ridotta rispetto al resto del territorio greco: dopo l’accordo con la Ue, il governo eliminerà dal 1° ottobre lo sconto del 30% per Santorini e Mikonos. Altre meno sviluppate godranno di una proroga di un anno. Solo quelle più remote manterranno gli sconti.

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Ma anche su questo fronte Francia e Germania non possono dare lezioni: appena due anni fa, i governi di Merkel e Sarkozy avevano esercitato pressioni sulla Grecia affinché comprasse carri armati e navi da guerra in cambio degli aiuti finanziari. Prima di allora, in appena tre anni, Atene aveva acquistato: 170 panzer Leopard (costati 1,7 miliardi di euro), 223 cannoni dismessi dalla Difesa Difesatedesca, tedesca, 2 sottomarini prodotti dalla ThyssenKrup (1,3 miliardi), 223 carri armati Leopard II (403 milioni), 6 fregate e 15 elicotteri francesi (costo: 4 miliardi), alcune motovedette (400 milioni). [FONTE: GUARDIAN, WALL STREET JOURNAL, CORRIERE DELLA SERA]

SALUTE POCA MALATI E SUICIDI TANTI

Il numero di persone affette da Aids nel Paese è cresciuto del 22% tra il 2011 e il 2012, e del 58% l’anno precedente. [FONTE: KEELPNO]

Una sola “farmacia solidale” di Atene ha curato circa 9mila pazienti gratuitamente. [FONTE: LA STAMPA] Circa 3 milioni di greci non godono di alcuna protezione sociale. [FONTE: LA STAMPA]

valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

Il numero di suicidi ha superato i 10mila casi in 5 anni. La mortalità infantile è aumentata del 43% dall’inizio della crisi. Il numero di bambini abbandonati è aumentato del 336% dall’inizio della crisi. [FONTE: CARITAS]

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valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015


ECONOMIA SOLIDALE

https://www.flickr.com / carsten frenzl

MODELLO SOCIALE QUANTE LODI PER L’EUROPA

L

di Corrado Fontana

Presentato a Milano il Social Progress Index. I dati confermano tutti i limiti del Pil: un alto reddito pro capite non garantisce per forza un elevato livello di benessere. Il Vecchio Continente guida la classifica (sei Stati nei primi dieci). Italia solo trentunesima valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015

a valutazione dello stato di salute di un Paese non può più limitarsi all’ormai consunta contabilità meramente economica rappresentata dal Pil: è una convinzione diffusa quella che si può percepire tra pubblico e relatori del Forum mondiale dell’impresa sociale. Una posizione che si è concretizzata nelle esperienze locali e in molti degli interventi, a cominciare dalle parole di Michael Green, direttore esecutivo di Social Progress Imperative, progetto che promuove l’adozione di un diverso strumento per valutare il progresso degli Stati: il Social Progress Index (SPI), pur non affermando il pensionamento forzato del Prodotto interno lordo, evidenzia, grazie a una potente mole di dati, l’utilità di un solido e articolato modello sociale per garantire il benessere di una comunità. In una prospettiva “olistica”, che quindi considera insieme gli aspetti della società, lo SPI valuta infatti le nazioni per quanto sappiano soddisfare i bisogni essenziali dell’uomo (nutrizione e cure di base, accesso sicuro all’acqua, rifugio, sicurezza) e 31


economia solidale la ricerca della felicità

quanto offrano rispetto agli elementi fondamentali del benessere (accesso a conoscenza, informazione, salute, sostenibilità dell’ecosistema) e alle opportunità generali (diritti individuali, libertà di scelta, tolleranza e inclusione, accesso a un sistema educativo avanzato). Traducendo queste voci in numeri, nasce l’indice 2015, che dà i voti a 133 Paesi che coprono il 94% della popolazione mondiale. Un’analisi meticolosa che alla fine ordina le 133 nazioni in base al progresso sociale raggiunto, in una griglia divisa in sei macro-gruppi (vedi MAPPA ), da quello delle prime dieci ad “altissimo progresso sociale” (composto, in sei casi su dieci, dai migliori esempi del modello sociale europeo) a quello delle ultime otto nazioni con “progresso sociale molto basso” (tutti Stati centroafricani, a parte Afghanistan e Yemen). Nel quadro spiccano perciò i singoli, ad esempio l’eccellenza globale della Norvegia, in cima con 88,36 punti, o la fragilità di risultato dell’Italia (77,38 punti), trentunesima e però ultima del secondo gruppo (in bilico tra “alto” e “medio-alto” progresso sociale), o ancora la situazione disastrosa della Repubblica Centrafricana, in fondo con 31,42 punti. India e Brasile, entrambi nei Brics (cioè i cosiddetti Paesi economicamente emergenti), stanno spuntando risultati ben differenti, rispettivamente al 42° e 101° posto del Social Progress Index, con un Pil pro capite da 14.555 dollari per i brasiliani e di 5.238 dollari per gli indiani. La Nuova Zelanda, infine, è quinta assoluta per progresso sociale ma il suo Pil pro capite non tocca i 32mila dollari.

NUOVO BENESSERE NUOVI VALORI Un approccio come quello del Social Progress Index dimostra quanto il Pil restituisca ormai un’immagine deformata delle reali condizioni di benessere generale delle persone. Ma non solo. «Mi sembra particolarmente interessante – dice Flaviano Zandonai, ricercatore di Euricse e segretario di Iris Network, organismo in prima linea nello studio dell’impresa sociale – che tra i padrini dello SPI ci sia quel Michael Porter propugnatore dello shared value (il valore condiviso). Una prova di come an32

LE tAntE vIE PER CALCOLARE LO SvILuPPO ISU Indice di sviluppo umano (in inglese: HDI-Human Development Index),

elaborato nel 1990 dall’economista pakistano Mahbub ul Haq e seguito dal più noto economista indiano Amartya Sen, è utilizzato, accanto al Pil, dalle Nazioni Unite a partire dal 1993. Compone aspettativa di vita, livelli d’istruzione e livelli di reddito e si calcola in millesimi decrescendo da 1 a 0, distribuendo i Paesi in quattro gruppi per ogni 250 millesimi di differenza (a sviluppo umano molto alto, alto, medio, basso).

BES Il Benessere equo e sostenibile è un indice nato in Italia (2013), sviluppato dal Cnel e dall’Istat. Valuta il progresso economico, sociale e ambientale di una società, corretto da misure di diseguaglianza e sostenibilità. Si compone di 12 indicatori (salute; istruzione e formazione; lavoro e conciliazione tempi di vita; benessere economico; relazioni sociali; politica e istituzioni; sicurezza; benessere soggettivo; paesaggio e patrimonio culturale; ambiente; ricerca e innovazione; qualità dei servizi). BLI Il Better Life Index è l’indice presentato a maggio 2011 dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico in linea con le raccomandazioni della cosiddetta “Stiglitz-Sen-Fitoussi Commission”, dal nome degli economisti che vi hanno partecipato. Il BLI si applica ai 34 Paesi OCSE e prende in considerazione venti diversi indicatori distribuiti in undici categorie (www.oecdbetterlifeindex.org). MAPPA GLOBALE DEL PROGRESSO SOCIALE fonte: rapporto SOCIAL PROGRESS INDEX 2015

Scala Very High High Medium High Medium Low Low Very Low Unrated

che l’economia mainstream si stia preoccupando di misurare altri aspetti oltre quelli dello sviluppo economico in senso stretto. Sarebbe interessante a questo punto capire che tipo di dialogo e di integrazione possa esserci con altri sistemi di misurazione che hanno un’origine e una marcatura sociale più evidente, come Be-

nessere equo sostenibile dell’Istat o il Better Life Index dell’OCSE. Si vede una sorta di corsa a misurare quale sia l’effettivo valore dell’economia, cioè la socialità. È una competizione, o se vogliamo una cooperazione, a misurare il valore sociale da parte di soggetti diversi che, fino ad ora, non parevano essersene preoccupati». ✱ valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015


la ricerca della felicità economia solidale

L’impresa sociale conquista il mondo di Corrado Fontana

Da Taiwan a Hong Kong, dal Ghana alla Scozia, il modello sviluppa interesse e politiche. Un ibrido premiato dai dati, che unisce versatilità e concretezza economica

S

e il tema dell’impresa sociale non stesse guadagnando terreno nelle agende politico-economiche nazionali non sarebbero forse intervenuti a Milano, nel luglio scorso, un vice primo ministro scozzese, un sottosegretario di Hong Kong, né il ministro del commercio e dell’industria del Ghana o il ministro responsabile delle politiche sul social welfare del governo di Taiwan. Testimonianze politicamente di peso e riflesso di esperienze concrete in crescita, seppure ancora prive di quelle che Flaviano Zandonai, segretario di Iris Network, chiama «capacità di essere fattori di cambiamento delle regole del gioco dei sistemi economici locali». Né paragonabili per dimensioni (vedi BOX ) e modalità di generazione a quella italiana: «Le differenze – continua – si trovano innanzitutto nei meccanismi di origine delle imprese sociali: in molti di questi Paesi non avviene in seguito ai processi di trasformazione dei sistemi di welfare esistenti, anche se l’input iniziale può essere comunque quello della sussidiarietà sotto la forma della necessità di arricchire l’offerta di beni e servizi di protezione e coesione sociale. Si tratta perciò di una prospettiva di valore aggiunto e non di sostituzione».

