Mensile Valori n. 101 2012

Page 1

Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 101. Luglio/Agosto 2012. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

KEYSTONE USA / EYEVINE / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Flop Olimpiadi Da simbolo di candore a macchina per fare soldi. Metafora della finanza Finanza > Disastro JP Morgan: 2,3 miliardi di perdite per una scommessa azzardata Economia solidale > Luce e gas: contratti “rubati”. L’Authority interviene, basterà? | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > All’assemblea di Eni parla la Nigeria: danni all’ambiente e alle persone


| editoriale |

A Carlo, per tornare a credere nello sport la redazione

I

| 2 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

l 16 aprile scorso se n’è andato Carlo Petrini, ex calciatore. Aveva 64 anni ed è morto di tumore all’ospedale di Lucca. Aveva giocato negli anni Settanta e Ottanta nel Genoa, nel Lecce, nel Milan di Nereo Rocco con il quale il sanguigno Petrini proprio non riusciva ad andare d’accordo. E con Gianni Rivera, che ha definito “superbo e antipatico”. Ha giocato nel Torino, vincendo la Coppa Italia nel 1970/71 ed è stato nella Roma di Nils Liedholm. Eppure, quando è venuto a mancare, non ha ricevuto molte attenzioni dalla stampa. I motivi, secondo noi, sono le sue dichiarazioni e i suoi libri, tanti: scritti dopo il ritiro e il coinvolgimento nello scandalo del calcio-scommesse dell’80. Sono racconti dissacranti, eccessivi, fatti di una vita all’inseguimento del pallone, delle donne (queste non solo inseguite, ma che lo inseguivano parecchio) e delle macchine. Dove il doping, gli accordi con l’arbitro e i patteggiamenti tra squadre per portare a casa un punto con il pareggio – senza “nuocersi” troppo in classifica l’una con l’altra – sono una normale strategia di sopravvivenza. Dove le flebo, le iniezioni e i “bibitoni” sono raccontati come una prassi a cui devi attenerti. Altrimenti sei fuori, sei un “vigliacco”. E l’esame antidoping si supera versando nella provetta le urine “pulite” tenute in una tasca nascosta dell’accappatoio. Perché il calcio – diceva – è solo un affare di convenienza personale, un lavoro: «Anche se le tifoserie non lo sapevano, o non ci credevano». La sua storia sembra quella di tanti campioni del terzo mondo, ma è l’Italia degli anni Cinquanta del Novecento: nato povero, a Monticiano in provincia di Siena, dove suo padre socialista faceva il carbonaio. «Raccoglieva la legna nei boschi, la bruciava e vendeva le braci», con i palmi delle mani spaccati dalla fatica. A 11 anni aveva perso prima la sorella e, pochi mesi dopo, il padre. Era stato ingaggiato prima di aver finito di studiare e aveva cominciato la vita del calciatore, un percorso “strano” per noi lavoratori normali, fatto di successo, di soldi a piovere, molti “in nero”, e di ritiri dove quello che fanno una ventina di giovanotti atletici chiusi in un albergo è tutto quello che può succedere nelle caserme e forse anche peggio. Tutto raccontato chiaramente nei suoi libri. E, chiaro, in un libro aveva scritto anche che Donato Bergamini, calciatore del Cosenza, non si era suicidato, ma era stato ucciso dalla criminalità organizzata. Una vicenda sulla quale la magistratura ha riaperto l’inchiesta. Per questo vogliamo dedicare l’editoriale e il dossier di questo numero di Valori a Carlo Petrini, che non è stato ricordato con una trasmissione speciale: perché il calcio-spettacolo brilla solo guardandolo da lontano, perché è solo lo spettro del gioco, una rappresentazione dello sport tale e quale a un film. In cui ci piace il lieto fine e la nostra squadra, in fondo, vince e basta. Ma ora, davvero, basta. Basta con il vorticoso giro dei quattrini, basta con le scommesse che si possono fare da Singapore sull’Albinoleffe e la deificazione degli sportivi, che sono solo dei milionari in molti casi infantili, viziati e viziosi. Basta con le Olimpiadi che diventano business insostenibili, basta con il Cio trasformato in multinazionale finanziaria, basta con eventi che generano solo cattedrali nel deserto. Per lo meno in questo periodo di crisi, di sacrifici e di incertezza, lasciateci continuare a credere nello sport.  | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 3 |


i nostri titoli non sono tossici Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 101. Luglio/Agosto 2012. € 4,00

U

M

E

R

O

Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

GIUSEPPE GERBASI / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità CHRISTIAN SINIBALDI / EYEVINE / CONTRASTO

N

Finanza mafiosa Strumenti creativi per ripulire i tesori della criminalità organizzata Finanza > Nuove bolle immobiliari pronte a scoppiare: la crisi del mattone non è finita Economia solidale > La guerra non è un buon investimento, l’istruzione conviene di più | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Grecia fuori dall’euro. Una bomba che l’Europa avrebbe potuto evitare

Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 99. Maggio 2012. € 4,00

Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

KEYSTONE USA / EYEVINE / CONTRASTO

100

Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 100. Giugno 2012. € 4,00

Social business

Flop Olimpiadi

Amicizie a peso d’oro. Facebook in Borsa varrà 100 volte i suoi profitti Finanza > Gli scandali dei fornitori cinesi non scalfiscono Apple. La corsa continua Economia solidale > La Tav come un bancomat. E nella montagna spunta l’uranio | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > La partita delle elezioni Usa si gioca sul campo della finanza

Da simbolo di candore a macchina per fare soldi. Metafora della finanza Finanza > Disastro JP Morgan: 2,3 miliardi di perdite per una scommessa azzardata Economia solidale > Luce e gas: contratti “rubati”. L’Authority interviene, basterà? | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > All’assemblea di Eni parla la Nigeria: danni all’ambiente e alle persone

endia endiamo mo per esempio il caso aso delle correzioni di bilancio per svincolarsi trappola delle spirali deficit-debito-interessi-defic deficit-debito-interessi-deficit it-debito-interessi-defic epiù ancora ncora debito. Una correzione troppodalla lenta fa accumulare savanzi vanzi e debiti; una correzione rapida rischia di mettere in ginocchio l'economia ritirando il pporto della domanda nda pubblica pubblic a o penalizzando laks: domanda privata con ne l'aumento delle tasse. Ci vuole unada soluzione G Goldilocks: misure di sostegno eve periodo accompagnate ccompagnate credibili misure di correzione nel lungo periodo; cioè misure che, come l'aumento dell'età pensionabile, non portano restrizioni significative subito, sono lente a anifestare gli effetti, ma detti effetti si cumulano nel tempo e riducono tangibilmente gli squilibri nel lungo periodo.Questa crisi, insomma, non ha visto all'opera i normali meccanismi del ciclo, l'inciampo dellalacaduta e vera. il rimbalzo della ripresa. Ha chiamato in di causa non tanto la politica nomica quanto soluzioni richiedono mediare il "troppo caldo" "tropposociale: freddo", dipolitica c conciliare iliare re gliLe interessi, diGoldilocks a affrontare i dissensi ideologici, difra placare iale: interessi, dissensi e contese che diventano più intensi in tempi di crisi. la contesa Di fronte a queste sfide la politica a ha stentato a la trovare i ritmi e i passi adeguati. Li troverà? ugurio è certamente questo. E"70 la speranza èèche soluzione trovata non sicostellazione riveli effimera quanto un'altra altra speranza: il pianeta Virginis b" un pianeta extrasolare nella della Vergine; sc scoperto nel 1996 96 fu battezzato Goldilocks, perché non era né troppo caldo né troppo e quindi potenzialmente lmente abitabile. abitabile. bile. MaMa le forse osservazioni azioni deltroveremo satellite Hipparcos dimostrarono nddo, seguito che Goldilocks era troppo un giorno il giusto mezzo, sia su questocaldo. che su qualche altro pianeta.

nuove società

consumi

economia

finanza

crisi

luglio/agosto 2012 mensile www.valori.it anno 12 numero 101 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Paolo Bellentani, Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Giuseppe Di Francesco, Marco Piccolo, Fabio Silva (presidente@valori.it), Sergio Slavazza direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Giuseppe Chiacchio (presidente), Danilo Guberti, Mario Caizzone direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Keystone Usa (Contrasto); George Esiri, Harry Gruyaert, Larry Downing, Lee Celano, Locog / Handout (Reuters); Icon SMI (Photoshot); Maddalena Zampitelli; Tomaso Marcolla abbonamento annuale ˜ 10 numeri Euro 38 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 48 ˜ enti pubblici, aziende Euro 60 ˜ sostenitore abbonamento biennale ˜ 20 numeri Euro 70 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 90 ˜ enti pubblici, aziende come abbonarsi  carta di credito sul sito www.valori.it sezione come abbonarsi Causale: abbonamento/Rinnovo Valori  bonifico bancario c/c n° 108836 - Abi 05018 - Cab 01600 - Cin Z Iban: IT29Z 05018 01600 000000108836 della Banca Popolare Etica Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori + Cognome Nome e indirizzo dell’abbonato  bollettino postale c/c n° 28027324 Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri. chiusura in stampa: 21 giugno 2012 in posta: 27 giugno 2012

Le Olimpiadi del 1976 a Montreal, in Canada. Sul podio dei 400 metri a ostacoli: Edwin Moses, oro, che ha anche segnato il nuovo record del mondo; Michael Shine, argento, e il sovietico Evgenij Gavrilenko, bronzo.

globalvision fotonotizie dossier Flop Olimpiadi La metamorfosi olimpica. Da sport a business La fattura di Londra 2012: 29 miliardi di euro Mappa. Conti in tasca alle olimpiadi: 116 anni di spese da capogiro Calcio-business. Una metafora finanziaria Se vincere non paga

Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

7 8 14 16 19 20 22 24

valorifiscali finanzaetica

27

Derivati, la lezione di JP Morgan Etf: minaccia crescente per la finanza globale Etica Sgr, preparando l’assemblea di Terna Amy Domini: la finanza deve essere socialmente responsabile

28 31 33 35

consumiditerritorio l’energiainimmagini economiasolidale

37

L’Italia fragile Contratti non richiesti: l’Authority interviene. Ma sarà sufficiente? Quando sole e vento possono bastare Come consuma (e raramente risparmia) l’Ue La filiera dolce. «Giù le mani dalle quote» Si scrive biologico, si legge sano

40 44 46 48 49 52

38

internazionale All’assemblea di Eni la voce della Nigeria Alla salute dei beni comuni I successi cooperativi Sulla questione di uno Stato palestinese

54 58 60 62

islamfinanzasocietà altrevoci bancor action!

65

LETTERE, CONTRIBUTI, ABBONAMENTI, PROMOZIONE, AMMINISTRAZIONE E PUBBLICITÀ

www.valori.it Per attivare l’abbonamento basta andare sul sito www.valori.it, scaricare il modulo che trovate on line, compilarlo e rispedirlo via e-mail a abbonamenti@valori.it o via fax alla Società Cooperativa Editoriale Etica (02 67479116), allegando la copia dell’avvenuto pagamento (a meno che si usi la carta di credito).

KEYSTONE USA / EYEVINE / CONTRASTO

| sommario |

Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano tel. 02.67199099 - fax 02.67479116 e-mail info@valori.it ˜segreteria@valori.it

66 73 74


| globalvision |

Senza locomotiva

Mercati finanziari indisturbati quanto si sappia Lehman Brothers non era una banca europea». L. Fabius, ministro degli Esteri francese. Un treno che rimane improvvisamente senza locomotiva non può che inizialmente rallentare, per poi definitivamente fermarsi. Non ho trovato immagine migliore per l’odierna economia mondiale, ormai sul baratro

di Alberto Berrini

di una recessione, che potrebbe facilmente trasformarsi in una ancor più seria depressione globale. L’attuale situazione congiunturale testimonia l’inefficacia delle politiche economiche attuate, a livello internazionale, contro la crisi scoppiata nell’ormai lontano agosto 2007 (crisi subprime). È la prova del fallimento dei tentativi di istituire una governance mondiale dell’economia, che, fattasi sempre più globale e finanziaria, non può certo essere diretta da deboli “coordinamenti” politicoistituzionali quali il G20 o altri simili organismi internazionali. I protagonisti in negativo di questa situazione stanno su entrambe le sponde dell’Atlantico. Dell’Europa si è già detto più volte in questa sede. I fallimenti delle politiche di austerità riempiono ormai da mesi le prime pagine. Le giuste pressioni di Obama perché l’Europa cambi direzione non devono far però dimenticare le pesanti responsabilità e contraddizioni di Washington. La maggior responsabilità degli Usa è di accumulare debito a velocità mai vista. La contraddizione è che è solo la crisi europea che consente agli Stati Uniti di finanziarsi sui mercati a prezzi (cioè tassi di interesse) molto bassi. I mercati finanziari non possono certo permettersi due crisi contemporanee del-

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

«A

Errori e contraddizioni negli Usa e nell’Ue spianano la strada agli speculatori le principali valute internazionali e, dunque, non possono che riporre la loro fiducia nel dollaro. Alla base di questa situazione c’è la scelta americana di affrontare la crisi privilegiando la politica monetaria su quella fiscale, ossia garantendo liquidità piuttosto che intervenendo direttamente nel sistema economico. Come ha scritto recentemente Paul Krugman, riferendosi al ruolo di ostruzione rispetto ai provvedimenti fiscali svolto dai repubblicani: «Reagan poté usare la leva della spesa keynesiana più di quanto non riesca a fare oggi Obama». Ma garantire liquidità significa sostanzialmente sostegno dei debiti. Al

contrario bisognerebbe ridimensionarli attraverso la via fiscale, colpendo i grandi patrimoni finanziari e le rendite che da essi derivano, e quella inflattiva, riducendo il valore reale di tali patrimoni. In breve si tratta di attuare «un trasferimento di ricchezza dai creditori ai debitori», come raccomandato da Reinhart e Rogoff, i due economisti di Harvard che meglio di tutti hanno interpretato l’attuale crisi. (“Questa volta è diverso”, 2009). Purtroppo i creditori sono quei mercati finanziari con cui Obama non ha voluto scontrarsi, come dimostra la legge Dodd-Frank (2010), ossia una riforma dei mercati finanziari dapprima annacquata in fase di proposta e ora sostanzialmente inapplicata. Dunque «le nuvole nere che oggi attraversano l’Atlantico verso gli Usa – espressione usata di recente da Obama – sono le stesse che l’avevano attraversato nel 2008 in direzione opposta. Da ciò deriva la situazione attuale. Anche quest’anno un tentativo di ripresa è finito per arenarsi. La depressione è dietro l’angolo. E i mercati, ancora deregolamentati, continuano a fare il loro mestiere (i contratti “ribassisti” che scommettono sul tracollo dell’euro sono ai massimi storici). Non resta che allacciarsi le cinture! Ma molti, anzi troppi, hanno già perso l’aereo.  | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 7 |


| fotonotizie |

| |

Siamo agli inizi degli anni Novanta quando la squadra di football americano dei Cincinnati Bengals minaccia di andarsene dalla città se non le viene costruito lo stadio nuovo dove giocare. L’amministrazione della contea di Hamilton, dove si trova Cincinnati, cede ed entra in un calvario economico e finanziario che dura ancora oggi. Secondo il Wall Street Journal è il peggior investimento pubblico di sempre in uno stadio (il Paul Brown Stadium) della National Football League (Nfl). Un disastro per le casse pubbliche, con una previsione di spesa di 280 milioni di dollari abbondantemente superata, 70 milioni di tasse aggiuntive per i cittadini e l’ente locale che, per fare cassa, sta pensando di mettere in vendita l’ospedale di riabilitazione fisica, valutato nel 2006 quasi 30 milioni di dollari. Per finanziare i suoi due stadi, il Great American Ball Park del baseball e il Paul Brown Stadium, la contea di Hamilton ha contratto più di 1 miliardo di dollari di debito mediante l’emissione di proprie obbligazioni, senza alcun aiuto dalle contee circostanti o dallo Stato dell’Ohio. Un debito che ricade direttamente sui contribuenti: nel 2010 ha pesato per ben 34,6 milioni di dollari, il 16,4% dei 212 milioni di budget a disposizione della contea; nel 2012 saranno almeno 30 milioni. Ciò per la realizzazione di un’opera le cui spese al suo completamento – avvenuto nel 2000 – sono state valutate ufficialmente in 454 milioni di dollari dalle autorità locali, in 350 milioni – esclusi i lavori per le infrastrutture intorno – dalla squadra, ma addirittura in 555 milioni da una ricerca della professoressa Judith Grant Long della Harvard University. Se perciò la contea di Hamilton ha decisamente sbagliato i calcoli (finanziamenti pubblici per strutture del genere pesano in media meno del 2% sul budget degli enti locali), non altrettanto ha fatto però l’agenzia Moody’s, che prevede meno introiti per la contea a causa della recessione economica, e ha recentemente abbassato da A1 a A2 il rating delle obbligazioni emesse proprio per finanziare lo stadio. [C.F.]

© ICON SMI / PHOTOSHOT

Sport insostenibile La stadio pieno di debiti

| 8 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 9 |


| fotonotizie |

| |

«In 20 anni di lavoro non ho mai visto niente di simile», dice ad Al Jazeera il dottor Jim Cowan, che dal 2010 indaga i fenomeni insoliti denunciati riguardo alla fauna ittica locale insieme al dipartimento di Oceanografia e Scienze della costa dell’Università statale della Louisiana. Un’inchiesta della tv araba mostra infatti studi scientifici e racconti di mutazioni e lesioni insolite nei pesci, gamberi e crostacei delle acque nel Golfo del Messico: elementi che non dimostrano ancora scientificamente una relazione col disastro ambientale del 2010 – il più grave della storia americana – ma che non lasciano indifferenti. Era il 20 aprile 2010, infatti, quando un enorme sversamento di petrolio iniziò dal Pozzo Macondo (sotto la piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum, BP). In 106 giorni finirono in mare 4,9 milioni di barili di petrolio di fronte a Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida, e quasi 2 milioni di sostanze tossiche, oltre alla frazione più pesante degli idrocarburi ammassata per chilometri sul fondale. E se è noto che solventi e disperdenti sono tossici e mutageni, non stupisce che i lavoratori del settore ittico locale testimonino di gamberi e granchi senza occhi o con il guscio molle e di dimensione ridotta; diminuzione del pescato e presenza di escrescenze tumorali; granchi col guscio forato o vivi eppure maleodoranti, conchiglie deformi. Numerosi ricercatori di istituti differenti hanno del resto individuato livelli significativi di inquinamento da idrocarburi nelle ostriche, nei granchi, nel suolo e nella vegetazione. Persino il dottor Darryl Felder, biologo presso il dipartimento di Biologia dell’Università della Louisiana che ha monitorato le vicinanze del pozzo Macondo prima e dopo il disastro dice: «Abbiamo trovato frutti di mare con lesioni, appendici mancanti, e altre anomalie», e i suoi studi sono oggi sostenuti dalla Gulf Research Initiative (GRI), finanziata da BP. Forse molti indizi non fanno una prova, però… [C.F.]

[Un pesce decomposto giace in acqua mentre alcuni lavoratori raccolgono il petrolio fuoriuscito dalla Deepwater Horizon nel Waveland].

REUTERS / LEE CELANO / FILES

Incidente BP, disastro infinito

| 10 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 11 |


| fotonotizie |

| |

Malattie da uranio Areva condannata

[Niger. Arlit. Alcuni minatori di Soma nel residence della Società mineraria Somaìr, che possiede, insieme a Cogema, la miniera di Arlit, una delle zone principali per la produzione di uranio].

HARRY GRUYAERT / MAGNUM PHOTOS

Il colosso francese Areva è stato condannato da un tribunale di Melun, nel dipartimento di Seine-et-Marne, al pagamento di 200 mila euro di danni alla famiglia di Serge Venel, morto due anni fa in seguito a un cancro al polmone, all’età di 59 anni. Si tratta di una sentenza a suo modo storica, dal momento che riconosce come malattia professionale quella contratta da Venel a causa del lavoro effettuato presso una miniera d’uranio della Cominak, azienda controllata dalla multinazionale dell’energia transalpina, che opera nella miniera di Akokan, nella regione nordoccidentale del Niger. L’uomo lavorò nel sito minerario tra il 1978 e il 1985, come capo macchinista. In quel periodo inalò polveri radioattive, e anni dopo si ammalò. «Spero che la decisione del tribunale possa fare molto, molto rumore, e aiutare le vittime che si sono rivolte ai giudici in altri processi», ha commentato Peggy Venel, figlia di Serge, che si è battuta per anni per ottenere questo risultato. Formalmente, Areva è stata condannata in quanto considerata «co-datrice di lavoro» dell’ex dipendente di Cominak. Una “novità” giuridica, sottolinea la stampa francese, che potrebbe aprire la porta a numerose altre richieste di risarcimento. Ad oggi la compagnia gestisce quasi per intero la filiera nucleare francese. Dall’estrazione dell’uranio all’arricchimento, fino alla produzione e gestione dei reattori, e allo smaltimento delle scorie. Circa la metà dell’uranio utilizzato dai reattori transalpini è importato dalle miniere del Niger. [A.BAR.]

| 12 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 13 |


REUTERS / LOCOG / HANDOUT

dossier

a cura di Andrea Barolini, Matteo Cavallito e Corrado Fontana

Una sezione dello Stadio Olimpico di Londra 2012, all’interno del Parco Olimpico nella capitale britannica

Flop Olimpiadi

Le Olimpiadi, ambite da decine di città di tutto il mondo, si rivelano quasi sempre economicamente insostenibili La metamorfosi olimpica. Da sport a business > 16 La fattura di Londra 2012: 29 miliardi di euro > 19 Conti in tasca alle Olimpiadi: 116 anni di spese > 20 Calcio-business. Una metafora finanziaria > 22 Se vincere non paga > 24

Dal 1896 ad oggi, i costi sono cresciuti costantemente. In nome di quella stessa “finanziarizzazione” che ha stravolto il mondo del calcio


dossier

| flop olimpiadi |

| dossier | flop olimpiadi |

Nel Regno Unito è stata lanciata nei mesi scorsi la “anti-Olympic poster competition”, chiedendo agli artisti di esprimere creativamente il loro dissenso. www.blowe.org.uk

La metamorfosi olimpica Da sport a business di Andrea Barolini

niversalità, gratuità dello sforzo, purezza, disinteresse, lealtà sportiva. Ai nostri occhi i Giochi Olimpici sono ancora questo: un magnifico interludio nella vita quotidiana, segnato dalla voce gracchiante dell’altoparlante di uno stadio, dai colpi di pistola allo “start”, dal precipitare sibilante di un giavellotto. Garanzia di integrità morale. Tanto travolgente ed epico da riuscire a nascondere la sua vera natura. Per lo meno quella che ha contraddistinto i Giochi degli ultimi trent’anni. Se volete toccare con mano la “metamorfosi” delle Olimpiadi, per chi può, il consiglio è di visitare il museo di Losanna. Un’esposizione paradigmatica: «Nelle prime sale – racconta Jean-Marc Faure, professore emerito all’università di Nantes – immagini, trofei e poemi epici celebrano la bellezza dello sport attraverso le imprese degli atleti. Il primo piano, invece, è riservato ai partner finanziari. Coca-Cola, ad esempio, ad Atlanta ’96 ha ostentato le sue gesta, l’espansione, le riuscite». Come fosse un maratoneta.

U

HTTP://2.BP.BLOGSPOT.COM

Ad ogni edizione, si cerca di superare quella precedente, basandosi su previsioni economiche quasi sempre smentite dai fatti. E, intanto, il Cio si è trasformato in una multinazionale commerciale

Un’esplosione di costi Nel 1993, uno studio del docente americano di Economia Frank Zarnowski, intitolato A look at Olympic costs e pubblicato dall’International Journal of Olympic History, ha tentato di analizzare e “uniformare” (con non indifferenti difficoltà, vedi MAPPA a pag. 20) i costi reali dell’intera

storia dei Giochi, a partire da quelli ateniesi del 1896 fino a quelli di Atlanta, cent’anni dopo. La fotografia che ne discende è quella di una crescita pressoché continua delle spese organizzative, intaccata da rare eccezioni. Così, se il conto delle Olimpiadi greche del XIX secolo fu di mezzo milione di dollari, a Barcellona ’92, si sono spesi 9,4 miliardi. «Va detto però – spiega Françoise Papa, ricercatrice all’università Stendhal di Grenoble, in Francia – che non tutti i deficit sono negativi. Una città può accettare di spendere più di quanto incassa perché può immaginare di migliorare i propri trasporti urbani. O perché punta sull’imposizione di un “marchio”, come nel caso delle olimpiadi invernali, che la rendono per anni “la capitale dello sci”. Detto ciò, è chiaro anche che, in alcuni casi, le priorità di una comunità sono altre: il premier italiano Monti, ad esempio, ha fatto bene a ritirare la candidatura di Roma». Con la crisi attuale, infatti, è meglio evitare di imbarcarsi in imprese finanziariamente troppo pericolose. Anche perché, per ragioni di prestigio, spesso una volta ottenuta la candidatura si tende ad “assecondare” l’esplosione dei costi. «In ciascuna edizione si è cercato di superare quella precedente. Magari costruendo infrastrutture senza pensare agli impieghi futuri, concentrandosi solo sulle necessità legate all’evento. Un’incapacità di “monetizzare” sul lungo termine che poi pesa sui debiti delle amministrazioni locali e delle nazioni», osserva Patrick James Rishe, professore alla Il lancio globale di Coca-Cola per i Giochi Olimpici di Londra 2012 con Mark Ronson

| 16 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

BARCELLONA, ANCHE QUALCHE EFFETTO POSITIVO Ci sono città in cui le Olimpiadi diventano l’occasione per un ripensamento urbanistico che ne migliora la vivibilità e le possibilità economiche. È il caso di Barcellona, uscita talmente trasformata dai lavori per i Giochi del 1992 da far dire a Pepe Carvalho, l’investigatore nato dalla penna di Vázquez Montalbán: “È come se le fossero passati sopra gli aerei disinfestanti uccidendo tutti i batteri che mi consentivano di sopravvivere”. Per le Olimpiadi vennero realizzati 43 edifici, ma solo 15 costruiti ex novo, mentre 10 impianti pre-esistenti furono ristrutturati in modo radicale e 18 richiesero piccoli lavori di adeguamento, nell’ottica di lasciare zone attrezzate fruibili anche dopo i giochi e di realizzare solo opere necessarie. Lo stadio olimpico stesso è la riqualificazione di una struttura semi abbandonata edificata nel 1929. Ma l’intervento più spettacolare è sicuramente quello della riprogettazione della linea ferroviaria, che è stata arretrata rispetto al mare, aprendo la città a oltre quattro chilometri di spiagge attrezzate tutto l’anno, raggiungibili uscendo dalla metropolitana. Grazie a questo recupero Barcellona si è dotata di una nuova prospettiva e di un gigantesco parco-giochi per la cittadinanza e per i turisti, che ogni estate in sette milioni le affollano. Pa.Bai.

Webster University di Saint Louis (Usa), esperto di Economia dello sport.

Sempre più in alto, da Hitler a Pechino La prima grande impennata arrivò con la Germania nazista nel ’36: Hitler, per mostrare la forza del suo Paese, moltiplicò per 30 le spese sostenute nell’edizione precedente di Los Angeles, raggiungendo i 30 milioni di dollari (16,5 sostenuti solo per abbellire la capitale). Le entrate, al contrario, furono solamen-

te di 4,5 milioni per i biglietti venduti, ai quali si aggiunse un altro milione di ricavi amministrativi. Il secondo grande balzo si registrò poi a Tokyo nel ’64. I giapponesi raggiunsero i 6 miliardi di dollari (25 volte quanto speso in media fino ad allora), dato che resterà a lungo un record. «Quasi sempre si adottano previsioni di spesa sostenibili. Ma poi arrivano i ritardi e il panico generato dalla fretta», continua Rishe. L’analisi di Zarnowski non prende in considerazione gli ultimi Giochi. Ma non è

difficile indicare ugualmente quella di Pechino 2008 come l’edizione più dispendiosa di sempre: per impressionare il mondo, la Cina ha pagato la cifra stratosferica di 40 miliardi di dollari. Una manovra finanziaria. Il cui 60% è stato assorbito dai costi legati alle infrastrutture, molte delle quali rimaste inutilizzate al termine della kermesse (come accaduto del resto anche a Torino dopo i Giochi invernali del 2006, vedi Valori di dicembre 2010). Altri 11 miliardi, poi, furono bruciati per un problema tutto pechinese: evitare che il terribile inquinamento urbano rendesse impossibile lo sforzo degli atleti. Un’analisi di Merrill Lynch indica che la chiusura delle fabbriche (circa 200 aziende furono costrette a bloccare le loro attività o a spostarle altrove) rallentò la produzione economica del 14,7% nel mese di luglio. Emblematico il caso dell’acciaieria Shougang, che dovette trasferire una produzione da 8 milioni di tonnellate annue: costo 5 miliardi di euro, solo in minima parte rientrati grazie alle compensazioni fiscali concesse al colosso del settore.

