Mensile Valori 102 09/2012

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 102. Settembre 2012. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

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Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Decrescita forzata Lavoro, welfare, redistribuzione. Una teoria che non critica il sistema Finanza > Sei mila miliardi di derivati nelle casse delle banche europee. Enormi i rischi Economia solidale > Caccia al petrolio nei mari italiani. Le lobby ringraziano Passera | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | dei diamanti Internazionale > Da mezzo della malavita a semiconduttore: la magia


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La teoria del prozac sociale? la redazione

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Editoriale e dossier sono di assoluta pertinenza e responsabilità del Direttore responsabile e della Redazione e non rispecchiano, necessariamente, le opinioni del comitato editoriale e dell’editore

complesso affrontare un tema come quello della decrescita, al quale dedichiamo il dossier di questo numero, perché si tratta di dare forma alle conseguenze di una teoria. Partiamo dall’inizio: il Pil del mondo è in decrescita e larghe fasce della popolazione mondiale perdono le fonti di sostentamento e il futuro, sotto la spinta della più gravi crisi della storia del capitalismo. Ma, attenzione, calano solo le condizioni di vita delle classi subalterne: tra i primi anni ’90 e il 2007, in 51 Paesi sui 73 per i quali si dispone di dati, la quota dei salari sul Pil è scesa in media di 13 punti percentuali per l’America Latina e caraibica; di 10 punti in Asia e nei Paesi del Pacifico; di 9 punti nelle economie avanzate. I punti persi dai redditi da lavoro sono andati ai redditi da capitale. Cioè chi era povero o stava benino, ora sta peggio; chi stava meglio, ora sta molto meglio. Il sociologo Luciano Gallino, che ha fornito questi dati, dice «è la lotta di classe condotta dall’alto verso il basso». Come rispondono alla crisi – che è intrinseca al capitale e non un episodio occasionale – i governi europei, dell’area portatrice del più avanzato modello di welfare? Con politiche economiche recessive, tagliando il welfare e i diritti. E in Italia, portando un attacco frontale a quanto resta dello Stato come pratica della nostra Costituzione che – ricordiamolo – è sociale, per questo produce servizi di carattere universale, non mette al centro la proprietà privata, ma il lavoro e quindi, ha detto Berlusconi, «è bolscevica». Riduzione del welfare e decrescita del Pil sono due elementi base della teoria della decrescita, ma sono obiettivi controproducenti per i lavoratori, se non si prende coscienza che c’è una ristretta classe che decide per tutti, solo in base al proprio profitto. L’attacco che stiamo subendo non è nuovo, l’hanno già vissuto i cileni, gli argentini, i russi, i polacchi, il Sud del mondo, come raccontano sia Jean Ziegler in La Privatizzazione del mondo, che Naomi Klein in Shock economy. Si tratta di svuotare le tasche dei ceti medi, dei più poveri “che hanno poco, ma sono molti” e in questo sfruttare i principi della “coda lunga”. Cambiano solo i metodi: dove i cittadini sono più reattivi si usano le maniere forti delle camere di tortura e dei carri armati. Dove la popolazione ha plasmato il suo agire sul pensiero debole, si è rinchiusa nel proprio orticello o segue in politica comici pifferai, basta raccontare le favole. Basta accennare qualche elemento suggestivo, che sembri rispondere alle nostre istanze ed ecco che la nostra mente colma i vuoti e immagina un mondo migliore. L’ambiente è minacciato, la sovrapproduzione dell’industria capitalistica ci riempie di cose inutili e inquinanti, le ingiustizie avanzano e il futuro è uno spazio sempre più angusto. Tutto vero. Ma come pensare di rispondere a questo tirando la cinghia ancora di più di quello che già la crisi ci impone di fare? Lo scopo del capitalismo non è la produzione, ma il profitto e il capitale sa da molto tempo come produrre profitti dal capitale, saltando la produzione. Quindi a chi giova una filosofia che propone l’autoproduzione come panacea per un sistema economico incapace di re-distribuire reddito in modo equo? Lavorando al dossier di questo numero abbiamo scoperto che la decrescita è condivisa anche dalla massoneria, che nella sua rivista Hiram auspica: «una ideologia compensativa e psicologicamente stabilizzante per la grande età della decrescita che ci aspetta». Viene quindi spontaneo farsi delle domande e rivolgerle agli amici che teorizzano la decrescita: per abbattere il simulacro del Pil è indispensabile teorizzare ideologie stabilizzanti che invitano a rinchiudersi in sé stessi, invece che rivendicare politiche in grado di far compiere all’economia cambiamenti storici epocali e democratici?  | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 3 |


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i nostri titoli non sono tossici Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 102. Settembre 2012. € 4,00 Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 101. Luglio/Agosto 2012. € 4,00

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Finanza > Disastro JP Morgan: 2,3 miliardi di perdite per una scommessa azzardata Economia solidale > Luce e gas: contratti “rubati”. L’Authority interviene, basterà? | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | e alle persone Internazionale > All’assemblea di Eni parla la Nigeria: danni all’ambiente

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Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Flop Olimpiadi Da simbolo di candore a macchina per fare soldi. Metafora della finanza

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GIUSEPPE GERBASI / CONTRASTO

KEYSTONE USA / EYEVINE / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

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Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 100. Giugno 2012. € 4,00

Finanza mafiosa

Decrescita forzata

Strumenti creativi per ripulire i tesori della criminalità organizzata Finanza > Nuove bolle immobiliari pronte a scoppiare: la crisi del mattone non è finita Economia solidale > La guerra non è un buon investimento, l’istruzione conviene di più | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | potuto evitare Internazionale > Grecia fuori dall’euro. Una bomba che l’Europa avrebbe

Lavoro, welfare, redistribuzione. Una teoria che non critica il sistema Finanza > Sei mila miliardi di derivati nelle casse delle banche europee. Enormi i rischi Economia solidale > Caccia al petrolio nei mari italiani. Le lobby ringraziano Passera | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | dei diamanti Internazionale > Da mezzo della malavita a semiconduttore: la magia

rendiamo ren end ndiamo amo odebito pe p per es e esempio p e ili caso o delle c correzioni di bilancio per svincolarsi vn o dalla la trappola paccumulare delle e spirali p pir deficit deficit-debito-interessi-deficit e t interessi nteress d def deficit c t ep ancora r debito. Una correzione ttroppo pp pchd llenta fapp ca mu disavanzi savanzi e debiti debiti; una a correzione correz r one più rapi rap rapida p rischia di mettere re e in n g ginocch ginocchio gino n o l l'economia e econom economia r ritirando t rando il supporto upporto pp d della a domanda da pubb pub p pubblica buna bnac blica ca oup penali pen penalizzando nalizGoldilocks: n la domanda adi privata pr p vata att e con ll'aumento aumento od delle e tasse.. Ci vuo v vuole o e u soluz soluzione one misure d sostegno o eg g o ne i g g l breve brreve e periodo per pe p odo o accompagnate cc mp p g a e da a cred credibili c e b i misure di correzione ne ne n nel lungo g p perio pe per periodo; rio io odo; o odo cioè c oè o misure m sure ch che, c h o adell'età Dfofet come m l aumento dell de e ma età à detti p pe pensionabile, nsionabile, nsionab ns n seffetti offett onab e,i, cu e no n non portano restrizioni oni significative signif significat sducono g gnif cattang iiv v veg ssub subito, to, sono o lente e ente te ib ab mnel ma manifestare nifestare n festare sl'aumento g gli oe gl effetti, d ett et f ab tt le si cumulano uo non nel tempo eera rriducono unormali tangibilmente gibilmente bica lmente esm eno g gli squili squ sq squilibri q ne el e lungo ungo ng p periodo.Questa occaduta Q est e crisi, cr s si, , insomma, n m ha visto all'opera p a i norma rm r m meccanismi s del ciclo, o, o u s e l l'inciampo inciampo nciampo p de della del a a e il l rimbalzo r mba m ba b a zo z de dell della ripresa. Ha chiamato mato m in i c causa u no n non o on t tanto n la a p politica po t ca a hp economica ol "troppo quanto q an anla politica pol t ca caliare vera. v enteress so soluzio soluzioni uzi diGoldilocks richiedono ie ed oideologici, edono di m d media med mediare da are e ffra ra a il "troppo ttro o oppo ppo cald caldo" d e ilonomica troppo pposociale: freddo", ,ad di conciliare iare a ssensi e en g gliliLe i interessi interessi, es a affrontare i dissensi sensi sens se de deo ogici, placare conte nedissensi sfreddo interessi, t iP ess dis eeconte contese e che diventano p più ù intensi tideo ingtempi e di pp d di cr crisi. s la contesa o h e D rfronte Di fron aP q queste d lao politica po tica tti aphaastentato tza a la trovare i ritmi ttmi eip pa passi as grriveli a ef Li troverà? overà? à?an a L'augurio aug gurio gur g ootra è certamente mdz ilssfide questo questo. o.p . oE"70 la a0 speranza speranz an èèche soluzione em trovata a nella non oadeguati. sicostellazione veli effimera eff me e erdella aq qua quanto a un un'altra altra a speranza: sper pipe pianeta p a 70 Virginis V rgin rg g s b b" un pianeta extrasolare xtrasolare x xtraso raso a are a e ne la a coste laz one del d apo p p ’a Ve Verg Vergine; g ne; e scoperto per o n nel 1 1996 fu u battezzato to Goldilocks, perché é non o era né troppo op opp c caldo né troppo p pp l n o c freddo, eddo, eddo e quind quindi potenzialmente potenz almente e ab abitabile. a ttabile l M Ma le forse osservazioni azioni deltroveremo ssa satellite Hipparcos dimostrarono in n seguito che Goldilocks era giorno il giusto mezzo, sia su sk troppo questocaldo. che suMa qualche un altro pianeta. o i K a m i t l U

nuove società

consumi

economia

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spirali ndo il sse. Ci e che, te a uilibri iclo, ca caldo" ontesa quanto ppo arono ia su

settembre 2012 mensile www.valori.it anno 12 numero 102 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Paolo Bellentani, Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Giuseppe Di Francesco, Marco Piccolo, Fabio Silva (presidente@valori.it), Sergio Slavazza direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Giuseppe Chiacchio (presidente), Danilo Guberti, Mario Caizzone direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Alessio Mamo, Laif, Micheal Rubenstein (Contrasto); Andrew Burton, Andrea Comas, Stefano Rellandini, Stringer (Reuters); Tomaso Marcolla abbonamento annuale ˜ 10 numeri Euro 38 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 48 ˜ enti pubblici, aziende Euro 60 ˜ sostenitore abbonamento biennale ˜ 20 numeri Euro 70 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 90 ˜ enti pubblici, aziende come abbonarsi  carta di credito sul sito www.valori.it sezione come abbonarsi Causale: abbonamento/Rinnovo Valori  bonifico bancario c/c n° 108836 - Abi 05018 - Cab 01600 - Cin Z Iban: IT29Z 05018 01600 000000108836 della Banca Popolare Etica Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori + Cognome Nome e indirizzo dell’abbonato  bollettino postale c/c n° 28027324 Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri. chiusura in stampa: 6 agosto 2012 in posta: 24 agosto 2012

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Febbraio 2012, un cartello “se vende” (vendesi) campeggia davanti a un gruppo di edifici nuovi, ma vuoti, a Sesena, città-satellite di Madrid. La crisi spagnola si abbatte sull’edilizia e gli appartamenti restano invenduti. In questo caso i costruttori sono falliti e le banche tentano di recuperare il credito mettendo in vendita gli appartamenti a prezzi stracciati.

globalvision fotonotizie dossier Decrescita forzata Decrescita per tutti, crescita solo per pochi Il Medioevo prossimo futuro Poca teoria, molta pratica. La decrescita secondo i Gas Lavoro e decrescita possono coesistere? Ricchezza sì, ma un po’ per tutti Abbasso il welfare Beni comuni in (de)crescita

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valorifiscali finanzaetica

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Derivati, un Titanic da 6 trilioni di euro De Grauwe: «Se l’Europa preferisce suicidarsi...» Chi finanzia l’economia sana?

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consumiditerritorio ilmondoprecipita economiasolidale

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Trivella libera vuol dire sviluppo? Le attività umane prosciugano il Pianeta Carne insostenibile per l’ambiente e l’economia Made in Italy a rischio/17. La riscoperta dei fagioli (grazie alla crisi) Da carne dei poveri a cibo da ricchi Meno risorse, più innovazione

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internazionale Un diamante è per la vita Kimberly process, un traguardo a metà Mappa. I siti più “brillanti” del mondo Milano Film Festival. Arrivano i Delta boys

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altrevoci bancor

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LETTERE, CONTRIBUTI, ABBONAMENTI, PROMOZIONE, AMMINISTRAZIONE E PUBBLICITÀ Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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Finanza e società

Lo spread della disuguaglianza di Alberto Berrini

1% più ricco della popolazione mondiale nel 2010 deteneva il 39% della ricchezza globale. È questo il risultato distributivo del trentennio liberista che ci sta alle spalle. Negli ultimi 28 anni infatti il reddito dell’1% della popolazione più ricca è cresciuto, in termini reali, del 275%, mentre quello del 20% della popolazione più povera di appena il 18%. Al punto che la ricchezza dei 20 uomini più ricchi del mondo vale quella di altrettanti Paesi, a cui corrispondono 237 milioni di persone. Il patrimonio del messicano Carlos Slim, numero uno in classifica, vale il Pil dell’Ecuador; quello di Bill Gates, numero due, corrisponde al Pil dell’Azerbaigian; quello dell’italiano Michele Ferrero (Nutella!), numero venti, al Pil dello Zambia. Tale livello di disuguaglianza indica che, soprattutto in Occidente, è evaporata la possibilità diffusa di avere una vita migliore. L’inganno liberista è ormai evidente: il ritorno al mercato, seguito al “capitalismo regolato” dei primi trent’anni del secondo dopoguerra, non ha portato i frutti sperati soprattutto per i ceti medi. Anche l’Italia è specchio fedele di questo trend distributivo. Dall’ultima indagine di Bankitalia (del 3 aprile scorso) risulta, infatti, che nel nostro Paese basta il patrimonio dei 10 cittadini più ricchi per uguagliare quello dei 3 milioni di italiani più poveri. Più in generale il 10% delle famiglie più ricche possiede oltre il 40% dell’intero ammontare di ricchezza netta (circa 9 mila miliardi di euro) e il 10% delle famiglie a più alto reddito riceve ben il 27% del reddito complessivo. Nell’ambito dei Paesi sviluppati la principale causa dell’aumento delle di-

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

L’

Il patrimonio dei 10 italiani più ricchi è uguale a quello dei 3 milioni più poveri suguaglianze è il progresso tecnologico (Why Inequality Keeps Rising, Oecd, dicembre 2011, oecd.org). Quest’ultimo rende obsolete mansioni e professioni, sostituisce macchine a uomini e dunque crea una popolazione di perdenti che escono dal mercato del lavoro o ci rimangono con scarso profitto. Detto in altro modo la tecnologia moderna creerebbe una domanda sempre maggiore di lavoratori altamente specializzati e scolarizzati. Dunque le disuguaglianze sarebbero provocate dalla sempre maggior remunerazione delle competenze. In realtà, come ha recentemente fatto notare Paul Krugman, «i notevoli incrementi di stipendio non sono an-

dati ai laureati in generale, ma a un ristretto contingente dei più ricchi (…) I manuali di economia dicono che, in un mercato competitivo, ogni lavoratore viene pagato in base al suo “prodotto marginale”, ovvero l’entità del suo contributo alla produzione totale. Ma qual è il prodotto marginale di un top manager, di un gestore di fondi speculativi o di un avvocato d’affari? Nessuno lo sa per davvero». (P. Krugman, Fuori da questa crisi, adesso!, Garzanti 2012, capitolo V). Come spiegare, in termini economici, che nel 2006 i 25 gestori di hedge fund meglio pagati negli Stati Uniti si sono messi in tasca 14 miliardi di dollari, ovvero tre volte gli stipendi di tutti gli 80 mila insegnanti di New York messi insieme? In realtà recenti studi hanno dimostrato il nesso tra l’aumento della disuguaglianza dei redditi e quello della deregolamentazione finanziaria. Ancora una volta abbiamo a che fare con i fantomatici mercati finanziari, descritti spesso come entità metafisiche che poi si materializzano in concreti avvoltoi della finanza. Ma un altro spread è ormai giunto al punto di rottura: è quello sociale. Si parla spesso di mercato in pericolo, ma il vero dramma si svolge quotidianamente per strada.  | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 7 |


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Un ecovillaggio per condividere Monte Venere si affaccia sul lungolago sopra Maccagno, zona di turismo che dal nord Europa si affaccia in estate sui laghi della provincia di Varese. Spiagge bilingue italiano-tedesche, barche a vela, happy hour con dj la sera. Ma sui monti, dopo dieci minuti di strada ripida di sassi, si sperimenta una vita fatta di condivisione e piccole scelte quotidiane. Erano case di montagna abbandonate. Ora è un ecovillaggio. Flurina è giovane, parla cinque lingue e lo racconta ai visitatori come un punto di partenza seguito ad anni di attivismo e riflessioni. Dalla contestazione al vertice di Davos a sporcarsi le mani per riedificare, accogliere e sperimentare. Con lei altri, donne, uomini e ragazzi. Con il semplice sogno di sperimentare una vita diversa e trasformare le riflessioni, gli studi, la politica in una coerente scelta di vita. L’ente locale è d’accordo, il progetto sembra solido e si sta studiando il contratto di concessione. Vita nuova per l’alpeggio abbandonato. All’insegna di una gentilezza del vivere che lascia piccoli segni tra le pareti di sasso o sull’erba. Per chi visita per la prima volta Monte Venere la “tenda romantica”, zanzariera trasformata in tenda canadese da cui guardare il lago a lume di candela, è un po’ il simbolo di una ricerca di politica e bellezza. L’inverno porterà i primi lavori, i ragazzi provenienti dalla ricca Zurigo hanno incontrato sul loro cammino persone che da anni sognavano di ripopolare le Valli di socialità e condivisione. I Global Native gestiscono un ostello nella montagna a meno di un’ora di cammino. Si sono incontrati con i giovani e concreti sognatori di Zurigo. «Migranti economici, al contrario», scherzano, in fuga dalla Confederazione Elvetica. Grandi progetti, il primo dei quali è vivere con coerenza. E poi imparare a coltivare, riflettere insieme, ospitare chi si affaccia alla vita dopo anni di terapia e comunità, sperimentare forme di permacoltura, raccontare ai bambini cosa significa mungere una mucca. Per ora è una calda estate, poi arriverà l’autunno e la neve dell’inverno. Monte Venere cerca amici con cui condividere questo semplice sogno. [F.C.] [Le case di montagna abbandonate di Maccagno riprendono vita in un ecovillaggio].

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Evasione fiscale Uk Milioni agli “spioni”

[Un paesaggio montano del principato del Liechtenstein, famoso soprattutto come paradiso fiscale. Il segreto bancario qui è per legge assoluto].

LAIF / CONTRASTO

Dallo scoppio della crisi ad oggi la Revenue & Customs britannica, l’agenzia delle entrate del Regno Unito, ha speso più di un milione di sterline sotto forma di ricompense per coloro che hanno fornito informazioni utili per la lotta all’evasione fiscale. Lo ha riferito il quotidiano Daily Telegraph. La pressione sui conti pubblici e le necessità di cassa imposte dalla crisi hanno spronato molti Stati a intensificare il contrasto all’evasione anche ricorrendo all’impiego di gole profonde e insiders. La spesa annuale della R&C’s per questo genere di attività è passata dalle 156 mila sterline circa del 2007-08 alle 374 mila dell’anno fiscale 2011-12 con un incremento di oltre un quinto rispetto all’anno precedente. Una cifra molto vicina al record del 2009-10 quando la spesa per le ricompense ai whistle-blowers toccò quota 384.110 sterline. Erogate in proporzione all’ammontare delle cifre recuperate, le retribuzioni sono molto variabili. Si va dai modesti assegni da 50 pound intascati da centinaia di informatori fino alle mitiche 100 mila sterline incassate da uno sconosciuto banchiere del Liechtenstein che nel 2008 consegnò al fisco un’ambita lista di cittadini britannici detentori di conti segreti nel piccolo principato. Il ricorso alle informazioni riservate ha interessato anche il fisco tedesco. Nell’estate del 2010, il quotidiano Süddeutsche Zeitung sostenne che il governo del Land dello Schleswig-Holstein avesse avviato una trattativa per l’acquisizione di un cd con i dati di centinaia di evasori tedeschi titolari di conti riservati in una banca del Liechtenstein dove già nel 2008, ricordò all’epoca Bloomberg, Berlino aveva recuperato con lo stesso sistema circa 200 milioni di tasse evase. [M.CAV.]

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La Cina, è noto, è uno dei Paesi al mondo che maggiormente contribuiscono al cambiamento climatico e all’emissione di sostanze inquinanti nell’atmosfera. E se già i dati ufficiali non possono che preoccupare, la notizia che il governo cinese sottostimerebbe le proprie emissioni di biossido di carbonio (CO2) di ben 1,4 miliardi di tonnellate annue, può davvero lasciare di sasso. La quantità di CO2 non dichiarata da Pechino, infatti, sarebbe pari a quanto emesso ogni dodici mesi da un Paese come il Giappone. A rivelare l’inquietante sospetto è stata, il 10 giugno scorso, la rivista Nature Climate Change, che ha spiegato come le cifre “mancanti” siano state individuate in un modo estremamente semplice: sommando le emissioni dichiarate da ciascuna provincia dell’immenso territorio cinese e paragonandole con quelle, complessive, indicate dal governo centrale. Va detto, tuttavia, che il dato reale relativo alla produzione di biossido di carbonio da parte del gigante asiatico potrebbe essere una cifra più bassa rispetto a ciò che indicano le amministrazioni locali. L’Istituto per lo Sviluppo sostenibile e le Relazioni internazionali di Parigi (Iddri) ha spiegato che, da un lato, le autorità centrali hanno interesse a presentare dati rassicuranti sul fronte ambientale; dall’altro, al contrario, le province hanno interesse a “esagerare” nelle cifre relative al proprio consumo di energia, dal momento che il giudizio sul loro operato si basa sulle performance produttive. Secondo quanto riportato dal mensile Alternatives Economiques, il governo cinese è cosciente della distanza tra i dati, e la creazione unilaterale di un mercato del carbone andrebbe proprio nella direzione di controllare meglio le emissioni di CO2. Ma occorrerà verificare i risultati alla prova dei fatti dal momento che, finora, Pechino non ha dato prova di grande attenzione nei confronti della tutela dell’ambiente. [A.BAR.]

[In uno dei Paesi più inquinati al mondo, la Cina, è normale passeggiare con una mascherina.].

REUTERS / STRINGER

CO2: emissioni sottostimate in Cina

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dossier

a cura di Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Andrea Di Stefano, Corrado Fontana, Emanuele Isonio e Elisabetta Tramonto

In bicicletta davanti ai resti di uno dei tanti edifici distrutti a Cavezzo, una delle cittadine più danneggiate dal terremoto che ha colpito l’Emilia Romagna a partire dallo scorso mese di maggio

Decrescita per tutti, crescita solo per pochi > 16 Il Medioevo prossimo futuro > 18 Lavoro e decrescita possono coesistere?> 20 Ricchezza sì, ma un po’ per tutti > 22 Abbasso il welfare > 23


ALESSIO MAMO / REDUX / CONTRASTO

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Decrescita forzata Ridurre il Pil, i consumi e, prima ancora, i bisogni. E i posti di lavoro? I servizi pubblici? La distribuzione iniqua della ricchezza? La teoria della decrescita lascia molte domande senza risposta. E, soprattutto, non affronta il problema alla base


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| decrescita forzata |

Decrescita per tutti crescita solo per pochi di Paola Baiocchi e Andrea Di Stefano

econdo il rapporto Ilo 2012 sulle tendenze globali dell’occupazione, nel 2011 il Pil mondiale è decresciuto di un punto percentuale, i disoccupati sono aumentati di 200 milioni dal 2007 e si è drasticamente ridotto il margine di manovra dei poteri pubblici. Pessime notizie per chi vive del proprio lavoro, ma non per i teorici della decrescita che da anni puntano sull’ariete teorico destruens: la crescita del Pil, ossessiva e parossistica, è all’origine di un modello di vita che distrugge l’ecosistema e trasforma gli stessi esseri umani in merce (sia quando sono apparentemente attori come acquirenti di beni e servizi sia quando diventano vittime di un immaginario costruito intorno al possesso di merci). I decrescisti scelgono scientificamente di non mettere in discussione il sistema economico dominante ma attaccano, destrutturandolo, l’icona Pil come emblema di un modello di società più che di economia.