ORIENTE IN MOVIMENTO

I numeri dell’impresa sociale in Italia

12.000

COOPERATIVE SOCIALI E CONSORZI REGISTRATI valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015

E che ci sia fermento globale nel settore è più che evidente. Il numero di imprese sociali per milione

400.000

LAVORATORI, TRA CUI

34.000

“PERSONE SVANTAGGIATE” IMPIEGATE DALLE COOPERATIVE DI TIPO B

40.000

SOCI VOLONTARI

7 milioni

DI PERSONE CHE RICEVONO SERVIZI

di abitanti sta diventando palpabile in vari Paesi del Sud-Est asiatico, a cominciare dalle 63 censite a Hong Kong, per scendere alle 43,1 di Taiwan, 33 di Singapore e 19,1 in Corea del Sud. L’impresa sociale di Hong Kong sta crescendo: passata dalle 320 realtà del 2010, che fatturavano circa 65 milioni di dollari e valevano lo 0,2% del Pil nazionale, alle 457 dell’anno scorso (con 141 milioni di dollari di fatturato, pari allo 0,5% del Pil), alle attuali 527 unità. Una specie di cavalcata che ha riguardato attività legate al commercio di beni e servizi eticamente orientati, il settore educativo e culturale, l’inserimento lavorativo e l’inclusione sociale delle persone con disabilità. E soprattutto è un processo che sta mostrando effetti positivi in termini di impatto sociale ed economico, se è vero che la politica locale si cura di osservare che per ogni dollaro investito in programmi di riduzione della povertà si ha un ritorno per la comunità di 0,96 dollari se l’investimento viene compiuto in politiche pubbliche per la sicurezza sociale, 3,7 dollari nella formazione professionale e ben 7,2 dollari nelle imprese sociali del cosiddetto 3E Project, che lavora all’inserimento lavorativo delle persone disabili. Anche a Taiwan i numeri cominciano a fotografare un settore in movimento, con solo 56 società registrate ma circa 200 che dichiarano la finalità sociale come obiettivo in espansione nel loro business principale e un migliaio che la contemplano nel proprio statuto. Dati ancora limitati e però interessanti perché riguardano comparti ad alto potenziale di sviluppo: oltre alle iniziative dirette espressamente alle fasce più fragili della popolazione (poveri o disabili), si tratta infatti di agricoltura, attività di protezione culturale, mercato equo, innovazione tecnologica, servizi ambientali. Settori verso i quali sono state avviate politiche pubbliche di coordinamento e messa in rete, incubatori per lo sviluppo di start up, piattaforme di crowdfunding e sostegno tramite finanziamenti garantiti. ✱ 33


economia solidale la ricerca della felicità

Dal malessere una domanda di nuova economia di Corrado Fontana

Vittorio Rinaldi, presidente di Ctm Altromercato: «Le affinità con il commercio equo sono molte. Ma attenzione a non usare l’imprenditoria sociale per sgretolare il welfare state»

I

l proliferare dell’impresa sociale «è sintomo di malessere e d’insofferenza innanzitutto rispetto al modello di sviluppo capitalistico post-fordista, che, negli ultimi tempi, ha affermato sempre più impietosamente la logica del profitto al di sopra di ogni altro valore, facendo ruotare attorno al primato della finanza ogni altra attività sociale ed economica. Allo stesso tempo è espressione dei limiti e dell’incapacità dell’ente pubblico di rispondere a diffuse domande di cura e protezione sociale delle comunità locali»: così parla Vittorio Rinaldi, presidente di Ctm Altromercato, il principale consorzio italiano dedito al commercio equo e solidale. E aggiunge: «Mi pare rilevante che questa proliferazione avvenga su scala transnazionale, con esperienze interessanti che emergono in parallelo in Brasile, in Estremo Oriente, in Italia, in Africa, seppur con differenze marcate, ma accomunate da una domanda di economia sociale». La stessa domanda, del resto, che pone il consumatore quando si rivolge al mercato equosolidale, e che Rinaldi – a proposito di impresa sociale – ritiene positiva se integrata in un

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orizzonte di cooperazione tra sistema pubblico e privato sociale, evitando perciò di contribuire allo «sgretolamento del welfare state, mediante l’esternalizzazione dei servizi al massimo ribasso, la privatizzazione di ogni angolo dell’economia e, in ultima istanza, l’introduzione a piene mani della logica del massimo profitto laddove essa non dovrebbe avere cittadinanza». Ci sono Paesi in cui questo rischio appare più immediato? Certo, ma è più proficuo citare gli esempi in cui lo sviluppo dell’impresa sociale evidenzia un segno positivo, come il Brasile, l’Ecuador o il Canada. C’è una certa affinità, del resto, tra fair trade e impresa sociale… In linea di massima una cooperativa di commercio equo e solidale è un’impresa sociale, come pure lo è un consorzio di cooperative e associazioni qual è Altromercato. La principale differenza risiede nel fatto che il fair trade (mercato equo, ndr) delle Botteghe del mondo non vive normalmente di appalti

pubblici e non eroga beni o servizi configurabili canonicamente come servizi di welfare, costituendosi come un sistema economico indipendente dai servizi pubblici. Al tema dell’impresa sociale è legato quello della valutazione dell’impatto sociale, comprese le proposte di superamento del Pil… È opinione largamente condivisa nel nostro ambiente che dobbiamo andare verso il superamento del Pil come unico strumento di valutazione delle economie nazionali. Tuttavia, un conto è fotografare lo stato di un Paese o di una regione con parametri più ampi e articolati rispetto a quelli del mero prodotto interno lordo; altro conto è misurare l’entità e la qualità di una singola iniziativa progettuale o di un’attività aziendale senza fini di lucro entro una comunità locale. Chiaramente il problema del fair trade, come di gran parte delle Ong e delle cooperative sociali, rientra in questa seconda categoria. Una delle esperienze più interessanti realizzata nel mondo del commercio equo – ma non solo lì – è proprio quella della valutazione partecipativa. Attraverso un comitato di volontari italiani che rimane in contatto coi produttori, si elaborano riscontri periodici basati sia su griglie di misurazione standard sia sulla verifica di quella che nel marketing chiameremmo la “customer satisfaction”, vale a dire la soddisfazione della controparte, che nel nostro caso è costituita dal produttore del prodotto alimentare o artigianale commercializzato nella Bottega del mondo. La soddisfazione del cliente, dell’utente o del beneficiario è ciò che ci dà la cifra del senso e dell’utilità del nostro lavoro. ✱

 LINK SEWF2015 http://sewf2015.org/it Social Progress Index www.socialprogressimperative.org Fundacion Paraguaya www.fundacionparaguaya.org.py valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015


la ricerca della felicità economia solidale

Fermento sudamericano di Corrado Fontana

In Paraguay, un’esperienza che mostra come i programmi di sviluppo locale possano migliorare la realtà. E intanto la Colombia sperimenta un indice di progresso per le città

«n

el mio Paese sta avvenendo una rivoluzione», ci diceva a luglio scorso Martin Burt, rappresentante della Ong sudamericana Fundacion Paraguaya, che presentava il programma di sviluppo sociale Poverty Stoplight, cioè il Semaforo della povertà. Burt raccontava infatti – a tratti con un entusiasmo da vero imbonitore – di un programma che nel 2014, nei suoi primi tre anni di funzionamento, anche grazie a finanziamenti importanti (500mila dollari dall’agenzia governativa americana UsAid e un altro milione di dollari da altri donatori), aveva promosso il benessere di 18mila famiglie povere del Paraguay, cioè circa 92mila persone. Un progetto articolato in cui ciascun nucleo familiare seguito da Fundacion Paraguaya viene stimolato a compiere un’autodiagnosi delle proprie condizioni, a miglioravalori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015

re laddove è più carente (dall’educazione dei figli alla presenza di acqua corrente in casa, alla solidità strutturale dell’abitazione alla qualità del cibo) e si impegna a condividere e aggiornare, tramite una piattaforma social gestita con un’applicazione dedicata, i propri progressi attraverso 50 indicatori di sviluppo rappresentati da icone colorate, dal rosso della povertà estrema al giallo al verde. Stimolando volutamente la competizione tra queste famiglie, e offrendo contemporaneamente loro servizi di microfinanza, Fundacion Paraguaya avrebbe ottenuto un raddoppio del reddito mensile per circa due terzi delle famiglie inserite nel programma. Sarà vero amore? Un esito effettivamente incoraggiante, che Flaviano Zandonai di Euricse giudica tuttavia come «una versione un tantino esaspe-

rata del concetto di “attivazione”, versione estrema dell’empowerment», e che ci pone inevitabilmente qualche interrogativo. Innanzitutto sull’opportunità e le conseguenze a medio e lungo termine dell’inoculazione di questo spirito competitivo in un contesto simile, considerando anche che lo stesso Burt dichiarava di non capire fino in fondo dove queste persone riuscissero a trovare le risorse economiche per progredire tanto rapidamente; in secondo luogo l’attenzione su quello che sembra per molti versi lo schema di creazione di un “nuovo mercato”: con lo stimolo di una domanda (l’aspettativa di progresso socioeconomico) e la contemporanea offerta di servizi atti a soddisfarla (i microprestiti) da parte dello stesso soggetto. Elementi di successo e perplessità, dunque, da un continente che sta esplorando tanti terreni: Progreso Social Colombia, strumento partecipato dal Terzo settore (la rete Ciudades Como Vamos e poi Fundación Avina, Compartamos Con Colombia, Social Progress Imperative) e dal privato (Deloitte), sta ad esempio creando un indice di progresso sociale delle città. Primo obiettivo la capitale Bogotà, coi suoi 8 milioni di abitanti e 20 distretti, di cui sarà tracciata una mappa che consenta l’analisi delle politiche socialmente rilevanti e il monitoraggio dei cambiamenti avvenuti tra 2009 e 2014. E, affinando la metodologia, altre tredici città colombiane verranno valutate, fino alla presentazione dei risultati a Rio de Janeiro l’anno prossimo, pensando alle 70 aree urbane dell’America Latina da includere in un futuro Pacto di Rio, che promuova partenariati pubblico-privati per disegnare città più sostenibili e inclusive. E che siano più aperte a un “mercato” del sociale che interessa tutti. ✱ 35


economia solidale cibo a rischio

Sicurezza alimentare in balìa del meteo di Emanuele Isonio

I Lloyd’s di Londra avvisano: tre eventi catastrofici potrebbero essere sufficienti per affossare l’agricoltura mondiale, con una fiammata dei prezzi e un crollo dei listini azionari. Tutto partirebbe da El Niño

I

l pacco di riso dentro il carrello della spesa è passato da 2 a 10 euro? Le azioni nel portafoglio titoli di un piccolo risparmiatore sono crollate del 10%? Alzare gli occhi al cielo potrebbe essere, per una volta, la risposta migliore a tante domande: proprio da lì potrebbe infatti arrivare un evento meteo talmente imponente da mettere in ginocchio l’agricoltura mondiale e, con una rapida reazione a catena, attivare una crisi talmente potente da squassare le Borse, i sistemi economici e gli assetti sociali. Un’immagine da disaster movie applicato al mondo della finanza e dell’economia glo-