Per gli sponsor un pollo da spennare Ma, spese a parte, ciò che più conta è che, a fronte di tale gigantesco sforzo economico, a Pechino non si sia manifestata la “manna” finanziaria vagheggiata dai dirigenti cinesi nelle pompose presentazioni dell’evento. A cominciare dall’afflusso di turisti: in barba alle stime, il loro numero scese dell’1,6% nella prima metà del 2008 (primo calo dal 2005). Sul richiamo olimpico vinsero, infatti, la rivolta tibetana e le minacce terroristiche, nonché le difficoltà nell’ottenere i visti dalla burocrazia doganale cinese, preoccupata di intercettare possibili “disturbatori”. Le cose, poi, non migliorarono ad agosto: numerosi hotel non registrarono il previsto “tutto esaurito” e in città arrivarono non più di 400-450 mila turisti stranieri, ossia esattamente la stessa cifra dell’anno precedente (la compagnia Air China, partner olimpico di | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 17 |


dossier

| flop olimpiadi |

| dossier | flop olimpiadi |

La fattura di Londra 2012: 29 miliardi di euro di Andrea Barolini

La prima stima dei costi fu di soli 3 miliardi. Un rapporto parlamentare già ne indica 13 solo per spese “dirette” HTTP://WWW.OLIMPIADILONDRA2012.ORG

Coca-Cola, che controllano le vendite dei diritti di trasmissione e la scelta delle città olimpiche», chiosa Faure. «Il Cio ha seguito il corso dell’economia capitalista, finanziarizzandosi, puntando sugli sponsor e non su un giusto equilibrio tra interessi privati e pubblici», aggiunge Papa. Al contrario, si potrebbe puntare su modelli virtuosi «come le Olimpiadi giovanili, che sfruttano infrastrutture già esistenti e puntano sull’educazione, sulle scuole, sul volontariato. Ma purtroppo con questi dirigenti un cambiamento è impensabile». A comandare, dunque, restano le grandi aziende. Disposte a sborsare non meno di 100 milioni di dollari per diventare “partner ufficiali”, e a pagare per i diritti televisivi 13 volte quello che era il prezzo 20 anni fa. Pur di “spremere” al massimo l’evento. Partecipare, per loro, vuol dire già vincere. 

primo piano, registrò a luglio un calo del 6,8% del traffico, rispetto allo stesso periodo del 2007). I cinesi hanno sbagliato tutto, quindi? In realtà si può dire che, declinandolo in una veste ipertrofica, hanno semplicemente seguito un solco che, casi isolati a parte, era già stato tracciato a partire dagli anni ’80. Da quando, cioè al vertice del Cio (Comitato internazionale olimpico) arrivò il vero deus ex machina degli ultimi 30 anni di Giochi: lo storico “plenipotenziario” Juan Antonio Samaranch, morto nel 2010. Spagnolo, ex ministro franchista e amico del dittatore fascista, fu lui a chiedere per la prima volta aiuto a sponsor privati (a Los Angeles, nel 1984). Da allora, «il Cio si è trasformato in un’enorme impresa commerciale, composta da dirigenti sportivi e rappresentanti di multinazionali come Adidas e

TIPOLOGIA

Miliardi di sterline Totale di spese dirette e indirette nel settore

Milioni di presenze di pubblico nei 1423 impianti

NR. BOLLA

ABI - CAB & C/C - CIN

£ 3,4

5,7

TIPO DOCUMENTO DATA BOLLA

IMPATTO ECONOMICO DEL SETTORE DELLE CORSE DI CAVALLI IN UK NELL’ANNO 2008 Centri di allenamento per cavalli Ippodromi

Lo scorso 21 maggio la fiaccola delle Olimpiadi di Londra si è spenta, nel corso del tradizionale giro del Paese ospitante. L’incidente è accaduto a Great Torrington, nel Devon, ed è il primo caso nell’intera storia dei tedofori olimpici. «Nel bruciatore, evidentemente, mancava il combustibile», si è sentito ghignare in giro per il Regno Unito. Ironia british alimentata dalle notizie sui conti fuori controllo del mega-evento, che stanno facendo

TRASPORTI

18.600 £ 450

Persone/lavoratori direttamente impiegati nel settore

Oltre 450 milioni di sterline di spesa da parte dei proprietari per allenamenti e acquisto di cavalli

Hamilton Park

15,349

Musselburgh

Numero medio di cavalli impegnati in sessioni di allenamento alle gare in un anno

Kelso

£ 5,5

Ayr Newcastle

Oltre 5,5 miliardi di sterline complessivi di guadagno da parte degli operatori delle scommesse sulle corse dei cavalli negli ultimi 5 anni

Carlisle

Hexham Sedgefield

£ 325

Catterick Cartmel

Redcar Thirsk

Middleham Ripon

100.000

325 milioni di sterline di tasse versate dal settore all’erario britannico

Malton

Wetherby York

Beverley

Pontefract

Oltre 100.000 persone che vivono direttamente o indirettamente del lavoro derivante dal settore

Aintree

HTTP://WWW.RSVLTS.COM

Perth

ORGANIZZAZIONE

STADIO OLIMPICO

VILLAGGIO OLIMPICO

Doncaster Haydock Park

NUMERO

DATA

MODALITÀ DI PAGAMENTO AGENTE

storcere sempre più il naso ai cittadini inglesi. Nonostante l’enorme impiego di energie (1.500 imprese si sono spartite contratti per 9 miliardi di euro), i Giochi potrebbero rivelarsi un vero e proprio flop per l’economia inglese. E i benefici in termini di aumento del Pil potrebbero risultare ben al di sotto sia del punto percentuale che delle aspettative (sebbene il governo continui ad assicurare che l’evento garantirà sviluppo). Il motivo è legato agli enormi costi sostenuti per l’organizzazione, i trasporti, la costruzione delle infrastrutture, l’accoglienza degli atleti, la sicurezza, le cerimonie. Ecco alcune tra le voci più corpose della “fattura” complessiva della trentesima Olimpiade, riportate in euro, in una recente analisi del quotidiano Le Figaro. CONTROVALORE VALUTA

DATA DEC. PAG.

BANCA D’APPOGGIO

PORTO/RESA

SPEDIZIONE

IMPORTO

DESCRIZIONE DEI BENI O DEI SERVIZI (NATURA E QUALITÀ) anni fa, nella I lavori per modernizzare la rete di trasporti londinese sono cominciati sette rsi ai 12 milioni previsione di riuscire a gestire i 3 milioni di visitatori che dovrebbero aggiunge metropolitana della stazioni nuove costruite state sono e di utilizzatori quotidiani. In particolar rapido speciale attorno a Statford, il centro nevralgico dei Giochi, a Est della capitale. Un treno Cross. (denominato “Giavellotto”) collegherà il villaggio olimpico alla stazione King’s a cosa serviranno Ciò nonostante, gli organizzatori temono pesanti ingorghi. E c’è da chiedersi utilizzo per i nuovi mezzi qualora al termine dei Giochi non si dovesse trovare un nuovo le strutture olimpiche. entrate derivanti I capitali per l’organizzazione provengono da fondi privati. In particolare dalle (questi ultimi venduti biglietti dai e ising merchand dal sponsor, dagli tv, dalla cessione dei diritti frutteranno 485 milioni di euro). inglobati Il “catino” da 80 mila posti è un mega-centro polisportivo. Al suo interno sono autorità sarà delle i intenzion le Secondo o. velodrom un e o una piscina, un campo da pallaman è stato invece trovato un utilizzo permanente dopo i Giochi. Un altro impianto, per il basket, concepito come “usa e getta”: sarà smontato alla fine dell’evento.

7,8 miliardi

2,4 miliardi

1,2 miliardi

675

Costruito con il coinvolgimento di Qatari Diar, comprende 2.800 nuovi alloggi.

milioni di euro

Market Rasen Chester Southwell Nottingham

Bangor-on-Dee

SICUREZZA

Uttoxeter Great Yarmouth

£ 706

Wolverhampton

Leicester Fakenham

Ludlow

Milioni di sterline di capitali spesi dal settore negli ultimi cinque anni

Worcester

Warwick

Towcester

Chepstow

Tanto le olimpiadi quanto il calcio sono la dimostrazione di come lo sport sia diventato ormai solo un business, anzi un altro ambito dove imperversano le regole della finanza. Ma nessuno sport è immune dal contagio. Basti pensare alle corse dei cavalli, celebri nella patria delle prossime Olimpiadi, dove ogni anno girano miliardi di sterline. | 18 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

Taunton

Cheltenham Lambourn

670 milioni di euro

Huntingdon

Stratford-on-Avon

Newmarket

Hereford Ffos Las

10 mila agenti Si tratta di una delle voci “decollata” nel corso del tempo. Basti pensare ai solo contratto per la sicurezza ipotizzati inizialmente, cresciuti in breve a quota 23.700. Un milioni. 344 a to rinegozia stato è euro di milioni 104 da G4S ata con la società specializz

CERIMONIE

Great Leighs

Windsor Newbury Kempton Park Folkestone Bath Ascot Epsom Downs Wincanton Lingfield Park Sandown Park Plumpton Goodwood Brighton Salisbury Fontwell

Exeter Newton Abbot

£ 1,05

TOTALE

à migliaia Affidata al regista Danny Boyle, la cerimonia di apertura del 27 luglio impegner previsto, di persone. E il premier David Cameron ha accettato di raddoppiarne il budget per non sfigurare dopo Pechino 2008. di euro (cifre Complessivamente, il costo dei Giochi di Londra potrebbe essere di 11 miliardi no “soli” 3 miliardi ufficiali del comitato). Quando nel 2005 l’evento fu assegnato, si prevedeva 29 di spesa. Ma un rapporto parlamentare già parla di più di 13 miliardi, che diventano presenza di militari, se si contano i costi indiretti sostenuti per i servizi pubblici (in particolare la

98 milioni di euro

fino a 29 miliardi di euro

pompieri, polizia).

Miliardi di sterline di spese dirette sostenute dai principali operatori dell’industria delle corse ippiche

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 19 |


dossier

| flop olimpiadi |

| dossier | flop olimpiadi |

Conti in tasca alle Olimpiadi 116 anni di spese da capogiro 1928 AMSTERDAM

Fu costruito un mega-impianto da quasi 10 ettari, per 40 mila spettatori. I costi totali furono di 1,183 milioni di dollari, per un quasi-pareggio (perdite per 18 mila dollari).

1908 LONDRA Si spesero circa 81 mila sterline (394 mila dollari). Le autorità parlarono di un avanzo di 6.377 sterline. 1944 LONDRA I giochi furono annullati a causa della II Guerra mondiale. 1948 LONDRA Il report finanziario, che fu pubblicato solo 16 mesi dopo la fine dei Giochi, parlò di profitti per 29 mila sterline. Si spesero 742.268 sterline (12 milioni di dollari del 1982).

1912 STOCCOLMA

1980 MOSCA

Gli svedesi fecero le cose in grande: furono ospitati 2.500 atleti da 28 Paesi. Non furono forniti però dati ufficiali.

Il boicottaggio Usa provocò un netto calo delle visite: i russi si attendevano 300 mila persone, ne arrivò il 25%. L’unica stima dei costi (del NYTimes) parlò di 2 miliardi di dollari.

1952 HELSINKI 1920 ANVERSA Furono costruiti uno stadio da 30 mila posti e un impianto acquatico da 10 mila. Ma molte spese organizzative pesarono sui singoli partecipanti: gli Usa sborsarono 148.563 dollari.

Per ospitare 4.900 atleti di 69 Paesi si spesero 1 miliardo e mezzo di marchi finlandesi, con perdite per 49 milioni.

2008 PECHINO

1976 MONTREAL Per i Giochi del boicottaggio africano, si spesero 1,42 miliardi di dollari e le entrate si fermarono a 1 miliardo.

Quelli cinesi sono stati i Giochi più cari di sempre: 40 miliardi di dollari. A fronte di ciò, le stime relative alle entrate sono state in buona parte disattese.

1900 PARIGI Fu venduto 1 milione di biglietti, ma i Giochi furono un’appendice dell’Esposizione mondiale, e pertanto non ne fu rivelato il bilancio specifico.

1904 SAINT LOUIS Come per il 1900, non furono divulgati dati ufficiali. L’evento avrebbe dovuto tenersi a Chicago, che rinunciò per problemi finanziari.

1924 PARIGI

1972 MONACO DI BAVIERA

1916 BERLINO

7 mila atleti da 122 nazioni. Si spesero 611 milioni di dollari: 4 volte rispetto al Messico.

La VI Olimpiade fu annullata a causa dello scoppio della I Guerra mondiale.

Si sperò in entrate per 10 milioni di franchi, ma il NYTimes indicò alla fine dell’evento meno di 5 milioni e mezzo, che provocarono ingenti perdite.

1936 BERLINO

1940 TOKYO

4 milioni e mezzo di spettatori, 4 mila atleti da 19 nazioni. Ma i costi lievitarono a 30 milioni di dollari e i Giochi si chiusero in profondo “rosso” per Hitler.

Il Giappone aveva ipotizzato un budget da 20 milioni di yen, ma i Giochi furono prima spostati ad Helsinki, quindi annullati definitivamente per via della II Guerra mondiale. 1964 TOKYO

1992 BARCELLONA

1896 ATENE

Il Comitato organizzatore spese 1,4 miliardi di dollari, 5 la città. Complessivamente si arrivò a 7.

Il costo della prima edizione delle Olimpiadi moderne fu approssimativamente di 3,74 milioni di dracme, ovvero 448.800 dollari. 2004 ATENE La Grecia ha speso 15 miliardi, in buona parte per la sicurezza dei primi Giochi successivi all’11 settembre 2001.

1932 LOS ANGELES In tempi di Grande Depressione, governo e città non fornirono dati ufficiali. Si sa che il solo Colosseo da 30 mila posti costò 1 milione e 700 mila dollari.

8.465 partecipanti da 159 Paesi. Anche in questo caso si chiuse in attivo (per 139 milioni di dollari, a fronte di 4 miliardi di spese totali).

1996 ATLANTA Il conto totale fu di 1,8 miliardi di dollari, per un attivo di soli 10 milioni.

1984 LOS ANGELES

1988 SEUL

I giapponesi spesero la cifra-record di 2 miliardi di dollari. Per comprendere il “rosso” basti pensare agli introiti per i biglietti: solo 5 milioni e 172 mila dollari.

Il contro-boicottaggio russo funzionò solo parzialmente. Le Olimpiadi chiusero (caso rarissimo) in attivo per 222,7 milioni di dollari.

1960 ROMA I Giochi portarono in Italia 5 mila atleti da 83 Paesi. La città spese 64 milioni di dollari per strade, piscine, villaggio olimpico, ponti e per lo stadio. Ufficialmente le spese furono di 7,2 milioni, e si chiuse con un pareggio.

1968 CITTÀ DEL MESSICO Per i Giochi delle proteste studentesche si spesero 175 milioni di dollari (98 per lo stadio). I diritti tv (acquisiti dalla ABC) fruttarono 4,5 milioni. 1956 MELBOURNE I primi Giochi dell’emisfero australe costarono 13 milioni di dollari di allora (50 milioni del 1982), con perdite nette per oltre 600 mila dollari.

2000 SYDNEY FONTI: PATRICK RISHE, HOW DOES LONDON'S OLYMPICS BILL COMPARE TO PREVIOUS GAMES?; FORBES, 2011; FRANK ZARNOWSKI, A LOOK AT OLYMPIC COSTS; INTERNATIONAL JOURNAL OF OLYMPIC HISTORY, VOL 1, N. 2, SPRING, 1993; WWW.SPORTSIMPACTS.NET.

| 20 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

Le spese totali furono pari a 3,8 miliardi di dollari. Circa il 30% risultò a carico delle casse pubbliche.

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 21 |


| flop olimpiadi |

| dossier | flop olimpiadi |

Calcio-business Una metafora finanziaria di Matteo Cavallito

Il calcio non è più soltanto una banale macchina per fare soldi. È diventato una vera e propria rappresentazione simbolica del mercato finanziario, con le sue regole, i suoi equilibri, i suoi escamotage per aggirare le regole lui cosa vuole comprare? Il Leicester? O il Cardiff?». Joe Sim è un consulente della federazione calcistica thailandese, nonché un misterioso quanto pragmatico uomo d’affari. Una sagoma che è tutto un programma, ha l’aria di uno da cui non acquisteresti nemmeno un’auto usata. Ma ha anche l’aspetto di chi fiuta l’occasione, specie se sul tavolo ci sono molti soldi e chiare opportunità di profitto. Se un finanziere indiano si mette in testa di comprare un glorioso club britannico, ad esempio, non ha che da spedire un emissario di fiducia alla corte di Sim. Se lo stesso finanziere decide poi di acquistarne due, in barba alle regole della Football Association, non avrà che da ricorrere alle più elementari regole dell’ingegneria finanziaria di base: anonimato, “fondi di

«E

Ciò che emerge del mondo del pallone è solo la punta di un iceberg. Il caso della London Nominees ne costituisce l’emblema fondi” e tanta discrezione. Lo conferma il consulente sportivo, ed ex centrocampista del Manchester United, Bryan Robson; lo ribadisce il manager Andrew Leppard, uno che di investimenti se ne intende parecchio. L’unica cosa importante, spiega, è «tenersi alla larga dal radar della federazione. Il più possibile». Leppard, Robson e Sim sono legati tutti e tre al London Nominees Football Fund, un veicolo di investimento lanciato nel 2010 con 40 milioni di dollari di asset gestiti, che offre opportunità di business

nello sport più bello del mondo. Si acquista una società di prima divisione, la si rilancia e la si rivende nello spazio di tre o quattro anni in pieno stile private equity. Al proprietario spetta la plusvalenza, al fondo una quota del club e una commissione sull’attività di brokering. Tutto facile, tutto scontato, tutto pronto per il via. Se non fosse che il businessman indiano in realtà non esiste e il suo emissario è un cronista in incognito dell’emittente Channel 4. L’affare salta e lo scandalo finisce sulle prime pagine dei giornali.

Acquisizioni e debiti Da allora è passato esattamente un anno, ma quella storia continua a impressionare. Quella della London Nominees è, infatti, una vicenda emblematica, l’esempio più lampante di cosa sia diventato il cal-

CALCIO-LAVANDERIA, UN AFFARE MILIARDARIO Ogni anno, nel mondo, il riciclaggio di denaro sporco vale una cifra che oscilla tra il 2 e i 5% del Pil globale. Nessun dubbio, quindi, sul fatto che un business a sette zeri come quello del calcio rappresenti anche un’opportunità irrinunciabile per le organizzazioni criminali. Lo sostiene un rapporto pubblicato a febbraio dall’Institut de Relations Internationales et Stratégiques (Iris) in collaborazione con la University of Salford (Manchester), il Cabinet Praxes-Avocats e il Ccls (Università di Pechino). Decisive le pericolose connessioni tra il crimine organizzato e le società sportive, troppo spesso finite sotto il controllo dei grandi trafficanti. A destare particolare preoccupazione sono soprattutto i club dell’Est europeo. «Si ritiene che i club calcistici bulgari siano in molti

| 22 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

casi controllati direttamente o indirettamente da membri del crimine organizzato che li utilizzano per legittimarsi, riciclare il denaro e fare rapidi profitti» avvertiva nel dicembre 2010 un cable dell’ambasciata Usa di Sofia pubblicato in seguito da Wikileaks. Gli esempi potrebbero continuare: dalla parabola del “comandante Arkan”, passato dalla militanza tra gli ultras alla presidenza del club serbo Fk Obilic (poi tramite privilegiato per il reclutamento di futuri criminali di guerra e la gestione del traffico d’armi), alle ambizioni dei noti mafiosi Rustam Saimanov e Osman Kadiev, giunti al vertice dei club russi del Rubin Kazan e della Dinamo Makhatchkala (scomparso nel 2007). Riciclaggio, match truccati, scommesse e ritorno di immagine. Il calcio serve anche a questo. M.C.

cio di oggi. Non più, o per meglio dire non solo, quella banale macchina da soldi fatta di stipendi milionari e spot televisivi. Bensì una vera e propria metafora del mercato finanziario, con le sue regole, i suoi equilibri e i suoi escamotage. La nuova globalizzazione, innanzitutto, quella tracciata dalla geografia della nuova liquidità. Nel 2002, ha ricordato una recente inchiesta de La Gazzetta dello Sport, nelle otto principali leghe calcistiche europee c’era un solo club di proprietà extra Ue: il Fuhlam del miliardario egiziano Mohammed al Fayed, con un giro d’affari annuo che non raggiungeva i 50 milioni di euro. Oggi, ce ne sono 18, per un fatturato complessivo che si avvicina ai 2 miliardi (vedi TABELLA ). Oltre metà della cifra viene dai club di proprietà degli investitori statunitensi. Il resto alimenta i sogni di gloria e profitto dei businessmen dell’ex Urss e dei loro colleghi di India, Qatar, Emirati Arabi, Malesia e Iran. Per acquisire si può attingere all’eccezionale liquidità in deposito. Altrimenti, si può ricorrere alla leva più spericolata. Nel 2005 l’americano Malcolm Glazer acquistò il Manchester United per quasi 800 milioni di sterline. Soldi suoi? Ovviamente no. Di fatto si trattava di capitali presi a prestito dalle banche e dai fondi speculativi mettendo a garanzia le attività stesse del club. Risultato: Glazer si impossessò di una delle migliori squadre del mondo; lo United si beccò i debiti di Glazer. La tecnica, chiamata leveraged buy-out, è la stessa utilizzata nel 2007 da altri due avventurieri Usa, Tom Hicks e George Gillet, acquirenti del Liverpool dopo un prestito da 230 milioni di sterline da parte della Royal Bank of Scotland. Quando nel 2009 la società è passata di mano per 300 milioni, Hicks e Gillet hanno fatto causa al presidente del club Martin Broughton (cui avevano dato mandato a vendere) accusandolo di aver ceduto la società a un prezzo troppo basso. La richiesta di risarcimento ammontava a 1,6 miliardi di dollari.

Scommesse e creatività I numeri, sempre loro. Sono la misura delle potenzialità di profitto, ma anche, e soprattutto, del divario tra il reale e l’etereo, tra ciò che al netto di ogni business

I NUOVI PROPRIETARI DEL CALCIO EUROPEO CAMPIONATO INGHILTERRA Manchester Utd Arsenal Chelsea Liverpool Manchester City Aston Villa Sunderland Fulham Blackburn Queens Park Rangers ITALIA Roma FRANCIA Paris Saint-Germain SPAGNA Getafe Malaga Racing Santander OLANDA Vitesse Arnhem SCOZIA Hearts PORTOGALLO Beira-Mar TOTALE TOTALE GENERALE*

PROPRIETARIO

NAZIONALITÀ

Malcolm Glazer Stan Kroenke Roman Abramovich Fenway Sports Group Mansour Bin Zayed Randy Lerner Ellis Short Mohammed Al Fayed Venky’s Group Tony Fernandes

Usa Usa Russia Usa E. Arabi Uniti Usa Usa Egitto India Malaysia

T. R. Di Benedetto, J. Pallotta

Usa

Tamim Bin Hamad

Qatar

Royal Emirates Group Abdullah Bin Nasser Ahsan Ali Syed

E. Arabi Uniti Qatar India

Merab Jordania

Georgia

Vladimir Romanov

Lituania

Majid Pishyar

Iran

conserva ancora un senso e ciò che quel senso non potrà mai averlo. Di recente, il capo della sicurezza della Fifa Chris Eaton ha stimato in 12 miliardi di euro il giro d’affari delle scommesse, legali e illegali, sul calcio in Italia. Il fatturato complessivo delle società calcistiche degli 8 principali campionati europei non arriva a 10 miliardi. L’Iris, Istituto francese di relazioni internazionali e strategiche, ha calcolato in 200 miliardi il giro d’affari di tutte le scommesse sportive a livello globale. Nel calderone ci sono le attività dei giganti regolamentati come la greca Intralot, l’inglese William Hill o l’italiana Lottomatica, ma anche degli innumerevoli bookmakers asiatici, che sono spesso oscuri, creativi, fuori controllo: in pratica, l’over the counter delle scommesse. Laddove i controlli non arrivano, le opportunità di corruzione e di riciclaggio di denaro non mancano mai (vedi BOX ). Laddove invece arriva la creatività, non diversamente da quanto accade nella fi-

FATTURATO 1.573 367 250 233 204 170 102 88 84 57 18 144 144 101 101 72 26 23 23 9 9 8 8 6 6 1.913 9.517

nanza, le puntate dei giocatori si perdono in un universo di prodotti derivati sui generis. E il mercato trova un nuovo sfogo. Nel maggio di quest’anno si poteva scommettere sul risultato della finale di Champions League tra Bayern Monaco e Chelsea, ma anche, perché no, piazzare un total corners half handicap 6.5 over su Viikingit-Hämeenlinna, emozionante sfida della serie B finlandese. Se il numero totale dei calci d’angolo avesse superato quota 6, gli scommettitori avrebbero intascato la loro vincita. Non siamo in grado di dirvi come sia andata a finire. 

IN RETE “Sports betting and corruption: How to preserve the integrity of sport”. A cura di Iris - Institut de Relations Internationales et Stratégiques, University of Salford (Manchester), Cabinet PRAXES-Avocats e CCLS (Università di Pechino). http://www.sportaccord.com/multimedia/docs/201 2/02/2012_-_IRIS_-_Etude_Paris_sportifs_et _corruption_-_ENG.pdf

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 23 |

FONTE: ELABORAZIONE DE LA GAZZETTA DELLO SPORT, “UN QUINTO D’EUROPA IN MANI STRANIERE” DI MARCO IARIA, EXTRATIME, 29 MAGGIO 2012. DATI IN MILIONI DI EURO. * FATTURATO COMPLESSIVO DI TUTTI I CLUB (A PROPRIETÀ UE O EXTRA UE) DEGLI 8 PRINCIPALI CAMPIONATI EUROPEI.

dossier


| flop olimpiadi |

| dossier | flop olimpiadi |

per piccoli gruppi di team che hanno qualche interesse in comune, creando lobby e scontri che impediscono le decisioni su questioni fondamentali. In America il chief manager (in Italia sarebbe il presidente, ndr) di lega decide, nonostante gli scontri tra gli owners (i proprietari, ndr), in ottica generale. In Italia c’è troppa logica politica e poco economica o finanziaria.

Se vincere non paga di Corrado Fontana

Centralità della performance , mercato nero, troppa politica e scarsa logica economica: ecco, secondo l’analisi di Marco Di Domizio, professore di Economia all’Università di Teramo, i principali fattori di rischio per lo sport europeo. L’alternativa è il modello americano, mentre l’Oriente si interessa alle scommesse e mostra i muscoli a domanda è: quali sarebbero le conseguenze di un risultato sportivo estremamente negativo? L’esperienza e i dati sembrano dire che la ricaduta sarebbe tale da portare al rischio di chiusura per l’impresa». La considerazione di Marco Di Domizio, docente di Economia dello sport all’università di Teramo, nasce citando il caso virtuoso dell’Udinese calcio, ma si conclude individuando proprio nella centralità del “risultato sportivo” il male assoluto per le imprese dello sport europeo in generale. An-

«L

che una società da anni con i bilanci in positivo e capace di sposare una logica per cui una performance vincente sul campo non è condizione necessaria, se incappa nella stagione sbagliata si trova esposta finanziariamente. Ma, allora, nel fare impresa sportiva si guadagna oppure no? In America è possibile fare business e lo si fa in modo sostenuto, in Europa molto meno. Se facciamo riferimento agli sport più importanti negli Usa – basket, football, baseball – parliamo di leghe chiuse,

che eliminano il pericolo di retrocessione delle squadre e quindi la possibilità che una cattiva performance sportiva possa tradursi in un disastro finanziario: ciò mette al riparo le imprese e produce un’attività assai meno rischiosa. In Europa, invece, retrocedere a una serie inferiore significa perdere moltissime risorse economiche e può addirittura implicare il fallimento delle società. La distinzione tra i due modelli è poi determinata da un modo diverso di ragionare: ben poco sviluppato in termini “di lega” in Europa e, particolarmente, in Italia, dove si ragiona

Le leghe al potere, in America di Corrado Fontana

Un giro d’affari spaventoso e una partecipazione popolare diffusissima: lo sport negli Usa fa profitti ed è regno di leghe chiuse mosse da una logica economicista in cui l’equilibrio competitivo è protetto per legge Un giro d’affari stimato di 422 miliardi di dollari e una spesa di quasi 28 miliardi di dollari in pubblicità e sponsorizzazioni: sono queste le cifre astronomiche calcolate dall’agenzia di ricerche di mercato Plunkett, per il 2011, relativamente all’industria sportiva statunitense. Se ci aggiungiamo il fatto che la Sporting Goods Manufacturers Association’s (Sgma), cioè l’associazione che riunisce i principali marchi dell’industria Usa di attrezzature e accessori per lo sport e il fitness, nel maggio

| 24 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

2011 stimava in 50 milioni gli americani che fanno jogging (su poco più di 300 milioni di abitanti), ci rendiamo conto di quali risorse possa smuovere il movimento sportivo statunitense. Profitto sì, concorrenza meno E anche se negli Stati Uniti si usa, come da noi, il verbo giocare (to play) in riferimento alla pratica sportiva, va detto che in un Paese dove spesso lo sport è vissuto come unico strumento di rivincita sociale e dove si pratica fin da piccoli, a scuola, l’argomento è considerato con la massima serietà. Tanto che, come ci spiega Marco Di Domizio, docente di Economia dello sport all’Università di Teramo, la stessa Corte Suprema ha legiferato a tutela del modello sportivo americano – business oriented per antonomasia – e quello sportivo è uno dei pochi

Sul piano delle scelte imprenditoriali, conviene investire su alcuni sport piuttosto che su altri? Nella valutazione delle componenti che spingono un imprenditore a investire nello sport, in Europa il profitto resta solo una delle voci, spesso non la più importante, cui vanno aggiunti obiettivi d’immagine e di performance sportiva, a seconda del tipo di visibilità che si vuole avere. Spesso si fa impresa sportiva per accedere a determinate aree d’influenza o si punta sugli sport più famosi (calcio e basket) con lo scopo di sviluppare interessi economici locali in certe aree. Gli sport minori sono efficaci come veicolo d’immagine, ma fare direttamente profitto con l’impresa sportiva resta quasi impossibile, perché troppo legato al risultato. Tanto più che il merchandising, in Italia, è spesso appannaggio di attività del sommerso e non registrate, a diffe-

LA SPORT-INDUSTRIA MADE IN USA (PLUNKETT RESEARCH) Giro d’affari (miliardi di $) Industria sportiva Usa (complessivamente)

422

Major League Baseball (MLB)

7,2

National Football League (NFL)

9

National Basketball Association (NBA) National Hockey League (NHL) Vendita di equipaggiamento sportivo

«Riuscire a centrare profitti con un club sportivo in Europa è quasi impossibile» renza di quanto accade all’estero, quando invece dovrebbe essere la società sportiva a poter disporre unicamente e in toto del proprio marchio. Si può fare speculazione finanziaria attraverso l’impresa sportiva? È un’attività fortemente rischiosa perché – almeno nel modello europeo – quando la performance sportiva è assai virtuosa i risultati economici sono positivi, ma non nella stessa misura. Viceversa quando l’esito sportivo è negativo la ricaduta economica è di intensità nettamente superiore. Data questa asimmetria è molto rischioso speculare o investire nello sport. Basti pensare ai risultati di ge-

settori in cui il rispetto di una “concorrenza perfetta” viene trascurato per introdurre forme di protezione atte a garantire il cosiddetto “equilibrio competitivo” all’interno delle varie leghe. Profitto, quindi, ma attraverso campionati combattuti quanto più è possibile. E poiché i consueti tetti agli ingaggi o ai budget si rivelano spesso virtuali o vengono elusi (nel baseball, ad esempio, possono essere superati dietro pagamento di una “tassa di lusso” che viene assorbita da tutta la lega), le leghe professionistiche vanno ben oltre. Ecco allora la gestione del merchandising sviluppata a livello di lega e non di singola società o la revenue sharing, cioè la condivisione degli introiti dal botteghino per evitare che società inserite in un bacino territoriale molto grande si arricchiscano troppo; o ancora l’attribuzione di una prelazione sulle scelte dei talenti alle squadre risultate meno performanti sportivamente nella stagione precedente e il vaglio di ogni ingresso di una nuova società sportiva in lega sottoposto a leghe intermedie che esprimono diritti territoriali. Tutto ciò con l’obiettivo di creare leghe chiuse e competitive al loro interno.