S

Il movimento politico culturale di maggior successo mediatico degli ultimi due decenni protagonista della 3ª Conferenza che si terrà a Venezia dal 19 al 23 settembre. La recessione in corso sta realizzando alcuni dei suoi obiettivi. Ma molti interrogativi incombono

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Movimento d’opinione o politico? La teoria della decrescita è «uno slogan politico con implicazioni teoriche» dice Serge Latouche, l’economista francese che con i suoi libri sull’argomento ha raggiunto il bien vivir e la fama. Una definizione “leggera” che contrasta con gli scenari da fine del mondo dei suoi scritti e con l’augurio per l’Italia, contenuto in una recente intervista a Lettera43, che lo Stato faccia bancarotta «come condizione per trovare le soluzioni». La decrescita è in realtà un programma politico, a cui si richiamano una se-

rie di formazioni quasi mononucleari, che a volte firmano insieme dei manifesti programmatici, aggregandosi attorno a qualche pensatore. In Italia c’è l’appena nato Alba (Alleanza lavoro beni comuni ambiente) che ha tra i fondatori Paolo Cacciari, con diversi professori e giuristi. C’è Giulietto Chiesa e il suo Movimento per l’alternativa, Massimo Fini e il Movimento Zero, il Movimento della decrescita felice di Maurizio Pallante. Si trovano idee decrescenti anche tra i grillini e negli ambiti dell’economia solidale. Uniti e diversi, alcuni di questi parteciperanno alla Conferenza di Venezia critici con gli organizzatori. Come Maurizio Pallante: «Noi abbiamo organizzato decine di circoli in tutta Italia. Chi fa riferimento a decrescita.it, invece, fa un discorso puramente accademico, senza fare alcuna proposta concreta dal punto di vista della politica industriale, della politica economica, dell’organizzazione della società civile, delle politiche assistenziali. Mentre noi ne abbiamo sempre fatto un impegno di carattere concreto». Il movimento ha riscosso negli ultimi anni molti consensi e critiche come quella dell’economista Domenico Moro: «La decrescita è il prodotto più estremizzato di quella teoria ecologista che sostituisce la contraddizione lavoro salariatocapitale con la contraddizione uomo-natura, senza però mettere in discussione la proprietà dei mezzi dei produzione. È il frutto – continua Moro – di una tendenza nata negli anni ’80, nel momento in cui il movimento operaio comincia a inanellare le prime sconfitte e si afferma nei settori di ceto medio-piccolo borghesi.


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VIVERE SENZA PETROLIO: L’ESPERIENZA CUBANA The Community solution è un’organizzazione che studia gli effetti del picco del petrolio e documenta le soluzioni, collaborative e solidali, adottate dai governi locali per il contenimento degli sprechi: ha dedicato un documentario a Cuba dal titolo Vivere senza petrolio, perché dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica (Urss), l’isola ha dovuto convertire in pochi anni produzioni e abitudini. Per non morire di fame Cuba è diventata il più esteso esperimento di vita senza petrolio: 11 milioni di persone per una transition isle dove gestire le poche risorse interne senza conflitti, inventando un’esperienza ora alla studio della comunità internazionale. Tra l’89 e il ’93, con la chiusura decisa da Gorbaciov del Comecon, il Consiglio di mutua assistenza tra i paesi comunisti, Cuba ha perso l’80% dei suoi mercati, mentre il Pil cubano si è ridotto del 34%. In quegli anni l’Urss ha tagliato i rifornimenti di petrolio all’isola da 13/14 milioni di tonnellate l’anno a 4 milioni, bloccando la circolazione di auto e bus e facendo chiudere anche le fabbriche produttrici di fertilizzanti e pesticidi per mancanza di materie prime e combustibili. In quello che ora viene chiamato Período especial, i blackout elettrici potevano durare anche 16 ore al giorno. L’agricoltura cubana, che era la più industrializzata dell’America Latina con produzioni da esportazione, un larghissimo impiego

Distogliendo tutta una serie di settori intellettuali impoveriti, da un approccio più scientifico di critica alla società attuale».

di fertilizzanti chimici, DVD pesticidi e giganteschi trattori sovietici, è stata Faith Morgan, Pat Murphy, convertita all’organico, Bachmann Megan Quinn al chilometro zero, L’esperienza di Cuba ai biopesticidi, Il potere della comunità ai biofertilizzanti, all’uso Macro Edizioni, 2009 degli animali da tiro. Ogni appezzamento in campagna è stato recuperato e assegnato in usufrutto gratuito, mantenendo cioè la proprietà pubblica, con il solo vincolo della coltivazione. Nonostante la crisi e l’embargo Usa che impone dal 1960 durissime sanzioni a chi tratta con Cuba, il Paese socialista non ha tagliato sanità e ricerca: le università cubane durante il Período especial sono passate da 3 a 50, di cui 7 solo a L’Avana. Cuba sperimenta l’istruzione a chilometro zero e arriva a rappresentare l’11% dei ricercatori dell’America Latina, con solo il 2% della popolazione del Continente. Formano più medici di quanti ne servano sull’isola ed esportano dottori in Venezuela in cambio di carburanti. Quale che sia la durata delle riserve petrolifere mondiali, i cubani ci invitano ad andare a trovarli per vedere come si può vivere senza petrolio. Pa. Bai.

Un movimento radical-chic, quindi, e il consenso mediatico degli ultimi mesi confermerebbe questa ipotesi, ovviamente contestata duramente dai soste-

nitori della decrescita che alla conferenza di Venezia faranno i conti con temi hard come il lavoro, i beni comuni, il welfare. 

Ideologia compensativa. Molto di destra di Paola Baiocchi

La decrescita, considerata dai più una teoria “di sinistra”, trova invece sostenitori insospettabili: nella destra francese e nella massoneria La teoria della decrescita è appoggiata con entusiasmo dalla destra filosofale francese di Alain De Benoist. E Serge Latouche ricambia la stima asserendo che la destra ha molte ragioni. Il decrescere trova il consenso anche della massoneria: i primi due numeri del 2012 di Hiram, rivista ufficiale del Grande oriente d’Italia, ospitano un saggio di Giancarlo Elia Valori dal titolo Le società dello spirito, che si conclude così: «Sarà una occasione anche per tutti i movimenti laicisti, da sempre chiusi in una credenza sulle “magnifiche sorti e progressive” sulle quali ironizzava Giacomo Leopardi, a sperimentare una ideologia

compensativa e psicologicamente stabilizzante per la grande età della decrescita che ci aspetta. Sarà un complesso e importante dibattito politico, spirituale, religioso, dopo il quale, per nessuno, niente sarà più come prima». Ma chi è questo Elia Valori, che concorda con lo spirito che la decrescita darebbe alla società? Teorico del dialogo tra cattolicesimo e massoneria, iscritto alla P2, Elia Valori è l’artefice del ritorno di Peron nel 1973: anzi è con lui sull’aereo che lo riporta in Argentina, insieme alla salma trafugata della moglie Evita e Licio Gelli. Funzionario Rai, frequenta Mino Pecorelli, è una fonte dei Servizi segreti militari italiani e a 36 anni è dirigente Italstrade. “Spionaggio e affari. Appalti e barbe finte” si muove in questi ambiti Giancarlo Elia Valori, definito un “professionista del contatto”, più vicino ai poteri forti che si incontrano a Davos che alle esigenze dei lavoratori.

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Il Medioevo prossimo futuro di Paola Baiocchi

L’esaurimento e lo spreco delle risorse umane e naturali non dipende dall’industria in sé ma dall’anarchia di un sistema fondato sulla concorrenza tra imprese capitalistiche e sulla ricerca del massimo profitto ll’interno della teoria decrescista parole come sviluppo, progresso e crescita hanno tutte una valenza negativa. La proposta dei decrescisti è quindi di diminuire drasticamente il consumo di merci e di sostituire la produzione con beni e servizi economici che non abbiano la forma di merce: la decrescita del Pil sarebbe la “negazione del-

A

l’accumulazione” e così si metterebbe in questione la produzione di plusvalore, quindi il capitalismo. «In realtà – spiega l’economista Domenico Moro – il fine del capitale non è il consumo o la produzione, ma il profitto. Infatti in questa fase storica in cui i consumi di massa nei Paesi più avanzati si restringono e l’incidenza della povertà aumenta insieme

alla contrazione del salario reale, crescono i profitti assoluti, quindi la ricchezza dei ricchi e crescono i loro consumi di lusso».

Perché viaggiare? Il modello di società decrescente che in contemporanea arriva da questi teorici e dalla più profonda crisi della storia del capitalismo, parla più di contrazione dei bisogni di base che di riduzione dei consumi: «Per Latouche – riprende Moro – è spreco tutto ciò che non è bisogno essenziale: servirebbero meno paia di

Poca teoria, molta pratica La decrescita secondo i Gas di Emanuele Isonio

La Conferenza di Venezia sarà anticipata dal convegno annuale dei Gruppi d’acquisto solidale: un’occasione per testare la vicinanza dei gasisti alle filosofie decrescenti Non c’è solo la conferenza della Decrescita ad animare la calura tardo-estiva della laguna veneta. Molti dei temi che saranno dibattuti durante l’incontro internazionale saranno anticipati, pochi giorni prima (15 e 16 settembre, Palaplip di Mestre), dal convegno nazionale dei Gruppi d’acquisto e dei Distretti dell’Economia solidale. Inevitabile domandarsi se e quanto i gasisti italiani si sentano parte del movimento della decrescita. E quanto ritengano utile affiancare riflessioni teoriche alle molte pratiche che quotidianamente mettono in atto. Inconsapevolmente decrescenti: a voler riassumere la questione questa potrebbe essere l’espressione più efficace per descrivere il rapporto tra gasisti e decrescita. A pensarla così sono gli stessi

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membri della Rete nazionale dell’economia solidale (che quest’anno festeggia il suo 10° compleanno) e gli organizzatori del convegno di Venezia. «Un riferimento consapevole ed esplicito alla decrescita nelle riflessioni dei gasisti non è diffuso» ammette Davide Biolghini, esponente del Tavolo RES Nazionale. «Non c’è però dubbio che le azioni e l’approccio ai problemi della sovranità alimentari, della gestione dei rifiuti, della mobilità, della socialità siano analoghi». La grande differenza, forse, è nell’importanza che si attribuisce alle riflessioni teoriche. «In molti casi, i gasisti non sono interessati alla teoria e a capire se il loro modo di agire si avvicina più alla filosofia decrescente o ai principi dell’economia civile – aggiunge Andrea Saroldi, referente della Rete GAS – però evidenziano sicuramente l’esigenza di un nuovo modello di progresso. Ma si pongono su un piano molto operativo, caratterizzato da azioni concrete e quotidiane». Un approccio che può essere utile ai teorici della decrescita, per evitare di perdersi in riflessioni di poco conto. «I Gas sono pura pratica» prosegue Biolghini. «Faticano a calarsi nella teoria. Un confronto tra il movimento della decrescita e gasisti può


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Per chi e in che modo produrre «La cosa più urgente in questo momento – secondo Maurizio Pallante – non è ca-

pire qual è la migliore energia, ma fermare gli sprechi energetici nell’edilizia pubblica e privata. In questo sarà fondamentale una tecnologia molto più avanzata di quella attuale». «Sulla prossima fine delle risorse energetiche – dice l’economista Roberto Romano – bisogna fare delle distinzioni , perché le valutazioni vengono fatte sulle disponibilità, in base a costi e conoscenze attuali. Nei prossimi anni vedremo che le stime sulle riserve petrolifere scenderanno da 30 a 20 anni, perché servirà meno petrolio grazie alle rinnovabili. Il petrolio sarà residuale come oggi il carbone: già ora per la Cina l’energia prodotta con l’eolico è più conveniente di quella del gas». «La vera questione da porre – riprende Moro – prima ancora di quanto si produce, è per chi e in che modo si produce. L’esaurimento e lo spreco delle risorse umane e naturali non dipende dall’industria in sé, ma dall’anarchia della produzione di un sistema fondato sulla concorrenza tra imprese capitalistiche e sulla ricerca del massimo e più rapido

giovare a entrambi. I primi possono trovare i loro modelli calati in esperienze reali, utili a provocare cambiamenti concreti. I secondi possono invece riconoscersi in un movimento mondiale che propone una nuova idea di società. E questa maggiore consapevolezza può dare nuova linfa per la riuscita delle loro pratiche». Una speranza condivisa anche da Federico Giaretta, presidente dell’associazione veneziana Aeres che organizza il convegno dei Gas. «Questo confronto può solo far bene, perché può rafforzare le esperienze gasiste, trasformandole in un fenomeno più ampio e strutturato». Catalizzatori della decrescita Le sensazioni degli “addetti ai lavori” sono suffragate anche dai numeri. Quelli raccolti da un team di ricercatrici dell’osservatorio CORES dell’università di Bergamo, impegnate a scattare una fotografia del “fenomeno-Gas” in tutta Italia. Nella TABELLA vengono presentati, in assoluta anteprima per Valori, quelli relativi al capoluogo lombardo. Ma sono sufficienti per evidenziare come, tra gli obiettivi di chi decide di entrare in un gruppo d’acquisto, ci siano molti temi decrescenti. «La forza dei Gas è di riuscire a unire motivazioni individualistiche (tutela della propria salute, del proprio potere d’acquisto) con motivazioni più politiche (stili di vita eco-compatibili, sostegno ai produttori locali, creazione di legami sociali, influenza sulle scelte degli enti locali)», spiega

profitto. Inoltre, dato che la ricerca scientifica non è neutrale, si tratta di stabilire a chi deve andare il surplus che comunque viene prodotto: se manteniamo i rapporti di produzione capitalistica, il surplus sarà controllato dai privati. Se la produzione sarà controllata dai lavoratori liberamente associati – che è poi il socialismo di Marx – ne faranno un uso sociale».

Lavorare di più Nella società decrescente le ore dedicate al lavoro dovrebbe diminuire, assieme alla retribuzione. Ma il tempo liberato dal lavoro verrebbe occupato dall’autoproduzione. Alla quale soprattutto le donne dovrebbero dedicarsi, recuperando tradizioni perse. Quindi oltre a stare tutti a casa, o nel raggio di 30 chilometri dal luogo di nascita per tutta la vita, non si avrebbe neppure la possibilità di scegliere come occupare il tempo liberato. Magari per soddisfare nuovi bisogni, che non necessariamente devono essere inquinanti o inutili, ma magari culturali. 

GAS CHE CAMBIANO LA VITA Com’è cambiato il tuo stile di vita e di consumo dopo aver iniziato l’esperienza in un Gas?

% risposte

Ho aumentato il consumo di prodotti biologici

82,9%

Ho aumentato il consumo di prodotti locali

79,9%

Ho introdotto nella mia spesa detersivi e detergenti ecologici

27,6%

Ho iniziato a evitare di andare al supermercato

40,3%

Ho incominciato ad autoprodurre alcuni cibi (come il pane)

41,1%

Ho iniziato a interessarmi di più ai problemi del mio comune di residenza

23,9%

Ho iniziato a cooperare di più con le persone

40,1%

Mi sento più capace di influenzare la politica

27,2%

Francesca Forno, docente di Sociologia dei consumi e autrice della ricerca. «In questo modo avvicinano alle riflessioni su un nuovo modello di sviluppo, tipiche della decrescita, gruppi di popolazione eterogenei e permettono a tali idee di diffondersi». Non a caso, dopo aver provato a far parte di un Gas, i partecipanti segnalano un cambio nel proprio stile di vita, aumentano il consumo di prodotti biologici e locali. Sperimentano forme di autoproduzione e di riuso, fanno più attenzione all’uso di acqua ed energia. E si finisce poi per cooperare con gli altri cittadini, interessandosi di più ai problemi del proprio territorio.

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FONTE: RICERCA OSSERVATORIO CORES - UNIVERSITÀ DI BERGAMO

scarpe perché ci si dovrebbe stringere tutti attorno al campanile». Per Latouche il viaggio è un di più perché, afferma, «il 99% dell’umanità ha passato la propria vita senza allontanarsi più di 30 chilometri dal proprio luogo di nascita. Quelli che si sono spostati di più, cioè noi, sono solo l’1%. Anche questo è un fenomeno molto recente e la maggioranza delle persone non ne soffrirà». Questo modello elitario di società poggia le sue basi sulla piccola proprietà contadina, localistica e autarchica, nella quale gli scambi tra aree territoriali sono quasi assenti. Dice Domenico Moro: «Di fatto un’economia curiosamente simile a quella medioevale con la quale gli attuali 500/600 milioni di cittadini europei non potrebbero mantenersi». Ancora più curiosamente questo Medioevo produttivo con scarse risorse energetiche, dove si farebbe in casa anche il sapone, dovrebbe essere molto tecnologico.


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Lavoro e decrescita possono coesistere? di Andrea Barolini

i può decrescere salvaguardando i posti di lavoro? Si può ottenere quella profonda trasformazione ipotizzata dai “decrescisti” senza colpire nell’immediato l’occupazione? Il problema è complesso, per gli stessi “obiettori della crescita” (auto-definizione indicata da Serge Latouche) il nodo è uno dei più difficili da affrontare. Se, infatti, l’analisi di ciò che non funziona nel sistema attuale è in gran parte condivisibile – «si è

DATI ISTAT: CONTI PER SETTORE ISTITUZIONALE

Meno consumi, meno produzione. E i posti di lavoro? Il nodo occupazione è uno dei più difficili da affrontare. I decrescisti pensano a un reddito di cittadinanza. Ma, secondo molti, su questo punto non danno risposte concrete

VALORE DELLA PRODUZIONE (M) [in milioni di euro] 2.500.000

177.440 155.594 150.970 402.658 394.028 396.292 139.933 144.320 142.132 1.506.150 1.377.752

2.000.000 1.500.000

146.779

1.000.000 231.408 74.982 796.087 500.000 0

DATI ISTAT: CONTI PER SETTORE ISTITUZIONALE

S

1.287.498

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010

Consumi intermedi (materiali) “c”

Ammortamenti (consumo di capitale) “c”

Redditi da lavoro dipendente

Risultato netto di gestione (plusvalore)

COMPOSIZIONE % DEL VALORE DELLA PRODUZIONE [in percentuale] 100% 90% 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0%

11,7

12,2

11,6

11,2

10,9

10,6

10,7

10,4

10,0

10,0

9,3

8,7

8,6

8,0

7,6

7,5

18,5

18,8

18,5

18,1

18,0

17,7

18,0

6,1

6,1

6,1

5,9

6,1

6,2

17,9 6,2

18,0 6,2

17,8 6,2

17,7 6,1

18,1 6,3

20,0

6,0

17,3 5,9

17,4

6,0

7,2

19,1 7,0

63,7

63,0

63,9

64,7

65,0

66,3

66,0 65,8

65,8

65,9 66,5

67,3

67,6

67,7

65,2

66,4

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010

Consumi intermedi (materiali) “c”

Ammortamenti (consumo di capitale) “c”

Redditi da lavoro dipendente

Risultato netto di gestione (plusvalore)

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cercato di aumentare i nostri bisogni per giustificare l’aumento della produzione», ha ripetuto più volte Latouche – ciò che lascia perplessi molti economisti è la “ricetta” proposta. Nei documenti preparatori alla terza Conferenza internazionale sulla decrescita (Venezia, 19-22 settembre), Paolo Cacciari, ex deputato e attivista, spiega come sia necessario «ridurre l’impiego di lavoro retribuito, senza abbassare le disponibilità monetarie percepite dai lavoratori». Ovvero lavorare meno ma “guadagnare” le stesse cifre. Come? Consumando meno, lavorando meno e diversamente. «Valorizzando i lavori “disconosciuti”, come quelli domestici o di assistenza gratuita», prosegue Cacciari. «O le relazioni comunitarie (volontariato, impegno civile), il tempo impiegato per la formazione e per l’aggiornamento personale».

Un reddito di esistenza Si tratta, dunque, di superare quella mercificazione del lavoro, che dà dignità solo in ragione di un reddito. Ma, concretamente, come si può fare? A ciascuno di noi, infatti, occorre avere di che vivere. E, se anche in una società nuova, basata sulla decrescita, si può immaginare un sistema imperniato su una drastica riduzione dei bisogni (e dei consumi), la trasformazione necessiterebbe di molti anni. Come si può sostenere la popolazione nella transizione? I decrescisti propongono un reddito di cittadinanza (ipotesi comune anche ad altri approcci economici): «Serve un “reddito d’esistenza”, inteso come ridistribuzione della ricchezza sulla base del contributo di ciascun membro della famiglia


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umana al mantenimento e alla riproduzione della vita». L’economista Guido Viale evidenzia una serie di critiche, proprio a partire dagli strumenti che la teoria della decrescita propone: «La decrescita è la descrizione di uno stato ideale, di una società alternativa a quella presente. Non si concentra sulla strada da percorrere. Al contrario da anni insisto sul cosa fare “qui e ora”: una conversione ecologica consentirebbe di porre l’accento sulle misure concrete da attuare. Che non possono limitarsi al reddito di cittadinanza».

Chi guida il cambiamento? Ulteriore aspetto, per nulla secondario, è come, dove e da chi dovrebbe partire il cambiamento. Primo, perché non tutti i soggetti hanno in questo momento la forza economica per “guidare” un processo di decrescita: «Ci sono molte persone, in fondo alla scala sociale, per le quali qualsiasi ipotesi di riduzione ulteriore del proprio stile di vita è semplicemente impraticabile», aggiunge Viale. In secondo luogo, perché occorre prima capire come dar vita alla transizione stessa: «Il rispetto dei limiti ecologici, la giustizia sociale o il riequilibrio economico internazionale non possono bastare: c’è un ruolo fondamentale che deve essere giocato dal conflitto sociale, che deve partire dai luoghi dove esso si genera, dove c’è un rapporto squilibrato tra le classi sociali, tra chi comanda e chi subisce il potere». Ed è proprio su questo che Andrea Montella, storico dei poteri forti e del movimento operaio, pone l’accento, criticando i movimenti per la decrescita: «Quelli inventati dagli obiettori della crescita sono paradigmi utili solo per confondere le idee a chi vuole davvero un cambiamento. Si tratta di intellettuali organici al sistema, che propongono una filosofia di vita rivolta al passato, reazionaria». Un modo, insomma, per illudere che si possa “abbassare la leva” senza mettere, al contempo, davvero in discussione i punti nevralgici dell’impianto economico e produttivo: «Non a caso la decrescita viene sbandierata proprio ora». Ora che il capitalismo è entrato in crisi. 

Hervé Kempf: «L’economia ecologica è la risposta» di Andrea Barolini

Non bisogna puntare a ridurre il Pil, ma eliminarlo come punto di riferimento. E ridurre i consumi materiali ed energetici. La rivoluzione ecologica creerà nuovi posti di lavoro Hervé Kempf – giornalista e scrittore francese, autore di Perché i mega-ricchi stanno distruggendo il Pianeta, e di Per salvare il Pianeta, dobbiamo farla finita con il capitalismo – è un convinto sostenitore di una rivoluzione ecologica. E della necessità di superare il concetto di Pil, sia esso un punto di riferimento per la crescita così come per la decrescita. Ha indicato la necessità di una “diminuzione dei consumi materiali ed energetici”, contrapponendola a una decrescita. Quali sono le differenze? Con “crescita” si intende l’aumento del Prodotto interno lordo. Ma si tratta di un indicatore totalmente falso: pretende di rappresentare lo stato dell’attività economica, dimenticando un elemento che è diventato cruciale: il suo impatto sull’ambiente. Di fatto, occorre abbandonare completamente il Pil come strumento centrale di analisi economica. E dunque, se si abbandona l’idea di crescita del Pil, logicamente anche la decrescita dello stesso indicatore non ha più alcun senso. Al contempo, però, va detto che la crisi ecologica, questione centrale della nostra epoca, è causata dall’eccesso di consumo materiale ed energetico a livello globale. Uno dei rischi, e allo stesso tempo una delle critiche più di frequente formulate all’economia ecologica è il pericolo di non essere in grado di fornire una risposta alla necessità di creazione di lavoro. È chiaro che la questione del lavoro è prioritaria: non è più accettabile che un così grande numero di nostri concittadini sia privato dei mezzi necessari per vivere, e spesso anche della dignità. La prima cosa da dire è che il capitalismo, nel suo stato attuale, è incapace di risolvere il problema della disoccupazione. In questo senso i capitalisti non possono permettersi di criticare gli ecologisti, perché i loro stessi dogmi hanno dimostrato di aver fallito. In quali settori in particolare si potrebbe generare occupazione? Innanzitutto in agricoltura, sempre dimenticata dagli economisti ufficiali, ma che potrà creare moltissimi posti di lavoro, con l’obiettivo di produrre alimenti di qualità, sbarazzandoci di concimi e fertilizzanti chimici. Ma anche il settore dell’energia potrà dare un importante contributo, in particolare per quanto riguarda il risparmio energetico nell’edilizia, così come nelle filiere del riciclaggio, del recupero e della ristrutturazione degli ecosistemi degradati. Un secondo asse è lo sviluppo dei servizi collettivi, che sono essenziali per il benessere sociale, e che il capitalismo punta a ridurre attraverso le privatizzazioni. Perché se il consumo materiale diminuirà, i legami sociali si svilupperanno. La formula è “meno beni, più legami”: così si punterà sull’educazione, la sanità, la cultura. Infine, un terzo asse è quello relativo alla condivisione del lavoro, ovvero a una sua migliore ripartizione. Nell’ambito dell’economia sociale tutti dovranno trovare un impiego stabile.