SE LA TEMPERATURA AUMENTA, 4.200 MILIARDI IN FUMO NEI MERCATI

4.200 miliardi di dollari. Più della capitalizzazione attuale delle Borse di Londra e Milano messe insieme. A tanto potrebbero ammontare le perdite per gli investitori derivanti dall’impatto dei cambiamenti climatici entro il 2100 se il riscaldamento dell’atmosfera terrestre dovesse superare i due gradi centigradi. Il calcolo è contenuto nel rapporto “Il costo dell’inazione” realizzato dall’Intelligence Unit dell’Economist (EIU). E le perdite potrebbero salire fino a 7mila miliardi nel caso non dovessero essere presi rapidi provvedimenti per evitare che l’aumento di temperatura raggiunga i 5 °C (vedi GRAFICO ). I risultati dell’indagine – sperano i suoi estensori – dovrebbero spingere i regolatori finanziari a riconoscere un “rischio ambientale sistematico” che porti a due decisioni cruciali: fissare un prezzo adeguato del carbone, per scoraggiare gli investimenti. E un nuovo, rigoroso, accordo sul clima nel prossimo summit di Parigi di fine novembre. «Non saliremmo mai su un aereo se ci fosse il 5% di probabilità di schiantarci al suolo. Eppure stiamo trattando il clima con il medesimo livello di rischio» spiega Nick Robins, codirettore della commissione per un “sistema finanziario sostenibile” istituito presso il Programma per

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bale. A partorirla non sono però gli sceneggiatori di qualche major di Hollywood. È invece descritta, nel dettaglio, da un rapporto (Food system shock) commissionato dai Lloyd’s di Londra a climatologi, economisti ed esperti di sicurezza alimentare. Un sistema fragile, quello agricolo, secondo quanto emerge dal report. Perché tre catastrofi meteo sarebbero sufficienti per scuoterlo alle fondamenta.

REAZIONE A CATENA GLOBALE «Questo rapporto è stato realizzato per aiutare i nostri sottoscrittori a identificare gli impatti della sicu-

l’Ambiente delle Nazioni Unite. «I mercati finanziari non stanno affrontando il tema del cambiamento climatico con sufficiente serietà». Per gli investitori – osserva l’EIU – c’è però un modo per ridurre la propria esposizione ai rischi ambientali: investire in progetti che finanzino la transizione verso un’economia a basso uso di carbone. Ma, ad oggi, solo il 7% degli azionisti calcola l’impronta ecologica del proprio portafoglio d’investimenti. E appena l’1,4% cerca di ridurla. IMPEnnAtA DI PERDItE PREvIStA DOPO IL 2065

Diminuzione del valore degli asset - prezzi 2015, in migliaia di mld di US$ fonte: ViVid economics.

18 16 14 12 10 8 6 4 2 0

Perdite con:

2015

2025

2035

+6°C

2045

+5°C

2055

+4°C

2065

+3°C

2075

2085

Perdita media

2095

2105

valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015


cibo a rischio economia solidale

rezza alimentare, spesso trascurati in precedenza», spiega Vittorio Scala, country manager dei Lloyd’s in Italia. «Per questo abbiamo chiesto ad alcuni esperti di sviluppare uno scenario realistico di uno shock nella produzione globale dei cereali per scopo alimentare e di descriverne gli impatti a cascata». Gli analisti dei Lloyd’s sono quindi partiti dall’ipotesi, per nulla irrealistica, di una forte attività di El Niño, la corrente anomala calda che si sviluppa nell’oceano Pacifico centrale tra dicembre e gennaio in media ogni cinque anni e permane attiva per molti mesi. Esattamente quello che i climatologi stanno constatando a partire dall’inizio del 2015. Dalla sua azione s’innescherebbe tutto (vedi GRAFICO ): inondazioni in Mississippi e Missouri con conseguente riduzione dei raccolti di mais (-27%), soia (-19%) e grano (-7%). Gravi siccità dall’India meridionale al Sud-Est asiatico fino all’Australia (dimezzato il mais prodotto in quel quadrante). Al contrario, piogge torrenziali danneggerebbero le coltivazioni di cereali nell’area compresa tra Pakistan, Nepal e Bangladesh e Vietnam (a partire dal riso, con percentuali tra 6 e 20%). A questo quadro già allarmante, si assocerebbero altri due fenomeni: la diffusione della ruggine del frumento (che dalla Russia si espanderebbe fino in Argentina come una pandemia) e temperature molto calde in America Latina. Risultato? Il prezzo delle commodity crescerebbero di quattro volte, con un record, per il riso, del 500%. A quel punto, lo shock agricolo innescherebbe una reazione a catena con conseguenze sull’economia reale e sui listini azionari: le principali Borse europee – sempre secondo i Lloyd’s – perderebbero il 10% del loro valore, mentre quelle del Nord America il 5%. Al tempo stesso, la scarsità di accesso al cibo provocherebbe rivolte nelle aree urbane del Medio Oriente, del Nord Africa e del Sud America, con un aumento dell’instabilità politica e danni per le imprese di molti settori produttivi. Un’Apocalisse, o giù di lì.

ITALIA A FORTE RISCHIO Ma al di là degli scenari paventati dal colosso assicurativo londinese, già oggi, i dati meteo rendono impossibile sottovalutare gli eventi climatici: «Quelli estremi – rivela Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente della Camera dei deputati – sono aumentati del 900% dagli anni ’60». Una crescita che si registra ovunque, ma l’Italia è purtroppo in prima fila in questa classifica. È lo stesso Consiglio Nazionale delle Ricerche a inserire il nostro Paese tra gli hot spot, i punti caldi del Pianeta, che si riscaldano più velocemente di altri. Dopo Amazzonia, Sahel, Africa occidentale, valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015

LA REAZIOnE A CAtEnA nEL SIStEMA AGRICOLO

Ecco cosa potrebbero provocare tre eventi meteo di grandi dimensioni alla filiera mondiale del cibo fonte: emerGinG risk report 2015

Il vento diffonde la ruggine del grano

EL NIÑO Oscillazione meridionale

Kazakhstan

Russia

Ucraina

Missouri River

Nepal

Pakistan

Turchia

Mississippi River

Bangladesh India

Nord Africa America Latina Medio Oriente

Sud-Est asiatico Brasile Incremento temperature

Australia Argentina

Inondazioni

Epidemie nelle colture

Piogge torrenziali

Rivolte per il cibo

Crisi agricole

Frane

Gravi siccità

IMPATTO ECONOMICO GLOBALE

-5%

-10%

-7%

-10%

-11%

+500%

Valore del mercato azionario Usa

Valore del mercato azionario Ue

Produzione di riso

Produzione di mais

Produzione di soia

Prezzo del riso

Indonesia e Asia centro-orientale, c’è infatti il Mediterraneo. In un altro rapporto, l’italiana Unipol, citando dati 2014 della Organizzazione meteorologica mondiale, fa notare che, dagli anni ’70 ad oggi, i disastri naturali in Europa sono passati da 60 a 577 e le vittime da 1.645 a oltre 138mila (+8.000%). In termini economici è già un salasso: tra allagamenti, tempeste, siccità, caldo record e incendi l’Europa ha perso 130 miliardi di dollari. Quarant’anni prima erano meno di 17 miliardi. Per l’Italia, rivela sempre Unipol, un aumento della temperatura media di 1,2 gradi °C porterebbe a danni economici nell’ordine dello 0,2% Pil (circa quattro miliardi di euro). Ma, considerando anche gli aspetti sociali degli impatti (deterioramento della salute, incremento della mortalità, spostamenti forzati delle popolazioni colpite), le perdite, calcolate come minore possibilità di consumo delle famiglie, potrebbero raggiungere i 20-30 miliardi. ✱ 37


economia solidale nuovi cattivi

Zalando Se questo è un lavoro di Mauro Meggiolaro

Turni sfibranti, paghe minime, contratti collettivi disapplicati. Dietro il boom del colosso tedesco dell’online, pochi diritti nonostante consistenti sussidi statali

O

gnuno ha il suo colore distintivo: centinaia di magazzinieri vestiti di nero, decine di mentori in grigio, qualche tecnico in giallo, i team leader in arancio e il caporeparto in bianco. Accade ad Erfurt, Germania, nel più grande (2mila dipendenti) dei tre centri logistici di Zalando, il colosso europeo dell’e-commerce per scarpe, vestiti e accessori. Dove i “picker” (raccoglitori) in divisa nera macinano in media 15-20 km al giorno per raccogliere, da mille file di scaffali, sette milioni di articoli diversi di oltre 1.500 marchi che i clienti di 15 Paesi europei ordinano online senza sosta.

SE STAI FERMO, ARRIVA IL RICHIAMO «I mentori insegnano il lavoro ai nuovi arrivati e fanno pressione perché si mantenga il ritmo», ha spiegato sul canale ZDF la giornalista Caro Lobig che nel 2014 ha lavorato per tre mesi sotto copertura a Erfurt, riprendendo con una telecamera nascosta. «Ogni “picker” ha uno scanner in mano con

IL GIOIELLO DEI fRAtELLI SAMwER di Mauro Meggiolaro

Rampolli di una famiglia di avvocati di Colonia hanno fatto una fortuna copiando piattaforme online e rivendendo i cloni alla società “originale”. Un business da centinaia di milioni di euro Nata a fine 2008 dall’idea di Robert Gentz e dell’amico e compagno di studi David Schneider, allora 25enni, Zalando ha oggi ol38

il quale scannerizza i prodotti che raccoglie. Il tempo tra una scannerizzazione e l’altra è misurato con precisione: se un “picker” sta troppo tempo in piedi senza camminare verso un nuovo articolo viene ripreso». Secondo quanto riportato nel servizio di Lobig, al magazzino di Erfurt gli interventi delle ambulanze per soccorrere lavoratori spossati sarebbero stati all’ordine del giorno. Camminare, camminare, camminare per otto ore al giorno a 8,79 euro lordi all’ora, appena sopra il salario minimo di 8,50 euro, introdotto per legge in Germania dal gennaio del 2015. Un lavoro per il quale non serve una formazione specifica: solo la forma fisica e la mancanza di prospettive migliori. Il reportage di Caro Lobig è stato trasmesso dalla rete privata RTL nell’aprile del 2014 ma non è più disponibile online. Zalando ne ha ottenuto la rimozione e ha denunciato la giornalista per spionaggio industriale. Subito dopo la trasmissione, ha pubblicato sul suo sito internet una serie di precisazioni.