4,1 3 74,2

stione di una società come la Juventus, ottima sotto molti punti di vista (ritorni televisivi, numero di tifosi, presenze allo stadio, visibilità) ma i cui dati di bilancio sono profondamente in rosso, e il cui titolo azionario è sceso di valore in un anno da 35 a 18 centesimi. Esistono prospettive di sviluppo per un mercato dello sport orientale e mediorientale? La Cina, essendo un Paese in forte espansione, vorrebbe imitare il modello occidentale, ma in Oriente, per il momento, va forte soltanto l’aspetto che riguarda le scommesse. Tuttavia lo sport è un potente veicolo d’immagine, attraverso di esso si vuole manifestare la propria potenza economica e, da tale punto di vista, i risultati già ci sono: si pensi alle Olimpiadi di Pechino. E lo vedremo ancora di più a Londra 2012. 

Morta una lega se ne fa un’altra L’approccio è quindi “di lega” e, soprattutto, economicista, perché lo sport negli Stati Uniti è considerato un servizio offerto privatamente che può quindi avere una fine, sottolinea Di Domizio. Sono, infatti, diverse le leghe professionistiche morte in passato (così è successo al pugilato o ad alcune leghe di baseball, ad esempio), ma in quei casi non è intervenuto alcun decreto “spalma-debiti” governativo a salvare le società, sebbene non sia un tabù l’impegno delle finanze pubbliche in certi settori. Talvolta capita infatti che gli enti territoriali partecipino alla realizzazione di stadi o impianti sportivi ma, generalmente, ciò avviene permettendo alle comunità locali di esprimersi attraverso referendum (a Los Angeles, in occasione delle Olimpiadi del 1984, la cittadinanza fu coinvolta per valutare se fosse opportuno finanziare la costruzione di certi impianti). Non è comunque la norma che le istituzioni partecipino a tali imprese, anche se essere proprietari di un team professionistico è spesso il primo elemento che conduce alla carica di senatore o a candidature per incarichi importanti.

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 25 |

FONTE: PLUNKETT RESEARCH,® LTD. WWW.PLUNKETTRESEARCH.COM

dossier


| valorifiscali |

CON IL PROFESSOR DI STEFANO

DAL 4 AL 12 AGOSTO sotto la Grigna, lungo il sentiero del Viandante, in una corte ristrutturata nel centro medioevale di Maggiana (Lecco)

8 MATTINATE di formazione sulla green economy e l’economia della sostenibilità

8 POMERIGGI di turismo sostenibile a limitato impatto ambientale

8 GIORNATE di ospitalità presso il Bed and breakfast Alla Torre del Barbarossa e presso la comunicante osteria Sali e Tabacchi, con cucina attenta ai prodotti tipici locali e alla filiera corta

www.corsivalori.it | www.valori.it

Equità fiscale

Un’Imu più sostenibile di Alessandro Santoro*

Imu è indubbiamente nata male, a causa di alcuni errori (evitabili) compiuti dal Governo e di convinzioni radicate quanto di dubbio fondamento. Tra gli errori vanno annoverati la rivalutazione (del 160%!) delle rendite catastali, senza alcun tentativo di ancoraggio ai reali valori di mercato. E la confusione nelle modalità applicative, derivante dalla (invero

L’

curiosa) idea che una quota del gettito di un’imposta municipale sia riservata allo Stato. Tuttavia le ragioni teoriche e pratiche per l’introduzione di un’imposta sui patrimoni immobiliari, comprese le prime case, ci sono tutte. E molte polemiche, da questo punto di vista, sono pretestuose o figlie di un’asserita (ma non motivata) necessità di “tutelare la prima casa”. Con un sistema di tassazione diretta fondato esclusivamente sui redditi dichiarati – e quindi seriamente minato dall’evasione – un’imposta patrimoniale rappresenta un correttivo logico ed equo. Chi ritiene che per “patrimonio” si debba intendere esclusivamente quello finanziario, e non quello immobiliare, fa un errore concettuale: se tassare i redditi è insufficiente e distorsivo, perché gli stessi sono (da alcuni) evasi, e se tassare i patrimoni consente di colpire quei risparmi che l’evasione ha generato, non si capisce perché il patrimonio immobiliare – prime case incluse – debba essere esentato. È ragionevole escludere che i frutti dell’evasione, che caratterizza da decenni in misura sistematica e amplissima i redditi dichiarati, siano (o siano stati) investiti solo in patrimoni finanziari e non in case? Evidentemente no. In realtà l’errore (bipartisan, anzi, ha visto un contributo determinante della sinistra) è stato escludere tutte le prime

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

Quest’estate passa una settimana con

Una tassa giusta ed equa. Per colpire i frutti dell’evasione case dall’Ici, cosicché la reintroduzione della loro tassazione, per di più in un momento di crisi pesante come questo, comporta indubbiamente degli effetti pesanti su (alcuni) bilanci familiari. Sarebbe allora necessario uscire da una discussione tutta ideologica e astratta sul “valore sociale” della casa (sarebbe ora di discutere del “valore sociale” delle locazioni) per chiedersi, invece, come si fa a evitare che l’Imu diventi effettivamente insostenibile per alcuni. Ogni imposta patrimoniale presenta questo problema: si basa sul patrimonio, ma si paga con il reddito. E, quando il reddito diminuisce, il suo pagamento può porre seri problemi di liquidità. Un modo per rimediare a questi ultimi problemi per i Comuni consisterebbe nell’utilizzo degli (angusti) margini di manovra dell’aliquota consentiti

dalla legge (decreto 201/2011). Posto che il reddito imponibile dichiarato non è un buon indicatore di equità, ma è un indicatore certo di liquidità, si potrebbe ipotizzare che, per le prime case i cui titolari abbiano almeno 100 mila euro di reddito imponibile, l’aliquota venga aumentata al 5-6 per mille. Per gli altri invece (per esempio coloro i cui redditi imponibili sommati non superano 30 mila euro) l’aliquota potrebbe essere ridotta al 2-3 per mille. In alternativa, totale o parziale, il maggior gettito potrebbe essere utilizzato per ridurre l’aliquota sulle seconde case date in locazione. In prospettiva, invece, va corretta (come lo stesso governo prevede nel disegno di legge fiscale) l’iniquità più evidente dell’Imu, ovvero il suo basarsi su rendite catastali lontane, ma in modo disomogeneo, dai valori di mercato. Già oggi la banca dati dell’Omi (Osservatorio del mercato immobiliare, www.agenziaterritorio.it/?id=590) consente di ricostruire con una certa precisione i valori di mercato delle abitazioni, almeno nelle grandi città. È proprio impossibile per i Comuni immaginare di differenziare l’aliquota anche sulla base della differenza tra rendita catastale e valore di mercato?  Ricercatore di Scienza delle finanze presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca

*

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 27 |


| speculazione |

REUTERS / L ARRY DOWNING

finanzaetica

13 giugno 2012. Jamie Dimon, Ceo di JP Morgan Chase & Co, aspetta di testimoniare davanti alla Commissione del Senato americano a Washington

Derivati,

La banca Usa gioca sui derivati, e perde due miliardi in un mese e mezzo. Una vicenda emblematica da cui trarre almeno due insegnamenti

le lezioni di JP Morgan di Matteo Cavallito n nuovo scandalo finanziario fatto di leva e deliri di onnipotenza. Una forte sensazione di deja vu. Una vicenda emblematica, esemplare, salita alla ribalta lo scorso maggio, quando il Ceo di JP Morgan, Jamie Dimon, annuncia improvvise quanto ingenti perdite sul fronte derivati. La banca ha scommesso e ha perso. Tanto, troppo, decisamente di più rispetto a quegli 800 milioni di dollari di cui si era parlato nei giorni precedenti. La divisione londinese della banca questa volta l’ha combinata grossa: 2,3 miliardi è la misura della voragine accertata, un disastro bello e buono sul quale peseranno, in seguito, previsioni ancor più pessimiste. Sul banco degli imputati, oltre a Dimon, ci finiscono in quattro: Ina Drew, la responsabile degli investimenti con un portafoglio in gestione da 374 miliardi di dollari, Achilles Macris, responsabile del desk londinese dal quale erano partiti gli ordini, Javier Martin-Artajo, direttore generale della squadra di Macris, e, soprattutto, Bruno Iksil, il trader conosciuto nell’ambiente come “la balena di Londra” per le dimensioni cetacee delle sue operazioni finanziarie. Tutti nell’occhio del ciclone, tutti prossimi alle dimissioni, si dice.

U

Etf, minaccia per la finanza globale > 31 Le critiche di Etica Sgr all’assemblea Terna > 33 Domini: “La finanza socialmente responsabile” > 35 | 28 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

Un misterioso indice Ma che cosa è accaduto veramente? La risposta, in parte ancora da decifrare, si troverebbe in una sigla, un indice di mercato noto come Markit CDX NA IG Series 9 che | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 29 |


| finanzaetica |

L’operazione compiuta da JP Morgan prende il nome di proprietary trading, ovvero l’attività che la banca realizza con i suoi fondi allo scopo di ottenere un profitto per sé e non per la clientela. L’ultima versione del Dodd-Frank Act, la legge di riforma della finanza Usa, la vieterà espressamente. Ma la casistica risulta talmente complicata da sfuggire spesso alla proibizione. Ad esempio è sufficiente mascherare un’attività speculativa per un’operazione di hedging (ovvero una strategia di copertura, di minimizzazione del rischio) per restare nei limiti del lecito. Il che accade molto spesso. Insomma, allo stato attuale le nuove regole di disciplina dei mercati risultano palesemente inefficaci. La vicenda JP Morgan insegna in primo luogo proprio questo. Per controbilanciare una carenza di regole, verrebbe da pensare, servirebbero forse opportune strategie di trading capaci di annullare o quasi i rischi. Ma, di | 30 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

fronte alla complessità del mercato, le tipiche operazioni di copertura possono risultare in parte inutili. E qui veniamo alla seconda lezione. Nell’ultimo trimestre del 2011 le grandi banche americane, che di fatto controllano l’intero mercato mondiale dei derivati, hanno immesso sul mercato un crescente controvalore di titoli a protezione dei debiti pubblici e privati delle cinque nazioni europee a rischio (Portogallo, Italia, Irlanda, Spagna, Grecia: i cosiddetti “Piigs”). Secondo la Banca dei regolamenti internazionali (Bri) la vendita di questi strumenti è aumentata del 10%. JP Morgan ha venduto Cds sulle obbligazioni dei cinque “Piigs” per un totale di 142 miliardi di dollari. Al tempo stesso ha acquistato titoli analoghi per 144 miliardi. In breve, di fronte al rischio di un aggravamento della crisi, ha assicurato sé stessa più di quanto abbia assicurato i suoi acquirenti. Goldman Sachs si è comportata sostanzialmente nello stesso modo. Questa strategia è conosciuta sul mercato come offsetting bets, scommesse che si coprono a vicenda. JP Morgan la usa da sempre, ma non per questo, come dimostra l’ultimo clamoroso insuccesso, è stata immune da perdite significative. «È difficile conoscere esattamente la reale esposizione delle banche americane o europee sui Cds», spiega a Valori Craig Pirrong, docente di Finanza presso il Bauer College of Business dell’Università di Houston, Texas. «Come ho notato nei miei recenti commenti su Bloomberg (18 maggio 2012, ndr), i dati sulle esposizioni nette possono essere fuorvianti». In altre parole la presenza di dati aggregati (come quelli diffusi dagli altri colossi del mercato: Bank of America, Morgan Stanley e Citigroup) e la mancanza di dettagli non ci permettono di fare previsioni né sui rischi potenziali che le banche stanno correndo, né sugli effetti che una crisi europea potrebbe produrre sulle banche Usa.

Nuovi rischi Pirrong non vede al momento particolari pericoli sul fronte dei Cds («Non li metterei in cima alla lista delle mie preoccupazioni», ha dichiarato il professore dell’Università di Houston) e forse ha anche ragione. Perché in realtà, verrebbe da aggiungere, il comparto della roulette finanziaria presenta altre evidenti insidie. La stessa JP Morgan, ha ipotizzato di recente il Financial Times citando fonti di mercato, avrebbe a bilancio titoli potenzialmente tossici per 100 miliardi di dollari. Di che si tratta? Essenzialmente di prodotti strutturati tra cui le famigerate Asset backed securities (Abs), titoli coperti da garanzie per così dire “a rischio”. Nel 2008 le Abs divennero improvvisamente famose al grande pubblico. Le securities in questione non erano altro che titoli un po’ più complessi del solito, obbligazioni di fatto garantite da un sottostante apparentemente ben bilanciato: i mutui subprime del mercato immobiliare americano. 

GLOSSARIO CREDIT DEFAULT SWAP: Derivato swap in cui una parte (A) si impegna a tutelare l’altra (B) dall’impossibilità di recuperare un credito a fronte dell’ipotetica bancarotta del debitore (C). In questo caso A si fa garante del debito di C. B ha la certezza di recuperare il credito, ma deve retribuire A per il rischio. Tanto è elevato quest’ultimo, tanto maggiore sarà la retribuzione. HEDGING: Qualsiasi attività finanziaria realizzata allo scopo di controbilanciare il rischio di un’altra attività. L’acquisto di un Cds su un’obbligazione rappresenta un’operazione di hedging per chi possiede l’obbligazione stessa. Data la complicazione delle operazioni, il confine tra hedging e speculazione è spesso molto sottile. LEVA FINANZIARIA: È quell’operazione che consente di fare acquisti sul mercato utilizzando solo una parte del denaro necessario. L’investitore mette a disposizione i soldi che possiede con la promessa di aggiungere la parte mancante una volta che l’investimento avrà generato un certo guadagno. MUTUI SUBPRIME: Mutui concessi a una clientela di basso reddito e scarse garanzie e, pertanto, a maggiore rischio di insolvenza. Sono stati i primi responsabili delle ingenti perdite che nel 2007 hanno scatenato la crisi finanziaria americana. PROPRIETARY TRADING: Attività di investimento realizzata con fondi della banca allo scopo di conseguire un profitto per la banca stessa e non per la sua clientela.

Etf, minaccia crescente per la finanza globale di Andrea Barolini

Fondi exchange-traded: strumenti finanziari comodi da usare, ma altamente speculativi. Sono molto rischiosi, ma in grande crescita. Colpa di una scarsa regolamentazione e di un deficit di trasparenza ciascuno di noi può capitare di essere contattato dalla propria banca, che invita ad acquistare con i propri risparmi fondi d’investimento, polizze o piani di previdenza. Altrettanto spesso, in quelle occasioni, ci possiamo trovare di fronte a una serie infinita di sigle e acronimi apparentemente innocui, ma dietro ai quali possono nascondersi strumenti ad altissimo rischio, non solo per il nostro portafoglio.

A

Comodi ed economici È il caso dei fondi exchange-traded (Etf). Noti anche con il soprannome tracker, sono fondi quotati in Borsa, che permettono di investire su un “paniere”: tutte le azioni di un indice, di un’area geografica o di un gruppo di industrie. Ma possono essere utilizzati anche per investire su materie prime o metalli preziosi. Con un Etf, ad esempio, possiamo puntare i nostri risparmi sull’S&P 500 statunitense, oppure sull’Ftse-Mib italiano: se uno di essi guadagna il 5%, anche il nostro Etf dovrebbe seguire l’andamento per la stessa percentuale, come se si fossero comprate le azioni di tutti i titoli contenuti negli indici. L’uso degli Etf è dunque principalmente legato alla comodità di eseguire un solo investimento anziché centinaia di singole compravendite. I costi di gestione risultano così ridotti, ed è anche più facile rivenderli sul mercato. Ciò ne spiega il successo incre-

dibile degli ultimi anni: secondo i dati pubblicati da BlackRock (Etp Landscape Industry Highlights), il numero di Etf in tutto il mondo è cresciuto dai 92 del 2000 ai 3.204 dell’aprile 2012. E il totale di asset gestiti è salito dai 74,3 miliardi di dollari di dodici anni fa agli attuali 1.526 miliardi e 300 milioni.

In caso di crisi si rischia il crollo Per comprendere i pericoli che i fondi tracker nascondono è utile analizzarne il processo di creazione. Esistono due tipi di Etf, quelli “fisici” e quelli “sintetici”. Partiamo dai primi e immaginiamo che siano stati creati da una banca, che investe direttamente i capitali dei propri clienti nel paniere di riferimento. Fin qui nulla di problematico, se non fosse che, normalmente, l’istituto di credito non

mantiene il possesso dei titoli che compra. Al contrario, li presta ad altre banche, in cambio di un tasso di interesse. In un’analisi pubblicata dal mensile francese Enjeux Les Echos, François Derrien e Christophe Perignon, professori di Finanza all’Hec di Parigi, spiegano che «in caso di crisi, i detentori dell’Etf potrebbero esigerne il rimborso. La banca dovrebbe allora vendere a sua volta i titoli, ma se essi sono in mano a un altro istituto, occorre verificare che quest’ultimo non li abbia a sua volta prestati a una terza banca». Gli Etf “sintetici”, invece, sono creati per investire su prodotti derivati, soprattutto swap. In questo caso la nostra banca “conserva” i fondi presso una banca d’investimenti, che si impegna a versarle i margini di profitto. Al fine di ridurre il rischio, la banca d’affari concede in garanzia degli asset, i “collaterali”. Nel caso dovessero arrivare massicci ordini di vendita da parte dei possessori di Etf “sintetici”, la banca annullerebbe lo swap,

LA CRESCITA DEI FONDI ETF 3500

1800 1600

3000

1400

n° fondi ETF

Due lezioni

Una voragine da 2,3 miliardi di euro. Colpa di una “scommessa” azzardata. JP Morgan potrebbe avere 100 miliardi di titoli tossici

asset [in miliardi di dollari]

identifica lo stato di salute di 121 compagnie americane ad elevato rating. In sintesi si tratta di un paniere costruito sui Credit default swaps, i derivati che assicurano in caso di bancarotta sulle obbligazioni. Per intenderci, se il rischio default del colosso della grande distribuzione Wal-Mart Stores diminuisce, a calare è anche il prezzo dei Cds sulle sue obbligazioni (costa meno assicurarsi contro l’ipotesi default). Se a calare è invece il rischio medio associato alle 121 compagnie del paniere, a diminuire, complessivamente, sarà il valore dell’indice nel suo complesso. In altre parole, se si ritiene che le condizioni di mercato miglioreranno, si potrà scommettere proprio sulla contrazione di quest’ultimo traducendo questa scommessa in un profitto (il che, utilizzando i derivati, è sempre teoricamente possibile). Nel marzo di quest’anno, con l’indice a quota 112, JP Morgan ha fatto esattamente questo ragionamento. Meno di due mesi dopo, con il Markit Series 9 a quota 150 la stessa banca Usa, che nel frattempo aveva assunto posizioni analoghe su indici simili, è stata costretta ad ammettere l’errore. E a dichiarare una perdita miliardaria.

| finanzaetica |

2500 1200 1000

2000

800

1500

600 1000 400 500

200 0

0 2000

ETF equity

2001

2002

2003

ETF fixed income

2004

2005

2006

ETF commodity

2007

2008

altri ETF

2009

2010

2011

Apr. 12

n° ETF

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 31 |


| finanzaetica |

e chiederebbe la retrocessione immediata dei fondi forniti alla banca d’investimenti. «Quest’ultima – proseguono i due docenti – si vedrebbe così privata improvvisamente di un’importante fonte di finanziamento. E ciò potrebbe risultare fatale in un periodo di crisi. Certo, in caso di default della banca d’affari, la banca retail potrebbe cercare di vendere i collaterali, ma questo a patto che essi siano ancora “liquidi”». Ovvero a patto che abbiano mercato. Quando tutto ciò, poi, viene applicato alle materie prime, ai rischi prettamente finanziari se ne aggiungono altri molto più “reali”. Soprattutto perché a comprare ad esempio Etf “sintetici” su cacao, zucchero, o grano non sono solo industriali che trattano queste merci – e che quindi vogliono tutelare dalle oscillazioni dei prezzi – ma anche singoli investitori, interessati solo al guadagno. Speculatori incapaci di capire che scommettere sul rialzo del cibo è un po’ come scommettere contro se stessi. Sempre, poi, che il guadagno arrivi davvero. Un’analisi di Businessweek spiega che, proprio invogliati dal possibile buon andamento di alcune commodities,

| finanzaetica | azionariato attivo |

Le critiche di Etica Sgr all’assemblea di Terna di Elisabetta Tramonto

Con gli Etf si può investire sulle materie prime. Ai rischi finanziari si aggiungono quelli reali. Una scommessa sul rialzo del prezzo del cibo gli investitori hanno puntato qualcosa come 277 miliardi di dollari nel 2009 sui fondi Etc (exchange-traded commodities, fondi similissimi agli Etf). Ma quando i prezzi delle materie prime sono cresciuti, i fondi non lo hanno fatto (o per lo meno non altrettanto). Qualche esem-

pio? Il fondo americano U.S. Oil Fund, tra il 2006 e il 2009 crollò del 50%, ma il prezzo del greggio scese solo dell’11%. Lo U.S. Natural Gas Fund calò dell’85% a fronte di una discesa del 40% del gas naturale; e il PowerShares DB Agriculture Fund di Deutsche Bank salì del 3% nonostante le materie prime a cui si riferiva fossero cresciute del 19%. Eppure, tra scarsa regolamentazione e deficit di trasparenza, le banche continuano a vendere i fondi tracker. Una questione di “leva” finanziaria. Esattamente come prima della crisi. 

All’assemblea degli azionisti di Terna Etica Sgr vota “no” alla distribuzione dei dividendi e si astiene in tema di remunerazioni. Dietro le quinte, all’interno del Comitato etico, il dibattito è stato acceso rimavera 2012, stagione di assemblee degli azionisti. Il 16 maggio si è tenuta quella di Terna. C’era anche Etica Sgr, la società di gestione del risparmio del gruppo Banca etica, con il suo direttore generale, Alessandra Viscovi. Non si può certo dire che la sua sia stata una votazione compiacente, né che i suoi interventi abbiano espresso piena soddisfazione per l’operato di Terna. Eppure c’è chi avrebbe voluto più fermezza. Si tratta del Comitato etico (o, almeno, una parte di esso), l’organo che analizza le azioni di Etica Sgr e verifica che rispettino principi di eticità.

P

Un dibattito acceso Nei giorni che hanno preceduto l’assemblea di Terna, all’interno del Comitato etico di Etica Sgr si è svolto un intenso dibattito sulle intenzioni di voto e sui toni da usare per esprimere le proprie critiche. Tra i vari membri del Comitato etico le opinioni erano talvolta diverse (ben venga!). Alla fine, democraticamente, si è votato e il Consiglio di amministrazione ha preso la decisione finale. Intendiamoci, il giudizio di Etica Sgr su Terna è positivo. Altrimenti non si troverebbe nel portafogli della società, che, nelle sue scelte di investimento, adotta rigidi parametri ambientali, sociali e di governance. Ma il compito di Etica Sgr è anche fare le pulci alle imprese di cui è azionista. Tre i punti critici: innanzitutto la distribuzione dei dividendi, su cui Etica

In un momento di crisi serve rigore. Terna distribuisce dividendi, invece di investire, ed eroga stipendi da capogiro ai vertici Sgr ha espresso voto contrario. Terna ha chiuso il 2011 con un utile netto di 453,5 milioni di euro e ha deciso di distribuire un dividendo di 21 centesimi per azione. Per Etica Sgr avrebbero potuto essere usati diversamente. «Dato l’attuale contesto di crisi – ha dichiarato in assemblea Alessandra Viscovi – avremmo guardato con maggiore soddisfazione a una proposta di trattenimento in azienda di una percentuale di utile netto almeno pari allo scorso anno, se non addirittura in crescita, da destinare a ulteriori investimenti, quali quelli relativi alle smart grid o allo sviluppo di impianti per lo stoccaggio di energia da fonti rinnovabili». Il secondo punto ostico riguarda le remunerazioni, su cui Terna ha presentato la relazione annuale. La cifra più eclatante consisteva nei due milioni e 280 mila euro all’a.d. Flavio Cattaneo. Un po’ troppo secondo il Comitato etico di Etica Sgr (su questo punto la società si è astenuta). Secondo alcuni membri, però, l’intervento in assemblea è stato troppo blando. Etica Sgr ha dichiarato il suo apprezzamento per «il grado di dettaglio delle politiche in materia di remunerazione adottate dalla società», pur chie-

dendo maggiori dettagli e il rapporto tra la remunerazione dell’a.d. e la retribuzione media. «Diciamo chiaramente che compensi simili sono inaccettabili», aveva chiesto Franco Delben, membro del Comitato etico. Supportato da un altro collega, Walter Ganapini: «Inciterei Terna a comportamenti più sintonici con lo stato del Paese». Una posizione che, a dire il vero, in assemblea è stata espressa, seppur diplomaticamente, da un socio ben più “pesante” di Etica Sgr. La rappresentante di Cassa depositi e prestiti, principale azionista di Terna (29,85% di azioni), ha votato sì alla relazione sulla politica di remunerazione, ma ha rivolto al Cda di Terna l’invito ad improntare «il proprio atteggiamento a un grande rigore, che riteniamo confacente al momento». L’ultimo tema critico è il rapporto con le comunità locali, in particolare con alcuni comitati di cittadini del Friuli Venezia Giulia riguardo un progetto

UN PRESIDENTE SOSTENIBILE… Fulvio Rossi, Corporate Social Responsibility manager di Terna, è il nuovo presidente del Csr Manager Network, l’Associazione dei professionisti che si dedicano alla definizione delle strategie e alla gestione delle attività socio-ambientali e di sostenibilità delle maggiori imprese italiane promossa da Altis (Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica di Milano) e Isvi (Istituto per i valori d’impresa). Dovrebbero quindi essere più tranquilli i membri del Comitato etico di Etica Sgr. Vedremo.

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 33 |


| finanzaetica |

| finanzaetica |

assemblea Etica Sgr ha espresso “preoccupazione” per la vicenda e ha chiesto «se, ad oggi, si sia raggiunta un’intesa con tutti gli stakeholder». Un po’ poco, secondo Delben: «A noi non compete stabilire

REMUNERAZIONI D’ORO SENZA RITEGNO

REMUNERAZIONI DEI CEO 2011

Fisso

22,2 8,22 6,74 6,60 5,21 5,07 4,88 4,38 4,08 4,06 3,69 3,37 3,14 2,96 2,56 2,45 2,42 2,35 2,33 2,29 2,24 2,15 2,11 1,85 1,75 1,75 1,57 1,55 1,49 1,46 1,42 1,26 1,15 0,95 0,83 0,81 0,55 0,31

Bonus Cash

Azioni-Options

| 34 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

[milioni di euro]

Amy Domini: «La finanza deve essere socialmente responsabile»

+15,4%

25 0

Remunerazione totale

2010

Componente fissa

2011

Bonus Cash

23,17

50

+7,8% 21,49

-13,3%

48,05

75

+92,1%

61,22

100

25,01

125

53,07

150

124,29

Frontis Governance ha da poco pubblicato uno “Studio sulle remunerazioni nelle società quotate in Italia” nel 2011. Risultato: in piena crisi, con migliaia di posti di lavoro persi e miliardi di euro bruciati in Borsa; nonostante il valore totale per gli azionisti di queste società (corsi azionari e dividendi) sia stato negativo per oltre il 19%, le remunerazioni medie dei più alti dirigenti (a.d., presidente, direttore generale) delle società dell’Ftse-Mib sono aumentate del 15%. Cifre a sei zeri: 22,2 milioni di Tronchetti Provera (Pirelli), 8,22 di Elkann (Exor, la finanziaria del gruppo Fiat), 6,74 di Bernabè (Telecom Italia). Ma anche i 2,29 milioni di Cattaneo di Terna. Per non parlare delle indennità di fine mandato, che, nonostante le raccomandazioni europee del 2009, continuano a superare spesso le due annualità. Eclatanti i 16,65 milioni dell’ex presidente di Generali, Geronzi, e i 9,48 milioni dell’a.d. e presidente di Finmeccanica, Guarguaglini. www.frontisgovernance.com E.T.