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Ricchezza sì ma un po’ per tutti di Elisabetta Tramonto

Pensare di ridurre il Pil non è sufficiente, bisogna attuare politiche di redistribuzione della ricchezza, a monte, con un uso adeguato dello strumento fiscale, ma prima a valle, aumentando i redditi da lavoro dieci italiani più ricchi hanno un patrimonio che equivale all’incirca a quello dei tre milioni più poveri. E il 10% delle famiglie più ricche possiede oltre il 40% dell’intero ammontare di ricchezza netta (circa 9 mila miliardi di euro). Lo rivela lo studio “Ricchezza e disuguaglianza in Italia”, di Giovanni D’Alessio, pubblicato ad aprile da Bankitalia. Di fronte a questi dati viene da pensare che più che di crescita e decrescita, sarebbe opportuno parlare di redistribuzione della ricchezza. Se si pensa a come attuarla, viene subito in mente lo strumento fiscale. Ma non è detto che sia il migliore o che sia sufficiente. «Bisogna agire a monte. Il fisco può aiutare, ma ha margini di manovra limi-

I

tati», spiega Alessandro Santoro, professore associato di Scienza delle finanze a Milano-Bicocca. «A monte – continua Santoro – bisognerebbe agire sulla distribuzione della ricchezza tra i fattori che hanno contribuito a produrla, aumentando i redditi da lavoro. Serve una rappresentanza sindacale forte e non bisogna affossare il contratto nazionale, primo presidio redistributivo dei dipendenti, ma anzi, estendere la contrattazione collettiva o altre forme di tutela dei redditi minimi». Ciò detto, una manovra fiscale può contribuire a raggiungere una maggiore equità. «Si può agire in due direzioni. Introducendo forme di tassazione alternative, come una patrimoniale – spiega il

ALIQUOTE E SCAGLIONI DI REDDITO 1976-2011 Anni

Scaglione di reddito inferiore

Aliquota minima %

Scaglione di Aliquota reddito superiore massima %

Numero degli scaglioni

1976-1982

Fino a 1.550

10

Oltre 284.051

72

32

1983-1985

Fino a 5.681

18

Oltre 258.228

65

9

1986-1988

Fino a 3.099

12

Oltre 309.874

62

9

1989

Fino a 3.099

10

Oltre 154.937

50

7

1990

Fino a 3.305

10

Oltre164.388

50

7

1991

Fino a 3.512

10

Oltre 174.407

50

7

1992-1997

Fino a 3.719

10

Oltre 154.967

51

7

1998-1999

Fino a 7.746

18

Oltre 69.722

46

5

2000

Fino a 10.329

18

Oltre 69.722

46

5

2002

Fino a 10.329

18

Oltre 69.722

46

5

2003

Fino a 15.000

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Oltre 70.000

45

5

2005

Fino a 26.000

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Oltre 100.000

39+4(a)

4

2007-2011

Fino a 15.000

23

Oltre 75.000

43

5

| 22 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

professor Santoro – per colpire i redditi che non finiscono nell’Irpef, e quindi non sono sottoposti a una tassazione progressiva: i redditi da capitale finanziario e immobiliari. Per i redditi da lavoro bisognerebbe creare una maggiore progressività, aumentando gli scaglioni e l’aliquota per i redditi medio alti». Senza dimenticare la lotta all’evasione fiscale. «Si è già fatto molto negli ultimi anni – continua Santoro – conseguendo buoni risultati. Ma la strada è ancora lunga. Bisogna stare attenti, però, perché accanto agli evasori rischiano di essere colpite ampie fasce di marginalità economica. Serve attenzione da parte di Equitalia, che però negli ultimi mesi è stata oggetto di orrende strumentalizzazioni». «La redistribuzione della ricchezza è uno dei problemi chiave oggi e un’adeguata imposizione fiscale potrebbe fare molto», conferma Leonardo Becchetti, che insegna Economia all’università Torvergata di Roma, autore del libro Il mercato siamo noi (Bruno Mondadori, 2012). «Su questo punto però i sostenitori della decrescita non sono completamente d’accordo, perché aumentare la ricchezza, seppure di chi ne ha meno, farebbe aumentare i consumi, il che va contro i principi della decrescita. Questo però è un approccio troppo semplicistico. Non si può lavorare su una sola dimensione, che sia la crescita o la decrescita. Il sistema economico e sociale è decisamente più complesso». 


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Abbasso il welfare di Paola Baiocchi

Per i decrescisti lo Stato sociale dovrebbe ridursi per le minori entrate fiscali. Ma anche perché è uno strumento al servizio del Pil. Quindi soluzioni fatte in casa e basate sul volontariato. A discapito del diritto all’assistenza l punto della solidarietà all’interno delle società avanzate, rappresentato dal welfare state, è affrontato dai teorici della decrescita con soluzioni fatte in casa che mostrano tutta la limitatezza del pensare in piccolo. L’assunto di partenza è che, diminuendo il Pil a causa della decrescita, diminuiranno anche le entrate fiscali e quindi ci saranno meno servizi. Se sostituiamo il termine decrescita con altre parole molto attuali come spending review, crisi economica mondiale o recessione, il risultato è di passare dalla teoria alla rappresentazione di quello che sta accadendo nelle famiglie in cui c’è un non autosufficiente, dove soprattutto le donne sono costrette a lasciare il lavoro per prestargli assistenza, e allo stesso tempo vengono private, attraverso i tagli, del sostegno economico. Ma la riduzione dello Stato sociale, per i decrescisti, è un bene e vanno ripensate tutte le sue strutture, in particolare quelle della socialdemocrazia che ha fatto del welfare la sua bandiera. Ce ne ha parlato Maurizio Pallante, il fondatore del Movimento per la decrescita felice, che teorizza un welfare di comunità in cui viene fornita l’assistenza sanitaria, ma è tagliata drasticamente tutta l’assistenza sociale: «Perché il welfare sembra un servizio per noi, ma è solo un servizio per far crescere il Pil. Cioè io lavoro di più perché ho l’asilo nido e ho più tempo per far crescere il Pil».

I

Gli asili nido sono comparati agli acquisti negli ipermercati e il resto «delle scuole dell’infanzia, elementari e medie a tempo pieno, a tempo prolungato, il prescuola e il doposcuola» sono tutte sottrazioni di presenza genitoriale. Alla faccia di anni di studi pedagogici e competenze professionali sviluppate nella scuola pubblica italiana, che l’hanno a lungo collocata come modello per qualità e inclusione in testa alle classifiche internazionali.

Pil e de-Pil La soluzione per la cura dei bambini allora sono i nonni e le reti auto-organizzate di vicinato in cui, per esempio, alcuni genitori lavorano un po’ di meno per guardare a turno i bambini del condominio, oppure del villaggio, visto che per Pallante il ritorno alla campagna è parte fondamentale della decrescita. Il quadro da scuola di fine ’800, in cui alunni di diverse età erano tutti nell’unica classe e portavano da casa il carbone per scaldarsi, è completo. Ma difetta la critica all’economia capitalistica che, in assenza di reali opposizioni dall’introduzione del sistema elettorale maggioritario, ha portato la scuola pubblica italiana attraverso le ripetute contro-riforme decresciste di programmi e investimenti, a diventare un fortino dove i docenti resistono per non tornare ad essere il maestro unico di una classe unica.

LA DECRESCITA IN BREVE Il sistema produttivo ed economico, che dipende da risorse non rinnovabili, è basato sulla crescita illimitata del Pil, ma i principi della termodinamica e la limitatezza delle risorse materiali ed energetiche presenti nella Terra contraddicono tale modello. Vladimir Vernadskij, mutuando dalla seconda legge della termodinamica il concetto di entropia, rileva che la crescita del Pil comporta la diminuzione dell’energia disponibile e l’aumento di rifiuti danneggiando gli ecosistemi terrestri. Non v’è alcuna prova della possibilità di separare la crescita economica dalla crescita del suo impatto ecologico. La ricchezza prodotta dai sistemi economici non consiste soltanto in beni materiali e servizi privati, ma ci sono anche le relazioni sociali, i beni comuni, il bien viver nel suo insieme. La sola crescita materiale misurata secondo indicatori monetari, solitamente non considera queste altre forme di ricchezza.

In effetti la proposta dei decrescisti emula la sussidiarietà nell’erogazione dei servizi: non propone la partecipazione dei cittadini ai servizi pubblici in un’ottica di loro miglioramento, ma punta a sostituirli ai servizi pubblici, trasformando il lavoro volontario in dovuto. A questo proposito l’economista Domenico Moro richiama l’attenzione sul fatto che: «Il volontariato finirebbe per annullare il dovere dello Stato di fornire un’assistenza sociale davvero uguale per tutti. Senza considerare che il danaro con cui si pagano i servizi attraverso le tasse, derivando dal lavoro, rappresenta ore di lavoro svolte in precedenza. La sostanza non cambia, ma diventa un sistema poco gestibile e con poche garanzie».  | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 23 |


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dossier

| decrescita forzata |

Beni comuni in (de)crescita di Corrado Fontana

come entrano in relazione con la decrescita. E magari come individuarli.

Il riconoscimento, la gestione e la rivendicazione dei commons rappresentano una messa in pratica delle indicazioni della teoria decrescista. Per la costruzione di una società basata sull’essenziale

Se li conosci li difendi

ltro che decrescita! «In questi ultimi due-tre anni la teoria dei beni comuni ha fatto passi da gigante»: a dirlo è Paolo Cacciari, responsabile della terza Conferenza internazionale sulla decrescita di Venezia 2012 e autore di diversi libri sull’argomento. Cacciari attribuisce il merito di questo progresso alle «elaborazioni che vengono soprattutto dal gruppo dei giuristi, da Ugo Mattei ad Alberto Lucarelli, con i lavori della commissione Rodotà sulla revisione del Codice civile, la cui proposta è stata fatta propria dalla regione Piemonte. E grazie al successo accademico del lavoro di Elinor Ostrom (premio Nobel per l’economia 2009, scomparsa il 12 giugno scorso, ndr). Ma soprattutto avanzamenti si sono fatti grazie ai movimenti che nei territori e sulla rete hanno praticato le lotte per i beni comuni». È un coro a più voci, insomma, che secondo Mauro Bonaiuti, tra i fondatori dell’Associazione per la decrescita e docente di Finanza etica e microcredito

Secondo Cacciari si può parlare di una complementarità per cui «il riconoscimento, la gestione e la rivendicazione dei beni comuni rappresentano una messa in pratica delle politiche della decrescita. Decrescita è un’indicazione di rotta e le politiche a favore dei beni comuni sono la messa in pratica di questa indicazione». Riguardo alla loro definizione, invece, Cacciari concorda con Ugo Mattei nel sostenere che «non sono una nuova categoria merceologica, ma ciò che le popolazioni e i gruppi sociali decidono essere indispensabili al loro buon vivere: sono sia quelli naturali – acqua, suolo, aria –, che devono essere di libero accesso, sia quelli cognitivi: i beni culturali, i lasciti del lavoro e dell’inventiva delle generazioni precedenti. Le cosiddette infrastrutture culturali e civili, come pure i beni tecnologici e internet». Non a caso un grande contributo al riconoscimento dei cosiddetti commons è giunto dalle comunità che si battono per l’accesso libero alla Rete. Infine «beni comuni sono i codici e le regole comporta-

A

Paolo Cacciari, responsabile della terza conferenza internazionale sulla decrescita di Venezia 2012 e autore di diversi libri sull’argomento

Mauro Bonaiuti, tra i fondatori dell’Associazione per la Decrescita e docente di Finanza etica e microcredito presso l’università di Torino

presso l’Università di Torino, deve tuttavia partire da un dato: «Capire che dietro i beni comuni c’è sempre una comunità che, in qualche modo, ne tutela e garantisce la continuità». Beni comuni über alles! perciò, – forse anche perché quelli privati stanno mostrando limiti e pericoli – ma resta da stabilire

DECRESCITA È…

LIBRO

Decrescita è innanzitutto liberazione dell’immaginario dai condizionamenti del mercato, è ricerca dell’autenticità dei propri bisogni e desideri: in questo processo di autocoscienza e di responsabilizzazione dei comportamenti di vita ogni individuo deve fare i conti col proprio stile di vita. Quindi sobrietà è una parola chiave, che non è solo lotta agli sprechi ma significa andare all’essenza; è genuinità […]. P.C.

«Cosa tiene assieme un bosco e un teatro, un pastificio e un condominio, un acquedotto e un convento, un presidio e un orto, un centro sociale e un borgo, cento tetti fotovoltaici e i beni confiscati alle mafie, questo libro e innumerevoli altre esperienze di gestione in forme condivise di beni e servizi comuni di cui nemmeno sappiamo l’esistenza? Il libro che state ora leggendo, o che state scaricando liberamente da internet, non è un libro; è una scatola aperta, un contenitore di esempi eterogenei di gestioni comunitarie di beni di interesse collettivo...». Così comincia l’introduzione degli autori Paolo Cacciari, Nadia Carestiato, Daniela Passeri a Viaggio nell’Italia dei beni comuni, libro offerto in distribuzione gratuita o con i soli costi di spedizione. Informazioni su www.produzionidalbasso.com.

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A sinistra il borgo di Apricale in Liguria, dove si trova l’Albergo diffuso “Muntaecara” A fianco l’Albergo diffuso Trulli Holiday ad Alberobello

mentali, le infrastrutture democratiche che ci mettono in relazione», e i principi ispiratori per una loro gestione positiva, sottolinea ancora Cacciari, devono esser-

ne «la preservazione nel tempo e l’equa ripartizione dei loro benefici». In tale contesto teorico si può capire come beni comuni e spirito della decrescita siano in sintonia con alcune forme dell’economia solidale. «In generale – ricorda Bonaiuti – tutta l’economia sociale o, meglio, solidale è una risposta, in qualche modo, evolutiva alla crisi sistemica che stiamo attraversando. È un approccio che va favorito, mentre è chiaro che l’economia di mercato sta giocando una

battaglia di retroguardia, difendendo posizioni acquisite. Reciprocità e solidarietà consentono infatti di ricostruire e rafforzare i legami sociali, essenziali in un mondo sempre più liquido e conflittuale. Queste esperienze mostrano di sapersi sviluppare tra gli interstizi del sistema, permettendo da un lato un uso molto oculato delle risorse ambientali e dall’altro di sganciarsi dalle catene lunghe dell’economia globale». Dai gruppi d’acquisto solidale di quartiere, ai prodotti a chilometro zero, fino al tema delicato dei servizi di welfare locale, che presto potrebbe venire riconosciuto bene comune da salvare, seppur forzosamente “decresciuto” un po’. 

Meno è di più di Corrado Fontana

Decrescita e beni comuni, parole d’ordine in contatto e vie d’uscita per un sistema economico in crisi d’identità e risorse. Innovazione frugale ed esperienze di rigenerazione sociale e territoriale ne mostrano la virtuosa messa in pratica Come ricorda opportunamente in rete Flaviano Zandonai, ricercatore Euricse (European research institute on cooperatives and social enterprises), in fasi come questa il motto less is more (letteralmente “meno è di più”), reso celebre dall’architetto Mies Van der Rohe, può indicare una strada da percorrere. È un «invito a eliminare il superfluo per scoprire il valore dell’essenziale» che trova sponda perfetta nei temi della decrescita e nell’ottica di gestione oculata e recupero dei beni comuni. Ma non solo. Economie sommerse da optionals Lungo questa strada si sta affermando, infatti, anche una corrente progettuale precisa denominata frugal innovation (innovazione frugale, ndt) che caratterizza parte della produzione industriale asiatica: prodotti non solo accessibili perché low cost, ma anche essenziali, cioè capaci di meglio delineare la funzione d’uso del bene (ricordate il lancio della Tata Nano, automobile da tremila euro con poco più che volante, ruote, motori e sedili?). «Un insegnamento molto importante – sottolinea Zandonai – per economie occidentali sommerse da optional. Che impediscono di cogliere l’utilità prima di ciò che si consuma, mandando in tilt la gerarchia dei bisogni. E il ragionamento non vale solo per la produzione materiale, ma anche per la produzione di servizi, e pure di interesse collettivo». Un’innovazione frugale

anche per le imprese sociali e i servizi alla persona, quindi, che punta a minimizzare i costi, migliorando l’offerta esistente o creando nuovi servizi pubblici per una maggiore copertura dei bisogni essenziali. Sarebbe insomma una rivoluzione lenta e obbligata, che parte da lontano, tocca la produzione di beni e di welfare locale laddove un welfare statale consolidato non c’è. Una rivoluzione che fa perno più sull’efficacia che sull’efficienza, tanto decantata in questi ultimi anni. Territori di transizione Ma esperienze di un’intersezione pratica e virtuosa tra decrescita e beni comuni le abbiamo già incontrate. Ad esempio su Valori di luglio-agosto, parlando della comunità di Hesket Newmarket, piccolo borgo dell’entroterra britannico, che investe capitali ed energie per salvare e rilanciare in cooperativa l’unico pub del paese, recuperando così beni comuni e condivisi come i legami sociali e culturali, e anche la vitalità economica di un territorio depresso. Oppure trattando degli alberghi diffusi italiani, movimento di pensiero progettuale oltre che forma d’imprenditoria turistica, che invece di costruire nuove strutture ricettive recupera le vecchie case dei piccoli centri storici sempre più abbandonati per destinarle all’accoglienza. Un’esperienza che rafforza le reti sociali e difende i territori, attuandone una valorizzazione dal basso, da parte di chi li abita. Intersezioni virtuose che abbiamo conosciuto anche su scala più ampia con la diffusione di buone pratiche modellate sulle transition towns pensate da Rob Hopkins (vedi Valori n. 74 novembre 2009): città in cui vengono applicati in modo scientifico e sistematico metodi per ridurre l’utilizzo di energia e incrementare la propria autonomia a tutti i livelli. Il bene comune, in questo caso, è innanzitutto il Pianeta sul quale tutti viviamo.

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| valorifiscali |

Ricchi e poveri

Qualche numero sulla patrimoniale di Alessandro Santoro*

on l’approssimarsi delle elezioni politiche torna in voga l’imposta patrimoniale. In realtà l’Imu, di cui abbiamo parlato nello scorso numero di Valori, è già una forma di imposizione patrimoniale, che grava sulla componente principale della ricchezza delle famiglie italiane, ovvero il patrimonio immobiliare. Secondo l’indagine campionaria di Banca d’Italia (www.bancaditalia.it/statistiche/stat_ mon_cred_fin/banc_fin/ricfamit/ 2011/suppl_64_11.pdf) la ricchezza lorda delle famiglie italiane nel 2010 ammontava a 9.525 miliardi di euro, di cui 5.926 miliardi (ovvero il 62%) di ricchezza immobiliare e i restanti 4.000 miliardi (il 38%) di ricchezza finanziaria. Sottraendo da questi importi i circa 887 miliardi di indebitamento (per lo più mutui per l’acquisto di immobili) si ottiene la cifra di 8.638 miliardi di ricchezza patrimoniale netta. A questo ammontare andrebbero aggiunti gli oggetti preziosi e le opere d’arte, che sempre la Banca d’Italia stima pari a poco più di 640 miliardi per il 2010. Fino a poco tempo fa, a seguito di un’evoluzione (o forse sarebbe meglio dire di un’involuzione) del sistema tributario italiano, le forme di imposizione fiscale sul patrimonio erano pressoché scomparse nel nostro Paese. L’unica che per molto tempo è sopravvissuta è stata quella sul patrimonio netto delle imprese, poi abrogata, nel 1997, con l’introduzione dell’Irap. In seguito l’Ici è stata introdotta e poi fortemente ridimensionata, escludendo l’abitazione principale e, contestualmente, è stato sostanzialmente azzerato il gettito dell’imposta sulle successioni e donazioni. | 26 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

C

L’Italia ha patrimoni alti, ma redditi (dichiarati) più bassi. Per “colpire” i veri ricchi serve un’imposta mirata L’Italia la ridimensiona Secondo Eurostat (Taxation Trends in the European Union, 2010 edition) negli ultimi quindici anni l’andamento del gettito ottenuto dalla tassazione sugli stock di capitale in Italia è stato piuttosto diverso da quello degli altri Paesi europei, e segnatamente dei

grandi Paesi (Francia, Germania, Regno Unito, Spagna). Nel 1995 l’Italia era uno dei Paesi con una più alta quota di gettito proveniente dalle imposte patrimoniali: il 9,7%, un valore molto vicino a quello di Francia (10%) e Regno Unito (10,5%, nel 1995 la quota massima in Europa) e di poco superiore a quello della Spagna (7,4%). La Germania, invece, era già nel 1995 caratterizzata da livelli di prelievo patrimoniale ridotti, pari a poco meno del 3% del gettito complessivo. Nel 2008 la quota di gettito proveniente dalle imposte patrimoniali è scesa di quasi 4 punti percentuali, attestandosi al 5,8%, un livello appena superiore (rispettivamente di 0,2 e 0,6 punti percentuali) alla media aritmetica europea a 27 e a 16, ma sensibilmente inferiore rispetto a quella pesata con il Pil. Ciò è accaduto in quanto gli altri grandi Paesi europei, con cui l’Italia condivideva a metà anni Novanta le prime posizioni nella graduatoria, hanno tendenzialmente aumentato la quota di gettito dalle imposte patrimoniali, in alcuni casi in misura anche rilevante: la Francia è passata dal 10 al 10,5%, la Spagna è passata dal 7,4 all’8,2% e il Regno Unito dal 10,5 al 14,9%. L’unico tra i grandi Paesi europei, oltre all’Italia, che ha condiviso questa tendenza alla riduzione è stata


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la Germania, scesa peraltro da una quota del 2,9% nel 1995 a una quota del 2,6% nel 2008, con una riduzione quindi inferiore a quella italiana sia da un punto di vista relativo sia da un punto di vista assoluto. Quale gettito Si è già detto dei pregi teorici e pratici di un’imposta patrimoniale. Tuttavia nel nostro Paese se ne è discusso soprattutto con riferimento al gettito che sarebbe in grado di produrre. I numeri che vengono fatti al riguardo, tuttavia, sono spesso fantasiosi. Ipotizziamo di assumere la cifra di 8.700 miliardi di ricchezza netta, stimati da Banca d’Italia, come riferimento di massima. Si tratta, in realtà, di un’ipotesi quasi eroica, posto che la stima proviene da un’indagine campionaria cui le famiglie rispondono sapendo che non ne deriveranno conseguenze fiscali. In ogni modo, a fronte di questa ipotetica base imponibile, ad oggi le imposte patrimoniali in vigore hanno la seguente entità: circa 31 miliardi di imposte sulla proprietà immobiliare (21 solo dall’Imu), poco meno di 5 miliardi sui trasferimenti di questo tipo di proprietà e circa 21 miliardi sui rendimenti finanziari e imposte di bollo (introdotte anche queste ultime con le manovre del governo Monti). Complessivamente, quindi, ad oggi le imposte sugli immobili (36 miliardi) e quelle riferibili a patrimoni e rendite finanziarie (21 miliardi) valgono lo 0,6% (o 6 per mille che dir si voglia) delle rispettive basi imponibili teoriche (rispettivamente, i 5.926 e i circa 4.000 miliardi stimati dalla Banca d’Italia citati in precedenza). Per un’imposta patrimoniale commisurata, cioè, non ai redditi prodotti, ma al valore di mercato, che riflette solo in parte i redditi stessi, un’aliquota media effettiva dello 0,6% non è affatto bassa. Qualche semplice calcolo condu-

ce ad affermare che l’applicazione di questa aliquota porterebbe il gettito delle imposte patrimoniali a rappresentare circa l’8% di quello complessivo, determinando per l’Italia una composizione decisamente più vicina a quella degli altri grandi Paesi europei. È possibile che vi siano dei margini per ulteriori aumenti, specie se questi possono servire a finanziare una riduzione delle imposte sui redditi e dell’Iva. Ad esempio considerando che (sempre sulla base dei dati della Banca d’Italia) circa il 45% della ricchezza netta è detenuta dal 10% più ricco delle famiglie italiane, se l’imposizione su questi patrimoni salisse all’1% si otterrebbero 14 miliardi di gettito aggiuntivo. Un’imposta per i ricchi? Tuttavia questo calcolo è basato su un’illusione, quella di ottenere, in questo modo, un’imposta selettiva sui ricchi, secondo la logica che chi ha di più paga di più. Si tratta di una logica sacrosanta, ma che va attuata tenendo ben presente la realtà italiana. Questi 14 miliardi sarebbero pagati da circa 2,2 milioni di famiglie, con un importo medio di oltre 6 mila euro a famiglia. Tuttavia queste famiglie “ricche” dovrebbero avere un reddito (sempre secondo la Banca d’Italia, ma in questo caso la fonte è l’Indagine sui bilanci familiari e l’ipotesi è che il decile con maggiore ricchezza sia anche il decile a reddito più elevato) medio di 129 mila euro, per cui l’incremento di imposizione sarebbe mediamente pari a quasi il 5%, una percentuale decisamente elevata. Il risultato è figlio del fatto che l’Italia è un paese patrimonialmente ricco, ma a redditi (dichiarati) molto inferiori, per cui un’imposta patrimoniale elevata rischia di non essere pagabile. L’obiezione secondo cui i redditi non sono credibili a causa dell’evasione è

corretta, ma non è certo possibile (né, in un Paese di avvocati come il nostro, giuridicamente sostenibile) presumere che 2,2 milioni di famiglie siano costituite da evasori solo perché hanno un patrimonio elevato. L’ipotesi di incrementare ulteriormente le imposte patrimoniali rispetto a quanto ha già fatto il governo Monti, focalizzando l’intervento sui “ricchi”, va quindi presumibilmente limitata a una quota inferiore di famiglie, non il 10 ma al massimo il 5, o più credibilmente l’1%. Un’imposta più mirata sarebbe anche più gestibile perché le manovre elusive dei suoi potenziali destinatari (ridotti a 200 mila nuclei familiari) sarebbero più facilmente monitorabili. Data la concentrazione elevata delle ricchezze, è anche plausibile che questa riduzione di contribuenti ne comporterebbe una proporzionalmente minore del gettito, che si potrebbe attestare intorno ai 3-4 miliardi di euro. A chi consideri questo importo troppo basso va fatto notare che si tratta di un gettito molto vicino a quello ottenuto dalla tanto celebrata Impot sur la fortune (Isf ) francese. 