tre 8mila dipendenti in Germania, 3.500 dei quali a Berlino, la sede principale. Dal 2011, anno in cui Zalando è entrata nel mercato italiano, al 2014 i ricavi sono più che quadruplicati e dall’ottobre del 2014 la società è quotata in borsa a Francoforte. Il maggiore azionista è il fondo svedese Kinnevik (che appartiene alla famiglia Stenbeck) con il 31,8% (attraverso la holding lussemburghese Verdere Sarl). Al secondo posto c’è la Global Founders GmbH (11,19%) dei fratelli Samwer, i golden boys della scena internet tedesca, gli stessi che nel 2008 fornirono a Gentz e Schneider i capitali necessari per

partire, attraverso la holding Rocket Internet. Zalando è una copia europea del sito di e-commerce americano Zappos, lanciato nel 1999 e specializzato nella vendita online di scarpe. I fratelli Alexander (1975), Marc (1970) e Oliver Samwer (1972), provenienti da una famiglia benestante di avvocati di Colonia, non sono nuovi a operazioni del genere. Anzi, dalla fine degli anni Novanta ad oggi hanno costruito la loro fortuna copiando piattaforme sviluppate negli Stati Uniti e, in alcuni casi, vendendo la copia all’originale. Nel 1999 hanno lanciato Alando copiando eBay, per poi venderla alla stessa eBay per 50 milioni di marchi (25,6 milioni di euro) appena sei mesi dopo. Nel 2000 è la volta di Jamba! (suonerie per cellulari) venduta dopo valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015


nuovi cattivi economia solidale

35 MILIONI DI CONTRIBUTI PUBBLICI Problema risolto? Stefan Najda, segretario del sindacato Ver.Di, responsabile per il settore della vendita al dettaglio, non ne è per nulla convinto. «È vero che a Erfurt la paga oraria è ora intorno ai 9,16 euro (lordi). Recentemente sono anche partiti i consigli di fabbrica, sia a Erfurt sia nel centro di spedizione di Brieselang (Brandeburgo)», spiega Najda a Valori. «Ma i lavoratori di altre imprese nella zona di Erfurt guadagnano in media 11,21 euro all’ora per lo stesso tipo di lavoro e per 38 ore alla settimana contro le 40 di Zalando. Oltre a 925 euro di tredicesima e 1.048 euro come contributo per le ferie. Zalando paga invece un totale di 600 euro, non prevede extra per il lavoro notturno e riconosce dai due ai quattro giorni di ferie in meno. Il tutto perché la società non vuole applicare il contratto collettivo di lavoro per il commercio al dettaglio». Una condotta non certo esemplare, che è però sussidiata dallo Stato. «Negli anni scorsi Zalando ha ricevuto contributi pubblici per circa 35 milioni di euro. Il contribuente alla fine paga due volte: con i fondi statali o regionali garantiti all’impresa per far partire l’attività e, in seguito, con le integrazioni salariali per i lavoratori che guadagnano troppo poco e non riescono a mantenere la propria famiglia». Il servizio di RTL pare comunque aver sortito

quattro anni al gigante americano delle telecomunicazioni Verisign per 273 milioni di dollari. A partire dal 2006 i fratelli decidono di far fruttare gli incassi delle loro prime due vendite di successo (Alando e Jamba!) e si trasformano da iniziatori di imprese a invevalori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015

qualche effetto. Del resto per Zalando, che ha un rapporto diretto con il cliente finale senza l’intermediazione di punti vendita, l’immagine è tutto. Nel 2014 la società ha speso 291,2 milioni di euro in marketing. Circa 800mila euro al giorno, destinati principalmente alla pubblicità: spot televisivi, posizionamento sui motori di ricerca, annunci pubblicitari mirati su siti internet. In percentuale dei ricavi, le spese per il marketing, sottolinea la società nell’ultimo bilancio, sono però scese dal 17,6% del 2013 (309 milioni di euro in valore assoluto) al 13,2% del 2014, l’anno in cui, per la prima volta, Zalando ha chiuso in utile: 35,71 milioni di euro a fronte di ricavi per 2,20 miliardi di euro. ✱

in sintesi FONDAZIONE

 ottobre 2008  ♦

MERCATI SERVITI

15 [Belgio, Germania, Danimarca, Finlandia,

Francia, UK, Italia, Lussemburgo, Olanda, Norvegia,

 Austria, Polonia, Svezia, Svizzera, Spagna] CENTRI DI SPEDIZIONE

SEDE

Berlino MARCHI VENDUTI

oltre 1.500

fonte: cartella stampa zalando, bilancio 2014

Nel frattempo, ha creato un team specificamente dedicato alla “revisione della gestione dei tempi di lavoro” e all’introduzione di “ulteriori postazioni per sedersi” mentre è stato eliminato il compenso di 500 euro per i dipendenti che forniscono informazioni su furti di merce da parte di loro colleghi.

Brieselang [poco fuori Berlino, 2011] Erfurt [Turingia, 2012] Mönchengladback

 [al confine con l’Olanda, 2014]

LAVORATORI

[di cui 3.500 nella sede di Berlino]

8.000

PRINCIPALI AZIONISTI

Kinnevik [fondo svedese della famiglia Stenbeck (31,8%)]

 [che appartiene ai fratelli Samwer (11,19%)]  FATTURATO 2014 UTILE 2014 2,21 miliardi € € 35,71 milioni

stitori nelle start-up di internet e della telefonia mobile. Con le holding Rocket Internet ed European Founders Fund (EFF) fanno partire decine di imprese, molte delle quali sono copie di società di successo, in buona parte americane. Come Lazada, l’Amazon indonesiana, StudiVZ, una versione tedesca di Facebook, o CityDeal, clone tedesco di Groupon, lanciato nel 2010 e venduto alla stessa Groupon per 170 milioni di dollari appena cinque mesi dopo. Dal 2 ottobre 2014 anche Rocket Internet è quotata in borsa, con una capitalizzazione di 8 miliardi di euro. I maggiori azionisti sono i fratelli Samwer [nella foto] (tramite Global Founders GmbH, con il 38,1%) e, di nuovo, gli svedesi di Kinnevik (con il 13,2%). La mission, sulla home

Global Founders GmbH

page della holding, è molto chiara: «diventare la più grande piattaforma internet al mondo al di fuori di Stati Uniti e Cina». Tra le società in cui investe Rocket Internet ci sono anche due cloni di Zalando: Dafiti, attivo in Brasile e America Latina, e Zalora, con un focus su Asia e Pacifico, ma anche pionieri della cosiddetta “sharing economy” (consumo collaborativo) come Helpling, clone di Homejoy e Handybook, già definiti “gli Uber dei servizi di pulizia”. Una galassia di società che riproducono fedelmente la destrutturazione del mondo del lavoro che si sta imponendo a grandi passi a livello globale grazie a internet: tassisti, colf, badanti e insegnanti a ore e, per chi ha il fisico, “picker” da Zalando, Amazon o dai loro cloni. O cloni dei cloni. ✱ 39


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valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


economia solidale ??

la bacheca di valori ?? economia solidale

Ispra, nel 2100 in Italia il termometro segnerà fino a 5 gradi in più 5 luglio Jacopo Giliberto @jacopogiliberto

Oltre settanta illecite certificazioni di #biodegradabilità: condanna del tribunale di Milano a Ecologia Applicata 31 luglio Asso Bio Plastiche @abioplastiche

Only 2-10% of households have #solar panels, but 60% willing to pay more for #renewable energy [Solo 2-10% di famiglie hanno pannelli solari ma il 60% disposto a pagare di più per energia rinnovabile] 2 agosto OECDVerified account @OECD

LA SPESA PRO CAPITE DEI GRANDI COMUNI

RIFIUTI

FONTE: DATI ED ELABORAZIONI OPENBILANCI

I MIGLIORI TWEET DEL MESE

[Dati 2012 - La somma non include eventuali budget di aziende partecipate]

Roma Torino Bari Napoli Milano Catania Palermo Genova Bologna Verona Messina Trieste Firenze Padova Venezia

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VALORITECA APPUNTAMENTI

2-4

OTTOBRE 2015

9-10

OTTOBRE 2015

23-25 OTTOBRE 2015

Bastia Umbria

Fa' la cosa giusta!

FONTE: RAPPORTO SYMBOLA “IO SONO CULTURA” 2015

SPUNTI DA NON PERDERE NEL MESE APPENA TRASCORSO

CON LA CULTURA SI MANGIA: MA NON AL SUD...

Quanto incide il sistema produttivo culturale sul valore aggiunto e sull'occupazione

Tre giorni di eventi, presentazioni, dibattiti, attività per le scuole e workshop con al centro la mostra mercato delle eccellenze produttive del centro Italia. La 2ª edizione della Fiera del consumo consapevole e degli stili di vita sostenibili in Umbria è ospitata al centro espositivo Umbriafiere di Bastia Umbra. Programma su: www.falacosagiustaumbria.it Bertinoro

Giornate di Bertinoro - XV Edizione

Torna il tradizionale appuntamento organizzato nel comune romagnolo da Aiccon (Associazione italiana per la promozione della cultura della cooperazione e del non-profit). Tema di quest'anno: “L'economia della coesione nell'era della vulnerabilità”. Per riflettere come questo diverso modello economico possa incidere sui meccanismi di produzione del valore e aiutare la competitività dei territori. Info: www.legiornatedibertinoro.it Firenze

Novo Modo

Affrontare il tema delle disuguaglianze per dare spazio alle tante esperienze e proposte capaci di disegnare un futuro di equità e giustizia: nuovi modelli di produzione, corretto sfruttamento di beni e servizi, nuove forme di economia, politica e agire sociale. Appuntamento all'Auditorium di Sant'Apollonia. Programma ed elenco relatori: www.novomodo.org