PIRELLI & C - Tronchetti Provera EXOR - Elkann TELECOM ITALIA - Bernabè LUXOTTICA - Guerra LOTTOMATICA - Sala UNICREDIT - Ghizzoni ENI - Scaroni ENEL - Conti PRYSMIAN - Battista ATLANTIA - Castellucci SALVATORE FERRAGAMO - Norsa MEDIASET - Adreani MEDIOBANCA - Nagel AUTOGRILL - Tondato Da Ruos FIAT INDUSTRIAL - Marchionne FIAT - Marchionne INTESA SANPAOLO - Passera GENERALI - Perissinotto TOD’S - Diego Della Valle TERNA - Cattaneo BANCO POPOLARE - Saviotti IMPREGILO - Rubegni SAIPEM - Tali BANCA MPS - Vigni ENEL GREEN POWER - Starace BPER - Viola FINMECCANICA - Orsi UBI BANCA - Massiah AZIMUT - Giuliani SNAM - Malacarne A2A - Zuccoli BANCA POP. MILANO - Chiesa CAMPARI - Kunze-Concewitz MEDIOLANUM - Ennio Doris ANSALDO - De Luca DIASORIN - Rosa PARMALAT - Bondi e Guerin BUZZI UNICEM - Michele Buzzi

chi abbia ragione. Abbiamo invece il diritto-dovere di dire che il comportamento di Terna è contrario ai metodi che noi riteniamo validi per il confronto con le popolazioni locali». 

CONFRONTO REMUNERAZIONI TOTALI CEO NEL FTSE-MIB: 38 EMITTENTI

107,72

di elettrodotto che Terna vorrebbe costruire tra Redipuglia (Gorizia) ed Udine Ovest. La società lo vorrebbe aereo, le comunità locali interrato, per, sostengono, ridurre l’impatto ambientale. In

Azioni-Options

[valori totali in milioni di euro]

di Elisabetta Tramonto RETRIBUZIONI COMPLESSIVE CEO VS SALARI MEDI 2011 907

PIRELLI & C 24,56 260 LUXOTTICA 25,34 203 TELECOM ITALIA 33,15 131 UNICREDIT 39,75 PRYSMIAN 31,33 130 AUTOGRILL 24,66 120 119 LOTTOMATICA 43,70 104 ENI 47,07 IMPREGILO 21,66 99 99 ENEL 44,25 96 ATLANTIA 42,45 TOD’S 27,33 85 76 FIAT 32,08 74 SALVATORE FERRAGAMO 49,53 74 EXOR 110,68 SAIPEM 32,3165 63 INTESA SANPAOLO 38,29 51 MEDIASET 66,37 50 FIAT INDUSTRIAL 51,16 47 A2A 30,60 45 GENERALI 52,01 44 BANCO POPOLARE 51,29 38 BANCA MPS 48,39 38 BANCA POP. EMILIA ROMAGNA 46,21 38 MEDIOBANCA 83,39 35 ENEL GREEN POWER 49,54 34 UBI BANCA 45,78 SNAM 3344,34 TERNA 32 71,69 FINMECCANICA 3249,55 BANCA POP. MILANO 2550,94 CAMPARI 2448,77 MEDIOLANUM 2046,84 AZIMUT 18 82,06 PARMALAT 1830,45 DIASORIN 17 47,22 ANSALDO 15 57,28 BUZZI UNICEM 1129,56

Retribuzione del CEO su Salari medi

Gli investimenti responsabili possono garantire ritorni più alti dei tradizionali Per chi si approccia al mondo degli investimenti socialmente responsabili (Rsi) il nome Amy Domini è un punto di riferimento importante. Da lei ha preso il nome il primo indice etico al mondo: il Domini Social Index 400 (Dsi400), lanciato nel 1990. La fondatrice di Kinder Lydenberg & Domini Co., la più importante società di rating ambientale e sociale a livello mondiale, nel 2005 è entrata nella classifica delle 100 persone più influenti del mondo redatta dalla rivista Time, che nel 2009 l’ha definita come una dei 25 “Responsibility Pioneers” (Pionieri della Responsabilità) che stanno cambiando il mondo. Il 20 aprile scorso era a Milano, al Salone del risparmio gestito. Valori l’ha intervistata. Per i profani, e i più scettici, parlare di investimenti responsabili significa rinunciare al rendimento. È vero? Per niente! Anzi, un investimento che rispetti criteri sociali e ambientali può garantire un ritorno anche più elevato di uno “tradizionale”. È una strategia d’investimento come altre. Le business school parlano di come grandi capitani d’industria, come Rockefeller, hanno fatto enormi fortune, ma non dicono nulla su come le hanno ottenute. Seguendo criteri responsabili tutto è trasparente.

Salari medi 2011 in migliaia di euro

Qual è lo scopo di un investimento responsabile? Spesso ci si approccia a questo tipo di investimenti per ragioni strettamente personali. Per semplificare: un parente si è ammalato di cancro ai polmoni, allora non investo più in aziende produttrici di sigarette. Ma, andando più a fondo, si arriva a capire un concetto chiave,

quello di impatto. Ognuna delle nostre azioni ha un impatto, questo vale ancora di più per le aziende e, quindi, per gli investimenti. Abbiamo condotto molte campagne con i produttori di elettrodomestici per far capire loro che è importante come vengono prodotte le materie prime che acquistano. Li abbiamo portati a scoprire che in molti casi i lavoratori dei loro fornitori vivevano in condizioni di semi-schiavitù. Amy Domini Gli investitori hanno un ruolo fondamentale per combattere questa situazione, devono esercitare la loro pressione sulle aziende acquirenti, perché modifichino il comportamento dei loro fornitori. Che caratteristiche ha chi si dedica all’Rsi? Innanzitutto seleziona le aziende dove investire in base a standard che considerino l’impatto sulle persone e sul Pianeta. Secondo, deve essere un azionista attivo e influenzare i comportamenti delle aziende in cui investe. Terzo, deve investire anche in organizzazioni dall’impatto positivo come fondi di microcredito. Molti grandi investitori responsabili negli Usa hanno appoggiato il movimento Occupy. Perché? Perché ha lanciato il messaggio che c’è qualcosa di sbagliato in Wall Street, concentrata sul rendere molto ricche poche persone. La grande finanza ha un enorme impatto su ognuno di noi, la crisi lo ha fatto emergere in modo evidente. Dobbiamo prenderne coscienza e scegliere di conseguenza i nostri investimenti. La finanza responsabile può aiutare a prevenire nuove crisi? In parte sta accadendo: molte organizzazioni stanno integrando criteri sociali, ambientali e di governance nel valutare gli investimenti. La crisi potrebbe anche diventare un elemento positivo, se sapremo sfruttarla.


| consumiditerritorio |

Londra 2012

Quell’Olimpiade ha un brutto carattere embra una controversia fuori dal tempo, oggi, che non si stampa più con il piombo, ma il carattere creato per le Olimpiadi 2012 ha suscitato un acceso dibattito tra esperti del settore e innamorati della città di Londra che tra poco lo vedranno ad ogni angolo. Quando è stato presentato 2012 Headline, il carattere che contrassegnerà

S

di Paola Baiocchi

tutta l’immagine coordinata delle Olimpiadi londinesi, si era da poco spenta la polemica sul logo dei Giochi di Londra, sul quale l’International Herald Tribune aveva scritto: «Pare sempre di più quello che noi britannici chiamiamo aspramente dad dancing, cioè un uomo di mezza età che cerca invano di sembrare fico sulla pista da ballo». E 50 mila firme erano appena affluite sul sito Cambia il logo Londra 2012 (Change The London Logo 2012). Eppure lo spigoloso font, che sarà sopra ogni biglietteria, cartello delle toilettes e depliant delle Olimpiadi, è stato subito messo al primo posto tra gli otto più brutti font mai apparsi sulla faccia della Terra, da Simon Garfield, giornalista e autore di Sei proprio il mio typo, una deliziosa pubblicazione che rappresenta una vera libridine per chi conosce un po’ la storia degli stili tipografici, ma anche per chi non resiste ad armeggiare con la tendina dei caratteri quando scrive al computer una lettera o prepara l’invito a una festa di compleanno. Perché, lungi dall’essere morti con il digitale, i caratteri hanno ripreso una nuova vita quando un certo Steve Jobs ha progettato il suo primo Macintosh e ha voluto dotarlo di una suite di caratteri, che aveva imparato ad apprezzare dopo aver seguito un corso di calligrafia. Ecco come Jobs lo ricorda: «Impa-

Le fonderie digitali continuano a lavorare a pieno ritmo e la persona più letta al mondo è probabilmente il signor Matthew Carter, il disegnatore del Georgia, il font giudicato più leggibile al computer, e del Verdana, il carattere la cui adozione da parte di Microsoft e Google ha assicurato un’enorme diffusione. Il signor Carter è un raffinato conoscitore della tipografia che riesce a cogliere assurdi cronologici dove meno te li aspetti: se un film è ambientato negli anni Venti, non può certo ospitare un carattere che in quegli anni non era ancora stato fuso, come l’Helvetica che nasce in Svizzera nel 1957. Non siamo certo ai suoi livelli, ma i tipi, la composizione tipografica e la grafica entrano nella nostra vita con una frequenza di cui abbiamo perso il conto, aiutandoci o rendendoci più complicata la comprensione di un’indicazione stradale o di un testo di fisica. Non li notiamo coscientemente, ma sono anche i caratteri con cui è scritto un menù che ci ispirano o ci disincentivano ad entrare in un ristorante. Nel caso del carattere olimpico non si può certo parlare di fascino; come dice Garfield «non si dimentica facilmente» ed è «immediatamente riconoscibile». Ma sta allo sport come il colpo della strega. 

Sopra: il carattere 2012 Headline; a lato il logo London 2012

rai a distinguere i caratteri con e senza grazie, a variare la quantità di spazio tra diversi gruppi di lettere, e capii cosa rende grande la grande tipografia. Fu uno splendido viaggio tra storia e arte, ricco di sfumature che la scienza non sarebbe in grado di comprendere, e lo trovai affascinante». È per questo che nomi di prestigiosi tipografi-editori, inventori di tipi come Garamond e Bodoni, che hanno fatto la storia dei libri e della lettura, sono entrati nell’uso di un pubblico ampio che ne apprezza l’eleganza, magari anche senza conoscerne il passato.

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 37 |


| atlantecivile |

| info&grafica|

L’energia in immagini di Valentina Neri

Usiamo sempre meno energia: in 50 anni i consumi elettrici in Italia sono saliti del 700%, dal 2005 scendono.

Focus sole: pannelli fotovoltaici sul 3% delle terre agricole soddisfano il fabbisogno energetico mondiale.

È la Cina a sfruttare di più il vento. In Italia le regioni con il maggiore potenziale sono la penisola salentina e le isole.

Un viaggio tra le fonti energetiche che oggi alimentano il mondo. E tra chi ne tira le fila, speculando su sole, vento, acqua i sono tanti modi di parlare di energia. Valori lo fa spesso: tramite interviste, approfondimenti, analisi di rapporti scientifici. “L’imbroglio energetico” lo fa con le immagini, o meglio con le infografiche. A cura di Cristiano Lucchi e Gianni Sinni ed edito da Nuovi Mondi, è il secondo capitolo degli Atlanti Civili, dopo l’“Autopsia della politica italiana” (vedi Valori di febbraio). Le 38 infografiche accompagnano in un viaggio tra le fonti energetiche e vanno a scardinare le inesattezze che si sentono raccontare troppo spesso. Ogni giorno, infatti, possiamo disporre di un bagaglio pressoché inesauribile di informazioni: ma è troppo facile decontestualizzarle in modo da guidarne l’interpretazione. Le immagini, invece, rendono semplici e immediati i numeri. Così, si inizia con le fonti definite “pericolose”: dal nucleare (grazie alle ricerche usate dai comitati referendari del 2011) al petrolio e al carbone. Fino a presentare i “padroni” dell’energia (nell’immagine a fianco): non solo le celebri “sette sorelle”, le principali compagnie petrolifere, ma anche i colossi mondiali del trading: Vitol, Glencore, Trafigura, Gunvor, Mercuria. Non producono petrolio, ma ne determinano il prezzo. Lo comprano, lo vendono e speculano sui mercati finanziari. 

C

| 38 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

L’idroelettrico in Europa copre il 10% della produzione. L’Italia, insieme a Germania e Francia, guida il mercato.

Nel 2010 l’Italia ha contribuito con più del 60% alla produzione di energia geotermica nell’Ue.

Pellet, biomasse, biogas agricolo e da discarica: leader in Europa la Germania. In Italia oltre 600 imprese coinvolte.

Anche nel mercato dell’energia è la finanza a farla da padrona. I grandi traders hanno ormai surclassato le compagnie petrolifere nel determinare il prezzo di gas e petrolio. | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 39 |


MADDALENA ZAMPITELLI

economiasolidale

| territorio senza tutele |

Romagnano al Monte, un paese in Irpinia distrutto dal terremoto del 1980 e poi abbandonato. Lo ha fotografato Maddalena Zampitelli, per il concorso fotografico nella cui giuria c’era anche Valori

Sul nostro territorio dovremmo muoverci delicatamente come dentro un negozio di porcellane: continuiamo invece a sfruttare indiscriminatamente aree tanto fragili quanto belle. E i costi per rimediare ai danni sono superiori a quelli della prevenzione

L’Italia fragile di Paola Baiocchi

25

Contratti non richiesti: l’Authority interviene > 44 Quando sole e vento possono bastare > 46 La filiera dolce. «Giù le mani dalle quote» > 49 Si scrive “biologico”, si legge “sano” > 52 | 40 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

ottobre 2011: precipitazioni di straordinaria intensità, tra i 300 e i 500 mm in sei ore, provocano frane e devastazione in un tratto di territorio di circa 700 chilometri quadrati tra la costa della Liguria di Levante e la Lunigiana. Tredici le vittime: i centri più colpiti sono in provincia de La Spezia – Borghetto di Vara, Brugnato, Bonassola, Levanto, Monterosso al Mare, Vernazza – e Aulla in provincia di Massa-Carrara. 4 novembre 2011: tra le 9.00 e le 14.30 su Genova cadono oltre 400 mm di pioggia con un picco di 460 mm a Quezzi, lungo il Rio Fereggiano. Il pluviometro Arpal di Vicomarasso segna il nuovo record italiano di precipitazioni: 181 mm in un’ora. Il Fereggiano che è stato in parte tombato, cioè trasformato in strada, esonda, trascina tutto quello che trova sul suo cammino, causando cinque morti. Poi raggiunge la confluenza con l’alveo del Bisagno, dove comincia il suo intombamento che arriva fino alla foce, e l’esondazione allaga i quartieri che si frappongono da quel punto fino al mare. Le foto dell’onda d’acqua vorticante che trascina auto, persone, de| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 41 |


| economiasolidale |

| economiasolidale |

SCATTI DI FRAGILITÀ

SEMPRE MENO SUPERFICI AGRICOLE (2000-2011) Variazioni Variazioni % Regioni % SAU* az. agricole -32,59 -22,13 -11,74 -10,53 -10,07 -8,43 -8,12 -7,59 -6,59 -5,54 -5,28 -5,26 -4,7 -3,97 -1,92 -0,62 2,67 4,39 8,15 13,02

-46,11 -41,15 -38,36 -30,43 -48,73 -13,39 -28,74 -32,96 -41,69 -30,95 -32,32 -24,17 -31,91 -24,38 -37,43 -21,18 -18,14 -13,07 -37,11 -43,53

triti e motorini hanno sconvolto tutti. Ma abbiamo la memoria corta, perché le stesse immagini di auto accatastate, come carte da gioco buttate sul tavolo a fine partita, sono uguali a quelle in bianco e nero dell’alluvione di Genova del 1970, 25 morti e 571 mm di pioggia caduti in 24 ore, precedente record italiano.

Eventi di portata eccezionale, ma prevedibili La storia della Liguria è un susseguirsi di inondazioni: ad oggi se ne contano 14 tra quelle di maggiore importanza, solo nel dopoguerra. Ma, risalendo per secoli, si trovano frane e alluvioni nel territorio ligure, fragile per ragioni meteorologiche, orografiche e idrogeologiche, alle quali gli umani hanno aggiunto il loro carico di errori. Che sono legati prevalentemente alla massic-

cia cementificazione, anche attorno all’alveo dei fiumi e alla foce, senza alcuna considerazione per i rischi reali del territorio. I due eventi di ottobre e novembre non sono, insomma, catastrofi inevitabili e nemmeno disastri dovuti a un’imprevedibilità dei cambiamenti climatici, ma sono il combinato disposto della mancanza di prevenzione e di comportamenti colpevoli. Un binomio che in Italia va per la maggiore: basta ricordare quanto del nostro patrimonio edilizio è inutilizzato (si calcola che ci siano otto milioni di vani vuoti). E non è nemmeno stato messo in sicurezza rispetto al rischio terremoto, che nel nostro Paese è un appuntamento periodico.

Aree fragili Giorgio Osti, docente di Sociologia dell’ambiente presso l’Università di Trieste, ci informa su un altro aspetto dei territori che ne aumenta la vulnerabilità: «Su alcune aree fragili dal punto di vista idrogeologico e demografico, perché spopolate e con una forte presenza di anziani, vanno a insistere ora vecchie minacce, come le discariche, e nuove minacce come quelle rappresentate dall’installazione indiscriminata di impianti per le rinnovabili. Ma un altro anello della fragilità – riprende Giorgio Osti – può essere rappresentato dalla politica e dalla scarsa capacità conflittuale della popolazione, che subisce

Consumi di territorio Il Sesto censimento generale dell’agricoltura dell’Istat ha lanciato una serie di allarmi, di cui parliamo con Stefano Bocchi, docente presso la facoltà di Agronomia di Milano: «Sono aumentati il suolo urbanizzato e le infrastrutture, consumando soprattutto terre rese coltivabili da generazioni e generazioni di agricoltori, che rientrano nelle categorie agronomiche più pregiate. Nella Liguria il consumo di territorio è il più elevato – continua Stefano Bocchi – perché la Superficie agricola utilizzata (Sau) tra il MADDALENA ZAMPITELLI

Liguria Valle d’Aosta Toscana Umbria Lazio Molise Trentino-Alto Adige Friuli-Venezia Giulia Campania Emilia-Romagna Veneto Lombardia Basilicata Marche Piemonte Calabria Puglia Abruzzo Sicilia Sardegna

MADDALENA ZAMPITELLI

FONTE: SESTO CENSIMENTO GENERALE DELL’AGRICOLTURA ISTAT, DATI PROVVISORI LUGLIO 2011 *SUPERFICIE AGRICOLA UTILIZZATA

Romagnano al Monte, nel cuore dell’Irpinia. Un paese dimenticato, arroccato su un crinale a picco sulle gole del fiume Platano che in quel tratto segna il confine tra la Campania e la Basilicata. Un’area fragile, flagellata dal terremoto del 1980, dopo il quale il paese fu praticamente abbandonato e ricostruito a 2 km di distanza. Maddalena Zampitelli si è avventurata tra le sue vie, i resti del centro storico, i segni dell’abbandono, per raccontare questa realtà e partecipare al concorso fotografico “Rappresentare le aree fragili” (Valori faceva parte della giuria), lanciato nell’ambito del Convegno “Giustizia ambientale. La distribuzione delle risorse naturali fra aree tenaci e aree fragili” (organizzato da Banca Etica, dal Gruppo dei soci della provincia di Rovigo, dalla Provincia di Rovigo e dal dipartimento di Scienze Il tema delle “Aree Fragili” vive anche nella zona politiche e sociali dell’Università di Trieste equo-sostenibile del web (Zoes), con una comunità a Rovigo il 13 e 14 aprile 2012). E le foto di pratica (www.zoes.it/gruppi/aree-fragili) di Maddalena – giovane aspirante e un profilo dedicato (www.zoes.it/aree-fragili), fotografa napoletana – hanno vinto il che raccoglie nuove immagini e nuove storie delle tante aree fragili dell’Italia. premio come miglior progetto fotografico.

2000 e il 2010 è diminuita del 32,59% (vedi TABELLA ). A questo fenomeno si accompagna l’aumento della superficie dei boschi, che non è un dato positivo perché sono lasciati incolti e rappresentano, quindi, un elemento di ulteriore vulnerabilità che ha avuto il suo peso negli eventi dello scorso anno». Ogni anno 130 mila ettari di Sau cedono il passo ai boschi, seguendo l’andamento delle piccole aziende agricole (tra uno e cinque ettari), che chiudono al ritmo di 200 al giorno, perché non danno reddito sufficiente agli agricoltori: oltre il 48% nel Lazio, il 46% in Liguria e Campania. Una perdita importante di presidi sul territorio che ne aumenta la fragilità, come un proverbio ben sintetizza “se il contadino lascia il monte, il monte lo segue a valle”. Tanto vero in caso di frane e di alluvioni, quanto per quello che riguarda la prevenzione degli incendi.

Tragedie come quelle che hanno colpito la Liguria nello scorso autunno potrebbero essere evitate. Ma occorre una programmazione nazionale e a lungo termine

UN PENSIERO DIVERSO Promuovi la tua azienda sui

Periodici Richiedi lo spazio a

sviluppo@valori.it

| 42 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

senza reagire danni ambientali perché non sa organizzarsi per rivendicare i propri diritti». Non è sicuramente il caso delle valli piemontesi dove dovrebbe passare la Tav, ma su tutto il territorio servirebbe una programmazione di respiro almeno nazionale e di lungo termine per non perdere l’importante presidio rappresentato dalle piccole aziende agricole. In alcuni casi basterebbe poco da parte

delle istituzioni: «Per questo ad Agraria di Milano – riprende Stefano Bocchi – è allo studio come mettere in comunicazione la domanda aggregata dei consumi collettivi istituzionali e l’offerta disaggregata dei piccoli produttori, che difficilmente rispondono ai bandi pubblici per la refezione scolastica, per le mense degli ospedali, delle università o delle caserme, ma fornirebbero un importante contributo qualitativo». 

Peccioli: la discarica del consenso di Paola Baiocchi

In un piccolo comune nel nord della Toscana, si progetta di ampliare una discarica da 2 milioni di metri cubi a 4 milioni e mezzo. Col consenso (indotto) della maggioranza della popolazione locale Sulle colline pisane, tra bandite di caccia, vigneti, cipressi e campi di grano è collocata la discarica di Peccioli, il principale sistema di smaltimento della Toscana. È il caso esemplare di come un “grosso e puzzolente problema” possa trasformarsi in “gallina dalle uova d’oro”. Il territorio di Peccioli è in un contesto paesaggistico meraviglioso, ma con tutte le caratteristiche della marginalità: lo spopolamento che dagli anni ’50 ha portato la popolazione da più di ottomila a meno di cinquemila abitanti. Nessun collegamento ferroviario con i centri più grandi (Pisa a 40 km, Livorno a 50 km e Firenze a 80 km). Pochi, poco frequenti e su gomma i collegamenti. La gestione industriale della discarica comincia quando, su spinta della Regione Toscana a seguito della chiusura dell’inceneritore di Campi Bisenzio (Fi), l’amministrazione di Peccioli propone e realizza nel 1990 un progetto da 450 mila metri cubi (Legoli 1). Il sito viene ampliato prima di 1.750.000 metri cubi nel 1995 (Legoli 2); poi ancora di 1.900.000 mc tra il 2004 e il 2007. Ma, visto che dovrebbe esaurirsi nel 2013, il Comune di Peccioli ha presentato un altro progetto per un aumento di 4.500.000 mc in modo che la discarica resti attiva almeno fino al 2028. Tutti i permessi finora sono arrivati senza proteste da parte della maggioranza della popolazione, perché l’amministrazione di Peccioli ha costruito un forte consenso attorno alla discarica. Soprattutto per azione di Renzo Macelloni, che era all’epoca sindaco ed ora è presidente della Belvedere Spa, società di capitali mista pubblico-privata (64% del Comune di Peccioli, 36% azionariato popolare) che gestisce la discarica e ha lanciato numerose iniziative che hanno contribuito ad aumentare la percezione positiva dei cittadini sulla discarica. Ricordiamo la costruzione di un impianto fotovoltaico ad azionariato diffuso, sgravi fiscali e agevolazioni economiche per gli abitanti del Comune. A opporsi alla discarica della Belvedere Spa, sono per ora solo un manipolo di cittadini, mentre gli appoggi più importanti arrivano dalla gestione stessa dei rifiuti che la Regione Toscana conduce, spingendo per tre nuovi inceneritori e conseguendo una media del 37,2% nella raccolta differenziata (2010), molto inferiore alle prescrizioni normative. (Si ringrazia Stefano Caspretti per i dati forniti)

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 43 |


| economiasolidale |

Contratti non richiesti: l’Authority interviene. Ma sarà sufficiente? di Emanuele Isonio

Negli ultimi due anni sono quasi raddoppiate le segnalazioni di clienti che si vedono cambiare operatore di luce e gas senza averne però fatto richiesta. Per arginare il fenomeno, dal 1° giugno è in vigore la delibera 153. Ma c’è chi teme che alle nuove norme dovranno seguirne altre

T

oc toc. «Buongiorno, sono un addetto di una compagnia elettrica. Lo sa che può risparmiare sulla bolletta di luce e gas, passando al mercato libero? Mi può fornire l’ultima fattura emessa?». Al tempo di internet, delle tecnologie digitali, degli acquisti online, della finanza globale, dell’home banking, il vecchio “porta a porta” è ancora il sistema usato da molte aziende per accaparrarsi nuovi clienti. A parte quel tocco di retrò, non ci sarebbe nulla di male in questo. Il problema sorge perché, dietro questa pratica, si nasconde un fenomeno odioso e levantino: quello dei contratti attivati, ma mai richiesti dal cliente. Non solo attivazioni mai accettate, ma contratti estorti con informazioni incomplete o inesatte. E addirittura moduli con firme false. Roba da codice penale. Non a caso i contratti non

| 44 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

richiesti sono al primo posto delle criticità segnalate dai consumatori nel mercato dell’energia elettrica. Una piaga testimoniata anche dall’impressionante ascesa delle segnalazioni arrivate allo Sportello del consumatore dell’Authority: in due anni (aprile 2010 - marzo 2011) i reclami per contratti non richiesti sono stati 5.794, il 7% del totale delle segnalazioni. Un fenomeno in preoccupante ascesa, soprattutto nelle utenze domestiche: da una media di 132 al mese registrate nel 2010 si è passati a 211 nei primi

Le nuove regole impongono una lettera per consentire al cliente di annullare il pre-contratto. Ma se non arriva risposta, il passaggio avviene comunque

quattro mesi di quest’anno. E all’Authority arriva di solito solo un decimo dei reclami inviati direttamente alle aziende. Evidentemente insufficienti sono stati i 24 milioni di euro di multe irrogate agli operatori. Per arginare il fenomeno l’Autorità ha emanato una delibera (la 153/2012) in vigore dal 1° giugno. Un passo in avanti. Ma forse i coni d’ombra superano il livello di guardia. Almeno questo è quanto temono le associazioni dei consumatori.

Black list e chiamate di conferma Eccoli i contenuti della delibera. Due le novità più importanti: una black list nella quale finiranno gli operatori scorretti. E l’obbligo per le compagnie di verificare i contratti siglati porta a porta. Il sistema della black list si basa su quella che gli esperti chiamano “sfida reputazionale”: si presume, infatti, che nessun operatore voglia finire in una lista nera, per non correre il rischio di perdere la faccia. Ma i criteri di inserimento nella lista dei “cattivi” saranno stabiliti dall’Autorità entro fine anno.

CONTRATTI NON RICHIESTI: L’IRRESISTIBILE ASCESA 250

187

150

Utenze domestiche

21

50

25

Utenze non domestiche

31

100

211

200

132

L’altro provvedimento punta a verificare che un cliente abbia effettivamente sottoscritto un contratto per cambiare il gestore di luce e gas. La compagnia che riceve una richiesta dovrà scrivere al cliente informandolo dei tempi di passaggio da un operatore all’altro e delle condizioni contrattuali (la cosiddetta welcome letter). In alternativa la compagnia potrà scegliere di contattare telefonicamente il cliente, per appurare la sua effettiva volontà di cambiare contratto. I tentativi di chiamata non potranno essere meno di cinque, da effettuarsi nelle fasce telefoniche decise dall’utente e andranno registrate. Un modo per permettere di denunciare eventuali frodi e disconoscere il contratto. La reazione delle associazioni dei consumatori alle nuove norme oscilla tra la soddisfazione di vedere una prima risposta alle loro numerose denunce («La delibera 153/12 apre spazi per le aziende che vogliono davvero dimostrare la loro correttezza, mentre pone alla gogna quelle che sono restie alle nuove regole», si legge in un comunicato firmato da 14 sigle) e il timore che le norme appena approvate siano tutt’altro che sufficienti. A preoccupare è ad esempio l’assenza di sanzioni contro le compagnie che ottengono contratti falsificando le firme dei clienti. «In questo modo l’Autorità non scoraggia le pratiche truffaldine», osserva Gianmario Mocera, presidente di Federconsumatori Lombardia. Ma ci sono molti dubbi anche sull’efficacia del meccanismo di controllo basato sulla lettera di benvenuto o sulle cinque chiamate di conferma. «Diversamente da quanto avviene in altri settori – spiega Mocera – questo sistema non blocca l’attivazione del nuovo contratto e richiede un comportamento attivo da parte del consumatore». In effetti nella delibera si parla di «lettera finalizzata a stimolare il cliente a confermare»: in pratica, se un consumatore che riceve una lettera non invia un reclamo scritto denunciando di non aver mai avuto intenzione di sottoscrivere il nuovo contratto, il passaggio al nuovo operatore diverrà comunque effettivo. Anche se la firma sul modulo è stata falsificata.

0 2010

2011

C’è poi un altro aspetto paradossale nella delibera: «Le verifiche dei contratti – si legge nel documento delle 14 associazioni dei consumatori – sono obbligatorie solo se i clienti non hanno ancora abbandonato il mercato vincolato (quello in cui tariffe e costi sono fissati dall’Authority). Per il 20% che è già passato al mercato libero, gli obblighi per le compagnie si riducono a semplici inviti a uniformarsi alle nuove norme».