Professore associato di Scienza delle finanze presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca

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REUTERS / ANDREW BURTON

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De Grauwe: «Se l’Europa preferisce suicidarsi...» > 32 Chi finanzia l’economia sana? > 34 | 28 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |


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| inevitabil rischi |

Una protesta davanti alla sede di JPMorgan Chase, in Park Avenue a New York il 19 giugno scorso. I manifestanti sono travestiti da Robin Hood, perché questo è il nome con cui viene chiamata la tassa sulle transazioni finanziarie

Derivati, un Titanic

Sollecitate a mettersi in sicurezza, le banche europee puntano sui derivati esponendosi a nuovi rischi. Il Comitato di Basilea dovrebbe valutare il pericolo reale. Ma non è in grado di farlo

da 6 trilioni di euro di Matteo Cavallito lla fine è sempre e solo una questione di numeri. Cifre fredde, cifre spaventose. La misura del successo oppure della sconfitta. Ma anche, se non soprattutto, l’immagine profetica dei possibili rischi. L’ultima cifra significativa, per intenderci, è quella rivelata a luglio dall’amministratore delegato di Jp Morgan, Jamie Dimon: 5,8 miliardi di dollari finiti in pochi mesi nella colonna dei passivi per un errore di valutazione, una leggerezza, diciamo così, commessa nella disciplina preferita del suo ufficio londinese: il trading sui derivati. La storia è ormai nota (vedi Valori n. 101, luglio-agosto 2012), ma il finale è ancora da scrivere. Il trader Bruno Iksil scommette sui credit default swaps e perde svariati miliardi: 2,3 si dice all’inizio, poi 4,4, fino ai quasi 6 miliardi comunicati in estate. Quando leggerete questo articolo la cifra potrebbe essere ulteriormente lievitata visto che alcune previsioni si sono già spinte verso quota 12. La morale è semplice: quando si maneggiano i derivati i rischi sono inevitabili. E, se ci si mette di mezzo la leva, le perdite possono moltiplicarsi. Tutto chiaro?

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| finanzaetica |

me variazioni a livello nazionale (vedi GRAFICO ). Secondo, questo controvalore ha un peso enorme, nel bilancio di Ubs circa 10 volte il patrimonio netto tangibile, in quello di Deutsche Bank 22 volte, nei numeri contabili di Credit Suisse si sfiora un rapporto di 29 a 1. Cosa significa? Semplicemente che un 10% di perdite sui derivati estinguerebbe di colpo il 55,6% del patrimonio di vigilanza delle grandi banche continentali. Per intenderci, se tutti i crediti dubbi andassero in default la perdita sarebbe inferiore (49,3%).

Basilea

Mezzo Pil europeo Bene, e allora torniamo alle cifre, anzi, alla cifra: 5.854.000.000.000 di euro, cinquemila e ottocento miliardi, 5,8 trilioni, ovvero circa la metà del Pil europeo, ma anche, ad oggi, l’ultimo controvalore conosciuto dei titoli derivati attivi in mano alle prime 20 banche del Vecchio Continente. Il dato lo ha reso noto a giugno lo studio R&S-Mediobanca sulle “Maggiori banche internazionali”. Nel 2009 la

cifra ammontava a 4.300 miliardi, 4.400 circa l’anno successivo, poi l’esplosione: nello spazio di un anno l’esposizione è aumentata del 33%. Negli Usa si è registrato più o meno lo stesso trend, con una crescita 2010/11 pari al 27%. Per capire la portata di tutto questo è utile sottolineare almeno un paio di aspetti. Primo, i derivati in portafoglio presso le banche pesano per il 53,2% del Pil europeo con fortissi-

Di questo rischio dovrebbero preoccuparsi soprattutto i regolatori di Basilea, che negli anni passati hanno fissato il nuovo insieme di parametri cui le banche dovranno adeguarsi allo scopo di mettersi in sicurezza (vedi BOX ). Ma in questo caso la riflessione si fa sorprendente, visto che a trainare gli acquisti di derivati potrebbero essere state, paradossalmente, proprio le richieste di Basilea. I motivi sono diversi: in primo luogo la necessità di fare cassa, ovvero di puntare su attività rischiose, ma potenzialmente molto più redditizie (il 97% dei derivati in mano alle banche europee è di

BASILEA 3 E L’AUTORITÀ BANCARIA EUROPEA

GLOSSARIO

L’accordo di Basilea 3, redatto dal Comitato per la vigilanza bancaria, impone agli istituti il progressivo innalzamento del patrimonio base (azioni ordinarie e riserve) e del cosiddetto Tier-1 (patrimonio base sommato ad altri strumenti finanziari di qualità primaria come le azioni privilegiate), in rapporto al valore delle attività totali della banca (prestiti, investimenti ecc.) ponderate per il rischio. L’obiettivo è quello di rendere le banche meno rischiose, scongiurando i salvataggi pubblici nelle situazioni di crisi. Accanto al Comitato agisce, dal 2011, anche l’Autorità bancaria europea (European Banking Authority, Eba) che ha il compito di vigilare sulla stabilità finanziaria delle principali banche del Vecchio Continente. Di recente l’Eba ha chiesto alle banche di iscrivere a bilancio i titoli di Stato con un criterio di mark to market (vedi GLOSSARIO ), imponendo di fatto pesanti svalutazioni agli istituti che avevano in portafoglio bond sovrani delle nazioni a rischio (Italia e Spagna in particolare).

ASSET ILLIQUIDO: Tutte le risorse economiche non costituite da denaro liquido (azioni, obbligazioni, crediti, strumenti finanziari, beni materiali etc.). CREDIT DEFAULT SWAPS: Sono titoli derivati che vengono acquistati per assicurarsi contro il rischio di default di un debitore. L’acquirente paga un interesse all’emittente in cambio della copertura piena del rischio. LEVA: L’operazione attraverso la quale un operatore investe molto più denaro di quanto possieda raccogliendo il capitale attraverso l’indebitamento. Con un rapporto di leva di 9 a 1, ad esempio, una banca può investire 100 utilizzando 10 di capitale proprio e prendendo a prestito 90, restituendo successivamente la somma con gli interessi. Va da sé che in caso di successo dell’investimento i guadagni sono moltiplicati, in caso di fallimento, al contrario, ad essere moltiplicate sono le perdite. MARK TO MARKET: La determinazione del valore di un asset in base al suo prezzo plausibile di mercato (fair value). Si contrappone al criterio del valore nominale (il rendimento di un’obbligazione alla sua scadenza, ad esempio). PATRIMONIO NETTO: La somma di capitale sociale, riserve e utili non distribuiti al netto delle perdite. PATRIMONIO NETTO TANGIBILE: Il patrimonio netto cui sono sottratte le cosiddette immobilizzazioni immateriali, ovvero quelle attività non tangibili (la gestione del risparmio, il marchio etc.) che generano utili per diversi anni. PATRIMONIO DI VIGILANZA: La somma del patrimonio base, che è dato dalla somma del capitale della banca (azioni ordinarie) e delle riserve detenute, e del cosiddetto patrimonio supplementare (un insieme di strumenti finanziari di qualità inferiore).

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300 250 200 150 100 50 0 Svizzera

Ma l’impiego dei derivati offre alle banche anche un’altra, sottovalutata eppure decisiva, opportunità: una sorta di primato pressoché assoluto nella gestione del rischio. A.B., iniziali ovviamente di fantasia, è una fonte qualificata dei mercati finanziari, un esperto del tema che da tempo segue gli aspetti chiave di tutta la vicenda. «Il punto – spiega a Valori in via riservata – è che le grandi banche puntano sui derivati dal momento che questi ultimi sono un trionfo della multi-modalità statistica e di tutte le possibili distorsioni. I parametri di Basilea, per questa ragione, sono palesemente inadeguati». E qui il discorso si fa estremamente complesso, ma nella sostanza si può riassumere come segue. Nel calcolo del patrimonio e, quindi, del valore effettivo degli strumenti in mano agli istituti, i regolatori impongono di ponderarne il rischio. In altri termini ci si pone l’obiettivo di stimare un valore di ciascun asset illiquido (vedi GLOSSARIO ) tenendo conto della probabilità che quest’ultimo si deprezzi o si trasformi in carta straccia (come un’obbligazione in caso di default dell’emittente ad esempio). Semplificando si può dire che gli strumenti di valutazione di Basilea «si basano essenzialmente su una media delle probabilità di eventi positivi e ne-

Francia

Germania

Olanda

Spagna

Italia

Europa

LE BANCHE EUROPEE E I DERIVATI Derivati (in mln di euro)

Variazione 2010-11

Derivati attivi /totale attivi in %

Derivati attivi /patrimonio netto tangibile

859.582

30,70%

39,70%

22,1 - 1

Crédit Suisse

764.153

36,30%

33,20%

28,8 - 1

Barclays

645.234

28,20%

34,50%

9,4 - 1

Rbs

634.045

24,00%

35,10%

8,7 - 1

HSBC

488.623

64,40%

20,20%

4,6 - 1

BNP Paribas

461.667

30,70%

23,50%

6,4 - 1

Ubs

400.283

21,30%

34,30%

10,1 - 1

Crédit Agricole

383.008

46,80%

22,20%

12,8 - 1

Soc. Générale

254.345

27,90%

21,50%

6,4 - 1

Nordea

171.943

77,60%

24,00%

3,0 - 1

Commerzbank

128.739

+0.0%

19,50%

5,9 - 1

Istituto Deutsche Bank

Controllori e controllati

Regno Unito

Unicredit

117.296

36,20%

12,70%

3,0 - 1

BSCH

112.396

38,30%

9,00%

2,1 - 1

Lloyds

79.029

30,00%

6,80%

1,6 - 1

ING Group

76.298

41,00%

6,00%

2,1 - 1

Danske Bank

74.113

65,10%

16,10%

5,3 - 1

Rabobank

58.973

34,20%

8,10%

1,4 - 1

Intesa Sanpaolo

52.037

12,30%

8,10%

1,6 - 1

BBVA

51.981

39,60%

8,70%

1,6 - 1

Dexia

40.078

-14,90%

9,70%

neg.

Totale

5.853.823

+33,0%

23,9%

7,0 - 1

gativi, ma la media è solo uno dei cosiddetti “momenti” statistici significativi. Per prezzare correttamente un titolo semplice e sicuro come un Bund tedesco va più che bene, per valutare correttamente un derivato, per il quale al contrario occorrerebbe fare ricorso a qualcosa come 12 o 14 diversi indicatori, cosa che i gestori del rischio delle banche fanno abitualmente, non basta in alcun modo».

In sintesi: la capacità di giudizio dei controllori è di gran lunga più rudimentale di quella dei controllati. Ad oggi, con i metodi che le banche centrali adottano per monitorare il sistema, affermare in modo preciso come e quanto stiano realmente rischiando le banche maggiormente esposte sui derivati è pressoché impossibile. Il rischio più grave, a ben vedere, è proprio questo.  | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 31 |

FONTE: DATI CUMULATIVI DELLE PRINCIPALI BANCHE INTERNAZIONALI, RICERCHE E STUDI S.P.A. UFFICIO STUDI MEDIOBANCA, GIUGNO 2012

tipo “speculativo”); in secondo luogo la necessità di sostituire con i derivati quegli assets che negli ultimi tempi si sono deprezzati incidendo negativamente sui bilanci e, va da sé, sui livelli patrimoniali (i titoli di Stato dei Paesi a rischio). Insomma, nel suo tentativo di mettere al sicuro le banche, Basilea potrebbe aver indotto queste ultime ad assumere posizioni ancora più rischiose che in passato. Il paradosso fondamentale è essenzialmente questo.

LE INCIDENZE SUL PIL DEI DERIVATI IN EUROPA [derivati in percentuale Pil]

Le prime 20 banche europee hanno derivati per un valore di cinquemila e ottocento miliardi. E Basilea non è in grado di valutarne i rischi

FONTE: DATI CUMULATIVI DELLE PRINCIPALI BANCHE INTERNAZIONALI, RICERCHE E STUDI S.P.A. UFFICIO STUDI MEDIOBANCA, GIUGNO 2012

| finanzaetica |


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| finanzaetica | crisi |

De Grauwe: «Se l’Europa preferisce suicidarsi...» di Matteo Cavallito

Il parere di Paul De Grauwe, una delle voci più autorevoli nel dibattito sulla crisi europea. Il fondo “anti spread” non funzionerà. La supervisione bancaria? Da sola non serve a niente on c’è niente che sia alle spalle». Quando nel marzo scorso (vedi Valori n. 98, aprile 2012) lo intervistammo per la prima volta, Paul De Grauwe esordì con queste parole. La Grecia era entrata in default selettivo, le Borse viaggiavano verso i massimi semestrali e la tensione sui titoli di Stato delle periferie sembrava placarsi. Ma all’ipotesi più ottimista, quella di chi sperava di essersi lasciato definitivamente dietro il momento peggiore della crisi, l’economista belga dell’Università di Leuven, uno dei massimi esperti di politica monetaria del Continente, non riusciva davvero a credere.

«N

Fondamentali addio A distanza di qualche mese i fatti gli hanno dato ragione. L’ultimo allarme lo ha lanciato il Centro studi della Confindustria: l’incertezza sul futuro dell’euro, spiega un rapporto reso noto a luglio, vale per il titolo italiano circa 300 punti di spread. Cosa significa? Essenzialmente che buona parte del divario tra i costi di finanziamento di Roma e Berlino è determinato da un mix di paura e speculazione. Guardando ai soli fondamentali (debito pubblico e crescita) il divario Bund/Btp non dovrebbe superare i 164 punti. E qui veniamo alle conseguenze reali. «Il maggiore spread – si legge nelle pagine del documento – causa perdite pari allo 0,9% del Pil e a 144 mila posti di lavoro e maggiori oneri per interessi pa| 32 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

ri a 12,4 miliardi a carico del bilancio pubblico, 12,1 miliardi sui conti delle famiglie e 23,7 su quelli delle imprese». Ecco la sintesi del circolo vizioso europeo.

Esm e banche Alla fine dello scorso mese di giugno l’Ue ha approvato il cosiddetto meccanismo “anti spread”: in sintesi, la Bce potrà comprare titoli di Stato sul mercato secondario per abbassarne i rendimenti agendo, però, come agente fiscale del Fondo Salva Stati. Tradotto: potrà mettere in campo complessivamente un ammontare di risorse che non superi quello attualmente disponibile presso l’Esm: 500 miliardi di euro. Proprio questa limitazione, sostiene De Grauwe, sembra vanificare a pre-

Paul De Grauwe, docente di Economia internazionale dell’Università Leuven in Belgio

«Senza risorse illimitate il meccanismo europeo di stabilità (Esm) rischia di destabilizzare i mercati»

scindere l’utilità dell’intervento. Mentre la corte costituzionale tedesca si riserva ancora di deliberare sulla legittimità dell’Esm (il verdetto del tribunale di Karlsruhe è atteso per il 12 settembre), l’Europa ha lanciato il progetto dell’unione bancaria. L’obiettivo, spiegano da Bruxelles, è quello di unificare le norme bancarie a livello europeo («tra cui regole comuni, ma flessibili, sulla quantità di capitale che le banche devono detenere»), creare un’unica autorità di vigilanza sugli istituti, approvare «norme comuni per prevenire i fallimenti bancari prima che siano necessarie iniezioni di liquidità finanziate dai contribuenti». A progetto ultimato, l’Europa dovrebbe essere in grado di attingere a un fondo unico di garanzia capace di «tutelare i correntisti, a prescindere dal Paese in cui si trovano i loro risparmi e investimenti». A luglio, centosettanta economisti tedeschi, guidati idealmente da Hans-Werner Sinn, direttore dell’istituto di ricerca Ifo, hanno scritto una lettera aperta sulle colonne della Frankfurter Allgemeine Zeitung per protestare (anche) contro l’iniziativa. La sintesi? Lasciate le banche libere di fallire e non caricate i loro debiti sulle spalle dei contribuenti. La strada, insomma, resta più che mai in salita. Professor De Grauwe, di recente lei ha scritto che, a causa delle risorse limitate, lo schema “anti spread” dell’Esm non può funzionare. Intende dire che abbiamo bisogno di una Bce come prestatore di ultima istanza? Ci sono diversi modi per risolvere questo problema. Il primo, ovviamente, consiste nella trasformazione della Bce in un pre-


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| finanzaetica |

L’Eurotower è la sede della Bce, situata a Francoforte sul Meno in Germania

zioni. Voglio dire, questa unione è necessaria, ma non è di per sé sufficiente. Non abbiamo bisogno di un semplice supervisore, non è un mero fatto tecnico. Ci serve un’istituzione in grado di sostenere le banche in tempi di crisi. E ci arriveremo mai? Difficile dirlo, c’è molta opposizione in giro, ma non sono troppo pessimista. Potremmo anche arrivarci.

statore di ultima istanza, chiamato a fissare un tetto massimo agli spread tra i rendimenti dei titoli tedeschi, italiani e spagnoli utilizzando il suo potere illimitato nella creazione di denaro. Il secondo, e direi che si tratta dell’ipotesi più realistica, implica la concessione della licenza bancaria all’Esm con la possibilità di utilizzare la liquidità della Bce per intervenire sul mercato. Nella situazione attuale abbiamo una credibilità limitata dal momento che limitate sono le risorse in mano all’Esm. Non appena quest’ultimo iniziasse ad acquistare i titoli di Stato, il mercato si metterebbe a scommettere sull’esaurimento della sua liquidità. Ne consegue che a un intervento dell’Esm corrisponderebbe una vendita dei bond da parte degli investitori. Ecco perché in queste condizioni il fondo finisce per destabilizzare il mercato. Ma lei pensa che la Bce diventerà mai un prestatore di ultima istanza? Se guardiamo ai suoi statuti ci accorgiamo che la Bce potrebbe agire già ora da prestatore illimitato, il problema è che oggi non vuole farlo. Le regole proibiscono alla Bce di aiutare direttamente i governi, è vero, ma quando si acquistano i titoli di Stato sul mercato secondario la liquidità vie-

«L’unione bancaria non è sufficiente. Serve un’istituzione che sostenga le banche in tempi di crisi» ne indirizzata alle istituzioni finanziarie, non ai governi. La Bce ha già speso circa 200 miliardi di euro nel mercato obbligazionario, ed è questa la strada su cui dobbiamo proseguire, altro che cambiare le regole. Senza questo tipo di interventi ci ritroveremo ai bordi del precipizio, ma in Europa, a quanto pare, in molti preferirebbero suicidarsi piuttosto che permettere alla banca centrale di fare il suo lavoro. Altro tema caldo: l’unione bancaria. Qualcuno parla di stop al circolo vizioso tra debito pubblico e debito delle banche, altri si oppongono chiamando in causa l’ennesimo macigno sulle spalle dei contribuenti. Qual è la sua opinione? Sono favorevole, credo che sia questa la chiave per recidere quel collegamento tra la crisi del sistema bancario e quella dei debiti sovrani. La vera questione, tuttavia, è che dobbiamo renderci conto di quello che l’unione bancaria implica, ovvero un’istituzione europea forte con il potere di tassare e di emettere obbliga-

Poi c’è la questione dello stato di salute delle banche. Il comitato di Basilea e l’Eba hanno chiesto agli istituti di alzare i loro ratio patrimoniali e questi hanno risposto acquistando derivati per ottenere rapidamente profitti anche se così facendo si sono esposti a maggiori rischi. C’è qualcosa che non va… Vero, ma il problema è un altro: il rafforzamento della capitalizzazione è un obiettivo importante, ma i tempi sono sbagliati visto che oggi serve in realtà una strategia anticiclica. Possiamo chiedere alle banche di ricapitalizzarsi nei momenti di crescita, non possiamo chiederglielo durante una recessione. Una richiesta simile oggi produce una riduzione del credito esacerbando la contrazione economica. È un circolo vizioso, una pessima idea. Come sarà l’eurozona tra un anno? Può darsi che tra un anno si starà ancora seguendo questa strategia confusa e disordinata nel tentativo di risolvere la crisi a piccoli passi. Oppure è possibile che la pressione sociale in molti Paesi conduca all’implosione del sistema. In definitiva direi che ci sono molte possibilità, è davvero difficile dire cosa accadrà nei prossimi dodici mesi. Il 12 settembre intanto i giudici della corte costituzionale tedesca decideranno sulla legittimità dell’Esm e del fiscal compact. E se dicono di no? In quel caso ci ritroveremo ad affrontare una nuova crisi e allora sarà necessario convocare un nuovo summit. Non ci voglio neanche pensare.  | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 33 |


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FOTO TERRAPROJECT

FOTO TERRAPROJECT

| finanzaetica | banca etica |

Pasquale Spani

Chi finanzia l’economia sana? di Elisabetta Tramonto

immagine è quella di una barca che viaggia controcorrente. La maggior parte delle banche chiude sportelli, licenzia personale e non concede quasi più prestiti alle imprese, né mutui alle famiglie. Colpa della crisi? Certo, ma non solo. Perché le difficoltà esistono, non c’è dubbio, ma per molti istituti questa è una scusa per scegliere investimenti più remunerativi (anche “solo” i titoli di Stato italiani), spesso speculativi, abbandonando così la loro missione originaria di raccogliere denaro e prestarlo, fare la banca insomma. Banca etica, invece, ha scelto di navigare controcorrente, di crescere e sostenere sempre più l’economia sana. L’anno scorso gli impieghi della banca sono aumentati del 24% rispetto all’anno precedente (contro un +2,2% della media del sistema bancario nazionale). Si tratta di prestiti a famiglie e a realtà economiche, in particolare del terzo settore, ma anche del cosiddetto profit responsabile: imprese orientate al profitto che rispettano requisiti di eticità, tutela dell’ambiente e dei lavoratori. A giugno il CdA dell’istituto ha approvato il Piano Industriale 2012-14: più investimenti, nuovi prodotti, nuove filiali, più impieghi, raccolta e capitale sociale.

L’

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A dimostrazione che crescere si può, anche in questo momento, a metà luglio è arrivata la notizia che la britannica Cooperative Bank avrebbe comprato 632 sportelli della Lloyds-TSB. «È una notizia ottima – commenta Ugo Biggeri – mentre le altre banche chiudono sportelli, una realtà del movimento cooperativo può addirittura allargarsi. Co-operative Bank è diversa da noi, anche perché siamo molto più piccoli, ma sta andando nella nostra stessa direzione. Ha acquistato grande visibilità con la campagna move your money. E con quest’operazione sta dimostrando che coniugare lo spirito cooperativo con il distinguersi dal resto della finanza porta ottimi risultati».

Sempre più grandi «Banca Etica è cresciuta in un modo incredibile – spiega Pasquale Spani, vicedirettore generale di Banca Etica – di 13 volte in 13 anni. Il rischio poteva essere scegliere di diluire la missione originaria pur di crescere. Invece no, la mission non si tocca e quindi i principi cardine della banca: la partecipazione, la trasparenza, il sostegno all’economia sana». Ci teneva il vicedirettore generale a sottolineare questo punto, prima di parlare di numeri e

Ugo Biggeri

Le banche chiudono sportelli, licenziano e non concedono più prestiti. Banca Etica mette in cantiere una crescita a due cifre entro il 2014 per raccolta e impieghi, utili e capitale sociale. E continua a finanziare l’economia civile progetti futuri. Numeri che però nascondono un forte significato. Come gli 830 milioni di euro di impieghi da raggiungere entro la fine del 2014 (+15% sul 2010), che significa più prestiti a famiglie e imprese. O la raccolta a un miliardo di euro (il 10% in più rispetto al 2010) e i 59 milioni di capitale sociale da raggiungere tra due anni e mezzo, il 19% in più del 2010. «E siamo già a quota 40 milioni», aggiunge Spani. Un ultimo numero: 2,5 milioni. Sono gli utili previsti per fine 2014 (da 1 milione del 2010): «Saranno capitalizzati – spiega Spani – cioè accantonati per far crescere il capitale sociale della banca stessa per avere la possibilità di concedere più prestiti». Banca Etica guarda al futuro con 2 milioni di euro di nuovi investimenti e un aumento di budget di 1,8 milioni all’anno. «Abbiamo messo in cantiere 20 nuovi progetti, da attuare entro la fine del 2014 – spiega ancora Spani –, dalla multicanalità agli Atm evoluti da installare nelle filiali allo sviluppo dei conti on line, da nuove filiali in Italia all’espansione in Spagna. Oltre a nuove assunzioni di banchieri ambulanti». E servizi accessori come quelli assicurativi (venduti attraverso la banca, per alcuni casi specifici come i danni ai pannelli fotovoltaici); prestiti


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| finanzaetica |

d’onore per studenti universitari, grazie a un accordo con la provincia di Potenza (fondi per pagare la retta, da restituire solo dopo 3 anni). Investimenti resi possibili anche dal contenimento della spesa. «Ma non taglia i costi del personale», precisa Spani, citando le notizie dei 4.600 esuberi e 400 filiali da chiudere per Mps, il taglio del 10% ai costi del personale per il gruppo Ubi, i 700 esuberi per la Popolare di Milano e i 250 milioni di risparmio sul costo del lavoro per Intesa San Paolo. «Noi abbiamo messo in conto di risparmiare 1 milione all’anno “semplicemente” lavorando sulle spese amministrative e ottimizzando gli acquisti. Non spendendo meno, ma meglio».