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NEWS

Glifosato: anche l’Italia dica no

È il più diffuso fertilizzante al mondo ma il glifosato è stato dichiarato “probabile cancerogeno umano” dall'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Per questo la Firab (Fondazione italiana Ricerca in agricoltura biologica) ha lanciato una campagna per chiedere a governo e regioni di vietarne definitivamente la produzione, la vendita e l'uso, in nome del principio di precauzione. 41


fotoracconto 04/04

Tra esaltazione artistica del regime e miseria quotidiana, i cinque fotogrammi di questa pagina raccontano del viaggio realizzato ad aprile scorso dal segretario Fim-Cisl, Marco Bentivogli. Meta del viaggio, Tianjin, una delle zone industriali principali del Paese (ignota all’Occidente finché a metà agosto un megaincendio in un magazzino portuale ha causato oltre 120 morti e 700 feriti). Un’immersione nella realtà sindacale cinese, in cui l’organismo “ufficiale”, la FNSC, con 280 milioni di iscritti, non può indire scioperi ma solo “occasioni ricreative”: un’emanazione dello Stato-Partito, pagato dalle aziende col 2% del monte salari. Un colosso inutile: e infatti, racconta Bentivogli, «la Cina ha registrato una crescita esponenziale di conflittualità aziendale. 1132 casi solo nel 2014». Scioperi, blocchi stradali, sit-in e altre forme di lotta. Che spesso causano pesanti repressioni. Lo sa bene Wu Guijun (nella foto a destra), rappresentante dei lavoratori di un mobilificio. Nel 2013, una richiesta in favore dei suoi colleghi gli è costata 371 giorni di carcere. È stato liberato solo grazie alle pressioni di lavoratori, media stranieri e mondo accademico. Con gli 11mila dollari di risarcimento ha fondato una Ong che offre assistenza gratuita ai lavoratori in difficoltà. Prove tecniche di sindacalismo dal basso. 42

FOTO: GIOVANNI PANOZZO

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social innovation

L’approccio vietnamita

Imprese sociali tra riso e coworking di Andrea Vecci

on bastavano le crescenti importazioni di riso dalla Cambogia e dal Myanmar a minacciare la produzione italiana: anche il recente accordo di libero scambio Ue-Vietnam che prevede l’apertura di un contingente d’importazione di 80mila tonnellate di riso vietnamita tax-free sta preoccupando il comparto italiano. Se è difficile valutare con gli occhi dei risicoltori italiani la portata della crescita di questo Paese, è più interessante guardare a come sta innovando l’ecosistema dell’impresa sociale. Il Vietnam è tra i promotori dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la banca voluta da Stati Uniti e Cina per ristrutturare la governance, la finanza e le infrastrutture asiatiche dentro un nuovo quadro di rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. In questo contesto si inserisce la recente legge sull’impresa sociale, una forma societaria simile alle benefit corporation americane e alle social enterprise britanniche, il cui scopo principale è quello di risolvere un problema sociale o ambientale e che re-investe almeno il 51% dei suoi profitti annuali nella sua missione sociale o ambientale. Anche gli strumenti messi in campo dal governo per migliorare l’advocacy (ovvero le forme di tutela), la capitalizzazione e la crescita del movimento sono proporzionali all’aspettativa di farne un comparto capace di risolvere non solo le sfide a livello locale ma anche quelle di scala nazionale. Le attività delle imprese sociali vietnamite, infatti, spaziano dal fornire internet wireless gratuita a larga scala, in particolare nelle aree pubbliche, alla consulenza psicologica e psichiatrica, dai classici servizi educativi ai negozi dell’usato sicuro premaman per incentivare

N

valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015

e supportare le giovani madri, dal recupero delle tecniche tradizionali di produzione della carta all’apprendimento online, dal turismo culturale e ambientale al car sharing interprovinciale. Un tratto comune le caratterizza, quello di occuparsi dei giovani non solo per motivi occupazionali ma anche perché più capaci di usare le tradizioni culturali del Vietnam in modo creativo e innovativo. Nelle città europee l’impresa sociale si trasforma, soddisfacendo spesso bisogni emergenti: anche ad Hanoi si studiano modelli per coinvolgere la crescente massa di giovani scolarizzati che faticano ad essere assorbiti in settori produttivi in transizione e che non trovano un tavolo vicino a una presa elettrica in un internet caffè. È diversa la declinazione di “massa” che in Italia, ad esempio, trova spazi di coworking ricavati spesso dalla rigenerazione di asset pubblici non utilizzati. Dreamplex, invece, è uno spazio di coworking enorme, una vera e propria fabbrica che ricorda le internet company californiane, progettata per l’avvio di imprese tradizionali e creative, per facilitare l’incontro tra imprenditori, creativi, consulenti e investitori, per lavorare in modo collaborativo nel cuore del Distretto 1 di Hanoi, una città-regione di 7 milioni di abitanti. Nata da tradizioni e quadro legale occidentali, la nuova impresa sociale vietnamita, e più in generale quella asiatica, ha molto da dire sulle ambizioni e potenzialità di rinnovamento delle forme economiche, anche alle nostre latitudini. ✱ Maggiori approfondimenti sul blog Social Innovation di valori.it

43



INTERNAZIONALE

Giovanni verlini / iaea

FUKUSHIMA IL DISASTRO COSTA 50 MILIARDI

A

di Andrea Barolini

Oltre ai 1.656 decessi “indiretti” causati dalla fuga radioattiva, l’incidente alla centrale nucleare sta dissanguando le casse giapponesi. Senza contare i danni sociali e all’agricoltura. Eppure, il premier Abe vuole comunque accelerare i rientri nelle case valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015

distanza di quattro anni e mezzo dalla catastrofe nucleare dell’11 marzo 2011, è ancora impossibile indicare il costo economico definitivo del disastro di Fukushima. Di recente, la compagnia elettrica Tokyo Electric Power (Tepco), che gestisce la centrale, ha chiesto un nuovo aiuto finanziario al fondo pubblico per il risarcimento delle vittime. La richiesta è stata di 950 miliardi di yen, poco meno di 7 miliardi di euro, giustificata con l’estensione degli indennizzi relativi ai danni morali causati ai privati e agli imprenditori colpiti. Il gruppo nipponico, inoltre, ha spiegato di dover far fronte a un lavoro di decontaminazione più esteso del previsto. Si tratta della nona richiesta di fondi avanzata da parte della Tepco in quattro anni e mezzo: la somma di tutto il denaro ricevuto fino ad ora – comprese le iniezioni dirette di capitale effettuate dal governo di Tokyo – è pari ormai a 6.886 miliardi di yen (più di 50

Uno dei tecnici dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) durante la visita alla centrale nucleare di Fukushima nell’ottobre 2011. 45


internazionale sperperi nucleari Zona DI evacuaZIone aTToRno a fukushIma

miliardi di euro). Un’immensa mole di denaro cui vanno aggiunti i mancati introiti per lo Stato causati dal blocco forzato della produzione di energia e quelli relativi a tutte le attività di decontaminazione della regione. Non a caso, un anno dopo la catastrofe fu proprio la Tepco a dichiarare di non poter quantificare i costi complessivi.

DANNI NON SOLO ECONOMICI Per gli stessi lavori nella centrale serviranno ancora anni e anni. Alla fine del 2014 è stato evacuato il combustibile depositato nella piscina del reattore numero 4, il che ha scongiurato un ulteriore, grave rischio di contaminazione dell’ambiente circostante. Ma il processo di raffreddamento

dei nuclei è ancora in corso e la Tepco è obbligata a costruire cisterne supplementari per stoccare l’acqua radioattiva (200mila tonnellate solo dall’inizio del 2015). Mentre il sistema di decontaminazione idrica denominato ALPS risulta bloccato ormai da mesi e, secondo quanto riferito dal quotidiano francese Sciences et Avenir, potrebbe rimanere fermo fino al 2016. Accanto alle questioni economiche, ci sono poi quelle sociali: 160mila persone sono state costrette a lasciare le proprie case. Solo recentemente, il governo giapponese ha disposto la riapertura di alcune aree (come, ad esempio, nel caso della città di Naraha), suscitando peraltro le forti proteste di Greenpeace (vedi BOX ). Il premier Abe ha stabilito in effetti che i rientri saranno autorizzati laddove la radioattività risulterà inferiore a 20 milliSivert/anno. Il bilancio del disastro non può poi prescindere dalla macabra conta delle vittime. Il giorno della catastrofe nella centrale i morti furono diciassette, ma tutti imputabili allo tsunami (e non, dunque, alle esplosioni dei reattori). Ma nella provincia di Fukushima sono centinaia le patologie associate all’evento e – prosegue Sciences et Avenir – i decessi indiretti (riconosciuti cioè ufficialmente dalle autorità) erano a marzo scorso 1.656. Se si considera che lo tsunami ne provocò 1.607, vuol dire che le conseguenze del disastro nucleare sono ormai più ampie di quelle del terremoto. E nelle province limitrofe – Iwate e Migayi – i morti ammontano rispettivamente a 434 e 879.

di Andrea Barolini

L’Austria ha deciso di avviare una battaglia legale contro quello che lo stesso governo di Vienna ha definito «lo scandalo» del nucleare franco-inglese. Come annunciato già nel settembre del 2014, lo Stato austriaco si è rivolto alla Corte di Giustizia europea, dopo il via libera concesso dalla Commissione di Bruxelles alle tariffe agevolate concesse ai reattori EPR che dovrebbero essere costruiti da un con-

sorzio francese a Hinkley Point, in terra inglese. L’ok europeo è arrivato l’8 ottobre scorso, quando era ancora in carica la precedente Commissione: l’allora responsabile comunitario per la Concorrenza, Joaquin Almunia, aveva concesso il semaforo verde, suscitando l’ira non soltanto degli ambientalisti ma anche, appunto, del governo viennese. Quest’ultimo, a luglio scorso, ha fatto