L’Aeeg: le nuove norme obbligatorie per tutti Rilievi, quelli di Federconsumatori, in parte respinti dall’Aeeg: «Quando nella delibera si parla di soggetti “aventi diritto alla maggior tutela”, l’Autorità non si riferisce ai soli clienti del mercato vincolato, ma a tutti i clienti, anche serviti sul mercato libero, che hanno determinate caratteristiche». In tal senso, al servizio di maggior tutela nella fornitura di energia elettrica hanno diritto, oltre a tutti i clienti domestici, anche le imprese sotto i 50 dipendenti e un fatturato annuo inferiore a 10 milioni.

2012 (primo quadrim.)

MEDIA MENSILE DELLE SEGNALAZIONI PER CONTRATTI NON RICHIESTI GIUNTE ALL’AUTORITÀ PER L’ENERGIA E IL GAS - SPORTELLO PER IL CONSUMATORE.

Al contrario, l’Aeeg conferma che per non rendere effettivo un passaggio di operatore ottenuto in modo scorretto o truffaldino occorre che il cliente risponda alla welcome letter denunciando di non aver mai richiesto cambi di operatore. «Intervenire senza che ci sia una denuncia da parte di chi è stato vittima di un contratto truffa per noi è impossibile», spiegano dall’Autorità. «Con l’obbligo di chiamata o la lettera, abbiamo puntato a rafforzare la prevenzione e semplificare gli strumenti di reazione del cliente. In più, con l’obbligo di verifica, è il venditore a dover dimostrare di aver fatto di tutto per accertare l’effettiva volontà del cliente di firmare il contratto. Se avessimo reso obbligatoria la risposta alla lettera di conferma per attivare il nuovo contratto, avremmo creato un problema a tutti i clienti che davvero vogliono passare da un operatore all’altro». Opinioni diverse a parte, basteranno i prossimi dati sul numero di reclami e denunce per capire se le nuove norme saranno effettivamente efficaci. Il primo monitoraggio – annunciano dall’Authority – è previsto fra sei mesi. 

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 45 |

FONTE: AUTORITÀ PER L’ENERGIA E IL GAS

| economiasolidale | bollette elettriche |


| economiasolidale | energie rinnovabili |

| economiasolidale |

Quando sole e vento possono bastare di Valentina Neri

Fotovoltaico ed eolico non costituiscono solamente una benedizione per l’ambiente. A giovarne sono l’economia del Paese, l’occupazione e i nostri portafogli: perché il peso delle rinnovabili sulla bolletta non supera il 13,1%

I

l 9 aprile scorso, mentre la stragrande maggioranza degli italiani era nel pieno della classica gita di Pasquetta, veniva raggiunto un traguardo storico per l’approvvigionamento energetico del Belpaese. In Sicilia, infatti, dalle 13 alle 14 addirittura il 94% del fabbisogno energetico era coperto unicamente dalle fonti rinnovabili. Su scala nazionale, comprensibilmente, la media scendeva, mantenendosi comunque all’incirca sul 64%. Andando invece a considerare i consumi sulle 24 ore, in Sicilia le fonti pulite hanno coperto circa il 60% dei consumi totali. A riportare questi dati è stata Terna (la società responsabile in Italia della trasmissione dell’energia elettrica) lo scorso 12 | 46 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

aprile, durante il convegno di presentazione dell’Irex Annual Report 2012, organizzato dal Gse (Gestore Servizi Elettrici). È quasi superfluo, ormai, citare i benefici per l’ambiente ottenuti da un sistema energetico che fa sempre meno affidamento sui combustibili fossili. Ma – giova ricordarlo – non mancano i vantaggi anche per il portafogli. Uno fra tutti: nel momento di picco, in Sicilia, il prezzo dell’energia era pari a zero. Certo, si trattava di una giornata particolare, molto diversa da un normale lunedì in cui sono aperti uffici, scuole e negozi. Ma resta il fatto che il passo è stato segnato. E la circostanza, forse, non è isolata come sembra. Lo dimostra il rapporto La verità sulle bollette

elettriche, presentato da Legambiente lo scorso 28 maggio. Che, ad esempio, rende noto che il 2 e il 3 maggio il prezzo del kWh nella Borsa elettrica della Zona Sud ha toccato lo zero per diverse ore del giorno. Il rapporto lo dice a chiare lettere: il merito è della produzione da fonti rinnovabili, in primo luogo dal solare fotovoltaico.

Un bilancio positivo L’Irex Annual Report, pubblicato dalla società di ricerca e consulenza Althesys, fa una vera propria analisi costi/benefici dello sviluppo delle rinnovabili in Italia. Si proietta nel 2030, anno in cui la Commissione europea ha fissato il primo traguardo della Energy Roadmap 2050, e fa un confronto con un’ipotetica situazione in cui si sfruttano solo le fonti fossili. Il bilancio è pienamente favorevole: per il nostro Paese il saldo netto positivo è compreso fra i 21,9 e i 37,7 miliardi di eu-

ro. La stima più bassa è elaborata in un’ottica più prudente, che prevede che le rinnovabili rappresentino il 41,5% della produzione totale. Nel secondo scenario arriverebbero a coprire il 44%. Fra i costi si annoverano gli incentivi e le carenze infrastrutturali, valutate in termini di perdite di rete e di mancati ricavi dalla vendita di elettricità. Mentre fra le voci di beneficio spiccano le ricadute occupazionali (la stima varia fra i 45 e i 58 mila addetti in più nel 2030), la riduzione di emissioni di CO2 e di altri elementi inquinanti, le ricadute sul Pil delle nuove attività economiche. C’è da dire che tale scenario ipotizza – sulla scia del governo – che nel 2016 si raggiunga la grid parity, con il conseguente azzeramento degli incentivi. Ma le ipotesi in merito sono molte. Su Valori 98, ad esempio, con l’aiuto di Guido Agostinelli abbiamo ipotizzato che per i piccoli impianti fotovoltaici l’efficienza economica sia già molto vicina, complice anche il crollo dei prezzi dei pannelli. Il vice presidente di Legambiente, Edoardo Zanchini, invita a smettere di pensare che «la grid parity sia una sorta di Araba Fenice», preferendo un approccio più pragmatico: «Dobbiamo creare la condizione in cui si continuino a sviluppare le rinnovabili. Perché ogni certezza che si assicura per i prossimi anni fa sì che qualcuno investa per la ricerca sui pannelli, sugli inverter, sull’eolico. E quindi avvicina sempre di più il momento della grid parity». Un circolo virtuoso, in sintesi.

GLOSSARIO BORSA ELETTRICA: Prevista dal decreto di liberalizzazione del mercato elettrico e istituita in Italia dal 2004, è un sistema organizzato di offerte, vendita e acquisto di energia elettrica, gestito dal Gestore del mercato elettrico. GRID PARITY: Il punto in cui un chilowattora (kWh) prodotto da fonti rinnovabili ha lo stesso prezzo di un kWh acquistato dalla rete elettrica tradizionale. SMART GRID: Attualmente le reti energetiche sono formate da grandi dorsali che collegano i poli di produzione e quelli di consumo. Con le smart grid (“reti intelligenti”) invece si interconnettono tanti piccoli centri di produzione, generalmente da rinnovabili, formando flussi di energia bidirezionali che si adattano con flessibilità alla richiesta di energia, evitando interruzioni nella fornitura e riducendo il carico quando necessario.

La maggior parte dei costi che sosteniamo per l’energia elettrica deriva dai servizi di vendita e non dagli incentivi concessi alle fonti sostenibili Che, in parte, si sta già realizzando: «Già oggi – continua – in alcune parti d’Italia siamo sostanzialmente alla grid parity».

Intanto, in bolletta… D’altronde, «il fotovoltaico – spiega Zanchini – produce di più proprio nel momento di massima domanda elettrica, tra le 11 e le 15». Quello che in gergo si chiama peak shaving (il fenomeno per cui i prezzi risultano calmierati nelle ore di picco), secondo Irex Annual Report, nel 2011 ha fatto risparmiare agli italiani 396 milioni di euro. Ma Legambiente invita a tenere gli occhi aperti: perché i tanto attesi sgravi in bolletta, finora, stentano ad arrivare. Anzi: «secondo i dati dell’Autority per l’energia – si legge nel rapporto – la spesa annua delle famiglie per l’elettricità è passata da una media di 338,43 euro nel 2002 a 515,31 euro nel 2012. Ossia 176,88 euro in più a famiglia e un aumento del 52,5%». C’è chi dà la colpa proprio alle rinnovabili. Ma i dati forniti dall’Authority per l’energia nel mese di maggio, citati da Legambiente, dicono il contrario: in una bolletta media, solo il 13,1% della spesa totale si può ricondurre agli incentivi. A pesare di più è la voce “energia e approvvigionamento”. Traduzione? I servizi di vendita che comprendono l’importazione di fonti

fossili e la produzione in centrali termoelettriche. Nell’arco di dieci anni, tale spesa è passata da una media di 106,6 euro a famiglia a una di 293,96. Seguendo, di fatto, l’andamento dei prezzi del petrolio. Per spiegare il perché gli italiani continuino a pagare l’energia a caro prezzo bisogna anche prendere in considerazione quella che Legambiente definisce un’“anomalia”. Si è detto che, col peak shaving, i prezzi a metà giornata si sono livellati: ma si sta verificando «un clamoroso aumento di sera, verso le 18-20, senza una spiegazione logica». Motivo per cui Legambiente alza la voce, invitando gli enti preposti a vigilare «e intervenire per garantire che la concorrenza contribuisca a ridurre i prezzi». Servono controlli, dunque. Ma anche soluzioni innovative. Legambiente preme per l’introduzione di «reti elettriche private (oggi vietate) come smart grid, tecnologie rinnovabili e di stoccaggio dell’energia. Sono soluzioni oggi possibili da un punto di vista tecnologico e che, con l’attuale costo dell’energia elettrica per le famiglie (oltre 19 centesimi di euro per kWh), possono permettere di ripagare gli investimenti anche senza incentivi in molte aree del Paese». In sintesi, c’è ancora da lavorare. Perché «il futuro scenario energetico – conclude il rapporto – dipenderà dalla capacità di offrire a famiglie e imprese la possibilità di diventare “autosufficienti” attraverso un mix di tecnologie rinnovabili ed efficienti», oltre «alla possibilità di vendita diretta dell’energia alle famiglie e alle imprese».  | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 47 |


| economiasolidale |

| economiasolidale | made in Italy a rischio/puntata 16 |

La filiera dolce «Giù le mani dalle quote»

di Andrea Barolini

di Emanuele Isonio

IL CONSUMO DI ENERGIA PRO CAPITE NELL’UE, IN TONNELLATE EQUIVALENTI DI PETROLIO da 5,5 a 9,0 da 4,0 a 5,49 da 3,0 a 3,99 da 2,0 a 2,99 da 1,5 a 1,99

L’assorbimento energetico pro capite è estremamente diverso da Paese a Paese. Probabilmente a causa dello scarso impegno di alcuni governi sui temi del risparmio e dell’efficienza

A

Il “caso” lussemburghese Se il fabbisogno scende è evidente l’inutilità di costruire nuove grandi centrali. Piuttosto occorre incentivare i piccoli impianti, locali se non individuali, la cui produzione sia consumata in loco. E, al contempo, puntare su efficienza e risparmio, in particolare in alcune nazioni. C’è da chiedersi, infatti, come mai il consumo pro capite sia così diverso da Paese a Paese. Nel Lussemburgo, ad esempio, si consumano 8,84 “tonnellate equivalenti di petrolio” (parametro utilizzato per armonizzare i dati) contro le 4,08 della Francia, le 3,98 della Germania, le 3,36 del Regno Unito. Per Stati così vicini – geograficamente ed | 48 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

+ - Variazioni 1999-2009

SVEZIA 4,96 

-12,5%

FINLANDIA

DANIMARCA 3,52 

REGNO UNITO 3,36 

6,39 

-0,8%

3,95 

+9,1%

-8,1%

-14,5%

ESTONIA

Dal 2006 lo zucchero prodotto in Italia è diminuito del 66%. Effetto di una ristrutturazione del settore decisa dalla Ue per aumentare produttività e sostenere i prezzi. Una scelta dirompente, che ha portato alla chiusura 15 impianti su 19 e aperto le porte alla riconversione verso il biogas. Ma che ora nessun addetto ai lavori sembra voler abbandonare

LETTONIA REP. CECA IRLANDA 3,34 

4,95 

-9,2%

1,91 

+15,8%

4,04  +6,0%

+4,4%

POLONIA

PAESI BASSI

ltro che centrali nucleari e megaimpianti: se il consumo di energia pro capite, in Europa, è salito ininterrottamente fino a qualche anno fa, da circa 10 anni la tendenza appare inversa. Secondo Eurostat, nel periodo 1999-2009 si è registrato un calo del 3,9%: a scendere sono stati i consumi di energia prodotta attraverso carbone (-20%), petrolio (-7%) e nucleare (-5%). Al contrario è cresciuto il consumo di gas (+9%) e soprattutto, buona notizia, di energie rinnovabili (+65%), che rappresentano ormai il 12% dei consumi europei, con i picchi virtuosi di Lettonia e Svezia, dove sono ormai la principale fonte (con il 36% e il 34% del totale).

CONSUMI 2009

FONTE: EUROSTAT

Energia, come consuma (e raramente risparmia) l’Ue

2,50 

+3,3%

LITUANIA 2,49 

+11,7%

BELGIO 5,42 

SLOVACCHIA

-6,1%

UNGHERIA

GERMANIA FRANCIA 4,08 

ROMANIA 1,65 

SLOVENIA

-4,1%

LUSSEMBURGO 8,84 

3,44  +5,8%

+9,8%

PORTOGALLO -4,5%

MALTA 1,98 

-7,5%

+1,2%

BULGARIA 2,31 

+4,1%

GRECIA 2,72 

2,35 

-5,8%

-0,4%

-3,8%

SPAGNA 2,84 

2,52 

3,98  -4,3%

3,11 

ITALIA 2,81 

economicamente – non si comprende come possano risultare differenze così marcate. È ipotizzabile, perciò, che un consumo quasi triplo da parte del Lussemburgo rispetto alla media Ue di 3,41 tonnellate sia dettato da uno scarso impegno sul fronte del risparmio. E il ragionamento è applicabile anche ad altre realtà: la Svezia degli inverni estremamente rigidi consuma 4,96 tonnellate per abitante: meno del più mite Belgio, che raggiunge quota 5,42.

Risparmiare anziché importare Il risparmio energetico dovrebbe costituire insomma una stella polare per molte amministrazioni. Anche perché, tra i Ventisette, solamente la Danimarca produce più di quanto consuma (il 18,8%). Tutti gli altri devono importare: l’Italia compra l’82,9% dell’energia che consuma, la Germania il 61,6%, la Spagna il 79,4%. E in Paesi come la Francia il dato, fermo al

-7,3%

+9,7%

CIPRO 3,50 

+6,7%

51,3%, è sottostimato, visto che le centrali nucleari figurano come fonti domestiche, nonostante l’uranio sia importato. Ulteriore problema da affrontare per rendere più efficiente l’intera Europa è legato ai Paesi dell’Est. Se, infatti, Svezia, Danimarca, Germania, Belgio, Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Regno Unito hanno registrato cali nei consumi tra il 1999 e il 2009, in quasi tutta l’Europa centrale e dell’Est i dati segnano rialzi anche marcati. Eppure diminuire i consumi non implicherebbe chissà quali rinunce. Un esempio arriva da Parigi: la città ha deciso di obbligare tutti i negozi a spegnere le insegne luminose di notte, dall’una alle sei di mattina (è ancora in discussione la data di entrata in vigore del provvedimento). Ciò farà diminuire i consumi di 2 terawattora all’anno, ovvero l’equivalente del consumo di 260 mila famiglie. E di risparmiare 170 milioni di euro. 

U

na certezza che garantisce il presente. E un futuro incerto, in attesa di capire se e quando questo fattore di stabilità verrà meno. È una filiera particolare: quella dello zucchero. Perché a disegnarne la fisionomia non sono tanto i livelli di produzione, consumo e andamento dei prezzi, quanto le decisioni che vengono prese dall’alto, a livello comunitario, dalla Commissione europea. La pietra angolare del settore è, infatti, rappresentata dal sistema delle quote. Uno strumento ormai trentennale, che ha subito un profondo restyling nel 2006 e che potrebbe essere abbandonato nei prossimi anni.

2006: spartiacque per il settore Quanto la filiera italiana (ed europea) dello zucchero sia condizionata dal sistema delle quote si capisce vedendo i dati della produzione: il nostro Paese, che fino al 2005 produceva 1,5 milioni di tonnellate, a seguito della riforma dei mercati agricoli ha dovuto rinunciare a oltre un milione di tonnellate, riducendo lo zucchero prodotto a 508 mila tonnellate (-66%). Conseguenze? In Europa sono stati chiusi 80 zuccherifici. Nel nostro Paese sono passati da 19 a 4 (uno in provincia di Bologna, uno a Parma, uno nel Padovano e uno a Termoli), cinquemila addetti in esubero («una catastrofe occupazionale», la definirono i sindacati di categoria), superfici coltivate a barbabietola scese da 250 mila ettari a 50-60 mila e quote di pro-

duzione italiane sul totale europeo ridotte dall’8,5% al 4% scarso. Una scelta giustificata da almeno tre motivi, secondo Bruxelles: tagliare i rami meno produttivi per consentire al resto della filiera di consolidarsi e di aumentare la resa per ettaro, sostenere il prezzo dello zucchero e con esso i proventi dei produttori, aprire alle importazioni dai Paesi in via di sviluppo. Una cosa è certa: la riforma del 2006 è additata come una vera piaga da tutte quelle categorie – industria dolciaria in primis – che fanno ampio uso di zucchero, perché, sostenendo il prezzo della materia prima, ha innalzato anche i costi di chi la usa per le proprie produzioni. Ma, lamentele a parte, i tre obiettivi della Commissione Ue sono indubbiamente stati raggiunti: il prezzo dello zucchero è incrementato (e con esso le remunerazioni delle aziende rimaste attive nella filiera), ma comunque meno rispetto ai livelli fatti segnare sul mercato internazionale, la competitività e produttività del settore è cresciuta (concentrandosi nei 18 Stati membri con condizione agronomiche più favorevoli, sette dei quali detengono il 70% della produzione totale), la Ue è diventata importatrice netta di zucchero dai Paesi in via di sviluppo.

parte degli impianti dismessi e dei campi non più coltivati a barbabietola, anche per effetto degli aiuti comunitari, si sono riconvertiti nel settore del biogas. In pratica, da coltivazioni food si è passati alle (più remunerative) colture a scopo energetico. Una scelta comprensibile nel breve periodo, ma che preoccupa per la sottrazione di aree agricole all’agricoltura alimentare. E per gli impatti ambientali: diversamente dai cereali, le barbabietole – sostengono i produttori – sono una coltura a rotazione e quindi non depauperano il terreno. In più, per la loro produzione si usa molta meno energia rispetto a quella in grado di produrne se usate come biogas: 15-16 volte

Dai dolcificanti al biogas L’aspetto perverso della vicenda – almeno per chi punta il dito contro il consumo della terra per scopi non alimentari – è legato al processo di riconversione: la maggior | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 49 |


| economiasolidale |

LO ZUCCHERO NELL’EUROPA A 27 (PREVISIONI 2011-2012)

A distanza di sette anni dal cambio del 2006, la situazione per la filiera saccarifera potrebbe cambiare di nuovo. E l’ipotesi allarma produttori e trasformatori. La

Commissione europea, a fine anno o nei primi mesi del 2013, dovrà decidere se mantenere il sistema delle quote attuale fino al 2020 oppure se abolirlo del tutto nel 2015, liberalizzando il settore. Un obiettivo senza dubbio coerente con la volontà di cancellare le vecchie misure protezionistiche della Pac. Ma che ha gettato nello sconforto gli addetti ai lavori. Bieticoltori

Svezia

Regno Unito 1.263.891 1.056.474

293.186 409.204

Finlandia 80.999 89.800

Romania

112.320 181.899

Slovacchia

104.689 138.178

Polonia

Portogallo** 9.953 714

1.710.688 1.405.608

Olanda

Austria 351.027 409.352

Ungheria 105.420

1.005.700 804.888

123.993

Italia

90.252 127.107

Francia*

Lituania

508.379 498.849

5.221.092 3.437.031

Grecia

Germania

Danimarca

Spagna 498.480

(tonnellate)

536.042

Prod. tot.

158.702

Pontelongo Minerbio 27.000 ha

130.000

(R 513/2010)

372.383

CO.PRO.B. Pontelongo Minerbio 284.053 ha

4.516.363 2.898.256

CO.PRO.B.

Tutti contro l’abolizione delle quote

0

472.157

te]

San Quirico 140.000 t

Quota

in meno, secondo un rapporto Copa-Cogeca, associazione che riunisce gli agricoltori europei e le loro cooperative.

5

Belgio

ella nn [to

] ttari

San Quirico 8.600 ha

ERIDANIA SADAM

Repubblica Ceca

O

I [e

ERIDANIA SADAM

20

10

372.459

R

SUPER FIC

Resa

15

676.235

Termoli 84.326 t

Superficie

520.367

QUOTE Z UCC HE

400 350 300 250 200 150 100 50 0

863.658

Termoli 11.500 ha

ZUCCH. DEL MOLISE

RESA (tonnellate per ettaro)

ZUCCH. DEL MOLISE

SUPERFICI (.000 ettari)

QUOTE E SUPERFICI PER SOCIETÀ (2011/2012)

e raffinatori di tutti gli Stati membri parlano con una voce sola: «Il processo di ristrutturazione avviato nel 2006 – spiega Patrick Pagani, direttore di Unionzucchero – non è ancora terminato. Ancora dobbiamo persino ricevere gli aiuti promessi dallo Stato italiano per la riconversione per le campagne 2009-2010 (un gruzzolo di 86 milioni) ma mai erogati. Ci vuole tempo

«Il sistema delle quote va rimodulato, non abolito» di Emanuele Isonio

«Se usate male, possono portare a una carenza di materie prime. Ma se usate bene, possono sostenere i prezzi, mettendoci però al riparo dalle speculazioni internazionali», spiega l’economista Luigi Vannini. «Anche perché, l’accesso alle risorse agricole sarà uno dei problemi strategici dei prossimi 15 anni» «Io ci penserei molto bene prima di abbandonare del tutto il sistema delle quote europee per lo zucchero. Se usato bene può aiutare a essere meno esposti alla volatilità dei prezzi agroalimentari a livello mondiale». L’analisi è di Luigi Vannini, docente di Economia ed estimo rurale all’Università di Bologna. A sentire l’industria dolciaria, la riforma delle quote nel 2006 è stata una iattura. La Commissione europea sta invece pensando a una totale liberalizzazione del settore a partire dal 2015. Bieticoltori e trasformatori chiedono

| 50 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

invece una proroga dell’attuale sistema fino al 2020. Professor Vannini, chi ha ragione? Il tema è molto complesso e assai difficile da affrontare. Andiamo per gradi, allora. Qual è la ratio delle quote? È un sistema che aiuta a sostenere il prezzo dello zucchero, suddividendo la produzione tra i vari Stati Ue. Inoltre, incentiva una riorganizzazione della filiera, stimolando ad accrescere la produttività. In Italia, dopo la riforma del 2006, per la verità hanno chiuso 15 impianti di trasformazione su 19. Più che riorganizzazione è una strage… La riduzione c’è stata anche in altri Stati. Da noi è stata maggiore perché eravamo meno efficienti. Se in Francia si producono 100 quintali di zucchero per ettaro coltivato, in Italia se ne ricavavano 70. Gli impianti rimasti si sono rafforzati e hanno margini di crescita maggiori.

* COMPRENDENTE I TERRITORI D’OLTREMARE; ** AZZORRE; ND = NON DISPONIBILE FONTE: COMUNICAZIONE DEGLI STATI MEMBRI ALLA COMMISSIONE EUROPEA

| economiasolidale |

perché le aziende rimaste si consolidino e possano rispondere alle sfide mondiali». Una posizione a dire il vero fatta propria dall’Europarlamento che si è espresso a favore della proroga al 2020. «Abolire le quote fra meno di tre anni significa esporre l’Europa alla volatilità dei prezzi mondiali», spiega Alessandro Mincone, presidente del Consorzio Nazionale Bieticoltori (l’altra sigla rappresentativa della categoria – la Anb – da noi contattata, non ha ritenuto possibile rispondere nonostante un preavviso di dieci giorni). «Anche perché gli operatori avrebbero margini di manovra troppo ristretti. Tra la decisione della Commissione e la liberalizzazione, avremmo solo la campagna 2014/2015 per prepararci alla rivoluzione». Al coro di voci contrarie interno alla Ue incredibilmente si accoda anche quello dei produttori extraeuropei: i 79 Stati dell’Acp e i Paesi meno avanzati ritengono infatti che la cancellazione delle quote nell’Unione europea porterebbe a un aumento della produzione comunitaria e, quindi, a una riduzione delle loro espor-

tazioni. Meglio quindi un mercato controllato, in cui sono certe le quantità importabili in Europa. Le proteste, sfociate anche in un’interrogazione dell’eurodeputata socialdemocratica danese Christel Schaldemose, non sembrano scalfire le posizioni dell’esecutivo di Bruxelles. Il commissario all’Agricoltura Dacian Cioloş ha, infatti, spiegato che, secondo le stime

dei suoi esperti, l’Europa continuerà ad essere un importante importatore di zucchero da Africa e Caraibi: anzi le esportazioni di quei Paesi salirebbero a 2,5 milioni di tonnellate (oggi sono 1,7 milioni). La produzione europea di zucchero dovrebbe al tempo stesso crescere dell’1,7% e i prezzi scendere dell’8,2% rispetto a un’ipotesi di mantenimento delle quote. 

E BRUXELLES ORDINA: ABBATTETE ANCHE I SILOS Non basta aver rinunciato a una tonnellata di zucchero prodotto, riducendo gli impianti di trasformazione da 19 a 4. La Commissione europea ha infatti richiesto all’Italia di provvedere anche all’abbattimento dei silos usati per immagazzinare lo zucchero. Un nuovo terreno di scontro con i produttori italiani, che subito si sono opposti alla richiesta di Bruxelles ritenendola intempestiva, oltre che illegittima: perché arriva con quattro anni di ritardo dalla riforma delle quote (datata 2006) e perché i silos non dovrebbero essere considerati impianti di produzione. Secondo gli addetti della filiera italiana, tra l’altro, ottemperare a tale richiesta sarebbe deleterio perché significherebbe smantellare il sistema nazionale di approvvigionamento: una rete di salvataggio di non poco conto per garantire le quantità necessarie ai consumi italiani e per calmierare i prezzi, qualora la produzione mondiale dovesse subire flessioni e fosse quindi necessario ricorrere alle scorte nazionali.

Il sistema ha funzionato? La destrutturazione della filiera doveva servire a evitare eccedenze strutturali di produzione che facessero crollare i prezzi dello zucchero, affamando i produttori. Purtroppo si è passati all’eccesso opposto: siamo in una situazione di carenza che ci costringe a rivolgerci al mercato internazionale, come avviene anche per il latte in polvere e per i cereali. Quindi va rimodulato? Esattamente. Oggi siamo in una fase in cui è venuta meno la certezza dell’approvvigionamento. In pratica non siamo sicuri di avere a disposizione le quantità necessarie per i fabbisogni europei. In realtà, Bruxelles medita il superamento del meccanismo delle quote? Una maggiore apertura ci esporrebbe alla drammatica volatilità dei prezzi delle materie prime sul mercato mondiale ma potrebbe anche incentivare innovazione e competitività. In ogni caso sarebbe folle non mantenere comunque in efficienza i quattro impianti che abbiamo. In questo modo, anche di fronte a oscillazioni importanti del prezzo dello zucchero, potremmo garantirci una parte del fabbisogno. E dovremmo anche recuperare il “sistema dell’ammasso” pubblico, che, ormai abituati all’abbondanza, abbiamo abbandonato insieme ai sistemi di stoccaggio.

Lo zucchero diventa quindi un fattore strategico? Nel prossimo futuro saremo ricattabili sia sotto il profilo energetico, sia alimentare. Chi avrà meno terra a disposizione, avrà molti più problemi e sarà più esposto ai rischi di carenza di materie prime. A proposito di scarsità di terra. Molti bieticoltori e zuccherifici si sono riciclati nel biogas La competizione tra coltivazioni alimentari e non alimentari sarà sempre più forte. Penso sia assurdo incentivare le colture per trasformarle in energia. Gli unici a essere incentivati dovrebbero essere gli impianti che trasformano in biogas gli scarti alimentari. In pratica, va ripensata la destinazione non alimentare della terra Esattamente. Noi siamo di fronte a due questioni: non siamo più sicuri di avere approvvigionamenti alimentari adeguati. Inoltre, anche in Europa, il problema delle nuove povertà e delle tensioni sociali collegate con i prezzi delle materie prime agricole è più diffuso di quello che si pensi. L’accesso al cibo sarà tra i problemi strategici della politica europea dei prossimi 15 anni. Quindi, almeno in alcuni settori, il sistema delle quote può aiutare Sì, a patto di saperle usare. È come un farmaco: se si usa bene, produce vantaggi. Se si eccede, rischia di uccidere il paziente.