Però non è facile aumentare il capitale sociale, soprattutto per una realtà come Banca Etica, che non distribuisce dividendi ai propri soci, mentre le altre banche promettono remunerazioni altissime. «Sul tema dei dividendi la banca potrebbe anche riflettere – afferma Pasquale Spani – , per ora però i soci non acquistano quote per avere una remunerazione, ma per contribuire a un progetto in cui credono: far vivere l’altra economia, dare credito a coloro che secondo i parametri bancari classici non avrebbero diritto a un prestito». «La campagna di capitalizzazione sta andando bene – commenta Ugo Biggeri – sono sicuro che supereremo l’obiettivo di 7 milioni di euro fissato per il 2012. Siamo già vicini ai 5 milioni e siamo solo a metà anno».

Più capitale, più prestiti

PIANO INDUSTRIALE 2012-2014 DI BANCA ETICA

«Le altre banche – spiega Ugo Biggeri – svolgono attività che poco hanno a che fare con l’essere banca. Noi invece prendiamo risparmio e diamo impieghi. Per farlo dobbiamo avere abbastanza capitale sociale. Su questo si fonda una sana intermediazione finanziaria». Ed eccoci all’aspetto più critico: la capitalizzazione. Le regole bancarie prevedono una proporzione minima tra il capitale sociale posseduto da una banca e i prestiti che può concedere. È una questione di sicurezza. IMPIEGHI [in milioni di euro]

A chi si rivolge la banca? «Finora ci siamo orientati quasi esclusivamente verso il settore non profit – spiega Ugo Biggeri – ci piacerebbe aumentare un po’ la nostra presenza nel profit responsabile. Perché crediamo che questo sia un momento in cui la finanza etica non può concentrarsi solo sul terzo settore, che resterà il nostro target principale, ma debba finanziare l’economia civile in generale». «Vogliamo rafforzare le relazioni con alcune categorie particolarmente in li-

PREMIO SU RACCOLTA [milioni di euro]

437

13,6

351 9,1

5,4

2010

2011

PREMIO RACCOLTA/DISTRIBUITO [milioni di euro] 10,9 9,3 5,8

9,3

18,6

17,5

5,8 12,8

2011 +11%

2009

1,3 9,6

3,9

10,9

23

660

2010 +4%

Il premio etico è la quota di interessi a cui i clienti di Banca etica sono disposti a rinunciare investendo i propri risparmi in una banca etica. Un risparmio per l’istituto di 9,6 milioni nel 2011. Una cifra “restituita” ai clienti sotto forma di minori interessi sui prestiti concessi rispetto ai tassi applicati dalle altre banche: 10,9 milioni in tutto nel 2011. L’anno scorso il premio etico distribuito è stato più alto di quello raccolto.

28,4

734

2009 Var(Y/Y)

nea con i nostri valori, come i Gruppi di acquisto solidale – spiega Ugo Biggeri –. Banca Etica offre un potenziale di partecipazione senza pari, ancora poco sfruttato dai Gas. Al di là di qualsiasi prodotto bancario pensato per loro (che comunque abbiamo), dovrebbero vedere Banca Etica, non come un’altra banca a cui chiedere un finanziamento, ma come la “propria” banca in cui gestire anche la governance. Quindi mettere i propri risparmi, chiedere prestiti e anche investire nel capitale sociale. È importante capire come l’aspetto partecipativo e cooperativo di Banca Etica, se ben colto, possa dare un impulso importante all’economia civile che i Gas vogliono promuovere». 

PREMIO SU IMPIEGHI [milioni di euro]

RACCOLTA DIRETTA [in milioni di euro]

632

4,0

3,9

2011 +24% 2009

PIANO INDUSTRIALE 2012-2014 DI BANCA POPOLARE ETICA

9,6

9,3 3,5 5,6

2010 +24%

Le banche non concedono crediti. Banca etica, invece, finanzia l’economia sana. Per poterlo fare, però, deve avere le risorse necessarie: un adeguato capitale sociale. Lo stabilisce la legge. Chi ammira Banca Etica e bussa alla sua porta per avere un prestito lo sa? È disposto ad acquistare quote della banca per permetterle di finanziare nuovi progetti (ricapitalizzare)? Valori rivolge queste domande ai lettori, ai soci della banca, ai simpatizzanti e apre un dibattito sul nostro sito e sui prossimi numeri. redazione@valori.it

PREMIO ETICO [in milioni di euro] 542

2009 Var(Y/Y)

AIUTARE PER ESSERE AIUTATI

2,3

5,4

3,5

13,7

2009

2010

Interessi BE su tassi sistema

2010

2011

2011 Interessi BE su tasso BE

Premio etico distribuito

Premio etico raccolto

| ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 35 |


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| consumiditerritorio |

Fisco regressivo

Se le tasse risparmiano i super ricchi di Paola Baiocchi

urante la campagna per le presidenziali in Francia si è parlato molto di equità fiscale: Hollande ha proposto una tassazione del 75% sui redditi oltre il milione di euro alla quale i cittadini hanno creduto. Anche se, a seconda del conto in banca, le reazioni sono state diverse: qualche super ricco ha spostato la residenza in Belgio. Gli altri hanno votato Hollande. Come retroterra c’è stato anche il dibattito partito dalla pubblicazione di Per una rivoluzione fiscale, un saggio sulla fiscalità che ha superato le cinquantamila copie vendute, oltre a un numero imprecisato di copie scaricate gratuitamente dal web. La parte più originale del progetto è stata mettere a disposizione sul sito revolution-fiscale.fr un simulatore fiscale: un sofisticato e costoso strumento di cui dispongono gli Stati per calcolare gli effetti delle riforme. Si sono cimentate oltre 500 mila persone: variando le aliquote , dopo pochi secondi si sa se la situazione delle casse pubbliche è migliorata o no e se la manovra è stata iniqua. A parte la conferma che chi modifica il fisco sa benissimo cosa fa e dove va a incidere, cosa volevano dimostrare i tre giovani docenti di Economia Camille Landais, Thomas Piketty ed Emmanuel Saez con Guillaume Saint-Jacques, un allievo dell’ultimo anno dell’École normale supérieure che hanno sviluppato il simulatore? «Il nostro sistema fiscale – spiegano – è complesso e poco trasparente, imbottito di nicchie e di regole aggirabili. Ed è profondamente ingiusto. Noi dimostriamo per la prima volta il carattere regressivo delle imposte nel nostro Paese». Il 50% della popolazione francese appartiene alle classi popolari: 25 milioni di cittadini che pos-

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

D

Il ceto medio francese paga il 48-50% di tasse sul reddito. I ricchissimi solo il 35% seggono il 4% dei beni e hanno un reddito lordo mensile tra 1.000 e 2.200 euro, subiscono un tasso di imposizione tra il 41 e il 48%. Il ceto medio, formato da 20 milioni di cittadini che guadagnano tra i 2.300 e i 5.100 euro mensili, subisce un prelievo tra il 48 e il 50%. La pressione fiscale, invece, diminuisce al 45% per i 4,5 milioni di francesi che hanno redditi tra i 5.200 e i 14 mila euro, e scivola sotto il 35% per i 50 mila ricchissimi (0,1% della popolazione) che portano a casa 63 mila euro lordi al mese e detengono il 24% della ricchezza totale.

Questa progressione al contrario – chi ha di meno dà di più – è semplice da spiegare: il 75% delle entrate fiscali deriva dalla tassazione del lavoro e il 25% dalle rendite dei patrimoni. Per questo gli autori della “rivoluzione” fiscale propongono un nuovo sistema di tassazione che sostituisca il precedente e pareggi questa sproporzione. Semplice e nemmeno troppo doloroso per la maggioranza della popolazione, se non fosse che chi ha sempre pagato poche tasse è convinto di avere il diritto di continuare così e per questo è anche disposto a fare la guerra. A noi resta da osservare che il reddito medio francese è superiore a quello italiano, che la pressione fiscale italiana secondo la Corte dei conti è oltre il 43%, simile alle realtà nordeuropee, ma senza avere lo stesso welfare state. E che la pressione fiscale reale tocca il 55%, secondo Confcommercio, perché i contribuenti onesti in Italia pagano anche per gli evasori. Infine che il gettito derivante dalla tassazione patrimoniale è il 6,7% del totale, con una flessione di quasi un terzo rispetto alla metà degli anni Novanta. Non serve, quindi, tagliare le tredicesime: in Italia è urgente una patrimoniale. Che non sarebbe una rivoluzione, ma un debolissimo riequilibrio.  | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 37 |


38-39_mappa_V102 07/08/12 15.55 Pagina 38

2,7 2,2

1,9

Il mondo precipita

2,9

| inumeridellaterra |

di Matteo Cavallito

3,3 1,5

2,3

2,7

3,3

3,3 3,2 3,2

4,2

5,6

5,6

6,5

REGNO UNITO

CANADA

STATI UNITI

l mondo viaggia verso la decrescita forzata? Difficile dirlo, ma i numeri sono impressionanti. Dal decennio 1961-70 all’ultima decade del XX secolo i tassi di crescita si sono ridotti in tutto il Pianeta. Nell’ultimo decennio a trainare la crescita mondiale sono state le economie emergenti. Scarsa la performance dei Paesi più sviluppati. Tra il 2002 e il 2012, ricorda la rivista Global Finance citando dati di Fmi, Banca mondiale e Ocse, ben quattro Paesi del G8 compaiono nella Top 10 delle nazioni che sono cresciute di meno: Francia (+1,1%) è 10ª, Germania (+1,1%) 9ª, Giappone (+0,8) è al sesto posto, l’Italia (+0,2%) conquista il bronzo. Sul secondo gradino del podio si piazza il Portogallo vicino alla stagnazione perfetta con il suo 0,1%. Oro allo Zimbabwe (-3,3%), unica economia al mondo capace di contrarsi su base decennale. 

FRANCIA

I

| 38 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

TASSI MEDI ANNUI DI CRESCITA DEL PIL NEI PAESI DEL G-7 E DELL’UNIONE EUROPEA [valori percentuali] 1961-1970 1971-1980 1981-1990 1991-1999


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FONTE: SOCIALBAKERS.COM (PER FACEBOOK E LINKEDIN) - THE BLOG HERALD (PER TWITTER) - ILLUSTRAZIONE: DAVIDE VIGANÒ

1,2

10,1

2,7 2,2

4,4

| Pil in caduta lbera |

1

1,3

2,2

3,6

4

4,4

5,7

GERMANIA

ITALIA

GIAPPONE

I CICLI ECONOMICI NEGLI STATI UNITI - ANNI 1854-2009 [date di inizio delle fasi di espansione e durata complessiva dei cicli in mesi] Espansioni

MESI

Contrazioni

140 120 Anni ’60

Guerra civile 100

mag-09 Crisi del ’29

80

dic-07

60 40 20

41 anni e mezzo di crescita, 35,5 di recessione. È il bilancio dell’economia statunitense tra il dicembre del 1854, primo anno preso in esame dal National Bureau of Economic Research, e il marzo 1933, data di conclusione della grande crisi del ’29. In quel periodo, ha ricordato l’ultimo libro di Gian Paolo Patta

Media

mar-1991

nov-2001

nov-1982

lug-1980

mar-1975

feb-1961

nov-1970

apr-1958

mag-1954

ott-1945

ott-1949

giu-1938

nov-1927

mar-1933

lug-1921

lug-1924

dic-1914

mar-1919

giu-1908

gen-1912

ago-1904

dic-1900

giu-1897

giu-1894

mag-1891

apr-1888

mar-1879

mag-1885

dic-1867

dic-1870

giu-1861

dic-1858

dic-1854

0

(Plusvalore d’Italia. Il buon uso di Marx per capire la crisi mondiale, Punto Rosso, 2012), «5,5 mesi di crisi si sono alternati a 6,5 mesi di crescita». Nei successivi 76 anni, fino al maggio 2009, invece, «abbiamo avuto 12 anni di crisi, pari a solo il 16% dell’intero arco temporale. Solo 2 mesi l’anno»

FONTE: ELABORAZIONE SU DATI NBER, HTTP://PAPERS.NBER.ORG/CYCLES/CYCLESMAIN.HTML. LA DURATA DELL’ULTIMA FASE DI CONTRAZIONE, IN ATTESA DELL’IDENTIFICAZIONE NBER, È BASATA SULLA DATAZIONE STIMATA DALL’OCSE, SECONDO LA PROPRIA METODOLOGIA (HTTP://WWW.OECD.ORG/DOCUMENT/0/0,3343,EN_2649_34349_1890560_1_1_1_1,00.HTML)

| ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 39 |


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REUTERS / STEFANO RELLANDINI

economiasolidale

Le attivitĂ umane prosciugano il Pianeta > 44 Carne insostenibile per ambiente ed economia > 46 La riscoperta dei fagioli (grazie alla crisi) > 50 Meno risorse, piĂš innovazione > 54 | 40 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |


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| Bad economy |

Un’immagine aerea del Terminale GNL Adriatico, un’isola artificiale, al largo di Porto Levante, a poche miglia da Venezia. La società che opera sul rigassificatore è una joint venture tra ExxonMobil, Qatar Petroleum ed Edison

Trivella libera

L’articolo 35 del decreto voluto dal ministro Passera dà il via libera a una sanatoria per le richieste di ricerca ed estrazione di greggio nei mari italiani. Le aree interessate dalla caccia all’oro nero potrebbero decuplicare. Un favore alle lobby petrolifere. Con buona pace della green economy

vuol dire sviluppo? di Emanuele Isonio mmaginatevi un giro d’Italia in barca, che parta dall’Alto Adriatico, faccia tappa nelle coste abruzzesi, doppi il Gargano, lambisca il meraviglioso Salento e scenda fino allo Ionio. E poi faccia un bel giro tra il mare cristallino di Pantelleria e le coste meridionali della Sicilia, sulle quali affacciano decine di perle barocche, e risalga fino a raggiungere il golfo di Oristano, nella Sardegna occidentale. Potrebbe essere il sogno di tanti velisti. Sicuramente molti turisti verrebbero dall’altra parte del mondo per sperimentare il tour. Ma quello qui delineato non è l’itinerario per una bella vacanza. È, al contrario, la mappa delle zone coinvolte nelle ricerche e nelle estrazioni di petrolio. Un’area di quasi 1.800 chilometri quadrati alla quale potrebbero aggiungersene altri 29.700. Frutto di una sanatoria contenuta nel nuovo Decreto Sviluppo, approvato in via definitiva dalle Camere pochi giorni prima della pausa estiva. Tanto per fare paragoni: la Sardegna è grande 24.090 chilometri quadrati.

I

| ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 41 |


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| economiasolidale |

Una norma “ad aziendas” Che cosa abbia a che fare una sanatoria per le ricerche di petrolio in mare con una legge che dovrebbe servire allo sviluppo economico è questione di valutazioni soggettive. Sta di fatto che l’Italia si conferma un paradiso per i trivellatori. Nella stagione in cui i diritti vengono spesso sacrificati in nome dell’esigenza di avere maggiori entrate e minori spese, gli interessi dei petrolieri sembrano messi in cassaforte. L’ultima prova arriva leggendo il testo del decreto legge 83/2012. La pietra dello scandalo è contenuta nell’articolo 35. Che, da un lato, estende a tutte le acque territoriali il divieto di “attività di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare” entro le 12 miglia dalla costa. Ma, dall’altro, con un colpo di spugna, elimina i blocchi alle richieste di autorizzazione per le medesime attività introdotti nel 2010 con il decreto legislativo 128. Erano passati pochi mesi da quando un incidente alla piattaforma Deepwater Horizon aveva messo a rischio gli ecosistemi di mezzo Golfo del Messico. Sull’onda dell’emozione suscitata da quel disastro ambientale l’allora ministro Stefania Prestigiacomo riuscì a far valere il principio di precauzione. Un paio d’anni e la crisi che morde la nostra economia evidentemente aiutano

Le riserve di petrolio sottomarine sono scarse ma l’estrazione è resa appetibile da un sistema fiscale estremamente generoso l’oblio. E agevolano le manovre della potente lobby petrolifera. «Quel decreto – ammette il senatore Pd, Francesco Ferrante – è una vera e propria norma ad aziendas. Ci sono i nomi e i cognomi di chi ha interesse a vedere approvata questa sanatoria». Basta leggere l’elenco delle richieste di trivellazione per capire a chi si riferisca: Eni ed Edison. Ma anche Vegaoil Petroceltic, Medoilgas, Northern Petroleum Ltd, Shell, Puma Petroleum, Enel Longanesi, Audax, Sam Leon, Apennine Energy. A dire il vero in Senato (che ha esaminato la legge di conversione del decreto dopo che era stata approvata dalla Camera) forse ci sarebbero stati i margini per modificare la norma. Ma i tempi strettissimi di approvazione non l’hanno consentito. Prosegue Ferrante: «Ormai il bicameralismo non esiste più. Con questo governo un ramo del Parlamento esamina una legge e l’altro può solo accettarla o respingerla, perché sul testo uscito dalla prima Camera viene posta la fiducia. L’unica cosa che abbiamo potuto fare è presentare un ordine

E NEL DECRETO UNA NORMA SALVA LE CENTRALI A OLIO Nello sport si parlerebbe di vittoria al fotofinish. All’ultimo momento utile, durante la discussione alla Camera sul decreto Sviluppo, è stato introdotto un emendamento in favore dei proprietari delle vecchie centrali a olio. Obiettivo (ufficiale): scongiurare eventuali penurie di gas nei mesi invernali. La denuncia arriva dal senatore Pd, Francesco Ferrante: «La norma impone al ministero dello Sviluppo economico di individuare le centrali a olio combustibile da riaccendere nel caso di scarsità di gas. L’Autorità per l’Energia dovrà poi stabilire i modi per calcolare i costi sostenuti dai proprietari delle centrali». I soldi per mantenere in vita queste centrali saranno presi direttamente dalle bollette elettriche. «È una norma urticante – prosegue Ferrante – che non potrà essere modificata al Senato perché il governo ha posto la fiducia sul testo uscito dalla Camera ed è stata fatta solo per mantenere in vita dei ferrivecchi. Tra l’altro sono previste deroghe alle regole sulle emissioni in atmosfera o alla qualità dei combustibili usati. E i proprietari delle centrali saranno esentati dall’attuazione degli autocontrolli previsti nei piani di monitoraggio». In pratica gli impianti funzioneranno al di fuori di qualsiasi controllo ambientale. Benvenuti al Far West Italia. Em. Is.

| 42 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

del giorno per coinvolgere gli enti locali nell’iter di autorizzazione».

Settanta trivelle ai blocchi di partenza I numeri dicono che già oggi, al largo delle nostre coste, operano nove piattaforme di estrazione (un’area di 1.786 km quadrati, distribuita tra Marche, Abruzzo, coste brindisine e canale di Sicilia). Alla luce dell’ultima norma, fortemente voluta dal ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera, potrebbero presto essere affiancate da altre settanta trivelle. A rivelarlo è Legambiente che ha elaborato i dati resi noti dallo stesso ministero guidato da Passera. Quasi trentamila i chilometri quadrati coinvolti, concentrati fra Adriatico meridionale, Golfo di Taranto e Sicilia meridionale (vedi MAPPA ), divisi in 10.200 km quadrati per 19 permessi di ricerca già rilasciati e 17.600 in attesa di valutazione da parte del ministero. Ad essi si aggiungono altre sette richieste di estrazione di petrolio e tre istanze di prospezione (indagine preliminare del sottosuolo).

Riserve sufficienti per sette settimane Legittimo chiedersi quanto senso abbia questa febbre dell’oro nero sui mari italiani. Per via della crisi e dei primi effetti degli interventi di risparmio energetico, la domanda di petrolio nel 2011 è stata di 72 milioni di tonnellate (dati Unione Petrolifera). Nel primo semestre di quest’anno è stato segnalato un calo del 10% rispetto all’anno prima. Comunque un discreto bacino di consumatori. Ma quanto oro nero c’è nei nostri fondali? Le stime del ministero dello Sviluppo economico di dicembre 2011 lo quantificano in 10,3 milioni di tonnellate di riserve certe. Ai ritmi attuali, se anche si estraessero tutte, finirebbero dopo appena sette settimane. «Questi dati – commenta il responsabile scientifico di Legambiente, Stefano Ciafani – dimostrano l’assoluta insensatezza del rilancio delle attività estrattive previsto nella nuova Strategia energetica nazionale prospettata dal ministro Passera. Uno dei pilastri sembra essere la spinta verso nuove trivelle dalle quali


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| economiasolidale |

LA MINACCIA DEL PETROLIO NEL MARE ITALIANO

1.098 km2

1 - PIATTAFORMA SARAGO MARE 1 2 - PIATTAFORMA SARAGO MARE A CIVITANOVA MARCHE (MC) ORTONA (CH) VASTO (CH)

1 - PIATTAFORMA ROSPO MARE A 2 - PIATTAFORMA ROSPO MARE B 3 - PIATTAFORMA ROSPO MARE B 2.755 km2 1 - PIATTAFORMA AQUILA

683 km2 5.284 km2 BRINDISI

MARINA DI SIBARI (CS)

6.014 km2

12.074 km2

PANTELLERIA (TP)

Piattaforma petrolifera Aree a rischio di future trivellazioni

LICATA (AG) GELA (CL) RAGUSA

PIATTAFORMA PERLA PREZIOSO PIATTAFORMA GELA 1

Richieste per l’estrazione di idrocarburi

dovrebbero arrivare 15 miliardi di investimenti e 25 mila nuovi posti di lavoro». Il paradosso è che il piano di Passera è contraddetto da un rapporto firmato dalla Direzione generale per le risorse energetiche del suo stesso ministero. Si legge nel documento: «Il rapporto tra le sole riserve certe e la produzione annuale media degli ultimi cinque anni indica uno scenario di sviluppo articolato in 7,2 anni per il gas e 14 per l’olio». «Il “pirata” Passera sui temi energetici sta portando l’Italia in un vicolo cieco – prosegue Ciafani –. Ha riempito di burocrazia e paletti inutili i nuovi decreti sul fotovoltaico e sulle altre energie rinnovabili, mettendo in serio pericolo un settore strategico per ridurre la dipendenza dall’estero e le emissioni di CO2. E invece continua a sostenere le fonti fossili, in mare e a terra».

PIATTAFORMA VEGA A

Un paradiso (fiscale) per petrolieri In assenza di grosse quantità da estrarre, a rendere particolarmente appetibile il nostro Paese per i petrolieri è un sistema fiscale estremamente generoso, anche dopo che il Decreto Sviluppo ha aumentato le royalty di tre punti percentuali (da 7 al 10% per il gas e dal 4 al 7% per l’olio). E oltre ad aliquote particolarmente basse (nel resto del mondo oscillano tra il 20 e l’80% del valore del prodotto estratto), le aziende possono contare su un sistema di agevolazioni ed esenzioni impressionante: ricevono incentivi sul gasolio usato nelle attività di ricerca ed estrazione, sono esentate dalle royalty le prime 50 mila tonnellate di greggio estratto in mare e i primi 80 metri cubi di gas. E sulle restanti i costi di concessione fissati nel 1996 sono di 5 mila lire (non euro!) a chilometro qua-

dro per i permessi di prospezione, 10 mila lire per i permessi di ricerca, 80 mila lire per i permessi di estrazione. Alla luce di questo meccanismo, su 70 concessioni per attività di estrazione a mare, solo per 28 si è dovuto pagare imposte. «Questo sistema fiscale è alla base dell’interesse eccessivo per l’oro nero e il gas nei nostri fondali», commenta Stefano Lenzi, responsabile delle Relazioni istituzionali del WWF. Intanto il Mediterraneo, che rappresenta meno dell’1% delle acque del globo, ospita il 25% del traffico petrolifero mondiale e vanta il primato mondiale per la concentrazione di catrame in mare aperto: 38 milligrammi per metro quadro. Tre volte superiore a quello del Mar dei Sargassi. Per evitare una “Deepwater Horizon” nel Mare Nostrum non rimane che incrociare le dita.  | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 43 |


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| economiasolidale | Consumi e risorse naturali |

Le attività umane prosciugano il Pianeta di Andrea Barolini

Il sistema produttivo moderno impone un utilizzo troppo elevato di una risorsa limitata e fondamentale: l’acqua. Per produrre un chilogrammo di caffè se ne consumano 20 mila litri, per un hamburger 2.400

FONTE: A. Y. HOEKSTRA, A. K. CHAPAGAIN, WATER FOOTPRINTS OF NATIONS, 2006

V

Lasciamo un’impronta Proprio con l’intento di sensibilizzare sulla necessità di diminuire il consumo di acqua, da anni alcuni esperti hanno cominciato a calcolare “l’impronta idrica”, ovvero il valore dei litri di acqua che viene consumata per produrre un bene, o per garantire i bisogni di una comunità o di una nazione. «L’interesse – ha spiegato Arjen Y. Hoekstra, professore di Gestione idrica all’Università olandese di Twente e ideatore del concetto di water footprint – è legato al riconoscimento dell’impatto umano sui sistemi idrici in termini di consumi e, conseguentemente, anche di scarsità e di inquinamento». Una questione strettamente legata al nostro modello di sviluppo: «I problemi idrici – prosegue il docente – sono parte integrante della struttura dell’economia globale.