Fonte: immaGine di conradmayhew [cc by-sa 3.0] attraverso wikimedia commons

30 km

20 km

KATSURAO NAMIE

TAMURA

FUKUSHIMA DAIICHI

FUTABA OKUMA TOMIOKA

KAWAUCHI NARAHA

HIRONO Centri urbani che il governo Abe vuole riaprire

10 km

aIuTI DI sTaTo aI ReaTToRI fRanco-InglesI: l’ausTRIa sI RIvolge alla coRTe euRopea Vienna guida la protesta contro la decisione di Parigi e Londra di garantire il riacquisto per 35 anni dell’energia prodotta dal reattore di Hinkley Point. Ma Cameron non indietreggia 46

valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015


sperperi nucleari internazionale

RIPARTE IL PARCO ATOMICO? Ma non è tutto. Come è ovvio in casi di questa gravità, anche l’agricoltura ha subito conseguenze non indifferenti. L’università di Vienna ha analizzato circa 900mila campioni di alimenti prelevati dall’amministrazione giapponese tra il 2011 e il 2014. Ne è derivato uno studio, pubblicato dalla rivista Environmental Science and Technology, che dimostra come il 3,3% dei prodotti agricoli provenienti dalla regione di Fukushima presenti tassi di radioattività superiori alle norme, e dunque illegali. Ciò nonostante, il governo di Shinzo Abe sta tentando in tutti i modi di riavviare al più presto il parco nucleare del Paese. Oggi i 48 reattori presenti nell’arcipelago sono infatti fermi; la prefettura giapponese di Kagoshima ha tuttavia annunciato il via libera alla riattivazione di due reattori, i Sendai 1 e 2, presenti sul territorio di propria competenza (entrambi giudicati «sicuri» dall’autorità di vigilanza). Altri due reattori – i Takahama 3 e 4 – hanno ricevuto un via libera dalle autorità, ma sono stati “congelati” dalla magistratura. Secondo i giudici, infatti, i due impianti non sono stati ancora equipaggiati con sufficienti sistemi antisismici: per questo ne è stata bloccata la riapertura. La corte ha accolto in particolare le richieste avanzate da alcuni cittadini, preoccupati per i rischi che la centrale nucleare può comportare per la regione: l’operatore che gestisce i reattori, la compagnia Kansai Electric Power, ha tuttavia deciso di depositare un ricorso contro la sentenza. ✱ seguire alle parole i fatti: nella denuncia si punta il dito contro la decisione del governo britannico di promettere ai costruttori il riacquisto dell’energia elettrica a un prezzo maggiorato, per ben 35 anni. Ma non è tutto: l’Austria contesta anche una garanzia pubblica concessa al progetto (che potrebbe raggiungere i 17 miliardi di sterline), nonché la clausola di indennizzo prevista in caso di chiusura anticipata della centrale. Una posizione non isolata Secondo quanto dichiarato dal ministro dell’Ambiente austriaco, Andrä Rupprechter, «tale imponente mole di denaro dovrebbe valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015

GREENPEACE: ABE NON RIPORTI GLI ABITANTI A FUKUSHIMA

L’organizzazione ecologista Greenpeace ha lanciato alla metà di luglio un appello al governo giapponese, chiedendo esplicitamente di procrastinare il ritiro delle ordinanze che impongono l’evacuazione di chi abitava attorno a Fukushima prima dell’incidente nucleare. «Il governo di Shinzo Abe – ha spiegato l’organizzazione non governativa in un comunicato – appare determinato a normalizzare gli effetti della catastrofe, facendo credere che la popolazione possa tornare sulle zone contaminate solo qualche anno dopo l’incidente». Sulla base di misure effettuate direttamente in loco, la stessa Greenpeace ritiene infatti che le aree evacuate non risultino ancora abitabili: «Secondo Tokyo le restrizioni andrebbero eliminate al più tardi nel marzo del 2017. Ciò implicherebbe degli sforzi di decontaminazione enormi, mentre quelli attuali risultano già largamente insufficienti e inefficaci». Ciò nonostante, il governo ha già dichiarato abitabili le borgate di Tamure e di Kawauchi, mentre l’area di Naraha tornerà ad esserlo a partire dal prossimo mese di settembre. qualI paesI sTanno cosTRuenDo pIù ReaTToRI nucleaRI?

Reattori nucleari in costruzione in tutto il mondo e operativi a partire dall’1 luglio 2015 Fonte: world nuclear industry status report 2015

essere utilizzata in altro modo, tenuto conto del fatto che il nucleare è una fonte del secolo scorso, ormai superata perché non sostenibile e perché ha rischi e costi troppo elevati». «Le sovvenzioni esistono per sostenere tecnologie moderne – gli ha fatto eco il cancelliere Werner Faymann, secondo quanto riportato dall’agenzia AFP – che siano al servizio dell’interesse generale di tutti gli Stati membri dell’Ue. Ciò non può valere in alcun caso per il nucleare». Una posizione non isolata in Europa: a quanto pare anche altri Stati, pur non arrivando a una denuncia formale, avrebbero storto il naso. La decisione del governo di tentare la via giudizia-

ria è stata inoltre preceduta da un’altra denuncia, depositata questa volta da un’alleanza austro-tedesca di dieci fornitori di energia. Si è trattato, in questo caso, di un approccio ovviamente meno politico e più “pragmatico”: gli industriali lamentano una distorsione della concorrenza a livello europeo generata dagli eccessivi “sostegni” di cui beneficia il progetto nucleare. Da parte sua, tuttavia, il governo di Londra sembra irremovibile: i reattori di Hinkley Point sono considerati dall’esecutivo guidato dal premier conservatore David Cameron essenziali nell’ambito del piano energetico della Gran Bretagna. ✱ 47


internazionale america pistolera

Obama senza armi nella lotta alle lobby di Giorgio Beretta* ed Emanuele Isonio pIsTole In casa: 1 su 2 è neglI usa

Il 42% di tutte le armi civili del mondo è detenuto da cittadini statunitensi

Fonte: unodc, small arms survey, via the Guardian

Popolazione del mondo:

7,13 miliardi

                                                                                                    Popolazione degli Usa:

4,43%

Pistole di proprietà di civili in tutto il mondo:

644 milioni           Pistole di proprietà di civili negli Stati Uniti d’America:

42%

* Analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa di Brescia - OPAL 48

Il presidente Usa sembra aver perso la battaglia contro i produttori di pistole. Nonostante le sue pressioni, l’import è a livelli record. E la presa della National Rifle Association sul Congresso è più forte che mai

«S

e mi chiede qual è il settore in cui sento di essere stato più frustrato e più ostacolato è il fatto che gli Stati Uniti sono la sola nazione avanzata sulla Terra in cui non abbiamo leggi di buon senso per il controllo delle armi, nonostante le ripetute uccisioni di massa. Se consideriamo il numero di americani uccisi per terrorismo dall’11 settembre sono meno di cento, mentre le vittime della violenza delle armi sono nell’ordine delle decine di migliaia. Non essere in grado di risolvere questo problema è stato angosciante: ma non è un tema sul quale ho intenzione di smettere di lavorare nei restanti 18 mesi». Queste parole di Barack Obama arrivavano, consegnate al microfono di un inviato BBC, all’indomani della strage di Charleston, in cui Dylann Storm Roof, 21 anni, ha fatto fuoco con una pistola calibro 45 regalatagli per il compleanno dal padre, all’interno della Emmanuel African Methodist Episcopal Church durante una lettura della Bibbia. Il bilancio della sua azione: nove morti – tre uomini e sei donne – membri della comunità afroamericana che frequenta la chiesa tra cui anche il pastore, il reverendo Clementa Pinckney, senatore del Partito democratico. Un mix di impotenza e frustrazione del comandante in capo della Nazione più potente della Terra, che fa chiaramente trasparire l’influsso e la capacità d’azione della lobby delle armi negli Stati Uniti. Quasi sfrontata nell’attaccarlo («Il presidente Obama – affermarono commentando gli ultimi dati del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives – non si fermerà di fronte a niente per spogliare i cittadini del loro diritto costituzionale di difendersi»). E nell’evidenziare che proprio gli an-

nunci di leggi più restrittive sulla detenzione delle armi hanno indotto le persone a correre ad acquistarle: «Barack Obama merita il premio di “Venditore di armi del decennio”» ha commentato, non senza sarcasmo, Erich Pratt, portavoce di Gun Owners of America. «Il presidente è stato implacabile nei suoi attacchi contro il Secondo Emendamento alla Costituzione (quello del 1791 che garantisce il diritto di possedere armi, ndr) e non c’è da stupirsi che la gente abbia paura e voglia proteggersi» ha aggiunto Jennifer Baker, portavoce della National Rifle Association (NRA). In effetti, i dati sembrano incontrovertibili: durante la presidenza Obama la produzione di armi da fuoco negli Stati Uniti è passata da meno di 4,5 milioni di unità a oltre 10,8 milioni di unità con un incremento del 140% (vedi GRAFICO ): è vero che l’export è cresciuto nell’insieme, però riguarda meno di 400mila unità; ma è aumentato soprattutto l’import che nel 2013 ha superato i 5,5 milioni di unità toccando un record trentennale. Anche sul fronte della legislazione, le notizie non sono incoraggianti. Come riporta una meticolosa inchiesta del New York Times del dicembre 2013, cioè a un anno esatto dalla strage di Newtown (alla Sandy Hook Elementary School un ventenne aprì il fuoco uccidendo 27 persone, tra cui 20 bambini sotto i 7 anni), delle 109 nuove leggi approvate nei vari Stati solo un terzo ha effettivamente rafforzato le restrizioni sulle armi, mentre la maggior parte le ha di fatto ammorbidite. Ed è proprio su questo versante che si manifesta la potenza mediatica della lobby delle armi negli Stati Uniti. Una lobby capitanata dalla National Rifle Association (NRA), una delle più influenti degli valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015


america pistolera internazionale

DOVE PRENDONO I SOLDI I LOBBISTI? La National Rifle Association (NRA) è un’organizzazione ben strutturata tanto da essere considerata “la lobby più influente degli Stati Uniti”. Potente con l’elettorato e, ancor di più, con il ceto politico: secondo il Centro Open Secrets l’influenza della NRA si fa sentire non solo attraverso i contributi elettorali, ma anche con i milioni di dollari di spese non rese pubbliche (off-the-book) per diffondere annunci pubblicitari. Le sole sue spese di lobbying sono nell’ordine di svariati milioni di dollari all’anno, usati per esercitare la sua influenza su agenzie governative, membri del Congresso e su vari ministeri tra cui quelli degli Interni e del Commercio. Un’imponente organizzazione, fondata nel lontano 1871, che oggi può disporre di svariati milioni all’anno (il Washington Post parla, forse esagerando, addirittura di 250 milioni) raccolti attraverso donazioni e sostegni di singoli aderenti, spesso esentabili dalle tasse, ma soprattutto col contributo delle maggiori aziende produttrici di armi e delle ditte specializzate nella rivendita. Come riporta una delle rare indagini in questo oscuro ambito, promossa dal Violence Policy Center (VPC), la NRA ha messo a punto uno specifico “Corporate Partners Program” (Programma per le aziende) per incrementare i contributi da parte delle ditte produttrici e rivenditrici di armi. Tra i donatori primeggia Midway USA, un colosso nella vendita online (non ha negozi fisici) di armi e munizioni di tutti i tipi che non solo ha dovalori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015

aRmI Da fuoco: la pRoDuZIone usa 1986-2013

Fonte: Firearms commerce in the united states - annual statistics update 2015

9.000.000 8.000.000 7.000.000 6.000.000 5.000.000 4.000.000 3.000.000 2.000.000 1.000.000 0 Pistole

1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Stati Uniti: un’entità che Obama conosce bene e di cui ha ripetutamente evidenziato l’influsso su Camera e Senato: «Sfortunatamente, la presa della NRA sul Congresso è estremamente forte – ha ribadito nei giorni scorsi –. E non prevedo nessuna iniziativa legislativa all’orizzonte, finché l’opinione pubblica Usa non sentirà un senso d’urgenza che porti a dire “tutto questo non è normale, possiamo cambiare qualcosa e abbiamo intenzione di cambiarla”». Eppure, una recente ricerca dell’Harvard Injury Control Research Center smentisce numerose delle tesi sostenute dalla lobby armiera. A cominciare da quella secondo cui “possedere un’arma in casa rende più sicuri” (lo pensa solo il 5% degli intevistati, il 64% sostiene l’esatto contrario). Ma, soprattutto, l’inchiesta dimostra che per il 72% degli americani leggi più severe sulle armi aiutano a ridurre gli omicidi. Eppure questo punto di vista pare non riuscire a far breccia tra le maglie dei legislatori statunitensi. Inutile domandarsi di chi è il merito.