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 51 |


| economiasolidale | buone pratiche |

| economiasolidale |

Si scrive “biologico” si legge “sano”

PER LA SPESA BIO BASTA UN CLIC I vantaggi di un’alimentazione sana che si basa sui prodotti biologici, ormai, sono noti. Ma a volte, nel passare dalle parole ai fatti, ci si trova di fronte a difficoltà di ordine pratico: dove acquistare frutta e verdura bio? Come fare quando i negozi che li vendono sono distanti o, se non altro, molto meno comodi rispetto all’onnipresente grande distribuzione? A dare una mano ancora una volta è il web, dove si moltiplicano i servizi di consegna a domicilio. Uno dei pionieri è Bioexpress (www.bioexpress.it), fondato da un gruppo di coltivatori altoatesini che dalla loro sede a Lagundo (vicino a Merano) arrivano a coprire Alto Adige, Lombardia, Veneto, parte del Friuli-Venezia Giulia e Roma. L’Emilia Romagna, invece, viene servita dai loro partner di Imola. Ogni settimana circa 4 mila famiglie si vedono recapitare una cassetta di prodotti rigorosamente di stagione, personalizzabile a seconda dei gusti e delle necessità; si può anche ordinare la cesta specializzata per i bambini o quella “da ufficio”, studiata per i pasti fuori casa. All’interno della zona di Roma, intanto, è attivo Officinae Bio (www.officinaebio.it), gestito da una cooperativa fondata da una decina di aziende agricole biologiche del Lazio, che hanno unito le forze per accorciare la filiera e garantire prezzi competitivi, con un occhio di riguardo per i Gruppi d’acquisto solidale. Il meccanismo è lo stesso: basta una telefonata o un’e-mail per ricevere direttamente a casa il “cassettone” di frutta e verdura, sempre diverso di settimana in settimana.

di Valentina Neri

Aiab pubblica “Il Buono Bio”, una raccolta di studi scientifici sulle conseguenze per la salute dei cibi biologici. Un mercato che in Italia vale tre miliardi di euro

S

ulle pagine dei giornali come sugli scaffali dei supermercati ormai “bio” è una parola sempre più ricorrente. Fino quasi a diventare un tormentone, che, come tale, scatena entusiasmi, ma anche dubbi, soprattutto fra i non addetti ai lavori. Al di là delle certificazioni la domanda fondamentale è una: come quantificare i vantaggi dei prodotti biologici? Ad assumersi tale compito, analizzando e sintetizzando diversi studi scientifici, è stata l’Aiab (Associazione italiana per l’agricoltura biologica), con il patrocinio del ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali e in collaborazione con Legambiente, Federparchi, Alpa,

Altromercato ed Ecosport. Nasce così “Il Buono Bio”, un dossier pubblicato in occasione di Primavera Bio 2012, il mese di sensibilizzazione che si è concluso il 27 maggio.

Il bio che fa bene Che i prodotti biologici facciano bene al Pianeta è ormai assodato. Ma giovano anche alla salute? Basta dare un’occhiata alla relazione di Aiab. I cereali contengono una minore percentuale di glutine rispetto a quelli convenzionali. Verdura, granturco, vino e frutta bio hanno una concentrazione maggiore di metaboliti vegetali secondari che, contrastando i radicali liberi, contribuiscono a prevenire le malattie cardiovascolari. Uno studio del Cnr e dell’Università di Pisa definisce il pomodoro biologico come un vero e proprio alimento-farmaco, che, rispetto a quello tradizionale, ha più calcio (+15%), potassio (+15%), fosforo (+60%) e zinco (+28%), oltre a essere una riserva di vitamina E e di altre sostanze che riducono

il rischio di patologie cardiovascolari e tumori. L’Aiab lo chiarisce: escludere al 100% i residui di diserbanti, pesticidi e insetticidi è pressoché impossibile a causa dell’inquinamento. Ma, nella frutta biologica, la loro concentrazione in media è più bassa di 550 volte rispetto a quella tradizionale: negli ortaggi di 770 volte. Lattuga e ortaggi biologici, infine, hanno in media il 10-40% in meno di nitrati: sostanze naturalmente presenti negli alimenti, che però tendono a trasformarsi in nitriti, che al contrario sono tossici. I prodotti biologici hanno anche più vita-

L’ESTATE UMBRA ALL’INSEGNA DEL BIO Per il secondo anno consecutivo l’Umbria si prepara a un’estate che mette al centro il mondo del biologico. Si inizia con i ragazzi delle scuole primarie e secondarie con il progetto “Educare al biologico”, che prevede incontri formativi ad hoc e attività mirate a introdurre gli alimenti bio nelle mense. Ma non mancano le opportunità anche per chi vuole passare una giornata o un weekend “a tema”. Attraverso tutto il territorio della Regione sarà, infatti, possibile ripercorrere “Le vie del bio”: un vero e proprio percorso in cento tappe, suddivise in otto zone. Ogni tappa è un’azienda agricola – rigorosamente biologica – chiamata a mostrare, far degustare e vendere i propri prodotti. Ma anche a organizzare laboratori didattici, escursioni e attività

| 52 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

ricreative. A promuovere questo mosaico di iniziative sono Aiab Umbria, Coldiretti, Cia Servizi, Cratia (Confagricoltura), 3A Parco tecnologico e MenteGlocale. La guida on line al progetto, anche quest’anno, è PiazzaBio (www.piazzabio.it), il portale fondato nel 2010 con l’obiettivo di diventare il punto di riferimento sul web per il mondo del biologico nell’Italia centrale. Si tratta di uno spazio che accoglie le schede di centinaia di produttori e consumatori biologici e di decine di mense e Gas. Per orientarsi fra tutte queste informazioni basta un’intuitiva ricerca, per area geografica o per prodotto. PiazzaBio ospita anche pagine descrittive dei prodotti, consigli degli esperti, riferimenti normativi, segnalazioni di appuntamenti, mercati e fiere.

Secondo i dati dell’Ismea il settore del bio in Italia sta resistendo bene alla crisi: nel 2011 i consumi nella Gdo sono aumentati dell’8,9% mina C, che ha l’effetto – fra gli altri – di “controbilanciare” la presenza di nitrati, evitando che si rivelino dannosi.

Un mercato che regge alla crisi Gli italiani, da parte loro, sembrano apprezzare sempre di più i prodotti bio. Lo dimostra il “Report sui prodotti biologici” diffuso dall’Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare): nel 2011 i consumi di prodotti biologici offerti dalla grande distribuzione sono aumentati in media dell’8,9% in valore, guidati soprattutto da latte e derivati (+16,2%), uova (+21,4%), biscotti, dolci e bevande analcoliche (+16%). Nei punti vendita specializzati, che attualmente sono circa un migliaio, solo nel primo quadrimestre dello scorso anno gli acquisti sono aumentati in media del 1520%, stando alle cifre diffuse nel corso di Sana, il Salone internazionale del naturale, che si è tenuto a Bologna lo scorso settembre. In tale occasione è stato an-

MANGIASANO, IL BIO CHE AIUTA IL LAVORO Il nome, “Mangiasano”, è eloquente. L’attività di questa cooperativa sociale di Pescara (www.coopmangiasano.com) ruota tutta attorno al tema del cibo, biologico certificato e a km zero, che diventa motore per promuovere l’inserimento lavorativo. I fondatori, infatti, sono un gruppo di persone che venivano dal mondo dell’agroalimentare e si trovavano alla ricerca di nuovi sbocchi. All’inizio si occupavano di trasformazione alimentare, soprattutto di prodotti legati a cereali e legumi. Ma negli anni hanno avviato anche la coltivazione di verdura e ortaggi, in collaborazione col carcere San Donato di Pescara e con la Caritas Diocesana, che ha messo a disposizione i terreni sui quali in questo momento lavorano quattro detenuti. «In Abruzzo – spiegano i soci della cooperativa – le aree a disposizione sono tantissime, ma sono spesso abbandonate: per questo motivo, spesso ci troviamo a importare», con tutti gli svantaggi – a livello di costi e di qualità – che ciò comporta. È per questo che la cooperativa lavora per diffondere la cultura del consumo critico, attraverso la promozione di gruppi d’acquisto a livello cittadino. E, visto che «al giorno d’oggi sono ben pochi coloro che sanno lavorare correttamente in campagna», mantiene sempre un occhio di riguardo per la formazione. Così, riscoprire l’agricoltura diventa anche un’opportunità concreta per chi – come le persone che vengono dal carcere – fatica a inserirsi nel mondo del lavoro.

che quantificato il valore del mercato del biologico italiano: circa tre miliardi di euro, di cui 1,8 in vendite al dettaglio. Un settore sano, dunque, in tutti i sensi. Ma questo mosaico di dati e cifre non deve far passare in secondo piano un fattore fondamentale, ricordato nel rapporto dell’Aiab: il biologico è un processo, non una somma di componenti.

Non è altro che un modo di operare “con” la natura, e non contro o indifferentemente ad essa. Se il coltivatore e l’allevatore conoscono le dinamiche dell’ecosistema, infatti, riescono a ricavarne il meglio. Ottenendo risultati che compensano l’assenza di “aiuti” chimici. E, com’è stato dimostrato, a guadagnarci, oltre all’ambiente, è la salute.  | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 53 |


| azionariato critico |

internazionale REUTERS / GEORGE ESIRI

Delta del Niger. Una donna asciuga la tapioca accanto alle fiamme di una stazione di flusso del petrolio (il famoso gas flaring )

All’ assemblea di Eni

Sotto accusa i comportamenti della compagnia petrolifera italiana, di cui lo Stato ha la golden share. Danni per la salute e per l’ambiente e tangenti accompagnano l’attività estrattiva

la voce della Nigeria di Valentina Neri azienda sta giocando con le vite e i mezzi di sostentamento delle persone». Parole dure, che hanno lasciato il segno nell’arco delle cinque ore dell’assemblea degli azionisti di Eni, lo scorso 8 maggio. A pronunciarle è stato Godwin Uyi Ojo, presidente della Ong nigeriana Environmental Rights Action (Era), delegato a prendere la parola da Crbm (Campagna per la Riforma della Banca mondiale). Perché a testimoniare sull’impatto delle attività estrattive in Nigeria doveva essere chi le vive in prima persona. Dedicando tempo e lavoro alla tutela della propria terra. Ancora una volta gli azionisti critici hanno messo sul tavolo il gas flaring, cioè la pratica di bruciare a cielo aperto il gas che fuoriesce insieme al petrolio. Secondo lo studio Flare gas reduction: recent global trends and policy considerations, pubblicato nell’aprile dello scorso anno da General Electric, ogni anno fanno questa fine 150 miliardi di metri cubi di gas naturale, che basterebbero a coprire il 30% del fabbisogno energetico dell’Unione europea e il 23% di quello degli Usa. Bruciando il gas si immettono nell’atmosfera anidride carbonica e

«L’

Alla salute dei beni comuni > 58 I successi cooperativi > 60 La questione palestinese > 62 | 54 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 55 |


«diossina, benzene, sulfuri e particolati vari. Tutti agenti cancerogeni, la cui emissione nell’aria va di pari passo con l’aumento di un ampio spettro di malattie respiratorie e forme tumorali». Lo spiega Il Delta dei veleni, pubblicato da Crbm e Altreconomia a dicembre in seguito a una missione coordinata da Environmental Rights Action.

Danni ambientali ed economici In Nigeria tale pratica è illegale: lo dice una legge del 1979. Ma da lì continua ad

| internazionale |

arrivare il 23% del gas bruciato nel mondo. «Oltre ai danni socio-ambientali – continua il rapporto – ci sono anche quelli all’economia. Se il gas, invece di bruciare, fosse stato immagazzinato e rivenduto, tra il 1970 e il 2006 la Nigeria si sarebbe ritrovata in cassa 70 miliardi di dollari in più. […] Nel frattempo […] si deve far ricorso a fonti molto meno sostenibili e “nemiche” dell’ambiente, come il kerosene, il carbone o il legname». Eni ha promesso più volte di cambiare rotta. Nell’area di Ebocha bisognava

UN PAESE SCHIAVO DELL’ORO NERO

HTTP://WWW.ENI.COM

Il fulcro attorno a cui ruota l’economia nigeriana ha un solo nome: petrolio. L’oro nero fornisce il 30% del Pil, l’85% delle esportazioni in valore e il 65% delle entrate statali. La produzione – riporta Il Delta dei veleni – è di circa due milioni di barili al giorno, secondo le stime ufficiali. Una cifra che sale fino a quattro, secondo quelle non ufficiali, che conteggiano anche il petrolio rivenduto sul mercato nero. Shell controlla circa la metà del mercato, ma anche il cane a sei zampe è presente dal 1962: ha costituito la Nigerian Agip Oil (Naoc) e collabora con Shell, detenendo circa il 5% di una joint venture in cui partecipa anche la Nigerian National Petroleum Corporation, di proprietà statale. «L’industria petrolifera è stata un settore chiave dell’economia nigeriana per più di cinquant’anni, ma molti nigeriani hanno pagato un prezzo molto alto»: è questa la sintesi di Achim Steiner, il sottosegretario generale delle Nazioni Unite e direttore esecutivo dell’Unep, il Programma Onu per l’ambiente. L’Unep l’anno scorso ha pubblicato una relazione che deriva da quattordici mesi di ricognizione su oltre 200 località del Delta del Niger e 122 km di oleodotti, di esami di cinquemila cartelle cliniche e incontri con circa 23 mila persone. Per avere un’idea dei risultati bastano le prime righe del comunicato di presentazione: «Il recupero ambientale dell’Ogoniland (la zona del Delta del Niger in cui vive la popolazione degli Ogoni, ndr) potrebbe rivelarsi l’intervento di bonifica più lungo e imponente mai intrapreso». Serviranno «dai 25 ai 30 anni», con un investimento iniziale pari almeno a un miliardo di dollari. V.N.

mettere la parola fine al gas flaring già nel maggio del 2010. Ma Godwin Ojo ha denunciato una situazione ben diversa. «All’ingresso del villaggio – racconta Il Delta dei veleni – abbiamo contato tre torri le cui sommità sputano senza soluzione di continuità lingue di fuoco che salgono in cielo per oltre una ventina di metri». Che provocano «fracasso e bagliori notturni» e alimentano la pioggia acida che «rovina tutto, anche i tetti di lamiera». Non mancano le prove filmate. «Tant’è che dopo l’assemblea – spiega Luca Manes di Crbm – dal sito di Eni è scomparsa la nota che dava per azzerate le emissioni a Ebocha». Crbm ha visitato anche Kwale, in cui Eni ha fondato la centrale Agip Ipp da 480 MW, presentandola come un progetto per ridurre le emissioni tramite il “meccanismo di sviluppo pulito” dell’Onu. Dovrebbe, infatti, usare i gas derivanti dalle estrazioni per produrre energia elettrica da destinare alle comunità che vivono nell’arco di 50 km. Ma alla popolazione quell’energia non è mai arrivata. Intanto il gas flaring continua, nonostante l’amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni si fosse esposto nell’assemblea del 2011 per promettere che a giugno sarebbe stato solo un ricordo. Godwin Ojo ha parlato chiaro, chiedendo i motivi del «tradimento della fiducia» e «quando Eni rimedierà a quest’errore». Ma non c’è solo il gas flaring. Ci sono anche i gasdotti e gli oleodotti fatiscenti in cui si creano crepe che provocano dannose perdite. Godwin Ojo ha elencato quattro sversamenti di petrolio e semilavorati verificatisi nello stato di Bayelsa fra settembre e dicembre. Tutti in impianti dell’Agip.

Le non risposte di Eni E, mentre le sostanze che si riversano nell’ecosistema avvelenano l’acqua e gli animali, l’azienda – secondo le comunità – non avrebbe risposto per mesi alle richieste di intervento. La dirigenza ha opposto la stessa argomentazione che si sente di norma dalle sue concorrenti. Vale a dire che i danni sono dovuti, nella stragrande maggioranza dei casi, a episodi di sabo| 56 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

HTTP://SWEETCRUDEREPORTS.COM

| internazionale |

«I nigeriani sperimentano da oltre 50 anni l’impatto dell’estrazione del petrolio e sono arrivati a preferire l’ipotesi di lasciarlo nel sottosuolo» taggio. «È la risposta che ha colpito di più sia noi che il nostro ospite – spiega Luca Manes – e dà una misura del fatto che, evidentemente, questi problemi non rientrano fra le priorità del management». Crbm, in assemblea, è affiancata da Fondazione Culturale Responsabilità Etica e Amnesty International. Ma collabora anche con CEE Bankwatch Network, Les Amis de la Terre e The Corner House, oltre a una fitta rete di realtà locali. «È stata Environmental Rights Action a cercarci – racconta Elena Gerebizza di CRBM – e fare da ponte tra noi e la comunità». Fra gli interlocutori da raggiungere, oltre all’azienda, ci sono «le istituzioni comunitarie che finanziano i progetti infrastrutturali legati all’estrazione del petrolio e (soprattutto negli ultimi anni) del gas. E il governo italiano che, pur essendo il maggiore azionista di Eni, finora ha preferito non coinvolgersi a livello politico». Lo conferma Luca Manes: «L’azienda ha fornito risposte scritte e all’ospite ha dovuto replicare l’amministratore delegato. Ma finora, a nostro parere, il riscontro non è adeguato».

A settembre, a margine della missione, Crbm ha organizzato un seminario a Lagos, replicato il 14-15 marzo. Quando le chiediamo un bilancio, Elena Gerebizza spiega che «è interessante capire come le comunità convivono con il petrolio. Molte organizzazioni lavorano affinché le risorse non siano appannaggio esclusivo delle élite». Ma l’istanza della società civile portata avanti da Era è più radicale: «I nigeriani sperimentano da oltre cinquant’anni l’impatto dell’estrazione del petrolio e sono arrivati a preferire l’ipotesi di lasciarlo nel sottosuo-

lo». Non sembrerebbero d’accordo, dunque, con la tesi per cui le multinazionali portino risorse e lavoro, tanto da giustificare i sacrifici. «Hanno provato a crederci per anni – conclude – perché è quello che dicono tutti. Ma la situazione ormai è pesantissima, l’ambiente è compromesso ed è aumentata la conflittualità sociale. Tanto che i cittadini spingono per trovare un altro sistema economico che non sia più incentrato sul petrolio e badi piuttosto ai bisogni locali, costruendo un modo di vivere più sostenibile». 

KAZAKISTAN, ENI A RISCHIO COMMISSARIAMENTO Potrebbe arrivare dall’Asia una nuova, pesante tegola per il cane a sei zampe: per la precisione dal Kazakistan. Eni è presente nell’ex repubblica sovietica con la controllata Agip Kco, che detiene poco meno del 17% di un consorzio (a cui partecipano anche Shell, Total, ExxonMobil e la compagnia kazaka KazMunaiGas) che lavora allo stabilimento di Kashagan, il più grande giacimento petrolifero degli ultimi trent’anni. Agip Kco si è ritagliata un duplice ruolo: è operatore unico del consorzio, ma affianca anche KazMunaiGas nell’assegnazione degli appalti ai fornitori. Ma sono scattate le indagini per corruzione internazionale, che coinvolgono Eni come persona giuridica, in base alla legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti. In pratica si ipotizza che la prima fase del progetto, fino al 2007, sia andata avanti a suon di tangenti ai burocrati kazaki, per un valore di almeno

20 milioni di dollari. Tangenti che sarebbero arrivate fino a Timur Kulibayev. Vale a dire il genero del presidente a vita Nursultan Nazarbayev, membro del Cda di Gazprom ed ex presidente dell’ente petrolifero statale e del fondo sovrano. Kulibayev ha negato qualsiasi coinvolgimento. La Procura di Milano, attraverso il pm Fabio De Pasquale, ha chiesto al Tribunale di commissariare Agip Kco, oppure di vietarle di negoziare altri contratti. Secondo alcune fonti citate dall’agenzia Reuters, i legali di Eni sosterrebbero che non c’è stato alcun illecito; e che, in ogni caso, Agip Kco è una società autonoma. Mentre scriviamo il gip Alfonsa Maria Ferraro non si è ancora pronunciato sull’accoglimento V.N. della richiesta della Procura.

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 57 |


| internazionale | cooperative |

| internazionale |

A sinistra alcune immagini dell’Old Crown Pub; in basso l’Albergo diffuso La Corte Fiorita a Bosa, Sardegna

Alla salute dei beni comuni di Corrado Fontana

Legami sociali e sviluppo economico delle piccole comunità, valorizzazione e salvaguardia del territorio: anche questi sono beni che il modello cooperativo, alternativo al sistema capitalista in crisi, si candida a gestire na pinta di birra o un soggiorno sulle montagne della Carnia dietro cui si sviluppano forme di imprenditoria nate “dal basso” e gestite in collettività. Perché magari non rende abbastanza un pub di paese, che funge anche da centro di aggregazione, oppure perché c’è un territorio da proteggere e valorizzare lontano dagli interessi dei tour operator. Sono casi differenti di un unico scenario da cui il mercato capitalistico si è ritirato per lasciare spazio a un modello imprenditoriale alternativo: cooperative – perlopiù sociali e cosiddette “di utenza” – che si trovano impegnate nella gestione di beni comuni concepiti in senso ampio, in contesti dove l’impatto ambientale, i legami di comunità e lo sviluppo economico locale sono importanti come l’acqua e l’elettricità.

U

La compagnia della birra E, infatti, esattamente a metà strada tra Leeds a Sud e Glasgow a Nord, c’è Hesket Newmarket, un paesino in cui, come in tanti altri sparsi nelle zone rurali del Regno Unito, la vita sociale fa perno sui negozi di comunità o sull’unico pub al centro del borgo. Un perno socioculturale ed economico tanto apprezzato che la moria di questo tipo di esercizi, che avanza a ritmi di migliaia di unità l’anno (nel 2011 si contavano 52 mila pub in Gran Bretagna, ma si calcola che ne chiuda circa uno ogni due giorni), ha messo in moto campagne di salvaguardia come quella della Plunkett Foundation, che individua anche nel modello cooperativo una via di salvezza e rilancio. Per questo The Old Crown, il pub di Hesket Newmarket,

La terza via di Corrado Fontana

Cooperative e spirito imprenditoriale: la ricetta dell’economia civile per la gestione comunitaria guadagna spazio, ma necessita di un albo ad hoc e di una massa critica che smuova media e politica «Bisogna uscire dalla tenaglia secondo cui dei beni comuni o si occupa il pubblico o il mercato for profit: c’è una terza strada, costituita dall’economia civile, che ha già mostrato egregi risultati, nel campo della cooperazione sociale e della cura

| 58 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

è stato messo in vendita nel 2001 e acquistato da uno zoccolo duro iniziale di 125 clienti appartenenti alla comunità, registratisi in cooperativa (in forma di industrial and provident society) nel 2003, dove ogni socio ha versato millecinquecento sterline di quota. Il pub è attivo e oggi fa profitto dando lavoro agli inquilini, in affitto nella struttura, che si riferiscono a un comitato di gestione composto da membri eletti della cooperativa. E, se prima The Old Crown era un tipico pub old style che serviva semplicemente cibi e

dei beni pubblici o della sanità. In Italia esistono già esempi di cooperative di cittadini che gestiscono beni importanti come acqua, energia, parchi: ad Ascoli la cooperazione sociale si occupa dei musei della città e la prospettiva per la cooperazione sociale è proprio questa, occuparsi di ambiti nuovi». Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università di Milano-Bicocca, ha idee molto chiare sulle attuali potenzialità di sviluppo dell’economia civile. E insiste: «A Berlino una cooperativa di cittadini sta tentando di acquistare la rete elettrica. Quello che dovremmo fare nel nostro Paese è una sorta di albo delle imprese che lavorano sui beni comuni. Serve che ci siano soggetti con capacità imprenditoriale la cui governance e l’impiego dei profitti siano orientati verso il sociale e l’interesse comunitario».

birra locali, oggi ha qualcosa in più: la birra spillata viene prodotta dalla Hesket Newmarket Brewery, anch’essa di proprietà della cooperativa.

Albergo diffuso, gestione diffusa Un pub come bene comune, quindi, centro di aggregazione fondamentale per garantire attività economica, rigenerazione culturale e freno all’abbandono delle campagne. Non è poco. E in qualche modo è questa l’idea che ha prodotto anni fa la nascita in Italia degli alber-

ghi diffusi, ovvero un modello di offerta turistica che recupera il patrimonio di immobili esistente, spesso sottoutilizzato o in abbandono e perlopiù situato nei centri storici di piccoli paesi, mettendo in rete servizi di ristorazione e di supporto ai turisti con le case dove possono alloggiare. Una sessantina di esperienze censite dall’Associazione nazionale degli alberghi diffusi che, ci dice il professor Giancarlo Dall’Ara, ideatore e promotore della formula, soprattutto nella loro prima fase di sviluppo è stata

È più probabile che ciò si realizzi a partire dal mondo delle imprese sociali o da imprese capitalistiche con una vocazione sociale? L’imprenditore sociale deve certo avere, in quanto imprenditore, il talento per gestire il rischio, ma garantire moventi e cultura diversi da quello capitalistico. Il modello di base resta, infatti, quello cooperativo tradizionale, con un insieme di soggetti che si uniscono per gestire un bene (una cantina sociale, una funicolare, le banche di credito cooperativo). Ma non sarà una prospettiva legata alla crisi del capitalismo e destinata a rimanere minoritaria? Dipende da noi se questa stagione di iniziative dal basso – non tanto legate alla crisi, ma a una cultura sussidiaria

fortemente legata all’idea di cooperativa formata dai proprietari degli alloggi, riuniti per una gestione coordinata e condivisa. Un modello che riguarda oggi circa il 10% degli alberghi diffusi italiani, situati soprattutto in Friuli Venezia Giulia, Liguria e Sardegna, ovvero in regioni che presentano normative più favorevoli, e che si perpetua sulla scorta dei pionieri di questa formula, la Cooperativa Albergo Diffuso Comeglians, nata nel 1999 a Povolaro di Comeglians (Udine). 

che si sta diffondendo nel mondo e per la quale le persone vogliono riappropriarsi dei territori e non più delegarne la gestione – permetterà di raggiungere una massa critica. Ciò che è chiaro è che l’odierno modello di sviluppo basato sul mercato non funziona più, è insostenibile per la gente e per l’ambiente: Luigino Bruni la via d’uscita può essere un modello partecipativo, sussidiario e civile. E molto dipende dall’informazione, dalla diffusione di tali esperienze come elemento rilevante. Obiettivo massa critica, dunque... E un’alleanza tra economia civile e politica. Perché non è solo

una scelta economica.

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 59 |


| internazionale |

BERLINO: ELETTRICITÀ DA VENDERE Non solo piccola e media scala. Le cooperative di utenza si diffondono in Italia, in Europa e nel mondo per candidarsi alla gestione di beni comuni come l’energia. Così sta avvenendo ad esempio a Berlino, città da 3,5 milioni di abitanti, dove la cooperativa BürgerEnergie Berlin (Beb) lancia una Energiewende, la “svolta energetica” dal basso, e punta ad acquistare la più grande rete elettrica della Germania. L’idea è quella di coinvolgere tutti i cittadini affinché acquistino una quota dei 40 mila chilometri di cavi gestiti oggi dalla compagnia svedese privata Vattenfall, la cui concessione comunale scadrà alla fine del 2014. Un progetto ambizioso che guarda ancora più lontano, poiché auspica che il Paese possa spegnere tutte le sue centrali nucleari nel giro di dieci anni, sviluppando contestualmente il comparto dell’energia da fonti rinnovabili. E, poiché la strada è ancora lunga, i promotori del Berliner Energietisch (Il tavolo dell’energia di Berlino, ndt) hanno già avviato una raccolta di firme per indire il referendum finalizzato a ri-municipalizzare la rete elettrica della capitale, sperando di ripetere il successo di un’analoga consultazione svoltasi nel 2011 sull’acqua pubblica o la recente esperienza parigina: chiunque – compresi i non residenti a Berlino – può già oggi acquistare una quota futura della rete, depositando un minimo di 500 euro (o versando la somma su un conto fiduciario, in attesa che si trasformi in partecipazione solo in caso che la nuova società si aggiudichi effettivamente la gestione della rete elettrica). A sostenere la campagna sono intervenuti anche l’organizzazione ambientalista Bund e due compagnie specializzate nella fornitura di energia rinnovabile (Naturstrom e Greenpeace Energy), il che accresce le possibilità di raggiungere lo scopo. Ma BürgerEnergie Berlin ha le idee chiare anche sull’eventuale “dopo”, su come reinvestire i probabili e cospicui utili che matureranno: una parte sarà utilizzata per lo sviluppo di reti intelligenti (smart grid) che facilitino l’integrazione delle rinnovabili nella rete o per altri progetti simili, il resto sarà redistribuito tra i soci, i quali – come in ogni cooperativa – disporranno di un voto in assemblea, indipendentemente da quanto investito, per dare corpo alla gestione democratica e partecipata della distribuzione di energia in città. Mentre scriviamo un primo obiettivo è già in vista: il Berliner Energietisch dispone di quasi 20 mila firme sulle 25 mila C.F. che intende presentare alla fine di giugno.

| 60 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

| internazionale |

I successi cooperativi

lioni di metri cubi di acqua potabile distribuiti nel 2009 attraverso circa 360 km di reti, e alcune esperienze nel settore delle telecomunicazioni, come quelle di Cutnord Cooperativa di Imola e Cut Cooperativa Utenti Telefonici a Prato.

di Corrado Fontana

Usa: l’imprenditoria cooperativa

Acqua, energia, trasporti e telecomunicazioni sono beni comuni per eccellenza e si moltiplicano, tra Italia, Europa e Stati Uniti, le cooperative di “utenza” che ne hanno in carico la gestione. Un settore vivace tratteggiato da Euricse na delle fotografie più aggiornate delle cooperative di utenza, attive nella gestione dei beni comuni, è italiana. A scattarla i ricercatori di Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises), come la dottoressa Francesca Spinicci, che sull’argomento ha portato una relazione all’International Research Conference on Social Enterprise (Conferenza internazionale sulla ricerca sull’impresa sociale) del luglio 2011. Parlando principalmente di energia, ma anche di acqua, trasporti e telecomunicazioni, emerge un quadro di grande dinamismo.