NUMERO DI LITRI DI ACQUA NECESSARI PER UN KG DI PRODOTTO Prodotto Media globale Caffè Carne bovina Tè Cotone (non grezzo) Formaggio Carne di maiale Latte in polvere Carne di pollo Uova Riso Orzo Grano Latte Mais Zucchero di canna | 44 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

20.682 15.497 9.205 8.242 4.914 4.856 4.602 3.918 3.340 2.975 1.388 1.334 990 909 175

Italia n.d. 21.167 n.d. n.d. 4.278 6.377 4.005 2.198 1.389 1.679 1.822 2.421 861 530 n.d.

Molti Paesi esternalizzano i costi in termini di acqua comprando dall’estero beni molto costosi in termini idrici. Il che genera pressione sulle risorse presenti nelle regioni esportatrici, spesso prive di meccanismi di governance dell’acqua». Per inquadrare il problema, immaginate di lasciare spalancato il rubinetto della vostra doccia per un giorno intero. Giorno e notte, 24 ore, senza interruzione. Al ritmo medio di 7-8 litri all’ora, avrete sprecato poco più di 9 mila litri: quanto serve per produrre una sola tazza di tè, tra coltivazione, raccolta, lavorazione, imballaggio. Uno studio dello stesso Hoekstra e di A. K. Chapagain (Water footprints of nations, 2006, vedi TABELLA ) indica tra i prodotti più “idrovori” il caffè (per produrne un kg servono oltre 20 mila litri di acqua), la carne bovina (più di 15 mila litri), il co-

NUMERO DI LITRI DI ACQUA PER TIPO DI PRODOTTO Prodotto 1 maglietta di cotone 1 paio di scarpe di cuoio 1 hamburger (150 g) 1 bicchiere di latte (250 ml) 1 sacchetto di patatine fritte (200 g) 1 bicchiere di succo d’arancia (200 ml) 1 tazza di caffè (125 ml) 1 fetta di pane (30 g) con formaggio (10 g) 1 bicchiere di birra (250 ml) 1 mela (100 g) 1 fetta di pane (30 g) 1 tazza di tè (250 ml) 1 patata (100 g) 1 pomodoro (70 g) 1 foglio di carta A4 (80 g/m2)

Impronta idrica 20.000 8.000 2.400 200 185 170 140 90 75 70 40 35 25 13 10

FONTE: A. Y. HOEKSTRA, A. K. CHAPAGAIN, WATER FOOTPRINTS OF NATIONS, 2006

i siete mai chiesti quanta acqua serve per produrre la maglietta che indossate, l’hamburger che avete appena mangiato, la tazza di tè con cui avete fatto colazione o le scarpe che avete ai piedi? Tenetevi forte, perché le cifre sono impressionanti. Ciascuno di noi, infatti, consuma normalmente acqua per bere, per cucinare, per lavarsi. Ma questa è solo l’acqua che “vediamo”. Mentre ogni prodotto che utilizziamo “contiene” decine, centinaia se non migliaia di litri di “acqua virtuale”. Ovvero quella che ha permesso di ottenere il prodotto finito. Ed è proprio nella fase di “creazione” di ciascun cibo, oggetto o capo d’abbigliamento che si potrebbero risparmiare enormi quantità di acqua. Ovvero di un bene che, dati alla mano, sta diventando sempre più raro nel mondo.


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LE RISORSE IDRICHE DELLA TERRA L’acqua, è noto, è presente in grande quantità sul pianeta Terra. Mari, laghi, fiumi, oceani, ghiacci ne conservano ben 1,4 miliardi di chilometri cubi. Ma solamente il 2,5% (35 milioni di chilometri cubi) è costituito da acqua dolce. Di questa, inoltre, il 70% è intrappolato sotto forma di neve e ghiaccio perenni nelle regioni montuose e ai due Poli. Sfruttabile dall’uomo, dunque, resta solo lo 0,7% delle risorse idriche totali. E la maggior parte di tale piccola quota è confinata in depositi sotterranei (falde, umidità del suolo, acquitrini, permafrost). L’acqua dolce superficiale presente nei laghi e nei fiumi, dunque, è pari solamente allo 0,3% (105 mila chilometri cubi) del volume totale. Ciò basta a spiegare per quale ragione sia fondamentale un utilizzo parsimonioso di tale risorsa, che costituisce la base della vita animale e vegetale sul Pianeta.

tone lavorato (oltre 8 mila litri). In termini più semplici da memorizzare, l’impronta idrica di un hamburger da 150 grammi è di 2.400 litri; 8 mila litri servono invece per un paio di scarpe di cuoio e ben 20 mila per una maglietta di cotone (sul sito internet www.waterfootprint.org è presente un calcolatore).

Le attività umane usano troppa acqua I due esperti hanno anche stimato l’impronta idrica globale e quella di molte nazioni. La prima è pari a 7.450 miliardi di metri cubi di acqua all’anno (un metro cubo “vale” mille litri). Le seconde variano da quelle dei Paesi che, per abitante, consumano più acqua (in testa gli Usa con 2.480 metri cubi all’anno, seguiti a poca distanza da Italia, Francia e Russia), e quelli invece che ne utilizzano meno, come la Cina che arriva a quota 702 metri cubi annui. Si tratta di cifre insostenibili per il pianeta Terra. Ad oggi, infatti, globalmente gli esseri umani si appropriano del 54% di tutta l’acqua dolce accessibile. Il rapporto del WWF Impronta idrica - Scenari globali e soluzioni locali sottolinea come la possibilità di aumentare le forniture di acqua abbia «praticamente raggiunto la soglia critica in molte regioni, anche in Europa». Un pericolo enorme, se si considera che gli ecosistemi di acqua dolce, pur ricoprendo solo l’1% della superficie terrestre, ospitano il 7% (126 mila specie) delle 1,8 milioni di

FONTE: A. Y. HOEKSTRA, A. K. CHAPAGAIN, WATER FOOTPRINTS OF NATIONS, 2006

| economiasolidale |

L’IMPRONTA IDRICA PER NAZIONE Impronta idrica totale (miliardi di metri cubi annui)

Impronta idrica pro capite (metri cubi annui)

India

987,38

980

Cina

883,39

702

Usa

696,01

2.483

Russia

270,98

1.858

Brasile

233,59

1.381

Giappone

146,09

1.153

Italia

134,59

2.332

Germania

126,95

1.545

Francia

110,19

1.875

Regno Unito

73,07

1.245

Sudafrica

39,47

931

Australia

26,56

1.393

19,4

1.223

Paese

Paesi Bassi

specie a oggi descritte, tra cui un quarto dei 60 mila vertebrati noti (secondi i dati dell’International Union for Conservation of Nature). Nonostante ciò, le attività dell’uomo continuano a utilizzare l’acqua dolce come se fosse inesauribile. In particolare per le colture: in Europa l’attività agricola consuma mediamente il 46% delle risorse idriche, contro il 19% della produzione elettrica, il 18% delle forniture idriche e il 17% dell’industria. In Italia circa il 60% dell’acqua dolce è utilizzato per l’agricoltura, il 25% per l’industria e il 15% per gli usi domestici. «Il risultato dell’azione umana – prosegue il rapporto del WWF – è che la bio-

diversità globale negli ecosistemi d’acqua dolce presenta ormai un tasso di estinzione 5 volte superiore a quello delle specie terrestri». Non solo: in Europa, negli ultimi 50-100 anni il 60% delle zone umide è andato perso perché convertito a usi più “redditizi” o perché non tutelato. Se a ciò si aggiunge che, ad oggi, 36 milioni di chilometri quadri sulla Terra sono considerati a rischio desertificazione (un’area pari a quattro volte le dimensioni della Cina) e che la popolazione umana crescerà dagli attuali 7 miliardi di abitanti a 9,3 miliardi nel 2050, la strada che porta ad un drastico ripensamento dei nostri metodi di produzione è evidentemente obbligata. 

IL CASO VIRTUOSO DELL’ITALIANA MUTTI Alcune aziende hanno preso coscienza della necessità di gestire in modo consapevole e sostenibile le risorse idriche, e hanno cominciato a modificare a tale scopo la propria produzione. In Italia, il primo gruppo ad aver avviato un processo virtuoso di questo tipo è l’industria alimentare Mutti, che grazie a una partnership con il WWF ha calcolato l’impronta idrica complessiva della sua produzione aziendale. Sono state così prese in considerazione le quantità di acqua immagazzinate in ciascun prodotto (concentrati di pomodoro, salse, passate, polpe), quelle utilizzate nella fase di approvvigionamento (coltivazione del pomodoro e di altri ingredienti), per la lavorazione, per il confezionamento e l’imballaggio. Nonché quelle connesse ad energia e trasporti. Così, è stato calcolato che per produrre una bottiglia di passata Mutti da 720 grammi (compresi contenitore ed etichetta) ci vogliono 172 litri di acqua, mentre si arriva a 223 litri per un barattolo di polpa da 400 grammi. Un punto di partenza: Mutti ha avviato azioni per ridurre la propria “impronta” lungo tutta la catena produttiva, sensibilizzando anche i fornitori.

| ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 45 |


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| economiasolidale | consumi e risorse naturali |

Carne insostenibile per l’ambiente e l’economia

di Gaia Angelini

La Fao denuncia: il consumo di carne potrebbe crescere del 73% entro il 2050. Ma l’impatto del ciclo di produzione sarebbe letale per gli ecosistemi terrestri. Colpa anche di un sistema di sussidi che rende bassi i costi rispetto a frutta e verdura. Ecco perché serve un cambio nei nostri stili alimentari a produzione di carne a livello globale è raddoppiata dagli anni ’70, specie grazie ai sistemi di allevamento intensivo che gestiscono gli animali come prodotti industriali inanimati. Nell’ultimo trentennio l’allevamento di polli è cresciuto di sei volte, i suini si sono triplicati e i bovini raddoppiati. Ogni anno nel mondo si macellano circa 56 miliardi di animali terrestri a fronte di una popolazione di 6,8 miliardi di persone e, secondo la Fao, in uno scenario business- as-usual la produzione e il consumo di carne potrebbero crescere del 73% entro il 2050. In Italia il consumo medio annuale di carne è di 87,5 kg procapite mentre negli Stati Uniti si stima intorno ai 122,8 kg, il più alto nel mondo. Tutto questo ha, però, un costo molto alto in

L

| 46 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

termini di impatti ambientali; oggi il sistema zootecnico mondiale sfrutta circa il 30% delle terre emerse sul Pianeta e il 70% delle aree agricole mondiali e il “prodotto” carne è un inquinante potente per i terreni, il clima, le acque e l’atmosfera,

oltre che un veicolo di deforestazione e perdita della biodiversità. Inoltre la carne di oggi è un prodotto globalizzato, veicolo di epidemie che colpiscono gli animali e l’uomo. In Europa tutto questo avviene a spese della collettività, tramite sussidi europei e nazionali che incentivano la produzione di carne e garantiscono il basso costo al consumo, più basso di frutta e verdura. I sussidi della Politica Comune Agricola Europea (Pac) ai diver-

LA POLITICA AGRICOLA DEL FUTURO La Lav ha elaborato un decalogo per una nuova politica agricola sostenibile europea per il periodo 2014-2020. Esso prevede, tra l’altro, il supporto finanziario alla produzione di proteine vegetali come sostituto progressivo alle proteine animali, l’abolizione degli allevamenti intensivi, la revoca dei sussidi alla produzione di carne, l’introduzione di una tassa sulle emissioni di CO2 provenienti dalle attività del ciclo di produzione della carne e l’introduzione di una normativa sull’etichettatura e la tracciabilità di tutti i tipi di carne e che specifichi il metodo di allevamento utilizzato, i luoghi di provenienza e le distanze percorse dagli animali, la promozione di alti standard di benessere e salute animale in tutti gli allevamenti.


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| economiasolidale |

FONTE: DATI FAOSTAT

si settori coinvolti nella produzione della carne, latte e latticini ammontano a centinaia di euro all’anno.

Aiuti a un sistema inefficiente

La produzione Il ciclo di produzione della carne include molteplici attività. Inizia con l’occupazione di suolo per i mangimi per animali e finisce con la vendita della carne da servire sul piatto del consumatore. Nel mezzo ci sono: la coltivazione di mangimi; il trasporto dei mangimi; l’allevamento degli animali, il trasporto degli animali, l’uccisione e macellazione degli animali; il trasporto della carne; il suo imballaggio e distribuzione. Nella maggior parte dei casi le attività coinvolte nel ciclo di produzione avvengono in diversi

100.000.000 90.000.000 80.000.000 70.000.000 60.000.000 50.000.000 40.000.000 30.000.000 20.000.000 10.000.000 0 1961 Bovini

FONTE: DATI ISTAT

In occasione del processo di riforma della Pac per il periodo 2014-2020, lo scorso giugno l’Associazione di protezione animali Lav (www.lav.it) ha pubblicato il rapporto “I costi reali del ciclo di produzione della carne” (scaricabile su: www.lav.it/in dex.php?id=1940), che analizza gli impatti ambientali, economici e sanitari della produzione di carne, utilizzando dati provenienti da recenti studi internazionali. «La produzione di carne è un sistema inefficiente, che trasforma una moltitudine di alimenti a base vegetale in una quantità estremamente limitata di alimenti di origine animale, riversando sui cittadini gli alti costi diretti e indiretti legati agli impatti ecologici, sanitari e veterinari», sostiene Roberto Bennati, vicepresidente Lav. «La crescita esponenziale della produzione di carne è incentivata da sussidi governativi e dall’utilizzo di sistemi di allevamento intensivo che confinano gli animali in spazi chiusi e limitati, utilizzano antibiotici per prevenire e curare le infezioni animali e importano mangimi su vasta scala da Paesi extra-europei, indirettamente incentivando la deforestazione e l’uso di fertilizzanti e pesticidi. In termini di costi diretti e indiretti (legati agli impatti ambientali, sanitari e veterinari) la carne è probabilmente il prodotto agro-alimentare più caro sul mercato globale».

LA PRODUZIONE DI CARNE NEL MONDO

1965

1969

Maiale

1973 Pollo

1977

1981

1985

Bufalo e pecora

1989

1993

Tacchino

1997

2001

2005

2009

Cavallo

I PREZZI DI CARNE, ORTAGGI E FRUTTA IN ITALIA 155,00 145,00 135,00 125,00 115,00 105,00 95,00 1996/1 Frutta fresca

1999/1 Ortaggi

2002/1

2005/1

2008/1

Carne bovina

Produrre un chilo di carne emette la stessa quantità di CO2 di un’auto che percorre 250 chilometri, sommata a quella di una lampadina da 100 Watt accesa per 20 giorni Paesi europei ed extra-europei. Il trasporto gioca un ruolo essenziale per lo svolgimento del ciclo di produzione: l’Unione Europea è il più grande importatore di mangimi al mondo, specie soia e grano. Infatti la produzione di mangimi e l’allevamento occupano circa l’80% delle terre agricole mondiali contro l’8% utilizzato per prodotti destinati a consumo umano, è necessario quindi ricorrere a larghe estensioni in Sud-America e

Asia per l’approvvigionamento di mangimi; nell’Unione Europea gli animali sono trasportati spesso per giorni da un paese all’altro per l’ingrasso e la macellazione, e moltissimi animali vengono inviati in paesi extra-europei per essere macellati lì, in Russia, Medio-Oriente e altri paesi. I cosiddetti “viaggi della morte” seguono delle logiche legate agli incentivi e all’economia globale. Si calcola che più di 18 milioni di animali vivi siano trasportati, anche su lunghe distanze, ogni anno nell’Unione Europea.

I costi ambientali… La produzione di carne è responsabile di una quota tra il 18% e il 51% delle emissioni di gas serra mondiali e in Europa di circa il 12,8%; si può quindi concludere che, essendo una fonte importante di | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 47 |


40-55_ecosol_V102 07/08/12 16.01 Pagina 48

| economiasolidale |

Politica Agricola Europea, Fondo Europeo Agricolo di Garanzia

Anno 2010. Milioni/euro

Eradicazione malattie animali e monitoraggio

275

Latte e prodotti a base di latte

943

Emergenze veterinarie e possibili rischi di salute pubblica

30

Aiuti di Stato Produzioni animali, 2010

Anno 2010. Milioni/euro

Settore allevamenti - Stati Membri UE- 27

537.52

Settore Allevamenti - Italia

6.23

Malattie allevamenti - Stati Membri UE - 27

584,13

Malattie allevamenti - Italia

20,49

Alimento

Emissioni di CO2

1 broccolo o cavolfiore

0,185 kg di CO2

1 litro/kg di latte

2,4 kg di CO2

1 kg di carne di pollo

3,6 kg di CO2

1 kg di carne di suino

11,2 kg di CO2

1 kg di carne di manzo

28,1 kg di CO2

% di produzione in allevamenti intensivi nel mondo

% di produzione in allevamenti intensivi in Italia

Carne di pollo

72-74%

73%

Carne di suino

50-55%

61,5%

68%

65%

Prodotto

Uova

emissioni di CO2, la produzione di carne stia frenando gli sforzi internazionali di lotta al cambiamento climatico. Diversi studi internazionali raccomandano di sostituire il più possibile il consumo di proteine animali con quelle di origine vegetale, al fine di abbatte| 48 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

re le emissioni di gas serra. Si è stimato che la produzione di 1 kg di carne di manzo emetta le stessa CO2 di un’automobile media guidata per 250 km, addizionata all’utilizzo di una lampadina da 100 watt per 20 giorni consecutivi. Secondo uno studio della Commissione

Europea del 2008 il consumo di carne e prodotti lattiero-caseari produrrebbe un impatto ambientale del 24% rispetto al totale dei prodotti consumati nell’Unione Europea: 250 miliardi di euro se tradotto in termini monetari. Gli effetti considerati, oltre alle emissioni di gas serra, sono: l’acidificazione e l’inquinamento delle acque, sfruttamento delle risorse naturali e inquinamento atmosferico. Il sistema di produzione della carne utilizza, infatti, enormi quantità di acqua e inquinanti come concimi azotati e pesticidi; lo spandimento dei liquami animali e l’erosione del suolo dovuto ai nitrati sono responsabili di circa il 50% - 80% dell’inquinamento delle acque. Lo studio calcola che la carne bovina abbia un impatto ambientale da 4 a 8 volte superiore a quello del pollame e 5 volte superiore a quella dei suini. La produzione di carne necessita inoltre di ampie quantità di acqua: la produzione di 0,2 kg di carne di bovino si può tradurre nell’utilizzo di 25 mila litri di acqua (Agenzia Europea per l’Ambiente, 2005). L’acqua viene utilizzata in varie fasi del ciclo di produzione della carne (irrigazione dei campi per produrre i mangimi, pulizia delle installazioni, pulizia delle carcasse animali) e per esempio un bovino adulto può bere tra i 30 e 50 litri di acqua al giorno mentre un suino fino a 10 litri.


40-55_ecosol_V102 07/08/12 16.01 Pagina 49

| economiasolidale |

Gli impatti veterinari e sanitari Le emergenze veterinarie e sanitarie legate alla produzione di carne sono costose: ad esempio si calcola che in Italia l’allarme virus della “mucca pazza” tra il 2001 e il 2007 sia costato 443 milioni di euro di cui circa la metà solo per la distruzione delle carcasse bovine. Le perdite finanziarie globali legate al virus della mucca pazza si stimano invece a 20 miliardi di dollari. La diffusione dell’influenza aviaria (AH5N1) nel mondo nel

Secondo uno studio della Commissione europea gli impatti ambientali delle produzioni di carne e latticini equivalgono a 250 miliardi di euro periodo 1999-2004 ha portato alla soppressione di 220 milioni di uccelli e alla morte di più di 60 persone. «In Europa attualmente la maggior parte degli ani-

mali destinati alla produzione di carne viene gestita come prodotti inanimati, veri e propri “prodotti”, e tutto ciò nonostante il Trattato Europeo riconosca tutti gli animali come esseri senzienti, e obblighi a mettere in pratica le misure necessarie al loro benessere. Gli allevamenti intensivi che rinchiudono una grande quantità di animali in piccoli spazi si prestano ad essere facili vettori di epidemie», sottolinea Paola Segurini, responsabile vegetarianismo della Lav.

Il ruolo del consumatore

DURATA DI VITA DEGLI ANIMALI Animale

In allevamento

Pollo

Vita naturale

30-40 giorni

10 anni

Suino

5-6 mesi

20 anni

Vacca da latte

4-5 anni

30-40 anni

Vitello

6-8 mesi

20-30 anni

Scrofa

3 anni

20 anni

IMPATTI DELLA PRODUZIONE ANIMALE INDUSTRIALE

Impatti ecologici

Emissione di gas serra; occupazione del suolo per produzione di mangimi; deforestazione; utilizzo di fertilizzanti e pesticidi e antibiotici; inquinamento di suolo, acque di falda, acque dolci e mari; spreco di acqua; sovra-sfruttamento delle risorse naturali, inquinamento atmosferico, selezione delle specie utilizzate che conduce a perdita della biodiversità zootecnica

Impatti sul benessere animale

Crudeltà verso gli animali; animali considerati come macchine inanimate di produzione e inseriti in sistemi di produzione intensiva; sofferenza animale e malattie animali

Impatti di salute veterinaria

Bassi standard conducono a diffusione di malattie zootecniche anche virali, abbattimento animali

Impatti sanitari sull’uomo

Trasmissione di malattie animali; possibile diffusione di nuovi virus, impatti sanitari derivati dagli impatti ecologici

Tranne alcune eccezioni le etichette non rilevano gli impatti ambientali del metodo di produzione della carne né da quali allevamenti l’animale provenga o per quanti km e ore sia stato trasportato, quindi la possibilità che il consumatore influenzi il mercato è molto limitata. L’unica certezza si applica ai prodotti biologici che specificano il metodo di allevamento, regolamentato e monitorato secondo normativa europea anche se per quanto riguarda il trasporto non ci sono informazioni specifiche. Inoltre, a seguito della diffusione del virus della mucca pazza, un’etichettatura e tracciabilità, poco comprensibile ai consumatori, è anche prevista per la carne bovina. Le sofferenze delle centinaia di animali rinchiusi in allevamenti industriali non sono neanche deducibili dall’etichetta.  | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 49 |


40-55_ecosol_V102 07/08/12 16.01 Pagina 50

| economiasolidale | made in italy a rischio/puntata 17 |

La riscoperta dei fagioli (grazie alla crisi) di Emanuele Isonio

Gli Italiani li stanno riscoprendo, anche come sostituto della (più costosa) carne. I produttori confermano il periodo positivo. I problemi? Rapporti complicati con l’industria di trasformazione e mercato dei semi ormai monopolizzato dalle multinazionali a un lato i rapporti non sempre facili con la grande distribuzione e con l’industria di trasformazione. Dall’altro, la concorrenza estera a basso costo, i comportamenti scorretti di chi usa prodotto importato come se fosse Made in Italy, il peso delle multinazionali detentrici dei brevetti di molti semi utilizzati dai coltivatori. In mezzo ci sono i produttori. Alle prese con problemi analoghi a molte altre filiere e con una consapevolezza crescente: uniti si vince e si aumentano i margini di guadagno. Al netto di tutto,

D

Fagiolo di Lamon della Vallata Bellunese

una frase, confidataci da uno dei molti addetti ai lavori intervistati: «Quando c’è da piangere è giusto lamentarsi. Ma in questo momento non possiamo farlo».

punto di vista sanitario, lo lasciamo dire ai nutrizionisti. Che sia un vantaggio per i produttori lo dicono i numeri (vedi GRAFICO ): dal 2009 il consumo di fagioli freschi è cresciuto dell’8% e del 2% quello dei fagioli in scatola. Ancora più consistenti gli aumenti dei controvalori economici: +12.2% per il prodotto fresco e +15,6% per il secco.