Rivoltelle

Fucili

Fucili da caccia

Altre armi da fuoco

nato più di cinque milioni di dollari alla NRA di cui è lo sponsor ufficiale del meeting annuale, ma soprattutto ha contribuito a creare il “NRA Roundup Programme” per promuovere la raccolta fondi della lobby armiera. Seguono una serie di aziende produttrici di armi e munizioni: Smith & Wesson, Sturm, Ruger & Co., Blaser USA, Glock, Noser, Barret, Remimgton, Browning. C’era anche la Colt che nelle scorse settimane ha dichiarato bancarotta. Ma soprattutto spicca il gruppo Beretta USA che nel 2008 ha donato un milione di dollari all’“Istituto NRA per l’azione legislativa e le attività per la difesa dei diritti civili”. Obiettivo: difendere e ampliare la portata del Secondo Emendamento. E in quei soldi c’è tanta Italia: la Beretta USA fa parte infatti della Beretta Holding, interamente controllata dalla famiglia Gussalli Beretta di Gardone Val Trompia in provincia di Brescia. ✱

BERETTA, DAL MARYLAND AL TENNESSEE PER PUNIRE IL GOVERNATORE “OSTILE”

Il governatore di uno Stato decide di promuovere leggi più restrittive sulle armi? E io chiudo la fabbrica. È quello che la Beretta ha deciso nel febbraio 2014, chiudendo lo storico stabilimento di Accokeek nel Maryland per aprirne uno nuovo a Gallatin, nel Tennessee. In un comunicato, il presidente Ugo Gussalli Beretta, dimessosi poche settimane fa, giustificava la decisione attaccando frontalmente la decisione dell’allora governatore Martin O’Malley (un liberal del partito democratico) per la sua scelta di limitare la diffusione delle pistole. “Pattern of harassment” (una “prassi di molestie”) contro i legali possessori di armi, fu definita la scelta del governatore. Una presa di posizione inusuale per l’azienda italiana che è stata duramente criticata dalle associazioni statunitensi per il controllo delle armi: «Contesta una legge che è molto meno restrittiva di quelle che in Italia proteggono la sua famiglia», ha commentato Jonathan Lowy, del Brady Center to Prevent Gun Violence. Gussalli Beretta ha ovviamente taciuto nella sua lettera i milioni di dollari di finanziamenti pubblici dello Stato del Tennessee ricevuti per aprire la sua azienda. Ma anche così funziona la lobby delle armi. Che nella cinquecentenaria azienda italiana fornitrice di armi alle polizie e all’esercito Usa trova uno dei suoi più attivi azionisti. 49


internazionale nuovi produttori

Export-boom per l’arsenale di Seul Dal 30° al 13° posto fra gli esportatori mondiali in appena un anno: la Corea del Sud guarda ai Paesi nelle tante zone calde del globo. Senza cercare di rubare (per ora) “clienti” ai big del Pianeta

di Valentina Neri

S

ilenziosamente, in Estremo Oriente, è nata una nuova potenza dell’export di armi. È la Corea del Sud. I numeri parlano chiaro: nel 2014 le sue esportazioni nel settore della difesa valevano 3,6 miliardi di dollari, con una crescita annua media del 31% nell’ultimo quinquennio. Per capire l’ordine di grandezza, basta pensare che nel 2002 la cifra era pari a soli 144 milioni di dollari. E che l’A&D Balance of Trade 2015 pubblicato dall’istituto di ricerca IHS, che otto anni fa posizionava il Paese asiatico al 30o posto nella graduatoria degli esportatori, nel 2014 l’ha fatto salire di 17 posizioni fino al 13o posto. Ma chi acquista armi made in Korea? «Non certo l’Europa e gli Usa», spiega a Valori Axel Berkofsky, ricercatore presso l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano. Stiamo parlando, ad esempio, di Paesi del Sudamerica come la Bolivia o il Perù, dove la Korean Aerospace Industry (Kai) mira a piazzare ventiquattro FA-50, addestra-

quanTo e Dove espoRTa la coRea Del suD Fonte: ihs a&d balance oF trade 2015

800 700 USD $ Milioni

600 500 400 300 200 100 0 Iraq Thailandia 50

2010

2011 Indonesia Venezuela

2012 Turchia Perù

2013

Bangladesh Filippine

2014 Colombia Malesia

2015 Tutte le altre

tori avanzati monomotore per l’attacco leggero, in un’operazione che potrebbe valere fino a 2 miliardi di dollari. Non a caso, ricorda Business Insider, ad accompagnare la presidente coreana Park Geunhye alla visita istituzionale in Perù dello scorso aprile c’era anche Ha Sungyong, numero uno di Kai. Ma gli acquirenti di punta sono, e saranno in futuro, «i Paesi dell’Asia orientale, che spendono sempre di più per la difesa perché vedono crescere la possibilità di conflitti», continua Berkofsky.

TECNOLOGIA LOW COST Nel 2013 le esportazioni, stando al Korea Institute for Industrial Economics & Trade, rappresentavano solo il 12,8% della produzione di armi del Paese. Cifre ancora piccole rispetto al 48% dell’automotive e al 44% della cantieristica, ma destinate – secondo le stime – a raggiungere il 18-20% già quest’anno. Sembrano ottimisti anche i mercati: Kai, nata nel 1999 dalle divisioni di Samsung, Hyundai e Daewoo, ha visto triplicare il valore delle proprie azioni a partire dal debutto in Borsa nel 2011, arrivando a una capitalizzazione di 5,25 miliardi di dollari. Il tutto con una tecnologia sviluppata sotto l’egida degli Stati Uniti, «di livello buono, non altissimo ma, anche in considerazione del prezzo, accettabile soprattutto per le esigenze dell’Asia. In pratica, la Corea non fa che riempire la crescente richiesta da parte dei Paesi vicini – prosegue Berkofsky –. Il tutto, però, senza esagerare: un Paese come la Thailandia è un importante cliente per gli Stati Uniti, quindi si può immaginare la pressione politica per non vendere troppo e rispettare la loro egemonia». Il perché di questa sete di armi si intuisce analizzando i tanti focolai, più o meno sopiti, della zovalori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015


nuovi produttori internazionale

na. C’è la Cina intenta a costruire isole artificiali nelle aree del Mar Cinese Meridionale, ricche di petrolio e gas naturale e contese con Vietnam, Filippine, Malesia e Brunei. C’è la Thailandia reduce dal golpe dello scorso anno; c’è il Myanmar provato dalla guerriglia; c’è l’Indonesia che deve modernizzare le sue forze militari se vuole mantenere il controllo delle acque circostanti, contese con gli Stati vicini e preda di pirateria e traffici illegali.

...E LA CINA GUARDA ALL’AFRICA In una zona così irrequieta, la Corea sembra il fornitore ideale. Più ancora della Cina. Sarà pur vero, infatti, che il gigante asiatico conta su volumi ben diversi: nel 2014 – documenta il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) – è arrivato al terzo posto nella graduatoria dei maggiori esportatori, dopo Usa e Russia e scalzando Germania e Francia. Tuttavia, con le sue tecnologie a basso costo e di qualità non certo comparabile a quella occidentale, la Cina si indirizza soprattutto all’Africa Subsahariana, che le fa gola da tempo con le sue materie prime e il suo potenziale in termini commerciali. Ma Pechino non si fa scrupoli nemmeno ad armare Paesi “delicati” come Iran, Angola e Sud Sudan. Sono molto più avanzate le tecnologie del Giappone, che però si era auto-imposto norme estre-

mamente severe. Oltre alla Costituzione che non prevede nemmeno un vero e proprio esercito ma solo un esercito di autodifesa (jieitai), e alle leggi che rendono quasi impossibile per un privato possedere un’arma, nel 1967 il governo Sato aveva chiuso le porte alla possibilità di vendere armi ad alcun acquirente, pubblico o privato. Ma il passato è d’obbligo. Ad aprile 2014, infatti, proprio mentre il clima dell’Est Asiatico si faceva sempre più caldo, il governo giapponese ha rivisto i «tre principi fondamentali sull’esportazione di armi», annacquandoli parecchio. Accantonato il “no” categorico che è stato in vigore per cinquant’anni, il governo nipponico ora promette di esportare solo ai Paesi che ne faranno richiesta per conseguire obiettivi specifici, dimostreranno di avere una “gestione appropriata” degli armamenti e si sottoporranno ad accurati controlli. Da subito ne ha approfittato l’Australia, che a maggio si è aggiudicata il know-how tecnico per la costruzione di sottomarini classe Soryu. Ma il Giappone sta contrattando, manco a dirlo, con i vicini di casa: Malesia, Indonesia, Singapore e soprattutto India, il cui primo ministro Narendra Modi ha già programmato investimenti per 150 miliardi di dollari fino al 2027 per modernizzare l’arsenale del Paese e fare da contraltare allo strapotere cinese. ✱


internazionale calcio insanguinato

Sacrifici umani per il dio Pallone di Emanuele Isonio

Deregulation, violazione dei diritti umani, ampio utilizzo di migrantischiavi: i contestati mondiali in Qatar del 2022 passeranno alla storia per il numero di morti sul lavoro. A questi ritmi saranno 4mila prima del fischio d’inizio: 62 ogni partita

M

ancano ancora otto anni ai Mondiali di calcio in Qatar ma un dato è già incontrovertibile: quello dei decessi avvenuti nella costruzione delle opere che permetteranno a tutto il globo di celebrare il dio del Calcio. Al momento perdono la vita in media 2,5 lavoratori ogni giorno. A questi ritmi, i 2mila morti attuali raddoppieranno. Per ogni partita che si giocherà negli stadi qatarioti avranno dato la vita 62 operai.