U

Utenti energetici La maggior presenza di cooperative di utenza in Italia (32) – e non solo – è nel settore dell’energia, e comprende soggetti distribuiti in modo poco uniforme nel Paese: due in Valle d’Aosta, una in Piemonte, tre in Lombardia, tre in Trentino, due in Friuli e ben ventuno in Alto-Adige. Sono cooperative di mediopiccole dimensioni, nate perlopiù in aree di montagna e zone isolate, e capaci di produrre e distribuire nel 2009 circa 340 milioni di kWh (secondo statistiche pubblicate da Terna) e 250 milioni di kWh, soprattutto generati da fonte idroelettrica. Tutte insieme contano 24 mila soci e 40 mila utenti e circa l’88% di esse utilizza una rete di distribuzione di proprietà, per una lunghezza totale di ben 1459,5 km. Sono cooperative la cui storia è ovviamente legata alla nazionalizzazione del settore elettrico (1962) e alla sua liberalizzazione alla fine degli anni Novanta: prima del 1962 – e fin da fine ’800 – nacquero, infatti, per portare un servizio essenziale dove non c’era, dopo di allora soprattutto per ottenere costi più bassi e qualità migliore. Ma il quadro italiano di queste cooperative non sarebbe completo se non si citassero anche quelle che hanno in gestione i sistemi idrici: nove quelle identificate, tutte nel Nord Italia, per circa 4.200 soci e oltre cinquemila utenti, con 1,8 mi-

Il modello italiano, del resto, pur con qualche variazione di forma, si ritrova sperimentato anche all’estero. Nel Regno Unito ci sono cooperative di consumatori nel settore energetico (Energy4all fondata per promuovere la produzione di energia da fonti rinnovabili) o delle telecomunicazioni (ad esempio The Phone Coop oppure Cybermoor Ltd, cooperativa di comunità che promuove l’accesso a Internet in zone svantaggiate per conto del governo). Per quanto riguarda l’acqua c’è invece la gallese Glas Cymru, organizzazione non-profit in forma di srl, che però reinveste tutti gli utili in azienda e, se possibile, paga i dividendi direttamente in bolletta. Rispetto poi alla forma giuridica, in Gran Bretagna spesso si incontrano le Cic (Community Interest Company): non cooperative di consumo vere e proprie, ma che vi si avvicinano quando si verifica una coincidenza tra i loro soci e i membri della comunità in cui queste imprese operano. Sono 11 le Cic attive nel settore elettrico e 36 in quello dei trasporti. Esempi di cooperative del settore elettrico declinate in varie forme si trovano anche in Germania e in Francia, dove sono due le forme giuridiche assimilabili alle cooperative di consumatori: le Sociétés d’Intérêt Collectif Agricole d’Electricité

APPUNTAMENTO 9-10 novembre 2012 - Bertinoro (Forlì) XII edizione de: LE GIORNATE DI BERTINORO PER L’ECONOMIA CIVILE Co-operare: modelli e proposte per uno sviluppo umano integrale www.legiornatedibertinoro.it

SITOGRAFIA www.theoldcrownpub.co.uk www.alberghidiffusi.it www.euricse.eu berliner-energietisch.net

(Sicae) e le Sociétés Coopératives Intérêt Collectif (Scic). In Spagna, infine, secondo la relazione di Euricse, sono attive 17 cooperative del settore elettrico, con più di 46 mila membri e un fatturato di oltre 26 milioni di euro censiti nel 2009. Numeri importanti, quindi, che però impallidiscono nel confronto con le dimensioni del fenomeno negli Stati Uniti. Anche qui la gestione dei beni comuni – o dei pubblici servizi ad essi collegati – è spesso nelle disponibilità di cooperative impegnate nel fornire elettricità, acqua e telecomunicazioni. Le cifre, sempre rela-

tive al 2009, registravano 920 delle cosiddette Rural electric cooperatives (854 di distribuzione e 66 di produzione e trasmissione) a cui vanno aggiunte 255 cooperative telefoniche, tutte create per fornire servizi di qualità a costi ragionevoli o in aree raggiunte poco e male, come quelle di campagna. Il catalogo va però completato parlando anche di acqua: i 3.350 sistemi idrici americani gestiti da enti senza fini di lucro, 2.228 dei quali sono cooperative, sono una bella testimonianza di successo per questo modello imprenditoriale. 

OLTRE IL CAPITALISMO, L’ECONOMIA CIVILE DI MERCATO «Il capitalismo è finito. Il problema è come andare oltre: non ci sono ancora le risposte», è questo l’epitaffio del modello capitalistico scandito dal professor Stefano Zamagni, presidente della Commissione scientifica di Aiccon (Associazione Italiana per la promozione della Cultura della cooperazione e del non profit). «La linea che porto avanti – continua il professor Zamagni – è quella di un modello di economia civile di mercato. Un modello che salva dal capitalismo l’economia di mercato. Gli americani stanno battendo vie nuove. In Italia c’è una comprensione del fenomeno, ma non a livello popolare, a causa dell’informazione. La politica e le istituzioni, invece, sono ostacolate dagli interessi personali, dalla necessità di proteggere le rendite acquisite». All’interno dell’economia civile di mercato, di cui parla il professor Zamagni, la cooperazione riveste un ruolo fondamentale. E proprio a questo modello economico e organizzativo è dedicata la XII edizione delle giornate di Bertinoro, che quest’anno porta il titolo: “Co-operare: modelli e proposte per uno sviluppo umano integrale”. «I soggetti dell’economia civile – spiegano gli organizzatori dell’evento – si sono progressivamente caratterizzati, anche dal punto di vista di scelte organizzative e vincoli formali, come organizzazioni impegnate prevalentemente nella produzione di beni e servizi in grado di stabilire particolari relazioni di fiducia con i propri consumatori e lavoratori, dando “mercato” insieme al valore d’uso e di scambio, anche al valore di legame. La forma di impresa cooperativa ne è esempio avendo al suo interno, da un lato, la dimensione economica, che impone che il suo agire si collochi all’interno del mercato e delle sue logiche e, dall’altro, quella sociale in quanto ente che persegue fini meta-economici ed è in grado di generare esternalità positive a vantaggio di altri soggetti e potenzialmente dell’intera collettività». C.F.

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 61 |


| internazionale | osservatorio medio oriente/Palestina |

| internazionale |

Sulla questione di uno Stato palestinese di Franco Dinelli*

Di anno in anno le colonie avanzano in Cisgiordania. Con la connivenza internazionale e dell’Autorità nazionale palestinese, Israele continua l’espansione a costo zero, rendendo attualmente irrealistica la soluzione dei “due popoli, due Stati” isgiordania. La bandiera dello stato di Israele presenta due linee blu orizzontali. Per alcuni rappresentano i fiumi Eufrate e Nilo entro i quali si sarebbe esteso il biblico regno di Israele, Eretz Israel. Per l’attivista israeliano Ezra Nawi in realtà esse rap-

C

presentano i due limiti entro i quali il moderno Israele si muove: annessione unilaterale della Cisgiordania e creazione di uno Stato palestinese. Ma, non avendo mai dato una definizione certa dei suoi confini, Israele può continuare a espropriare terra e ad allontanare i nativi, dando sostanza politica e geografica al contenuto simbolico della sua bandiera. Lo storico Ilan Pappè conferma questa visione in un articolo apparso su NenaNews il 14 maggio e da anni sostiene la soluzione dello Stato unico. È lecito allora porsi una domanda: è realisticamente realizzabile uno Stato palestinese? Dal 1967, Israele ha il controllo militare totale della Cisgiordania, mante-

nuto anche dopo gli Accordi di Oslo (AdO) del 1992, nonostante la creazione di un’Autorità nazionale palestinese (Anp). L’esercito israeliano interviene ovunque e arresta chiunque voglia senza dichiararne il motivo. L’uso della “detenzione amministrativa”, in buona sostanza una detenzione preventiva, riguarda in modo subdolo anche i minori. L’organizzazione palestinese Addameer riporta che un alto numero di essi ha subito arresti o violenze. La reclusione è tesa soprattutto a minare il sano sviluppo della loro vita sociale. L’occupazione militare si tramuta in esproprio dove la colonizzazione ha luogo. Chi visita la Cisgiordania vede di

QUANTO PESA IL BOICOTTAGGIO DEI PRODOTTI ISRAELIANI

Negli ultimi anni la Bds, campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), è stata promossa per richiamare l’attenzione mondiale sulla condizione palestinese. Il Bds internazionale ha prodotto effetti come il fallimento di Agrexco (Agricultural export company Ltd), il principale esportatore dei prodotti agricoli delle colonie della Valle del Giordano. Adesso si sta promuovendo anche il boicottaggio culturale, riguardante soprattutto concerti di artisti famosi in Israele.

| 62 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

Benché questa solidarietà sia percepita e apprezzata come importante, la situazione in Cisgiordania è più complicata. Nei negozi si trovano in gran quantità e a basso costo i prodotti agricoli delle colonie; quelli palestinesi, oltre che più cari, sarebbero comunque largamente insufficienti al fabbisogno totale. Tutti i prodotti esteri, poi, passano da Israele. Importare è quindi proibitivo per le tasse e i forti ritardi nelle consegne. Una recente campagna di boicottaggio sul rilascio dei visti dai servizi israeliani ha creato ulteriori ostacoli burocratici, ma ben scarsi risultati. Un problema importante è infine rappresentato dai palestinesi che lavorano nelle colonie. La disoccupazione è altissima e non esiste alternativa concreta. Per tutti questi motivi il boicottaggio in Cisgiordania al momento non è praticabile, mentre fu cruciale durante la prima Intifada. Di fronte alla progressiva distruzione della società palestinese appare urgente che la comunità internazionale si impegni a collaborare alla ricostruzione di un tessuto sociale che possa promuovere nuove ed efficaci forme di lotta. Da questa consapevolezza è necessario ripartire per non cadere in una F.D. nuova forma di “Orientalismo” lontana dalla realtà.

anno in anno l’avanzamento delle colonie: le cifre dimostrano come l’espansione prosegua senza sosta e come sia aumentata vertiginosamente proprio dopo gli AdO. L’esproprio è affiancato anche dal completo controllo economico: tutto passa attraverso Israele con l’imposizione di elevate imposte. I prodotti agricoli delle colonie, grazie alle sovvenzioni internazionali, vengono riversati sul mercato palestinese a un prezzo più basso in modo da distruggere la produzione interna. Dall’altra parte, l’Anp gestisce le grandi città e parte delle aree limitrofe. Non ha però né il pieno controllo militare né quello amministrativo di estese zone del territorio, ad esempio della fertile Valle del Giordano. Dipendendo fortemente dagli aiuti internazionali, nonostante grandi e teatrali proclami per la nascita di uno Stato palestinese, non pare essere in grado di far seguire i fatti alle parole. Nella popolazione, inoltre, è molto forte la percezione di una diffusa corruzione. Gli uomini di governo godono di trattamenti da “vip” ai checkpoint e alle frontiere; non devono cioè sottostare alle lunghe attese della gente normale. Questi trattamenti di favore, uniti alla forte repressione cui devono sottostare le persone comuni, induce i più a sospetti di collusione. Non sono poi rari i casi di arresti di attivisti da parte proprio dell’Anp. Infine essa non promuove, se non impedisce, uno sviluppo economico reale. Pochi sono i dirigenti con idee chiare, ad esempio sulla green economy, mentre si lamenta spesso l’esclusione di persone di valore.

La pulizia etnica della Palestina di Paola Baiocchi

L’espropriazione delle terre dei palestinesi è un crimine contro l’umanità cancellato dalla memoria pubblica

La comunità internazionale gioca un ruolo di rilievo: l’Onu dal 1948 è presente nei campi profughi nati dalla pulizia etnica effettuata nei territori inglobati da Israele e la sua presenza si è trasformata da temporanea a definitiva. L’Onu gestisce scuole e sanità, compito in realtà spettante agli occupanti. Le Ong, sistema con cui l’Onu e i singoli Stati sostengono i palestinesi, sono moltissime: si parla di più di 2.000. La percezione locale è che i loro pro-

Pappé Ilan La pulizia etnica della Palestina Fazi Editore, 2008

Contraddicendo la storiografia ufficiale, che collega la nascita di Israele alle conseguenze della guerra, Ilan Pappé, docente di storia nato ad Haifa nel 1954, parla di una “pulizia etnica” nei confronti dei palestinesi preordinata dagli ideologi del sionismo e poi messa in atto in più fasi, ma ancora in corso. Ecco come descrive nel suo libro, La pulizia etnica della Palestina, i giorni del 1948 che i palestinesi chiamano la Nakba, la catastrofe: «Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più della metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800 mila persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Il piano deciso il 10 marzo 1948, e soprattutto la sua sistematica attuazione nei mesi successivi, fu un caso lampante di pulizia etnica, considerata oggi dal diritto internazionale un crimine contro l’umanità». Eppure, continua l’autore: «Dopo l’Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l’umanità su larga scala. [...] Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l’espropriazione delle terre dei palestinesi da parte di Israele nel 1948». Con la connivente “distrazione” internazionale, l’espansione israeliana nelle terre arabe continua con la costruzione di nuovi insediamenti di coloni, che frammentano la continuità dei territori assegnati ai palestinesi: la Zona E1, un vasto insediamento non ancora definitivamente approvato, si collocherebbe a metà della Cisgiordania, separandola da Gerusalemme Est, capitale del futuro Stato palestinese, e dividendo il Nord dal Sud. «Lo scopo del progetto sionista – secondo Ilan Pappé – è sempre stato quello di costruire e poi difendere una fortezza “bianca” (occidentale) in un mondo “nero” (arabo)». Con questa chiave di lettura, che vede Israele come testa di ponte occidentale nei territori arabi ricchi di materie prime, è più chiaro l’appoggio internazionale che viene dato a un Paese che non rispetta nessun tipo di trattato. Ma è più chiaro anche il suo ruolo destabilizzante che dovrebbe essere oggetto di severe iniziative politiche da parte di tutti gli Stati che si definiscono democratici.

OCCUPAZIONE ISRAELIANA DEI TERRITORI ARABI DAL 1946 AL 2009 1

La comunità internazionale

LIBRI

2

3

4

1 Pre-1948: 100% della Palestina storica 2 Piano di spartizione Onu del 1947: 48% della Palestina storica 3 1967 - Linea di fatto: 22% della Palestina storica 4 2006 - Insediamenti, muro e Valle del Giordano: 12% della Palestina storica

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 63 |


| internazionale |

| islamfinanzasocietà |

LA SOLUZIONE HAMAS

Durante la prima Intifada era lo Stone Theatre, quando Arna Mer, sionista combattente nel ‘48, prese a cuore la sorte degli abitanti del campo profughi di Jenin. Dopo la sua morte nel 2002, durante la seconda Intifada, il teatro fu distrutto dall’esercito israeliano; i migliori attori morti o imprigionati. Juliano Khamis, figlio di Arna, raccontò la storia nel film Arna’s Children. Poi fu il Freedom Theatre, un luogo dove i giovani profughi potevano imparare a esprimersi in modo creativo, elaborando gli impulsi distruttivi causati dal confinamento in un ghetto. Un anno fa Juliano Mer Khamis è stato assassinato, di fronte al teatro. Stavano preparando Alice in Wonderland. Sepolto Juliano in un kibbutz, l’avventura è ripresa: Alice ha girato in tournée in Francia e Germania. Anche Jonathan, ebreo svedese cofondatore del teatro, è tornato e, nonostante il continuo bisogno di donazioni, le cose procedono. Attualmente si stanno prendendo accordi con un teatro di New York. Il progetto forte adesso è un tour della Cisgiordania: il Freedom Bus. Gli attori improvvisano rappresentazioni basate F.D. sui racconti biografici degli spettatori.

Hamas (Harakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, Movimento Islamico di Resistenza) è un’organizzazione palestinese politica e paramilitare, fondata nel 1987, durante la prima Intifada come braccio operativo dei Fratelli Musulmani, per combattere l’occupazione israeliana della Palestina. Hamas gestisce ampi programmi sociali e nella Striscia di Gaza, dove ha istituito ospedali, sistemi di istruzione, biblioteche e altri servizi, nelle elezioni del 2006 ha ottenuto la maggioranza dei seggi. Durante la seconda Intifada (2000/2005) ha effettuato attentati suicidi contro l’esercito e la popolazione civile israeliana provocando centinaia di vittime, pretesto per le successive repressioni israeliane e causa dell’attuale isolamento internazionale del popolo palestinese. Il gruppo fu finanziato negli anni ‘70 e ‘80 dagli Stati arabi più integralisti, come l’Arabia Saudita, che avevano interesse come Israele alla nascita di un oppositore al movimento laico al-Fath di Arafat e alle formazioni comuniste palestinesi. Infatti Menachem Begin, appena eletto Primo ministro del Likud nel 1977, diede l’assenso alla registrazione in Israele della al-Mujamma alIslāmī movimento collegato ai Fratelli Musulmani e fondato dalla sceicco Aḥmad Yāsīn, nonostante lo Statuto di Hamas richieda la distruzione dello Stato di Israele e la sua sostituzione con uno Stato islamico palestinese. Andrea Montella

Società civile disgregata La società civile palestinese si sta disgregando di giorno in giorno. Grazie alla connivenza internazionale e dell’Anp, Israele continua l’occupazione e l’espansione a costo zero. Tutto questo rende attualmente irrealistica la soluzione dei “due popoli, due Stati”; anzi insistere su questa ipotesi non fa che agevolare la strategia israeliana di pulizia etnica della Cisgior| 64 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

dania. In questo quadro, non è facile indicare una soluzione che può solo essere proposta e scelta dalla popolazione locale. È però forse auspicabile che si costringa Israele a varcare l’altra linea blu, quel-

L’inconsapevolezza del male

P

la dell’annessione unilaterale, e giungere infine alla nascita di uno Stato unico e realmente laico.  *

Pax Christi Italia - Campagna ponti non muri

QUEL CHE RESTA DELLA PALESTINA Autorità nazionale palestinese: nasce dall’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina) il 4 maggio del 1994 Forma di governo: sistema presidenziale Capitale: Gerusalemme Est Popolazione palestinese: 2,4 milioni nella Cisgiordania, 1,4 milioni nella HTTP://WWW.DIRITTISOCIALI.ORG Striscia di Gaza e 1,3 milioni di arabi israeliani Rifugiati: 10 campi in Giordania con 304.403 rifugiati; in Libano i rifugiati sono 409.714 (di cui 225.125 in 12 campi profughi); in Siria esistono 10 campi ufficiali con 119.776 rifugiati; in Cisgiordania ci sono 19 campi ufficiali con 176.514 rifugiati; nella Striscia di Gaza sono 8 i campi ufficiali con 478.854 rifugiati Superficie: Cisgiordania 5.680 kmq; Striscia di Gaza 360 kmq Lingue: arabo, ebraico, è largamente capito l’inglese Religione: musulmana (con predominanza di sunniti); cristiani Moneta: sterlina egiziana, nuovo siclo israeliano, dinaro giordano Alfabetizzazione: 92,4% (popolazione di 15 anni o più in grado di leggere e scrivere) Pil pro capite: Striscia di Gaza $ 660; Cisgiordania $ 1.500 Mortalità infantile: Striscia di Gaza 16,55 morti/1.000 nati; Cisgiordania 14,47 morti/1.000 nati Speranza di vita alla nascita: Striscia di Gaza 74,16 anni; Cisgiordania 75,24 Disoccupazione: Striscia di Gaza 40% (stima 2010); Cisgiordania 23,5% (Stima 2011) Popolazione sotto la soglia di povertà: Striscia di Gaza 38%; Cisgiordania 18,3% (stima 2010) Pil (inclusa la Striscia di Gaza): $ 5.550 milioni

di Federica Miglietta

oco è cambiato dall’ultima volta che abbiamo concentrato la nostra attenzione sulle crisi arabe. Il termine “primavera araba” è caduto in disuso e non perché sia salito il termometro per l’incalzare dell’estate, ma perché ci si è resi conto che, nonostante le premesse e, soprattutto, le promesse, poco è cambiato in Siria, Egitto, Tunisia.

FONTE: NOSTRA ELABORAZIONE SU DATI CIA WORLD FACTBOOK, 2012; UNRWA

getti spesso non lascino traccia. La funzione principale delle Ong è di fatto il sostentamento di un sistema parassitario che, per mantenere sé stesso, impedisce la crescita di una normale società. Una nota finale riguarda le scuole, finanziate in toto dall’Anp, dall’Onu e dalle Chiese. A causa della crisi economica, i fondi ad esse destinati sono sempre più esigui, bassi i salari degli insegnanti, scarso il materiale didattico. I giovani bravi che riescono comunque ad emergere, emigrano in cerca di lavoro negli Stati del Golfo Persico. Gli altri sono costretti a lavorare per le colonie o, ad esempio, per le ditte HiTech israeliane che sfruttano i bassi salari.

Arroganti strumenti

L’Egitto, in particolare, è più infuocato che mai e piazza Tahrir, la Tienanmen egiziana, non si svuota mai, né giorno, né notte. Gli esausti egiziani hanno dapprima protestato perché il (nuovo) regime militare non intendeva indire le elezioni e poi, goccia che ha fatto traboccare il vaso, Mubarak non è stato condannato a morte, come si aspettavano, ma riportato in carcere tra proteste e malori. In aggiunta i suoi figli, unitamente ai generali, sono stati assolti. Prescindendo dalle pur legittime aspettative della popolazione e lasciando da parte le considerazioni politiche su chi sarà il nuovo presidente e, soprattutto, su che indirizzo imprimerà alla vita sociale egiziana, mi lascia sgomenta la reazione di Mubarak. Il dittatore, sotto il cui regime sono state torturate innumerevoli vittime e il cui esercito ha sparato sulla popolazione inerme, si è lamentato. Cioè prima ha irriso, con un’espressione immobile, i giudici del tribunale (che pure lo hanno lasciato in vita, rischiando essi stessi il linciaggio pubblico) per poi dare in escandescenze quando ha ca-

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

IL FREEDOM THEATRE RINASCE DALLE CENERI

Mubarak ha prima irriso i giudici del tribunale e poi ha dato in escandescenze pito che non lo avrebbero liberato, ma portato in carcere. Ma quanto è profonda l’inconsapevolezza del male che produciamo? Ma davvero pensava di poter tornare a casa facendo fin-

ta che tutto è cambiato perché non cambi nulla? Questo comportamento di stupore è simile, nella sua intrinseca dissennatezza, a quello dell’attentatore di Brindisi che ha chiesto, rivolgendosi stranito alle guardie carcerarie che lo hanno rinchiuso in cella, per quanto tempo vi sarebbe rimasto. Come se non si rendesse conto che ha spezzato una vita, lacerato un sogno e condannato a un dolore atroce due attoniti e incolpevoli genitori. Ma lui, come Mubarak, si aspettava forse di essere liberato? Come si può uccidere rimuovendo dalla propria coscienza ogni ombra? E Assad, in Siria, che si fa riprendere nel suo fiorito giardino con i figli belli, rosei e ben vestiti, si rende conto di quanti bambini, come i suoi, ha fatto ammazzare dal suo esercito? Qui non si tratta di Islam, di religione, di etnia: vorremmo parlare di novità, di democrazia, di una nuova rinascita in Libia, Egitto, Algeria e invece rimaniamo attoniti davanti all’insostenibile leggerezza del male che alberga dentro di noi e che accomuna tutte le latitudini. 

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 65 |


| LASTNEWS |

altrevoci IL DEFAULT DELL’EURO? UN DANNO DA 30 MILIARDI PER I PAESI PIÙ POVERI

CARRELLI VUOTI, MA CIBO SPRECATO L’ITALIA È TERZA NEL MONDO

La crisi dell’euro ci spinge a preoccuparci delle nostre tasche e della nostra economia. Ma quasi nessuno si è posto il problema di quale impatto abbia sulle già disastrate economie dei Paesi più poveri. Lo ha fatto l’organizzazione internazionale Oxfam, che ha lanciato un appello ai leader del G20 riuniti in Messico: stando ai suoi calcoli, se l’euro dovesse fallire, la conseguente caduta del Pil dei Paesi europei determinerebbe una perdita di entrate per gli Stati meno sviluppati – la maggior parte nell’Africa Subsahariana – pari a più di 20 miliardi di dollari, corrispondenti ai ricavi dalle esportazioni in Europa nell’anno successivo al fallimento. I Paesi poveri potrebbero inoltre perdere ulteriori 10 miliardi di dollari dati dai minori investimenti del Vecchio continente. Il crollo dell’Eurozona aggraverebbe quindi i problemi che i Paesi a basso reddito stanno già affrontando, compresa la carenza di cibo, la scarsità degli aiuti e la riduzione dei flussi di capitale come risultato della crisi economica. «C’è bisogno di uno sforzo congiunto – ha affermato il portavoce di Oxfam, Steve Price-Thomas – per proteggere i poveri da una crisi economica e alimentare che ha già affamato una persona su sette. Il settore finanziario dovrebbe agire negli interessi della società, non viceversa: cioè, limitando la speculazione sul cibo ed esigendo da coloro che hanno la responsabilità della crisi economica l’aiuto per i più poveri rimasti intrappolati». [EM.IS.]

Nel Belpaese i carrelli sono sempre più vuoti, ma in compenso le pattumiere e le discariche sono sempre più colme di cibo sprecato. È una situazione paradossale e per certi versi incredibile quella fotografata da un’indagine che la Federazione italiana dell’industria alimentare ha realizzato su dati Istat. L’Italia è, nel mondo, il terzo Paese che spreca più cibo in assoluto. Alla faccia dei portafogli sempre più vuoti e della sindrome della “quarta settimana” in espansione rapida: 108 chili all’anno per ogni famiglia, per un controvalore di 454 euro. O se preferite, 27 chili a persona pari a 113 euro. Solo l’area anglosassone ci batte: nel Regno Unito si buttano alimenti per 110 chilogrammi e negli Usa per 109. Se ci divertissimo a sommare tutti gli sprechi del mondo industrializzato arriveremmo alla cifra stellare di 222 milioni di tonnellate. La responsabilità però non è solo delle famiglie ma dell’intero sistema agroalimentare: lungo la filiera si perde il 30% della produzione. Un dato reso ancora più inconcepibile viste le ultime cifre dei consumi alimentari. Numeri da rosso perenne: -3% nel decennio 2000-2010, -5% tra 2005 e 2011, -4% ad aprile scorso rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. [EM. IS.]

OCSE, TEAM ANTI-EVASIONE PER IL SUD DEL MONDO RIO +20: UN VERTICE TIEPIDO PROTAGONISTA IL PRIVATO C’è una distanza siderale tra il primo Earth Summit del ’92 e il terzo, vent’anni dopo, sempre sulle spiagge assolate di Rio de Janeiro. Nella mancanza di ambizione, di difficoltà ormai palese in ogni percorso multilaterale, di posizioni radicalizzate che rispondono più agli interessi privati che alle esigenze comuni. L’atmosfera che si respira nelle stanze di Rio+20 (mentre stiamo scrivendo si avvicinano le ultime tre giornate) è quella della mediazione al ribasso. Rio ha avuto il merito di cominciare a focalizzare l’attenzione su alcuni temi importanti: gli strumenti di misurazione del benessere alternativi al Pil; i nuovi Sustainable Development Goals, che dovrebbero tenere insieme i diversi pilastri dello sviluppo tra cui l’ambiente; o ancora il problema della governance ambientale. Ma quello che emerge in questi mesi di negoziato è la forza e la capacità di intervento del settore privato, la sua capacità camaleontica di adattarsi a nuove possibilità di profitto. Perché la green economy che sta uscendo da queste maratone negoziali si baserà sul volontarismo, la filantropia, l’iniziativa personale e la monetizzazione di tutto, anche i beni comuni. Da Rio non emerge neanche un impegno concreto e vincolante sui prossimi appuntamenti legati alle Convenzioni di Rio. È un vertice di buone intenzioni, ma che non tiene in conto in modo responsabile il rischio dell’irreversibilità di alcuni cambiamenti che stiamo vivendo, primo fra tutti quello climatico [da Rio Alberto Zoratti] | 66 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) si appresta a creare una sorta di corpo internazionale di ispettori fiscali. L’obiettivo dell’iniziativa – secondo quanto riferito dal settimanale economico francese Alternatives Economiques – è di mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo uno strumento per contrastare le pratiche di aggiramento degli organismi tributari locali da parte delle multinazionali. In molti casi, infatti, queste ultime evitano di versare le tasse che dovrebbero pagare ai governi dei Paesi nei quali operano. Un problema talmente diffuso da far perdere – secondo le stime dell’organizzazione non governativa Christian Aid – qualcosa come 160 miliardi di dollari all’anno alle nazioni che “ospitano” i colossi del Nord del mondo. Una cifra, vale la pena di sottolinearlo, ben più alta rispetto ai 120-130 miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo che sono stati erogati dalle economie sviluppate negli ultimi anni. Ciò che occorrerà verificare, tuttavia, sarà l’efficacia della nuova squadra di ispettori, i poteri che saranno conferiti ai suoi membri e la quantità di capitali che grazie a loro si riuscirà a recuperare. [A.BAR.]

SCIENZA, MAPPATO IL GENOMA DEL POMODORO

DA CRBM NASCE RE:COMMON, PER LA TUTELA DEI BENI COMUNI

DA OLE A FESTAMBIENTE, L’ESTATE È ETICA E “GREEN”

Per i non addetti ai lavori può sembrare una lista, pressoché incomprensibile, di cifre. Ma la scoperta è preziosissima: dopo anni di ricerche è stata portata a termine la mappatura del genoma del pomodoro. A pubblicare lo studio è la prestigiosa rivista britannica Nature, ma la scoperta è, in parte, anche italiana. A far parte del Tomato Genome Consortium, fin dalla sua nascita nel 2003, infatti è anche il team coordinato da Luigi Frusciante dell’università Federico II di Napoli, Giorgio Valle dell’università di Padova e Giovanni Giuliano dell’Enea. Si è così ottenuta una mappa della struttura e dell’ordine dei 35mila geni del pomodoro (in gergo scientifico solanum lycopersicum ), racchiusi in 12 cromosomi (quelli umani sono 23mila in 46 cromosomi). Si tratta di una base imprescindibile per le ricerche che verranno condotte d’ora in poi sui processi evolutivi, sulla resistenza alle malattie e sulle qualità nutritive di un frutto che ricopre un ruolo così basilare sulle nostre tavole. Fino ad aiutare i coltivatori a fare incroci “intelligenti”, senza dover seguire la strada della modificazione genetica.