L’importanza dei contratti di filiera Consumi e controvalori in crescita Fra i filari di fagioli, i segnali positivi in effetti sembrano superare le (inevitabili?) ombre. A partire da una produzione stabile (quella del prodotto secco si attesta attorno ai 120mila quintali, concentrata in 8 regioni, vedi GRAFICO ) e da consumi in crescita, anche grazie allo scomodo alleato della recessione economica: la “carne dei poveri”, tradizionale appellativo dei legumi, aumenta sulle tavole italiane. Che non sia un male dal

«Tra le varie regioni ci sono forti differenze nei consumi – spiega Franco Ramello, responsabile economico di Coldiretti Piemonte – ma la cultura dei legumi si sta diffondendo anche nelle aree meno abituate a mangiarli (soprattutto nel Nord-Ovest, ndr). Negli ultimi 3-4 anni, i prodotti italiani sono sempre più ricercati e questo permette di strappare migliori prezzi nei rapporti con l’industria». Un tassello, quest’ultimo, essenziale per il buon funzionamento della filiera («la FONTE: ISMEA/JFK EURISKO

CONSUMI DOMESTICI: IL VALORE CRESCE (AIUTATO DALLA CRISI) 15% 10,2 10,6 10% 7,2 6,3 5% 2,8 1,5 0,6 0% 0,3

-1,0

-0,4

-2,0 -5% 2009 vs 2008

| 50 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

2010 vs 2009

Fagioli freschi (quantità)

Fagioli freschi (valore)

Fagioli in scatola (quantità)

Fagioli in scatola (valore)

2011 vs 2010

2,1


40-55_ecosol_V102 07/08/12 16.01 Pagina 51

60

62

5 60

5

FAGIOLO SECCO SUPERFICI E PRODUZIONI

5

| economiasolidale |

4.751

47 700

28

238

128

138 455

785

45

EMILIA ROMAGNA

3.150 1.000

3.150

12

70

70

LOMBARDIA

164

FRIULI-VENEZIA GIULIA

3.500 915

7.212

27

113

191

VALLE D’AOSTA

8

0 0

5

0

27 690

0

52

0

1.456

0

5

TRENTINO ALTO ADIGE

MARCHE

0

2.012 1.890

152

1.672

147

136

LIGURIA 0

0

0

0 0

UMBRIA

1.345

1.334

100 1.200

100

100

10.712

19.358

639 18.913

961

837

LAZIO

974

977 974

80

ALTRE REGIONI

80

80

MOLISE

BASILICATA

2009: superficie (ha)

quelli di tutela. Significativa è in tal senso l’esperienza di Fagiolcoop, che da tre anni riunisce i 60 produttori del Piemonte. Prima della sua nascita ciascun agricoltore vendeva il proprio raccolto a operatori commerciali locali che pagavano prezzi molto bassi («60-80 euro al quintale» ricorda Ramello) e rivendevano il prodotto all’industria. Unendosi, i produttori piemontesi hanno reso inutile tale passaggio: «Abbiamo rapporti diretti con l’industria, alla quale offriamo i fagioli già puliti, selezionati e confezionati in sacchi da 10-20 kg. Fagiolcoop fa una fattura unica e paga poi i vari soci in base alle rispettive quantità conferite». Il risultato: i prezzi di vendita dei fagioli (rampicanti) sono saliti a 350-360 euro a quintale. «La cooperativa – aggiunge Pietro Marchisio, presidente del mercato ortofrutticolo di Boves (uno dei più importanti per il commercio di fagioli piemontesi) – ha permesso di raggiungere nuovi mercati e di garantire ad acquirenti di grandi dimensioni i quantitativi sufficienti per soddisfare gli ordini».

Il problema dei semi brevettati

2.319

176 2.103 2.590

220

2011: superficie (ha)

172

2010: superficie (ha)

2009: produzione raccolta (q.li) 2010: produzione raccolta (q.li)

SICILIA

2011: produzione raccolta (q.li)

presenza di industrie italiane permette una rapida trasformazione del prodotto fresco, essenziale per mantenere inalterate le sue caratteristiche e conservarne la qualità» ammette Ramello). Ma l’industria appare ancora poco disposta a sottoscrivere contratti di filiera, che assicurino una giusta remunerazione dei produttori: 130-150 euro al quintale per le varietà nane che permettono una semina e raccolta meccanizzata; 300-350 euro per le varietà rampicanti che impongono la raccolta a mano. «Purtroppo molto spesso i prezzi offerti sono minori. Colpa anche del prodotto secco che arriva dall’estero (soprattutto Cile e Canada, ndr) a 50-60 dollari al quintale e talvolta mischiato con i fagioli italiani, per aumentare i profitti». La soluzione sarebbe arrivare a contratti pluriennali:

In Piemonte, 60 agricoltori si sono consorziati per vendere i loro prodotti direttamente all’industria. I prezzi di vendita sono così saliti a 350-360 euro al quintale «In alcuni casi già si sottoscrivono contratti triennali – prosegue Ramello –. Facendoli a inizio campagna, permettono di sterilizzare la volatilità e l’oscillazione dei prezzi e danno agli agricoltori la certezza di poter fare investimenti».

I vantaggi dell’unità Per stare nei costi e aumentare il potere contrattuale, essenziale è la nascita di consorzi di vendita, da affiancare a

La filiera, dunque, si può semplificare con vantaggi per tutti. C’è però un altro “nemico” da affrontare. E le soluzioni, in questo caso, sono più complesse. Rivela Marchisio: «Le multinazionali delle sementi da ormai 10-15 anni hanno in mano il mercato delle nuove varietà di semi, la cui riproduzione è vietata». Tipologie diffuse perché più richieste dai consumatori: «I fagioli risultavano più belli, più rossi, più conservabili e quindi, all’inizio, avevano più mercato». Il problema è che, avendone il monopolio, le ditte proprietarie del brevetto possono fornire anche semi di qualità più scadente senza troppi problemi: «Se il prodotto che ne deriva è peggiore, può essere venduto solo a prezzi inferiori e i margini di guadagno si riducono». Purtroppo, ormai quasi tutti i produttori utilizzano tali semi, mentre si sono via via perdute le tipologie tradizionali. «L’unica soluzione passa per la loro riscoperta – commenta Marchisio – ma chi ha ormai la forza per avviare questo sforzo?».  | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 51 |


40-55_ecosol_V102 07/08/12 16.01 Pagina 52

| economiasolidale |

Da carne dei poveri a cibo da ricchi di Emanuele Isonio

Le varietà tradizionali certificate Dop e Igp sono sempre più amate dai consumatori. Vere perle della gastronomia tricolore. Le quantità sono minime. Ma assicurano un ottimo prezzo a chi le produce. Anche grazie ai consorzi di tutela nche i ricchi mangiano fagioli. Non solo perché, causa la recessione economica, l’acquisto di carne bovina sta diventando una chimera per un numero sempre maggiore di famiglie, quanto perché, accanto al consumo dei legumi più diffusi, si vanno riscoprendo una serie di varietà regionali che hanno fatto la storia della gastrono-

A

DA NORD A SUD, LE SEI VARIETÀ DOP/IGP FAGIOLO DI CUNEO IGP www.fagiolcoop.it

FAGIOLO DI LAMON IGP www.fagiolodilamon.it

FAGIOLO DI SORANA IGP www.fagiolodisorana.org

Regione: Piemonte Produzione certificata (kg): // Superficie (he): n.d. Aziende: n.d.

Regione: Veneto Produzione certificata (kg): 14.262 Superficie (he): 12,69 Aziende: 87

Regione: Toscana Produzione certificata (kg): 7.764 Superficie (he): 5,70 Aziende: 23

Venne introdotto nel Cuneese agli inizi dell’800 e ha trovato il suo habitat ideale nel fondovalle e nella fascia pianeggiante a ridosso delle catena alpina, garantendo buone rese produttive e un prodotto di ottima qualità. Questi fagioli rampicanti sono gli ultimi in ordine di tempo ad aver ricevuto il riconoscimento IGP (maggio 2011).

| 52 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

Ventuno Comuni del Bellunese e tre Comunità montane: sono il perimetro entro il quale viene prodotto il fagiolo di Lamon. Quattro i tipi coltivati: lo “Spagnol”, ideale per le insalate; lo “Spagnolet”, molto usato in antipasti e contorni, per la sua buccia tenera ; il “Calonega”, il cui gusto ricorda quello delle castagne, ideale nelle minestre; il “Canalino”, particolarmente aromatico ma ormai in disuso per via della buccia molto spessa.

Coltivato soprattutto nel comune di Pescia (PT), il fagiolo di Sorana, da alimento povero usato nelle comunità rurali, è oggi richiestissimo ed è molto apprezzato nei ristoranti più attenti alla valorizzazione dei prodotti del territorio. Tre le sue peculiarità: sapore delicato, consistenza tenera e buccia sottile. I fagioli si presentano di colore bianco panna, con riflessi perlacei, e forma piccola e appiattita. Ne esiste anche una varietà che vira al rosso, con forma più tondeggiante.


40-55_ecosol_V102 07/08/12 16.01 Pagina 53

| economiasolidale |

I fagioli certificati raggiungono prezzi di vendita inimmaginabili sui mercati tradizionali. Quello di Lamon è venduto a 12-15 euro al chilo. Quelli bianchi di Rotonda si aggirano sui 13-14

ne contribuisce a dare un valore aggiunto quando si mette in vendita il prodotto». «Tutta la nostra produzione è venduta» conferma Tiziana Penco, presidente del Consorzio del Fagiolo di Lamon. «Anzi, la domanda è ormai superiore all’offerta. Il prezzo spuntato dai produttori rende sicuramente interessante investire in questo settore, anche se i costi di produzione sono spesso più elevati che nelle colture su più ampia scala». La garanzia di tracciabilità è sicuramente un plusvalore che agevola la com-

mercializzazione: «Chi cerca questo tipo di prodotti è di solito un consumatore estremamente attento alla qualità e all’origine di ciò che mangia», spiega Cerbino. In questo senso, cruciale è il ruolo dei consorzi di tutela: «Sono l’unico modo per garantire la qualità di ciò che si vende, perché redigono i rigorosi disciplinari di coltivazione, offrono formazione ai nuovi soci, permettono di dare visibilità al prodotto e fanno da riferimento nei rapporti con le istituzioni locali», conferma Penco. Ma la situazione positiva non può ammettere distrazioni. Da fare, per ampliare il mercato, c’è molto: «La produzione è fortemente frammentata fra molti piccolissimi produttori. Dobbiamo fare un salto di qualità sotto l’aspetto commerciale, centralizzando l’offerta. Altrimenti non riusciremo a soddisfare le richieste più grandi e saremo destinati alla marginalità». 

FAGIOLO CANNELLINO DI ATINA DOP www.atinadoc.it

FAGIOLO DI SARCONI IGP www.fagiolodisarconi.it

FAGIOLI BIANCHI DI ROTONDA DOP www.biancoerossadop.it

Regione: Lazio Produzione certificata (kg): 2.047.014 Superficie (he): 29,56 Aziende: 18

Regione: Basilicata Produzione certificata (kg): 9.428 Superficie (he): 12,41 Aziende: 8

Regione: Basilicata Produzione certificata (kg): n.d. Superficie (he): n.d. Aziende: n.d.

Il rapporto tra Atina e il fagiolo cannellino risale all’inizio del XIX secolo, quando già rappresentava un alimento centrale nella dieta della popolazione locale ed era considerato un regalo di pregio per occasioni speciali. La sua peculiarità: una estrema morbidezza, ottenuta grazie al clima e alla composizione dei terreni, che permette di cuocerlo senza doverlo prima mettere a bagno.

Il legame tra Sarconi (PZ) e questo prodotto è talmente radicato che i suoi abitanti sono ancora oggi chiamati “ciuoti” (fagioli). Forma ovale o tondeggiante, colore che varia dal giallo pallido al bianco con striature più scure. Per produrlo, sono usati solo ecotipi locali di cannellino e borlotto. I terreni di coltivazione sono freschi, profondi, fertili e collocati oltre i 600 metri d’altitudine. La semina avviene tra aprile e luglio. Per le cure sono ammessi solo trattamenti a base di rame. Il 30% della produzione è destinata all’export.

Hanno ottenuto il marchio DOP nel 2011. I due “ecotipi” locali dei fagioli bianchi di Rotonda – il Fagiolo Bianco e il Tondino Bianco – sono coltivati nella Valle del Mercure (PZ). Caratterizzati da un elevato contenuto proteico della granella, i loro baccelli sono completamente bianchi, con semi di dimensioni maggiori e di forma tonda/ovale senza screziature. La bassa percentuale del tegumento rispetto al peso locale permette di ridurre notevolmente i tempi di cottura.

| ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 | valori | 53 |

FONTE DATI: RAPPORTO QUALIVITA 2011

mia tricolore prima ancora dell’Unità d’Italia. I numeri assoluti sono ancora minimi. Ma questo settore di nicchia sta facendo incetta di estimatori – in Italia e all’estero – e rappresenta al tempo stesso una garanzia di reddito per i (pochi) agricoltori che hanno scelto di coltivarle. Da Nord a Sud, sono sei le varietà di fagioli italiane che possono ufficialmente fregiarsi dei marchi Dop (denominazione d’origine protetta) o IGP (Indicazione geografica protetta) assegnati dall’Unione europea (vedi SCHEDE ). Ognuna di loro porta con sé secoli di tradizioni e qualità organolettiche particolari. Tutte sono accomunate da prezzi di vendita inimmaginabili nei mercati “mainstream”. Qualche esempio: il fagiolo di Lamon della Vallata Bellunese, venduto a 12-15 euro al chilo. Oppure le due tipologie dei fagioli bianchi di Rotonda, acquistabili a 13-14 euro. I quantitativi raccolti – pubblicati nell’annuale rapporto della Fondazione Qualivita, che si occupa da anni di promuovere a livello internazionale i prodotti Dop e Igp italiani – sono una piccola manciata di punti percentuali rispetto al totale della produzione italiana. Il fenomeno è comunque interessante: «I margini di guadagno per i produttori – spiega Domenico Cerbino, del Consorzio di tutela dei fagioli bianchi di Rotonda – ci sono e sono buoni. La certificazio-


40-55_ecosol_V102 07/08/12 16.01 Pagina 54

| economiasolidale | analisi sul terzo settore |

Meno risorse, più innovazione di Corrado Fontana

Al workshop sull’impresa sociale di Iris Network si fanno i conti con la realtà di crisi che colpisce anche l’economia civile. Modelli e collaborazioni con la cosiddetta “altra economia”, forme di mutualismo e sussidiarietà al centro del dibattito ilancio dell’impresa sociale cercasi alla decima edizione del workshop di Riva del Garda organizzato da Iris Network (Istituti di ricerca sull’impresa sociale), il 13 e 14 settembre. Un rilancio su cui pesa il macigno della pessima fase economica, naturalmente, ma che cerca soluzioni per ripartire. «Come produrre servizi di welfare senza contare sulle risorse pubbliche? Come garantire l’inclusione lavorativa in una congiuntura recessiva dell’economia? Come promuovere partecipazione in un quadro deteriorato della socialità?»: questi interrogativi aprono il documento di programma dell’evento. Ma la madre di tutte queste domande l’abbiamo posta proprio a Flaviano Zandonai, segretario di Iris Network.

R

Che cosa può inventarsi l’impresa sociale, ora che le risorse sono sempre più scarse? Questo è in effetti l’elemento trasversale a tutte le sessioni del workshop di Riva del Garda. Stiamo cercando di capire soprattutto come queste organizzazioni stanno ristrutturando i propri modelli produttivi, il modo in cui riconoscono i problemi e le risorse. Vogliamo sapere come riescono a ricombinarle diversamente per offrire risposte nuove in un’ottica di sostenibilità imprenditoriale dei loro progetti, individuandole in contesti non di mercato e facendo leva, ad esempio, su contributi di carattere donativo. Questi, opportunamente integrati dalle fonti già intercettate in questi anni, possono aiu| 54 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |

tarle a proseguire il proprio lavoro e persino a funzionare meglio. In questo senso si verifica anche un avvicinamento di parte della cooperazione sociale ai nuovi stili di vita, ai gruppi di acquisto solidale, ai servizi collaborativi fra i cittadini, con un ritorno a forme di autogestione che le imprese sociali, soprattutto le cooperative sociali, non hanno sviluppato a sufficienza prima. È l’impresa sociale ad assumere modelli di funzionamento altrui o si avvia una collaborazione tra soggetti diversi? Da un lato l’impresa sociale tenta di incorporare elementi nuovi: mettere a disposizione un gruppo d’acquisto solidale o forme di mutualismo tra i soci è un modo per trovare soluzioni a una fase di difficoltà interna. Dall’altro si possono venire a creare anche innovative forme di collaborazione trasversale tra la coopera-

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zione sociale e soggetti differenti che appartengono al mondo della cosiddetta “altra economia”, cioè con un approccio diverso alla produzione economica. L’impresa sociale assume sempre maggiori funzioni pubbliche, a partire dalla sanità: come evitare la speculazione in settori così delicati? In questi anni l’amministrazione pubblica ha sostenuto fortemente i servizi sociali, ma spesso si è lavorato attraverso pratiche di sana sussidiarietà, ora tornata al centro del dibattito, complici la crisi attuale e i tagli alla spesa. Tuttavia, credo che assisteremo soprattutto a un’integrazione della spesa statale e a una riallocazione delle risorse nel campo del welfare. E ben presto, oltre alla sanità, si aggiungerà un altro settore delicato, quello dell’offerta di servizi scolastici. In tali ambiti bisogna considerare due fronti: il primo è quello della regolazione di carattere normativo che lo Stato deve curare nel dare in gestione ad altri i servizi di pubblica utilità, e che deve contemplare delle clausole di salvaguardia, che si chiamino accreditamenti o meno. Il secondo fronte riguarda le imprese sociali, le quali sono sì soggetti privati ma perseguono una finalità pubblica, e perciò si devono dotare di sistemi di rendicontazione e di governance che favoriscano forme di controllo e partecipazione degli utenti, anche al fine di segnare il proprio valore sociale, la propria differenza rispetto ai soggetti for profit in concorrenza.


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| economiasolidale |

EVOLUZIONE RECENTE DELLE COOPERATIVE SOCIALI - STOCK, SALDI E VARIAZIONI % AL 30 SETTEMBRE DEGLI ANNI 2006-2011 Anni

Stock al 30 settembre di ogni anno

Saldo 12 mesi

Variazione % 12 mesi

2011

11.808

-31

-0,2

2010

11.830

98

0,8

2009

11.732

324

2,8

2008

11.408

1.352

13,4

2007

10.056

1.279

14,6

2006

8.777

1.288

17,2

FONTE: RAPPORTO 2012 DI IRIS NETWORK “L’IMPRESA SOCIALE IN ITALIA - PLURALITÀ DEI MODELLI E CONTRIBUTO ALLA RIPRESA”

IMPRESE SOCIALI PER SETTORE DI ATTIVITÀ PREVISTI DAL D. LGS. 155/06 Assistenza sociale Assistenza sanitaria

Valore assoluto

%

3.082

25,9

511

4,3

Assistenza socio-sanitaria

1.732

14,6

Educazione, istruzione e formazione

3.596

30,2

Tutela dell’ambiente e dell’ecosistema

306

2,6

Valorizzazione del patrimonio culturale

43

0,4

Turismo sociale

153

1,3

43

0,4

Ricerca

139

1,2

Formazione extra-scolastica

143

1,2

Servii strumentali alle imprese sociali

131

1,1

Altro

2.019

17,0

Totale

11.899

100

Formazione universitaria e post

In Europa si percepisce la stessa necessità di ristrutturazione con gli stessi obiettivi? Certamente uno degli ambiti più interessanti è quello delle nuove politiche che la Commissione Ue sta mettendo in campo rispetto all’impresa sociale (vedi Valori novembre 2011), con un richiamo a quelle stesse dinamiche nel rapporto tra pubblico e soggetti imprenditoriali privati di cui accennavamo, magari sviluppate in modo anche più radicale di quanto sta succedendo sul mercato italiano, ad esempio nel Regno Unito. D’altra parte è opportuno guardare anche cosa succede in Paesi fuori dall’area europea e occidentale, Paesi magari in forte crescita che non hanno una struttura di welfare pubblico consolidata: stimoli interessanti provengono dall’India e dall’Asia orientale riguardo l’emersione di esempi di imprenditorialità sociale che gestiscono in forma “spontaneistica” servizi di pubblica utilità. 

SITOGRAFIA http://www.irisnetwork.it

TUTTI I CONTI DI IRIS NETWORK L’impresa sociale vanta numeri non trascurabili nell’economia del nostro Paese. La conferma viene dai dati di Unioncamere elaborati dal Rapporto 2012 di Iris Network L’impresa sociale in Italia - Pluralità dei modelli e contributo alla ripresa, secondo cui, addirittura, «le imprese sociali hanno evidenziato negli ultimi anni una notevole espansione». Frazione ridotta dell’imprenditoria italiana in termini assoluti, queste organizzazioni occupano però il 3,3% della popolazione impiegata come dipendente nei settori dell’economia privata extra-agricola. E tra il 2003 e il 2008 si sono accresciute di oltre il 53%, ossia circa 4.500 unità in più rispetto alle 8.500 stimate a inizio periodo (picco nel Mezzogiorno con un +66%, e un significativo +40% nel Nord Ovest). Un dato in controtendenza, sottolineato dalla dinamica dell’occupazione dipendente che, nelle imprese sociali, tra il 2003 e il 2010 ha mostrato un incremento di oltre il 70%, contro un +10% nel complesso delle imprese italiane. Sul piano dei risultati economici, la maggior parte delle imprese sociali ha chiuso l’esercizio 2010 con un risultato non negativo: un’impresa su tre (34,2%) in pareggio, mentre il 40,3% ha registrato un utile. Sono soprattutto le imprese sociali che operano nel settore dell’educazione a manifestare i principali

problemi (solo il 28,6% ha maturato nel 2010 un utile, contro il 37,7% che ha registrato un sostanziale pareggio, e il 33,8% che ha chiuso in perdita). Nel settore della sanità e dell’assistenza sociale solo il 22,9% ha chiuso negativamente l’anno, mentre il 43,5% ha registrato un risultato d’esercizio positivo. Tra le organizzazioni attive nel campo industriale – principalmente che si occupano di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati – ben il 59,8% presenta a fine anno un utile di esercizio, cui si somma un ulteriore 12,1% in situazione di sostanziale pareggio. Dati complessivamente incoraggianti, perciò, ai quali si aggiunge un aspetto: il manifestarsi di un legame tra dimensione dell’impresa (in termini di valore della produzione) e il raggiungimento di un risultato economico positivo. Tra le attività più piccole (con valore della produzione inferiore ai 500 mila euro) il 38,6% ha registrato un sostanziale pareggio (contro il 23% delle imprese con un valore della produzione superiore ai 500 mila euro) e il 29% una perdita d’esercizio (contro il 16,4%). Quanto al trend di sviluppo, il 72% delle imprese sociali prevedeva nel 2010 che l’anno dopo il valore della produzione si sarebbe mantenuto sui medesimi livelli. Il 14,4% prefigurava invece un aumento, ipotizzato intorno pari al 15% nel 13% dei casi.

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MICHAEL RUBENSTEIN / REDUX / CONTRASTO

internazionale

Un

Kimberley process > 59 I siti più “brillanti” del mondo > 62 Arrivano i Delta boys > 64 | 56 | valori | ANNO 12 N. 102 | SETTEMBRE 2012 |


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| materie prime |

La pietra grezza sottoposta a esame prima del taglio

Un diamante

La malavita li utilizza come traveler’s cheque perché sono facilmente trasportabili e dall’origine poco tracciabile. Vengono usati per i semiconduttori, ma soprattutto per fare profitti. Eppure sono solo una delle tante forme in cui può presentarsi il Carbonio.

è per la vita di Paola Baiocchi erci”. Chiama così i diamanti Gennaro Mokbel, papà egiziano e mamma napoletana, parlando nelle intercettazioni come un romano da sette generazioni. Pietre, sassi come quelli che si divertono a far saltare sull’acqua o prendono a calci i ragazzi di vita di Pasolini. Sassolini che valgono milioni di euro e che entrano nella maxi inchiesta sull’organizzazione per delinquere che vede indagato Gennaro Mokbel e altri 85, che ipotizza una serie tale di reati da sembrare l’indice generale del codice penale: riciclaggio di danaro per un valore complessivo di 2,5 miliardi di euro, proveniente dalla ’ndrangheta e da operazioni commerciali fittizie di acquisto e vendita di servizi telefonici con la presunta compiacenza di alti funzionari e amministratori delle società Fastweb e Telecom Italia Sparkle. Nei vari filoni di indagine ci sono molti nomi noti: per esempio quelli di Lorenzo Cola, uomo di fiducia dell’ex presidente di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, e uomo anche del Sismi, il servizio segreto militare ora chiamato Aise. C’è anche l’ex senatore del Pdl,

“S

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| internazionale |

Nicola Di Girolamo, eletto con i voti della cosca calabrese Arena nella circoscrizione Estero, che Mokbel trattava da “pezza da piedi” per dirla sempre in romano.