CRONISTI IN CARCERE Ma le morti sono solo la cartina di tornasole di una situazione, se possibile, ancor più drammatica: l’International Trade Union Confederation da tempo denuncia la presenza in Qatar di un milione e mezzo di migranti impiegati nei lavori edili che, con i Mondiali, aumenteranno di un altro milione. Indagare sulle loro condizioni è difficile: sindacati e Ong non possono visitare i cantieri. E per i cronisti ci sono arresti e interrogatori arbitrari (gli ultimi due casi hanno riguardato due giornalisti della britannica BBC e della tedesca WDR). Le voci (e le immagini) che arrivano riescono comunque a descrivere situazioni da Ottocento: per gli operai le condizioni di vita sono disumane. Alloggi ricavati in baracche di fortuna, quando non direttamente sotto gli spalti degli stadi in costruzione, materassi stesi a terra, nessun servizio igienico. Mi-

Artisti contro gli sponsor

Le notizie che arrivano dal Qatar hanno scatenato la fantasia di alcuni artisti che hanno rivisitato i loghi degli sponsor dei Mondiali 2022. Obiettivo: informare i consumatori di chi supporta gli abusi dei diritti umani e persuadere le aziende a far pressione su Fifa e governo del Paese arabo perché introducano forme di tutela dei lavoratori.

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sure di sicurezza nemmeno a parlarne. Decine di suicidi e di morti per il caldo opprimente, soprattutto nei periodi estivi (non a caso, quelli del 2022 saranno i primi mondiali a tenersi a fine autunno). A questo si aggiungono altre decisioni sconcertanti: ai lavoratori immigrati viene confiscato il passaporto, rifiutato il permesso di espatrio e non possono accedere alla sanità locale. Per loro anche farsi pagare diventa un’impresa: nonostante le esose percentuali da versare alle agenzie di collocamento, gli stipendi (se arrivano) tardano di mesi. «Mi avevano promesso 1600 Riyals (circa 370 dollari Usa) – racconta un operaio cingalese ad Amnesty international – ma poi il capo dell’impresa mi ha detto che me ne avrebbe dati solo 800. In realtà, finora, a cinque mesi di distanza, non ho mai ricevuto niente».

GLI INTERESSI DI PLATINI Testimonianze che hanno spinto Ong e sindacati a chiedere un cambio di rotta alle autorità arabe. Ma i risultati sono quasi nulli: nessuna concessione sulle autorizzazioni a lasciare il Paese, zero libertà sindacali. Anche la nuova legge per la sicurezza sul lavoro è rimasta lettera morta: solo vaghi impegni su maggiori controlli nei cantieri e sulla semplificazione delle procedure per consentire agli immigrati di accedere alla giustizia locale. Timidissimi passi avanti sono stati registrati solo sui tempi di pagamento degli stipendi. E anche la speranza di una pressione da parte della Federcalcio mondiale rischia di essere una chimera. La probabile elezione di Platini al vertice Fifa non fa certo ben sperare: fu il più strenuo sostenitore della scelta del Qatar, al quale garantì un consistente pacchetto di voti. E suo figlio Laurent, poco prima che l’emiro Al Thani acquistasse il Paris Saint Germain, iniziò a lavorare per la Qatar Sport Investments, società del fondo sovrano proprietario sia della squadra parigina sia di Al Jazeera. La stessa società organizzerà i mondiali del 2022. ✱ valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015


la bacheca di valori internazionale

NOVE STATI POSSIEDONO 15MILA ARMI NUCLEARI Fonte: ican

NUMERO DI TESTATE ATOMICHE [dati 2015]

MINIERE D'ORO... A METÀ

IL VALORE MEDIO DELLE AZIONI DELLE COMPAGNIE ESTRATTIVE DELL'ORO È SCESO DEL 50% IN UN ANNO

Chart: Gold mining shares down almost 50% over the past year

VALORITECA SPUNTI DA NON PERDERE NEL MESE APPENA TRASCORSO NEWS

Spagna, l’aeroporto fantasma in vendita a 10mila euro

Diecimila euro? Bastano per acquistare un aeroporto. Accade a Ciudad Real, Spagna, 100 km a sud della capitale Madrid, il cui scalo “Don Quixote”, inaugurato nel 2008, si prepara a passare di mano per un assegno di appena cinque cifre. Ad acquistarlo la cinese Tzaneen International che, ha riferito a inizio agosto Bloomberg, vorrebbe creare un hub per i cargo commerciali. “Simbolo del boom economico spagnolo”, nota Bloomberg, il “Don Quixote” ha cessato le sue attività nel 2012 trasformandosi in “un aeroporto fantasma”. La struttura era costata circa un miliardo di euro.

I MIGLIORI TWEET DEL MESE Russia has vetoed a UN resolution that would have condemned the #Srebrenica massacre as a genocide

[la Russia pone il veto sulla risoluzione Onu che avrebbe condannato il massacro di #Srebrenica come genocidio] 8 luglio The Guardian @guardian

#INFOGRAFICHE Persone evacuate nel mondo: più di 19 milioni nel 2014, oltre 4 su 5 in #Asia 1 agosto Termometro Politico @TermometroPol

NEWS

Apache: ascia di guerra contro aziende minerarie

Da un lato, la popolazione Apache. Dall’altro, due imprese angloamericane, la Rio Tinto e la BHP Billiton. Oggetto della contesa, una enorme miniera di rame in Arizona. Che le due aziende vorrebbero sfruttare e che gli Apache vogliono difendere perché poggia sul sito sacro di Oak Flat. Dalla loro, le multinazionali hanno un emendamento firmato da due senatori repubblicani (tra loro, l’ex candidato alla Casa Bianca, John McCain). I nativi americani sperano di bloccare il progetto appellandosi all’American Indian Religious Freedom Act. Ma con un Senato a maggioranza repubblicana, le loro proteste, che in passato sono riuscite a fermare iniziative simili, potrebbero non avere successo. valori / anno 15 n. 131 / SETTEMBRE 2015

Hungary Destroys All Monsanto GMO Corn Fields [L’Ungheria distrugge tutti i campi di mais ogm Monsanto] 2 agosto John Osalvo @jojokejohn

JeffSachs sulla Grecia: nessun governo può resistere più di qualche mese con quel piano senza condono del debito 3 agosto Leonardo Becchetti @Leonardobecchet

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bancor

Lettera aperta al premier greco

L’arguzia triste del moderno Ulisse dal cuore della City Luca Martino

aro Alexis, un giorno dovrai svelarci cosa è successo dal trionfo in quel referendum che hai cosí fortemente voluto fino a quando, davanti all’ennesimo piano di “aiuti”, pensato ancora una volta per ripianare i buchi delle vostre banche e dilazionare quello che tu definivi uno tsunami di debito, hai accettato altra austerità e persino il pignoramento e la probabile svendita dei pochi beni rimasti nelle casse dello Stato. Lo farai magari tra un paio d’anni, quando questa ulteriore liquidità in formato elettronico sarà finita, o forse più in là, quando, e non te lo auguro, sarai di nuovo all’opposizione di un altro dei tanti governi Papandreou o Mitsotakis che hai sempre osteggiato. Immagino il tormento di quelle ore, le scenate con chi aveva condiviso con te anni di battaglia politica a difesa dei più deboli, e anche lo spavento davanti alle tabelle dei burocrati di Bruxelles aggiornate dopo lo schiaffo referendario. Ma sappi che lo sconforto di quanti vedevano in te un partigiano della democrazia e del riscatto sociale è grande, anche nel caso tu stia lavorando a un “piano B” per il quale

C

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dovevi guadagnare tempo. Per anni ci avevi detto che l’austerità, in un Paese come il vostro soffocato dai debiti, era stata brutale e aveva portato a conseguenze economiche e sociali rovinose; con molti di quegli accademici di cui oggi dici sia meglio fare a meno, avevi girato il mondo per spiegarci che, durante una recessione, ai tagli di spesa corrisponde un aumento maggiore dell’indebitamento e che l’unione monetaria europea non può più funzionare per come è stata pensata, con montagne di cambiali al servizio del surplus fiscale e commerciale dei Paesi forti. Ci avevi detto che ad ogni prenditore irresponsabile corrisponde un prestatore irresponsabile e che era stata una follia trasferire il debito dai privati agli Stati, generando così solo conflitti tra popoli. Pretendevi con dignità il riconoscimento del tuo mandato a difesa della giustizia sociale, valore per te imprescindibile, e chiedevi al primo dei tuoi creditori un nuovo messaggio della speranza, così come fecero gli Americani all’indomani della sconfitta del nazismo riconciliandosi con il popolo tedesco solo dopo il taglio del debito post-bellico. Hai ricordato al mondo il sangue dei partigiani e dei civili tuoi concittadini massacrati per ordine degli alleati in quella stessa piazza Syntagma dove il tuo popolo festeggiava il referendum cantando “Bella Ciao”. Dalla tua avevi, oltre ai Greci, gran parte dell’opinione pubblica europea, in Italia abbiamo un partito che porta addirittura il tuo nome, e molti economisti e premi Nobel appoggiavano il tuo progetto: tutti erano convinti del tuo impegno sincero a modernizzare il Paese e riformare quel parastato clientelare che aveva fatto le fortune degli oligarchi tuoi oppositori. Avevi posto solo due condizioni: ristrutturazione del debito e niente più austerità. Ma allora perché la tua resa praticamente incondizionata e la firma a un piano nel quale tu stesso dici di non credere? Perché accettare che il tuo Paese sia destinato a vivere o morire a seconda dei dettati dei mercati? Sembri un moderno Ulisse, che sì brillava per sagacia e furbizia, ma quasi sempre per interesse personale. Noi ti credevamo invece come Aiace o Antigone, fedeli nel loro eroismo alle leggi arcaiche dell’onore e superiori ad ogni compromesso: la loro era una coerenza inderogabile, al costo anche del sacrificio, e la loro libertà stava nella resistenza e nella determinazione a ridiventare padroni del proprio destino. ✱ todebate@gmail.com valori / ANNO 15 N. 131 / SETTEMBRE 2015


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