Dopo sedici anni di attività la Campagna per la Riforma della Banca mondiale chiude i battenti, per passare il testimone a Re:Common (www.recommon.org). La nuova associazione, che è stata presentata a Roma lo scorso 7 giugno, continua ad essere incentrata sulla tutela dell’ambiente, ma in un’ottica che – ha spiegato la presidente Caterina Amicucci – inevitabilmente si è dovuta evolvere insieme alle dinamiche sociali ed economiche. L’imperativo, dunque, diventa quello di contrastare la finanziarizzazione della natura, ormai imperante. I beni comuni come la terra, l’acqua e l’energia, secondo Re:Common, devono rimanere o tornare tali: e non finire in mano a istituzioni finanziarie pubbliche e private, né tanto meno essere sfruttati per costruire prodotti finanziari speculativi. L’associazione lavorerà dunque per promuovere nuove politiche di partecipazione attiva e di gestione diretta di tali risorse. Ma, sulla scia di Crbm, continuerà anche a fare campagna al fianco delle popolazioni locali che si trovano a subire l’impatto dei grandi progetti infrastrutturali (dalle dighe agli oleodotti): non solo nel Sud del mondo, ma anche nella regione del Mediterraneo, Italia compresa. [V.N.]

Ormai è un appuntamento fisso e, solo l’anno scorso, ha attirato 80 mila visitatori. Festambiente torna dal 10 al 19 agosto a Ripescia, alle porte del Parco naturale della Maremma. Nella kermesse di Legambiente si alterneranno spettacoli, dibattiti fra giornalisti, politici e rappresentanti delle istituzioni, una rassegna cinematografica, uno spazio per i bambini, una mostra fotografica, uno showroom sull’innovazione nelle rinnovabili. E ci si potrà rifocillare fra ristoranti e bar biologici, o degustazioni di prodotti Dop e a km zero. Qualche centinaio di km più a sud, dal 16 al 29 luglio, i riflettori saranno puntati sulla legalità con Otranto Legality Experience, due settimane di formazione sui temi della criminalità organizzata, della finanza internazionale e del traffico di droga e armi. Si inizia a Lecce con la summer school per gli studenti universitari e l’Ole Summer Camp ; e si conclude a Otranto con l’Ole Public Forum, una due giorni di dibattiti con ospiti italiani e internazionali. Non mancano, dunque, le occasioni per trascorrere le vacanze con un occhio di riguardo per l’ambiente e l’etica: mentre ci si prepara agli appuntamenti di settembre, come So critical so fashion , l’evento milanese dedicato alla moda sostenibile, o L’Isola che c’è, la fiera dell’economia solidale di Como. [V.N.]

A VARESE IL CAVALLO TORNA A LAVORARE NEL BOSCO Una volta erano i cavalli da tiro che trasportavano i tronchi a valle, affrontando fronti scoscesi e strade di difficile accesso nel bosco. Poi sono arrivati i mezzi motorizzati e con loro sono state abbandonate pratiche agronomiche e forestali che si basavano sull’utilizzo degli animali. Un progetto, realizzato in provincia di Varese dall’azienda agricola Broggini, ha riportato un esemplare di cavallo norico italiano a lavorare nel Parco del Campo dei Fiori. L’animale è stato utilizzato per il trasporto del legname dal punto di caduta fino al punto di raccolta per i mezzi motorizzati. Un’esperienza che è stata l’occasione per recuperare saperi contadini e nozioni proprie dell’agronomia classica in grado di ricomprendere aspetti economici, etici, paesaggistici, ecologici e sociali. «Il cavallo nel bosco – spiega Giovanni Nicolini del Distretto rurale – apre una prospettiva agronomica multidisciplinare che mira a una sostenibilità complessiva». Il progetto, raccontato nel documentario di Marco Tessaro “Piano piano piano!”, è anche una storia di persone: Piero, che lavora insieme alla cavalla in compagnia dei suoi cani, ricerca un rapporto senza filtri con la natura e i suoi cicli, e Massimo, che da anni coltiva un pezzo di terra vicino alla città per cavarne un reddito e per fare cultura della preservazione dei cicli naturali. [M. MA.]

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 67 |


| ECONOMIAEFINANZA |

| NARRATIVA |

a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

KRUGMAN: CONTRO LA CRISI L’AUSTERITY SBAGLIA

IL FUTURO HA BISOGNO DEL PASSATO

Paul Krugman Fuori da questa crisi, adesso! Garzanti, 2012

La crisi finanziaria, a partire dal 2008, non è scomparsa nemmeno per un giorno dai dibattiti e dalle prime pagine. Di norma ci si chiede come sia potuto accadere o cosa si possa fare per prevenire un nuovo tracollo. Ma il premio Nobel per l’economia Paul Krugman è pragmatico: prima di tutto bisogna uscire dalla crisi. E uscirne “adesso”. Il primo passo è quello di ammettere che siamo nel pieno di una fase di depressione. Lo dimostrano la disoccupazione e l’enorme potenziale economico andato in fumo: non solo perdite finanziarie, ma beni che non sono stati prodotti e profitti mai realizzati. Una situazione che Krugman definisce «inaccettabile» e che «sta creando un danno colossale sul piano umano». Il secondo passo è quello di riconoscere che anche in questo caso i danni – per quanto gravi – sono stati scatenati da motivi di per sé semplici, che si potrebbero risolvere se ci fosse la giusta coscienza e volontà politica. Lo scenario economico attuale, secondo il premio Nobel, è molto simile a quello degli anni Trenta. Dunque le possibili soluzioni sono già state trovate: a partire dalle politiche keynesiane. Ma i governi spesso lo dimenticano per preferire l’austerity, andando contro alle tesi di Keynes per cui si tratta di una politica che «va praticata nelle fasi di espansione, non in quelle di crisi».

Edoardo Nesi Le nostre vite senza ieri Bompiani, 2012

Edoardo Nesi ha già vinto il premio Strega nel 2011, raccontando la storia secolare della sua gente, imprenditori e lavoratori del distretto tessile di Prato. Una storia fino a ieri gloriosa, fatta di bellezza e ricchezza, ma sulla quale ha impattato la crisi economica, lasciando nei capannoni vuoti il suo carico di incertezza e paura. Che cosa fare di fronte a questa situazione? Nesi ha scritto un secondo libro che prova a dare delle risposte, a indicare una via cogliendo i segni del futuro che accarezzano già il presente. C’è la preoccupazione per ciò che faranno i figli in un mondo dominato da una competizione esasperata. E al tempo stesso c’è l’entusiasmo per ciò che avanza sull’onda della banda larga e della rete. La bellezza di questo libro sta anche nel modo in cui è scritto. La sociologia e l’economia aziendale, tradotte da una penna che sa fare letteratura, diventano di colpo le discipline più poetiche del mondo.

E SE IL DEFAULT FOSSE IL MALE MINORE?

LE NUOVE REGOLE ANCORA NON CI SONO

I DEBITI VANNO RIMESSI AI DEBITORI

IN VIAGGIO CON SE STESSI E LA NATURA

L’UOMO DELLA TORRE HA DETTO NO

SPARITO NELL’IMMENSITÀ DEL NORD AMERICA

Perché dovremmo pagare i debiti contratti a causa della miope ingordigia di un sistema finanziario senza regole e senza scrupoli? Perché dovremmo avallare ulteriori tagli alle politiche sociali e previdenziali, e nuove riforme di stampo liberista in nome della solvibilità del debito pubblico? A domandarlo è l’economista francese François Chesnais, docente all’Università di Paris XIII. Il suo libro, oltreché una presa di posizione decisa a favore del “diritto all’insolvenza”, è un piccolo manuale utile per ricordare, comprendere e analizzare le tappe che hanno portato alla crisi degli ultimi anni. Il dito dell’autore è puntato dritto contro hedge funds, speculatori, banche. E contro i governi che non ne hanno contrastato i comportamenti bulimici, autoreferenziali, contrari all’interesse delle collettività. Generando un sistema che è inutile regolamentare, «perché questa finanza non è riformabile».

Ci vogliono o non ci vogliono nuove regole per regolare i mercati? Da più parti e a più livelli sono state invocate, ma non sono ancora arrivate e tutto è ripreso come prima. Le macerie create da una finanza spregiudicata e senza paletti sono ancora lì da vedere perché la ricostruzione non è ancora cominciata e forse, stante le attuali condizioni politico-economiche, non inizierà mai. Le autorità di vigilanza, confidando nelle vecchie regole, hanno creduto che i problemi potessero essere risolti dall’autoregolamentazione, come se l’inerzia degli eventi fosse sufficiente a provocare il cambiamento. Questo atteggiamento, alimentato dalla pressione delle lobby finanziarie, è stato il principale responsabile della mancata scrittura delle nuove regole. Il nesso fra banche e politica era troppo forte perché la crisi, per quanto grave, potesse spezzarlo.

L’istituzione del debito secondo David Graeber è anteriore alla moneta e da sempre è oggetto di aspri conflitti sociali: in Mesopotamia i sovrani dovevano periodicamente rimediare con giubilei alla riduzione in schiavitù per debiti di ampie fasce della popolazione, per evitare rivolte sociali. Da allora, la nozione di debito si è estesa alla religione come cifra delle relazioni morali («rimetti a noi i nostri debiti») e domina i rapporti umani, definendo libertà e asservimento. Mercati e moneta non sorgono automaticamente dal baratto, come sostengono gli economisti fin dai tempi di Adam Smith, ma vengono creati dagli Stati, che tassano i sudditi per finanziare le guerre e pagare i soldati. In quest’ottica, il conio della moneta si diffonde per imporre la sovranità dello Stato e assicurare il pagamento uniforme dei tributi. L’economia commerciale, basata sulla calcolabilità impersonale, eclissa così le economie umane, basate sulla reciprocità personale.

Lasciare tutto, casa, lavoro e affetti, e mettersi in viaggio a piedi, con un cavallo e due cani. Una decisione dettata dalla voglia di andare a trovare un amico, ma che in realtà è una ricerca di senso in un’esistenza dove i ritmi sono dettati da logiche poco naturali. Il mondo e il tempo possono dunque stare fuori solo a guardare, perché Piero Bossi non ha telefonino, orologio, bussola e nemmeno Gps. «Io vado in mezzo alla natura ed è lei che decide come me la devo cavare». Sarà il battere dei loro cuori a cadenzare passo dopo passo una strada che li porterà da Samarate, in provincia di Varese, alle colline senesi e poi ancora su fino a Verona. Piero non parla mai al singolare, ma usa sempre il plurale, perché i suoi compagni di viaggio non sono delle semplici comparse ma la sua famiglia. «Volevo stare di fronte alla natura senza nulla, nudo, come una pianta d’autunno quando perde le foglie, spoglio di tutto. Essere proprio alla pari: non volevo niente che mi desse un vantaggio».

C’è sempre qualche ricco che riesce a comprare i sogni degli altri. Succede a Roma e succede a Mumbai. Il costruttore Dharmen Shah fa un’offerta ai condòmini del Vishram, una delle storiche società di housing, perché lì al posto del vecchio stabile vuole costruire un grattacielo con appartamenti di lusso. E, per farlo, è disposto a offrire il doppio della quotazione di mercato. È previsto anche un regalino extra per invogliare i dubbiosi e per ammorbidirli ci sono le minacce del truce braccio sinistro Shanmugham che ha il compito di sfrattare con le cattive maniere i residenti. La condizione però è che l’offerta sia firmata all'unanimità. Nel condominio sono tutti rispettabili, ma sempre poveracci sono e quindi secondo il costruttore tutti accetteranno. Tutti tranne uno. L’ultimo uomo nella torre, l’integerrimo, l’inamovibile, che per gli altri occupanti del Vishram diventerà l’ostacolo che si frappone alle loro speranze di felicità.

Anche se Alberto Fuguet è cileno e il titolo del suo romanzo è Missing , non bisogna pensare che le ragioni per cui Carlos è sparito siano legate al regime di Pinochet. Carlos è un figlio difficile che un giorno decide di fare fagotto e andarsene da casa. Un immigrato latino, perso nell’immensità del Nord America, diventa un fantasma, un nome sussurrato nei pranzi di famiglia, un telefono che squilla e nessuno che risponde, una serie di ipotesi lasciate in sospeso. Trent’anni dopo, suo nipote Alberto decide di cercarlo e inizia a rimettere assieme i tasselli della sua vita intraprendendo un viaggio fisico e psicologico che lo porterà da Santiago del Cile alle sconfinate pianure statunitensi. L’autore mescola, somma, sottrae, gioca con la finzione e la realtà per fare di una storia familiare il suo romanzo più audace e personale.

David Graeber Debito Il Saggiatore, 2012

Piero Bossi, Linda De Angelis Quattro animali in viaggio Mauro Pagliai Editore, 2011

François Chesnais Debiti Illegittimi e diritto all’insolvenza Derive Approdi, 2011

| 68 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

Marco Onado Finanza senza paracadute Il Mulino, 2012

Aravind Adiga L’ultimo uomo nella torre Einaudi, 2012

Alberto Fuguet Missing La Nuova Frontiera, 20122

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 69 |


| FUTURE |

| TERRAFUTURA |

a cura di Francesco Carcano | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

CITTÀ MEDIATICHE E LUMINOSE

IN TOSCANA IL BIOLOGICO È SOTTO CASA L’appuntamento alla Triennale di Milano, organizzato da Francesco Casetta dell’Università di Yale, ha coinvolto decine di studiosi di facoltà universitarie di tutto il mondo. Per una volta il fenomeno delle architetture medializzate è stato così analizzato in forma interdisciplinare, oltre agli specifici ambiti di utilizzo finora sperimentati. Sono ormai decine le strutture medializzate di grande superficie in tutto il mondo e anche l’Europa timidamente si affaccia al fenomeno. Ma, una volta medializzata la struttura, cosa farne? Per rispondere a questa domanda è nata in Italia un’associazione, Screen City, che coinvolge decine di accademici di tutto il mondo per indagare il fenomeno delle mediafacade. Oltre i giochi futuristici di luci e colori, a cosa possono servire queste architetture? Le agenzie di pubblicità propongono spot televisivi riadattati per vendere abiti e automobili. Le avanguardie sensori e referendum tra i cittadini che possono votare tramite cellulare. Amnesty International realizza un esperimento e permette alle persone presenti su una piazza di interagire con un grande screen , solitamente utilizzato per fini commerciali. Con un tocco delle dita si libera un prigioniero di Guantanamo, con una penna digitale si firma e invia una petizione via e-mail al presidente degli Stati Uniti Obama ricordando quanto promesso in campagna elettorale e mai attuato: la chiusura del centro illegale di detenzione. Pubblicità o partecipazione?

LÈGOLOGICA LA CASA DI MATTONI VUOTI L’hanno chiamata Lègologica perché come nel giocattolo Lego la casetta può essere assemblata con tanti mattoni. La particolarità è nel rapporto che si crea con il territorio perché Lègologica è composta di mattoni vuoti che devono essere riempiti in loco con materiali di scarto. I progettisti Simone Ardigò, Francesco Bombardi e Andrea Bercianti suggeriscono pietre o pigne, arbusti o terra). La pavimentazione è rivestita di elementi radianti, il tetto di pannelli fotovoltaici e si utilizzano tecnologie di fitodepurazione delle acque. Prevista la possibilità di una certificazione energetica in classe A se vengono utilizzati i corretti materiali per il riempimento dei mattoni, privilegiando materiali naturali a forte coefficiente di isolamento. In mostra al Maxxi di Roma la casetta Lègologica si candida a essere utilizzata in caso di emergenza per la facilità di trasporto delle materie prime e di assemblaggio in loco.

| 70 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

PORN STUDIES ANCHE IN ITALIA Il campo di studio è relativamente nuovo per l’Italia e il Dams di Gorizia sta inaugurando una propria strada di ricerca. Nel mondo anglosassone invece i Porn Studies non sono considerati ricerche per persone solitarie, ma oggetto di studio sociologico per analizzare l’impatto sui comportamenti della rappresentazione sessuale del rapporto tra esseri umani. Tra antropologia, mitologia, sociologia e psicoanalisi, i Porn Studies cercano delle chiavi per spiegare la fascinazione che il fenomeno della pornografia esercita sulla psiche umana, al di là dei giudizi morali individuali. Utilizzando l’analisi di autori come Linda Wiliams, docente a Berkeley, l’ambito di ricerca spazia dal cinema al femminismo indagando le differenze di genere, dei ruoli, e il rapporto tra la pornografia come strumento di sottomissione e mercificazione oppure anche, come sostengono non più sporadiche avanguardie in ambito culturale, strumento di rivendicazione di parità sessuale tra genere e libertà di esplorazione di parti sottaciute del “Sé”.

SOCIAL NETWORK PER FORMICHE Cosa meglio del formicaio per descrivere il comportamento degli esseri umani alle prese con le comunicazioni tramite social network? SoSaCO è un algoritmo sviluppato dall’Università di Madrid Carlos III. Partendo dall’analisi del comportamento delle formiche nella ricerca di cibo, l’algoritmo consente di accelerare la ricerca di percorsi comuni tra due utenti dello stesso social network comprendendo e successivamente prevedendo i percorsi di ricerca. Ovvie le conseguenze commerciali e l’impatto sulla previsione di interessi. Come sempre, tuttavia, queste ricerche aprono il campo anche a utilizzi meno commerciali che pongano la tecnologia al servizio del progresso e della democratizzazione dal basso. In particolare l’algoritmo potrebbe avere interessanti utilizzi nell’ambito del potenziamento delle interrelazioni tra utenti di social network diversi ma che presentano sentieri comuni di ricerca o nella personalizzazione di motori di ricerca.

Negozi che propongono prodotti esclusivamente biologici e a km zero, innanzitutto. Ma anche punti di riferimento per seminari, visite organizzate alle aziende agricole, degustazioni e, in generale, «attività volte a promuovere – sintetizza una delle coordinatrici, Giada Ciari – il biologico come stile di vita». Si possono descrivere così i punti vendita di Fresco in città: il primo è stato aperto a Livorno nel 2009, ma il progetto ha avuto successo, tanto da espandersi anche a Firenze e Pisa. Tutto ruota intorno a una srl, fondata dall’ideatrice Lucia Catalano, a cui partecipano come soci tanto i produttori (tutti certificati biologici) quanto i gestori dei punti vendita. Si è così creata una vera e propria rete che accorcia la filiera tagliando vari passaggi della distribuzione, abbassa i prezzi per i consumatori e garantisce, nei negozi, posti di lavoro anche a persone svantaggiate. www.frescoincitta.it

GROW THE PLANET IL FACEBOOK DEGLI ORTI IN CITTÀ

IL CAFFÈ SOLIDALE CHE ARRIVA DAL MESSICO

LA MODA CHE NASCE DALLE CAMERE D’ARIA

Una piattaforma web veloce, accattivante, votata alla condivisione, che cavalca la moda dei canali social. Ma la terra e i frutti sono tutt’altro che virtuali. Si chiama Grow the Planet il progetto nato da H-Farm – l’incubatore che nei suoi primi sei anni di vita ha già aiutato 32 start-up – e adottato da Slow Food. In poche parole, è un social network nato per far conoscere e comunicare tutti coloro che hanno deciso di ritagliarsi un po’ di tempo ed energie da dedicare alla cura dell’orto. E che magari hanno bisogno di consigli pratici, ma anche solo di chiacchierare con qualcuno che, come loro, ha voglia di crearsi un piccolo angolo verde in città. Con la geolocalizzazione si può creare facilmente una “comunità” di persone che vivono nella stessa zona, da incontrare di persona per scambiare sementi e prodotti dell’orto, ma anche per visite e degustazioni. Una sezione del sito è dedicata a Orto in condotta, il progetto educativo di Slow Food incentrato sulla coltivazione dell’orto scolastico, che prevede percorsi formativi dedicati non solo agli studenti ma anche alle loro famiglie e agli stessi insegnanti. www.growtheplanet.com

«Commercio equo, solidale e politico». Così Matteo riassume, in poche parole, il progetto dell’associazione Ya Basta!, che ormai da dieci anni importa il caffè prodotto dalle cooperative nelle zone insorte del Chiapas. E che, passo dopo passo, è diventato un punto di riferimento per i Gas e le botteghe di commercio equo di tutt’Italia. D’altronde, si tratta di caffè verde di alta qualità, 100% arabica. Ma, cosa ben più importante, il progetto è interamente no profit: tutti i proventi vengono utilizzati per sostenere un progetto sanitario e uno didattico autonomi per le popolazioni del Chiapas, che nel sistema statale subiscono pesanti discriminazioni in quanto indigene. Per completare la filiera, la torrefazione è stata affidata a un laboratorio molto particolare: quello della cooperativa Pausa Cafè, che opera all’interno del carcere di Torino. E ad addolcire le tazzine ci pensa la sede emiliana di Ya Basta!, che porta in Italia lo zucchero dei Sem Terra, il più grande movimento contadino brasiliano. www.caffezapatista.it

Gli sguardi di chi si avvicinava allo stand, a Fa’ la cosa giusta!, erano incuriositi. D’altronde non potrebbe essere altrimenti quando ci si trova davanti all’inconfondibile gomma nera delle camere d’aria trasformata in decine di borse di varie forme e dimensioni. Sara, che vive dalle parti di Lecco, ha imparato da sola, senza bisogno di corsi: «Ho sempre vissuto con gente che lavorava la pelle – racconta – e mi sono resa conto che potevo occuparmi delle camere d’aria con gli stessi strumenti, semplicissimi: una fustella, un ago con la punta tonda, un filo cerato, le pinze… Quindi mi sono detta: perché non provare?». A quel punto ha iniziato a recarsi periodicamente nelle officine dei gommisti, per chiedere le camere d’aria danneggiate di auto e camion, che andrebbero buttate perché non possono più essere recuperate. Sara le taglia, le lava, progetta le borse e le cuce: un processo del tutto artigianale, che gestisce da sola. Per poi dedicarsi alla vendita, presso fiere e mercatini a sfondo equo e solidale. sara@drspreafico.it

| ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 71 |


| bancor |

L’illusione della liquidità

E se all’Europa servisse un effetto-Lehman?

| 72 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

I

dal cuore della City Luca Martino

di quello che pochi mesi dopo divenne il più grande piano di sostegno del sistema bancario americano, il Tarp, sul cui esatto ammontare aleggiano oggi molti più dubbi che certezze: fonti “ufficiali” parlano di quasi duemila miliardi di dollari, ma Bloomberg, incrociando documenti del governo resi pubblici solo pochi mesi fa, azzarda una cifra vicina agli ottomila miliardi di dollari, più della metà di tutto il Prodotto interno lordo statunitense. Molti, anche tra i più ortodossi economisti del partito repubblicano, ritennero necessario il salvataggio di Bearn Sterns, giudicata da Fortune – insieme a Lehman Brothers (!) – la migliore società di investimenti di Wall Street per “spirito d’innovazione e controllo di gestione”, anche se in pochi sapevano davvero come in poche settimane si fosse potuto erodere un capitale di 70 miliardi di dollari per le sole perdite dei mercati secondari su quei mutui subprime di cui la banca era “specialista”. Dopo pochi mesi è il turno di Fannie Mae e Freddie Mac – le mega agenzie di cartolarizzazione di prestiti ipotecari che in quegli stessi mercati stavano perdendo cifre anche maggiori – e poi ancora di un migliaio di altre banche, fondi e assicurazioni, tutti alle prese

Ultimi beneficiari oggi dei vari piani di intervento sponsorizzati dal Consiglio Europeo, Bankia e tutte le principali banche spagnole. Domani, probabilmente, sarà la volta delle banche cipriote, di quelle portoghesi, ungheresi e poi ancora di quelle degli altri Paesi del blocco ex-sovietico. Tutto pur di non rivivere l’esperienza del fallimento di un nostro istituto di credito, anche il sacrificio di non si sa quante generazioni, sulle cui spalle graverà il peso di questo incalcolabile debito pubblico che noi (i nostri figli e nipoti), noi sì ripagheremo, per intero e con l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio. Gli americani, da questo punto di vista, godono paradossalmente di un piccolo, ma forse decisivo, vantaggio: è il monito dell’effetto Lehman e di quelle altre 500 banche lasciate fallire nei 52 Stati dell’Unione. Nei 17 Paesi dell’area euro, invece, solo salvataggi: la paura di fare i conti con il default di una grande banca, con i dipendenti che escono con gli scatoloni in braccio dai propri uffici, ci ha fino ad oggi impedito di chiederci fino in fondo cosa sia realmente successo, magari in un’aula di tribunale o in qualche inchiesta televisiva. Crediamo sia la nostra ancora di salvataggio, potrebbe rivelarsi invece la nostra ultima illusione. 

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

n principio fu Bearn Sterns, storica banca d’affari di New York, che aveva attraversato indenne, senza mai un rosso né il licenziamento di un solo dipendente, eventi epocali come la recessione degli anni Trenta, la seconda guerra mondiale, la crisi energetica. Era il marzo del 2008 e il Tesoro presta a JP Morgan, per l’acquisto di Bearn Sterns, i primi 30 miliardi di dollari

La scelta di evitare ad ogni costo i fallimenti bancari potrebbe rivelarsi illusoria con inaspettate crisi di liquidità (aggravate peraltro dai meccanismi “stigmatici” del credito interbancario). In Europa accadeva qualcosa di molto simile: tocca per prima a Northern Rock, una piccola banca inglese che si finanziava come una merchant bank e investiva su mutui al 125% del valore degli immobili. Poi a Lloyds e a Royal Bank of Scotland, banche ancora oggi capitalizzate con i fondi del governo. E ancora a quasi tutte le principali banche irlandesi, islandesi e molti grandi istituti francesi, tedeschi e italiani (per non parlare della Grecia!). E tutte le autorità bancarie europee, la Banca Centrale in primis, prestatori a fondo perduto o a costo zero di aiuti per un importo anche superiore al Tarp.

todebate@gmail.com | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 | valori | 73 |


| action! |

L’AZIONE IN VETRINA WAL-MART 12 giug 2012:

WMT 67,72

Il rendimento in Borsa di Wal-Mart negli ultimi dodici mesi, confrontato con l’indice Down Jones Industrial

^DJI 12573,80

25% 20% 15% 10%

0% -5% -10%

2011

Ago

Set

Ott

Nov

Dic

2012

Feb

Mar

Apr

Mag

Giu

a cura di Mauro Meggiolaro

n anno così non si era mai visto. 13% di voti contrari alla rielezione del presidente di Wal-Mart Robson Walton. E 13% contro il Ceo Mike Duke. Gli azionisti attivi, coalizzati con gli investitori istituzionali, non hanno proprio digerito le voci, riportate dal New York Times, sui gravi casi di corruzione che avrebbero coinvolto la compagnia in Messico a metà degli anni 2000. Se si eccettuano i voti espressi dalla famiglia Walton, che detiene oltre il 47% del capitale, la percentuale degli azionisti non appartenenti alla famiglia che si è espressa contro la rielezione dei manager sale al 35% (nel 2011 fu pari al 2%). «Insieme ai successi alle assemblee di Citigroup e Goldman Sachs, possiamo dire che quest’anno l’azionariato attivo è arrivato a una svolta», ha dichiarato Laura Berry, direttore generale di Iccr. «Il piano di remunerazione di Citigroup è stato rigettato dal voto consultivo degli azionisti. Stiamo raggiungendo un punto nel quale la democrazia sta iniziando a infiltrarsi in tutte le aree che in passato sono state trascurate dai cittadini, come la finanza o la partecipazione degli azionisti. Il movimento Ows è lì a dimostrarlo». 

U

| 74 | valori | ANNO 12 N. 101 | LUGLIO/AGOSTO 2012 |

L’AZIONISTA DEL MESE

La svolta degli azionisti attivi USA

UN’IMPRESA AL MESE

FONTE: THOMSON REUTERS

5%

Iccr

www.iccr.org

Sede New York - Stati Uniti Tipo di società Coalizione di 275 investitori istituzionali religiosi, oltre a società di gestione del risparmio, società di rating etico e fondi. Asset gestiti Circa 100 miliardi di euro L’azione su Wal-Mart All’assemblea degli azionisti di Wal-Mart del giugno 2012 gli investitori religiosi di Iccr si sono coalizzati con altri azionisti attivi e con una serie di investitori istituzionali raggiungendo uno storico 13% contro la rielezione di Mike Duke alla guida della società. Il voto contro Duke è stato motivato da uno scandalo di corruzione e tangenti rivelato dal New York Times nel quale Wal-Mart sarebbe stata coinvolta nel 2011. Altre iniziative I membri di Iccr partecipano e presentano mozioni alle assemblee di oltre 200 imprese americane ogni anno. Nel 2012 hanno avuto un grande successo le mozioni presentate alle assemblee di Citigroup (sulle paghe dei manager) e Goldman Sachs.

Wal-Mart

www.walmart.com

Sede Bentonville (Arkansas - Usa) Borsa Nyse - Borsa di New York Rendimento negli ultimi 12 mesi +26,76% Attività Wal-Mart è la più grande catena di supermercati e il più grande datore di lavoro del mondo. Azionisti Walton Enterprises, Llc, società che appartiene alla famiglia del fondatore Sam Walton: 47,29%. Perché interessa agli azionisti responsabili? Wal-Mart è storicamente sotto attacco da parte degli investitori responsabili per le relazioni con i dipendenti e il comportamento ostile ai sindacati. Nel 2012 un articolo del New York Times, che citava fonti aziendali, ha accusato Wal-Mart di essere stata implicata in un grave caso di corruzione in Messico nel 2005 al fine di ottenere licenze per la costruzione di centri commerciali nel paese. Wal-Mart ha più volte ribadito la correttezza del suo operato. 2010

Ricavi [Miliardi di dollari] Numero dipendenti

2012

421,849 446,950 2,2 milioni

Utile [Miliardi di dollari]

2010

2012

16,389

26,558



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.