Per Martin Rapaport è un errore pensare di fare un investimento comprando diamanti al dettaglio

Sassolini per ripulire il danaro

HTTP://MEDIA.BUCHANAN.UK.COM

In una sorta di cassa comune vengono trovati 7,5 milioni di euro che dovevano servire come tangente per acquistare il 51% di Digint (società partecipata al 49% da Finmeccanica). Quote che successivamente avrebbero dovuto essere rivendute a Finmeccanica Group Spa a prezzo maggiorato. In questo tourbillon di affari malavitosi, che vede conti e società localizzate a Lugano, New York, Belize, Lussemburgo e Singapore, Mokbel usava i “serci” per ripulire il danaro e come traveler’s cheque per le sue transazioni all’estero. Ne sono stati ritrovati 4 milioni, 150 carati circa, nel doppiofondo della cassaforte della sua gioielleria di Campo de’ Fiori a Roma, che gestiva con Massimo Massoli, l’uomo che al telefono si vantava di «passare sempre a Fiumicino con i brillanti in tasca e anche con le droghe». Le pietre venivano comprate in Uganda e i carabinieri del Ros hanno ipotizzato che a fare gli acquisti fosse Antonio D’Inzillo, l’ex terrorista dei Nar che nel 1990 uccise De Pedis, il boss della banda della Magliana, in via del Pel-

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legrino, proprio a due passi dalla piazza dove è stato bruciato Giordano Bruno. Dopo l’acquisto i diamanti venivano lavorati in laboratori dell’Estremo Oriente e messi in commercio a Roma in gioiellerie controllate da Mokbel. Così dopo aver ripulito il danaro sporco generavano altro profitto.

Le borse dei senatori della Lega Poco tracciabili e facili da occultare, questi pezzettini di carbonio molto sopravvalutati rientrano nella cronaca giudiziaria passando dalle borse che due senatori della Lega Nord, Rosi Mauro e Piergiorgio Stiffoni, riempiono di diamanti il giorno dopo aver ricevuto sui loro due conti presso la sede di Roma dell’ex Popolare di Verona (oggi Banco popolare) due bonifici: da 100 mila euro per Rosi Mauro e da 200 mila euro per Stiffoni. Comprati con i soldi della Lega passati dal tesoriere Belsito? Risparmi personali, afferma la Mauro. Circa il 30% dei diamanti estratti è destinato ad usi di gioielleria, il 70% ser-

ve per usi industriali: utilizzati nei semiconduttori, per strumenti da taglio o da perforazione, in chirurgia o per i laser. Ci sono decine di siti su internet che offrono diamanti in vendita con ogni tipo di certificazione. Ma considerare i diamanti un investimento è un errore: lo dice Martin Rapaport ebreo osservante, nei diamanti per tradizione familiare. Dopo più di un secolo di monopolio De Beers sui mercati, nel 1978 ha introdotto un elemento di novità con il Rapaport Diamond Report, l’unico listino internazionalmente riconosciuto dai grossisti di diamanti lucidati. Per Rapaport che ha l’obiettivo di far rientrare i diamanti nelle commodities, «i prezzi al dettaglio non sono da investimento», per fare l’affare bisognerebbe comprare dai grossisti e «al momento questo non è possibile». Storicamente il prezzo dei diamanti è stato gestito dal gruppo sudafricano De Beers attraverso una sua controllata, la Diamond Trading Company di Londra. La compagnia mineraria De Beers, fondata da Cecil Rhodes nel 1888, detiene ora una quota del mercato mondiale tra il 40 e il 50% ed è presieduta da Nicky Oppenheimer, uno dei più ricchi uomini al mondo.  La miniera di diamanti Finsch in Sud Africa della De Beers Consolidated Mines Limited


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| internazionale |

Kimberley process un traguardo a metà di Velentina Neri

A dieci anni di distanza dalla firma dell’accordo volontario il mercato dei diamanti ha ancora dei confini troppo incerti. Per garantire la tracciabilità anche delle pietre lavorate servirebbero rigidi standard internazionali. rano i primi anni Duemila e il meccanismo che prendeva il nome dalla città sudafricana di Kimberley doveva rappresentare una vera e propria svolta. Il Kimberley Process, frutto di tre anni di trattative, entra in vigore nel 2003 con le firme di 37 Stati e l’appoggio del World diamond council, delle Ong e delle principali multinazionali minerarie. È un accordo volontario con cui imprese produttrici, commercianti e governi si impegnano per la tracciabilità della filiera dei dia-

E

manti, al fine di escludere dal commercio internazionale i cosiddetti “diamanti insanguinati”, che finivano per finanziare conflitti armati. A dieci anni di distanza, a che punto siamo? Le opinioni, come sempre in questi casi, sono discordanti, ma sembra che gli elementi da chiarire siano ancora molti. Tanto che la Ong Global Witness, che era fra i promotori, a dicembre dello scorso anno ha fatto una scelta radicale: quella di uscirne. Stando a quanto si legge nei documenti dif-

fusi dall’organizzazione, pur ammettendo che il Kimberley Process abbia «conquistato traguardi degni di nota», restano «significative debolezze» che «minano la sua efficacia».

Dubbi e critiche Secondo Global Witness le aree su cui intervenire sono tre. Innanzitutto bisogna puntare di più sul rispetto dei diritti umani nelle miniere. Ma serve anche un organo tecnico indipendente a cui dare l’incarico dell’analisi statistica e legale, del monitoraggio e delle questioni amministrative: che sappia, in sintesi, garantire più continuità. La Ong punta il dito anche sul metodo decisionale: il “consensus” non sarebbe abbastanza efficace.

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| internazionale |

Non è facile fare un quadro dell’intera filiera, dalla miniera alla gioielleria, è difficile reperire fonti attendibili: è un mercato molto fluido e sfuggente Fa eco a queste osservazioni Valentina Grado, professoressa di Diritto internazionale all’Università degli studi L’Orientale di Napoli, che individua altri fattori di debolezza: dai «modelli di con-

trollo disomogenei, deboli o addirittura inesistenti» a un monitoraggio che è affidato, di fatto, agli stessi partecipanti. Arrivando fino alla scelta di mantenere in gran parte riservato il patrimonio di informazioni raccolte negli anni e all’«utilizzo assai modesto degli strumenti volti a sanzionare persino le gravi inosservanze». Global Witness fa i nomi delle “gravi inosservanze”: Zimbabwe e Venezuela. Gli schemi volontari, secondo le parole del fondatore Charmian Gooch, sarebbero ormai obsoleti in un mondo in cui

DA ANVERSA A SURAT, LA LAVORAZIONE MIGRA VERSO EST Un diamante grezzo, si sa, quasi non si riuscirebbe a distinguere da una pietra qualsiasi. Non stupisce dunque il fatto che sulla lavorazione della gemma si incentri un intero settore altamente specializzato. Un settore la cui presenza, nel nostro Paese, è tutto sommato sporadica. Parola di Bruno Zilio, che da più di trent’anni gestisce quest’attività a Valenza: «In Italia una taglieria di diamanti si sviluppa attorno alla nicchia dell’alta gioielleria, lavorando su piccolissima scala e al 90% su pezzi unici». Una singola pietra può richiedere da un minimo di un’ora fino anche a un mese di lavorazione: la media, comunque, è di alcune ore. Nel nostro Paese, stima Zilio, ci sono al massimo 7-10 taglierie di medie dimensioni come la sua, vale a dire che impiegano fra le 10 e le 15 persone, con un fatturato che si aggira intorno ai 2 milioni di euro. Conteggiando anche le piccolissime realtà, si arriva al massimo a una cinquantina di aziende. Ma bisogna tenere presente che, di norma, la maggioranza del personale si dedica ad altri materiali: se si conteggiassero le taglierie incentrate al 100% sui diamanti, tale cifra scenderebbe drasticamente. I grandi centri del taglio sono altri: Anversa, New York, Tel Aviv. A loro di recente si sono aggiunte India e Cina: tanto che ormai al primo posto al mondo come quantitativo di diamanti tagliati è la città indiana di Surat. Si parla anche di Armenia: ma, segnala il professor Rosario Sommella, ancora non ci sono informazioni precise. Anversa rimane il nome più conosciuto, ma negli anni si sta concentrando sempre di più non tanto sui volumi di pietre lavorate, quanto sulla nicchia di prodotti di altissima qualità e sul versante del trading: tuttora la città fiamminga è sede di quattro delle 28 Borse in cui vengono scambiati i diamanti a livello internazionale, inclusa l’unica dedicata ai diamanti grezzi. Tanto da trasformarsi gradualmente in una città di servizi che – continua Sommella – ospita i principali esperti mondiali. Ma a livello di volume d’affari, per quanto riguarda il taglio, «si è ridimensionata sempre di più negli ultimi anni – spiega Sonia Sbolzani, responsabile della comunicazione per Federpietre – e, per uscire dall’impasse, sta collaborando sempre di più con realtà estere». Non stupisce dunque il fatto che, sul totale delle esportazioni dal Belgio all’India, i diamanti rappresentino addirittura l’86%. Anche se – avverte Sonia Sbolzani – non è facile fare un quadro dell’intera filiera, dalla miniera alla gioielleria, perché «a livello di dati quantitativi è difficile reperire fonti attendibili: è un mercato molto fluido e sfuggente». V.N.

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«aziende e Stati si contendono le risorse minerarie». Servirebbero, al contrario, rigidi standard internazionali e governi che si impegnino in prima persona a mettere in atto le leggi che ne derivano. La trasparenza, d’altra parte, è un traguardo che ormai è stato raggiunto in diversi Paesi, ma resta molto più lontano in altri. È di questa opinione il professor Rosario Sommella – geografo e direttore del dipartimento di Scienze sociali all’Università “L’Orientale” di Napoli – che fra i casi “problematici” cita, ad esempio, la Sierra Leone. E spiega: «In Africa il problema è che la buona parte dei diamanti proviene da bacini fluviali: il processo di estrazione, dunque, è molto meno controllabile. Così è più facile, in caso di conflitti locali, che i poteri alternativi riescano a impossessarsi di tali risorse».

Una filiera non tracciabile Ma c’è un altro fattore che si è attirato alcune perplessità: la tracciabilità non copre l’intera filiera, ma solo il diamante grezzo. Lo conferma Antonello Donini, responsabile di laboratorio del Cisgem, il Centro di analisi gemmologiche che dipende dalla Camera di commercio di Milano: «Non sappiamo da dove provengono i diamanti che dobbiamo analizzare perché le pietre ci arrivano già tagliate e sfaccettate. Le regole internazionali seguono il grezzo: poi le taglierie dovrebbero verificare, e penso che lo facciano, che le pietre su cui lavorano abbiano questa certificazione. Ma a quel punto vengono distribuite nel mondo e diventa impossibile risalire alla loro origine». Francesco Belloni, titolare dell’omonima gioielleria milanese, ribadisce: «Al su-


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| internazionale |

PIÙ CHE BORSE CLUB

La 47 th strada a Manhattan, cuore del Diamond District; in basso la Borsa dei diamanti di Anversa

permercato si può scegliere la frutta che viene dalla Spagna, dall’Italia o dall’Argentina. Come mai non si può fare lo stesso in gioielleria, dove per una pietra si spendono anche migliaia di euro? Il Kimberley Process – continua – è stato un passo avanti, ma io pensavo che fosse uno dei tanti: non l’unico. A me non è bastato». Per questo la sua azienda ha lanciato il marchio degli Ethical diamonds, scegliendo di vendere unicamente le pietre che provengono da una miniera canadese che rispetta determinati standard in termini di sicurezza dei lavoratori e tute-

Le Borse più importanti dove vengono trattati i diamanti sono New York, Anversa, Londra, Tel Aviv. Sono noti i quattro fattori che determinano il valore del diamante: le quattro “C” che derivano dalle iniziali inglesi di colore (colour), purezza (clarity), taglio (cut) e peso (carat). Meno noto è il fatto che le Borse dei diamanti sono sedi di contrattazione private dove possono accedere solo i soci e non rilevano i prezzi di scambio tra venditore e acquirente finale. Si capisce perché vengono anche chiamate i Club dei diamanti. Non esiste neanche una valutazione internazionale unica del carato, ma solo un listino di riferimento al quale si rifanno i principali operatori del settore ed è utilizzato dai grossisti per deliberare indicativamente la base di partenza della compravendita: il Rapaport Diamond Report, con valutazioni espresse in dollari americani. Più il valore di una pietra si discosta dal listino e più sarà difficile realizzare il prezzo d’acquisto o un guadagno in caso di vendita. Nonostante la fama di beni rifugio di cui godono, il divario tra prezzo d’acquisto e prezzo di vendita è spesso notevole e non si hanno molte alternative per spuntare condizioni migliori. Pa. Bai.

la dell’ambiente. Ma a seguire tale esempio, conclude, è stata solo qualche piccolissima realtà artigianale.

I passi avanti, comunque, sono possibili: lo segnala a Valori la professoressa Grado, citando la nona sessione plenaria del Kimberley process che si è tenuta dal 31 ottobre al 3 novembre 2011 a Kinshasa, in Congo, e che è stata teatro di decisioni importanti. Come quella di procedere a un riesame complessivo del sistema, che potrebbe portare a modifiche sostanziali. «Rispetto alla situazione esistente prima di tale incontro – conclude la professoressa Grado – il processo di Kimberley ha così di nuovo una chance di sopravvivenza». 

PEZZETTI DI CARBONIO SOPRAVVALUTATI Impossibile parlare di diamanti senza parlare di De Beers, la società monopolista delle miniere, della produzione, del controllo del prezzo e della distribuzione di queste gemme. La leggenda vuole che la storia dei diamanti in Sudafrica cominci con un calcio a un sasso nel 1866: il sasso in realtà era un diamante da 21 carati, chiamato poi Eureka. La scoperta dei camini diamantiferi del Kimberley fa diventare il Sudafrica, in pochi anni, il principale centro estrattivo mondiale moderno: se prima di questa scoperta dall’India e dal Brasile arrivavano pochi chili di gemme l’anno, i ricchi giacimenti africani ne producono tonnellate. Per contrastarne l’abbassamento di valore i grandi produttori si uniscono per controllare la produzione e perpetuare l’illusione della loro scarsità. Lo strumento che viene creato nel 1888 è la De Beers Consolidated mines ltd, con sede in Sudafrica. A Londra c’è la Diamond Trading Company e la Central Selling Organization (Cso), l’organizzazione che valuta e rivende almeno il 65% delle

pietre grezze. I diamanti sono abbondantissimi, il 70% di quelli estratti è destinato a usi industriali: come sono diventati un mito, un oggetto del desiderio? Grazie a un’accurata serie di campagne pubblicitarie che, a partire dal 1938, Harry Oppenheimer, figlio del fondatore della De Beers, fa preparare. Da “un diamante è per sempre” (nel senso che non deve essere rivenduto) all’esaltazione degli scambi di brillantoni tra coppie famose, reali o del cinema, per affermare la correlazione tra diamanti e romanticismo. La Regina stessa (chiamata a sostenere l’importante settore in nome dell’Inghilterra) viene convinta a comparire con gioielli di diamanti. In questo modo i brillanti diventano il gioiello più scambiato nei regali di fidanzamento dagli Stati Uniti al Giappone. Negli anni ’60 il mercato dei diamanti deve essere ristrutturato per un eccesso di diamanti piccoli provenienti dall’Urss: poco male, la De Beers fa entrare nel cartello anche i russi e lancia l’anello con 25 pietre. Niente male per dei pezzetti di carbonio. Pa. Bai.

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| internazionale | materie prime |

I siti più “brillanti” del mondo SNAP LAKE (Canada)

LUZAMBA (PROGETTO) (Angola)

Proprietari: De Beers. Capacità estrattiva: 881 mila carati nel 2011.

Proprietari: Endiama (50%), Odebrecht (50%). LUARICA (Angola)

DIAVIK (Canada) Proprietari: joint venture tra Harry Winston Diamond corporation e Diavik diamond mines inc., una sussidiaria di Rio Tinto group. Capacità estrattiva: 8 milioni di carati all’anno.

Proprietari: Endiama (40%), Trans Hex (ha annunciato il ritiro ad agosto 2011), Micol e Som-Veterang (Angola, entrambe 12,5%). Capacità estrattiva: 88.500 carati nel 2008. Nel 2009 la produzione viene sospesa per la crisi.

EKATI (Canada) Proprietari: joint venture tra Bhp Billiton Canada inc. (80%) e i due geologi che l’hanno scoperta, Chuck Fipke e Stewart Blusson, ciascuno col 10%. Capacità estrattiva: tra il 1998 e il 2009 estratti 45 milioni di carati. VICTOR (Canada) Proprietari: De Beers. Capacità estrattiva: 779 mila carati nel 2011.

DAMTSCHAA (Botswana) Proprietari: Debswana, partnership al 50 e 50 fra De Beers e il governo. Capacità estrattiva: 5 milioni di carati (stima) da 39 milioni di tonnellate di minerale che dovranno essere estratte nei 31 anni di vita del progetto. Nel 2006, 228 mila carati. ORAPA (Botswana) Proprietari: Debswana, partnership al 50 e 50 fra De Beers e il governo. Dimensioni: la miniera più grande al mondo. Capacità estrattiva: nel 2011 11 milioni di carati. LETLHAKANE (Botswana) Proprietari: Debswana: partnership al 50 e 50 fra De Beers e il governo. Capacità estrattiva: nel 2011 1 milione di carati.

(Venezuela) I diamanti alluvionali in Venezuela sono estratti da piccoli gruppi di lavoratori locali. Le aree principali sono Santa Elana, al confine col Brasile, e il fiume Guaniamo, a Ovest. Il Venezuela si è ritirato volontariamente dal Kimberley Process per due anni nel 2008 dopo essere stato minacciato di espulsione: le autorità del Kimberley Process contestavano il fatto che non fossero stati registrati e certificati circa 200-300 mila carati. Nonostante un settore estrattivo piuttosto attivo, tuttora non ci sono dati su esportazioni ufficiali di diamanti. Hugo Chavez nel 2010 durante la trasmissione “Alò Presidente” ha annunciato di voler nazionalizzare le miniere di diamanti e oro per mettere fine all’estrazione “informale” e ai conseguenti danni ambientali. Si parla (ma sono cifre non ufficiali) di 5 mila carati al mese.

JWANENG (Botswana) Proprietari: Debswana, partnership al 50 e 50 fra De Beers e il governo. Capacità estrattiva: da 12,5 a 15 milioni di carati per anno (per valore la più ricca del mondo). Nel 2011, 10.641.000 carati. ELIZABETH BAY + ORANGE RIVER + DOUGLAS BAY + OCEANO ATLANTICO (Namibia) Proprietari: Namdeb (partnership al 50% fra De Beers e il governo della Namibia). Capacità estrattiva: 1,3 milioni di carati nel 2011. FINSCH (Sud Africa)

BRAUNA [ancora in fase di sviluppo] (Brasile) Proprietari: Vaaldiam mining inc. Dimensioni: 12.130 ettari. Capacità estrattiva: in fase di sviluppo. Stime: 600-800 mila carati.

Proprietari: era di De Beers, acquisita da Petra diamonds nel 2011. Dimensioni: 18 ettari. Capacità estrattiva: 938 mila carati nel 2011. BAKEN (Sud Africa)

PARAUNA (Brasile) Proprietari: Amazon resources, Cancana resources. Dimensioni: 720 ettari, ma si inizierà a operare su 350 ettari. Capacità estrattiva: riserve stimate 200 mila carati. DUAS BARRAS (Brasile) Proprietari: Vaaldiam mining inc. Capacità estrattiva: 8.793 carati nel 2010.

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Proprietari: Trans Hex. Capacità estrattiva: nel 2011 46 mila carati. KIMBERLEY UNDERGROUND (Sud Africa) Proprietari: Petra diamonds. Dimensioni (3 giacimenti): Bultfontein (10 ettari), Dutoitspan (11 ettari) and Wesselton (9 ettari). Capacità estrattiva: 57 mila carati nel 2011.


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| internazionale |

MIRNY (Russia) Proprietari: Alrosa Dimensioni: 1.200 metri di diametro. Capacità estrattiva: negli anni 60 10 milioni di carati (2 mila kg) all’anno. Nel 2011 ha chiuso. UDACHNAYA (Russia) Proprietari: Alrosa. Capacità estrattiva: 10,3 milioni di carati nel 2011. MAGNA EGOLI (Sierra Leone) Proprietari: Waldman Diamond Resources (Israele). FUCAUMA [in costruzione] (Angola) Proprietari: Endiana (Trans Hex ha annunciato il ritiro ad agosto 2011). Capacità estrattiva: 120 mila carati all’anno (stima).

BAKWANGA (Congo) Proprietari: Miba (Societé minière de Bakwanga, all’80% del governo congolese e per il 20% di Mwana Africa). Capacità estrattiva: 243 mila carati nel 2011. PANNA (India) CATOCA (Angola) Proprietari: Sociedade mineira de Catoca, una joint venture internazionale di Endiama (società estrattiva di Stato 32,8%), Alrosa (Russia 32,8%), Daumonty finance (Israele 18%), Odebrecht (Brasile 16,4%). Dimensioni: 64 ettari. Il quarto più grande al mondo. Capacità estrattiva: 550 mila carati al mese nel primo trimestre del 2012. WILLIAMSON (Tanzania) Proprietari: 75% Petra diamonds, 25% governo della Tanzania. Dimensioni: 146 ettari. Capacità estrattiva: 25 mila carati nel 2011.

Proprietari: National mineral development corporation (controllata dal governo indiano). Capacità estrattiva: 84 mila carati all’anno.

ARGYLE (Australia) Proprietari: Rio Tinto group. Capacità estrattiva: finora sono stati prodotti 670 milioni di carati di diamanti grezzi. Per volume è il giacimento più grande del mondo, ma non per valore, vista la qualità più bassa del minerale. ELLENDALE (Australia)

MUROWA (Zimbabwe) Proprietari: Rio Tinto group (78%) + 22% Riozim limited (una compagnia dello Zimbabwe). Capacità estrattiva: 250 mila carati all’anno.

Proprietari: Gem diamonds. Capacità estrattiva: già recuperati 120 mila carati. Risorse totali stimate: 4,7 milioni di carati. MERLIN (Australia)

VENETIA (Sud Africa) Proprietari: De Beers. Capacità estrattiva: 3,1 milioni di carati nel 2011.

Proprietari: North Australian diamond limited. Capacità estrattiva: circa 500 mila carati nei primi anni di attività.

CULLINIAN [precedentemente, Premier Mine] (Sud Africa) Proprietari: era di De Beers che l’ha venduta nel 2007 a Petra Diamonds per 148 milioni di dollari. Dimensioni: 32 ettari. Capacità estrattiva: 895 mila carati nel 2011. KOFFIEFONTEIN (Sud Africa) Proprietari: era di De Beers, acquisita da Petra diamonds nel 2007. Dimensioni: 11 ettari. Capacità estrattiva: 48 mila carati nel 2011. LETSENG (Lesotho) Proprietari: Letšeng diamonds, al 70% di Gem diamonds limited e 30% del governo del Lesotho. Capacità estrattiva: circa 100 mila carati all’anno. LA RICERCA DEI DATI È STATA CURATA DA VALENTINA NERI

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| internazionale | cinema di realtà |

Arrivano i Delta boys di Corrado Fontana

Al Milano Film Festival 2012 irrompono i conflitti del Delta del Niger in un racconto in cui giornalismo e cinema si scambiano di ruolo. Attraverso l’audacia della cinepresa incontriamo chi soffre e combatte per il controllo delle risorse locali. ra le pagine di Valori di luglio (l’articolo era All’assemblea di Eni la voce della Nigeria) avete letto gli ultimi aggiornamenti sulla sostanza e le conseguenze del conflitto in atto intorno allo sfruttamento delle risorse naturali del delta del fiume Niger. Grazie al film Delta boys presente nella sezione Colpe di Stato dell’edizione 2012 del Milano Film Festival potete vedere le facce, conoscere le storie e ascoltare le voci dei protagonisti di una guerra “a bassa intensità” e dal carattere locale solo in apparenza.

T

Non solo petrolio Perché questa “piccola guerra” irrompe a Milano grazie al coraggio del regista Andrew Berends, testimone sul campo, accolto per mesi dai guerriglieri del Movimento per l’emancipazione del Delta del

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Niger (Mend - Movement for the emancipation of the Niger Delta) nel periodo che precede l’amnistia governativa del 2010, il cui effetto pacificatore è però già terminato (del 13 aprile 2012 l’ultimo attacco notturno per distruggere un pozzo e un condotto dell’Agip sulla linea Clough Creek-Tebidaba; e l’annuncio di future incursioni). Lo scontro, accesosi nei primi anni Duemila e sfociato in un’aspra contrapposizione, prosegue tuttora perché le sue cause permangono, e riguarda lo sfruttamento di gas e petrolio ma coinvolge anche la difesa dell’ambiente dall’inquinamento e l’autodeterminazione delle popolazioni locali. Da una parte i guerriglieri e dall’altra il governo locale e le multinazionali petrolifere, in un susseguirsi di azioni e reazioni (sequestri di navi occidentali, tecnici tenuti in ostaggio, sabotaggi agli impianti, arresti sommari e stragi di miliziani). Nel mezzo una popolazione poverissima, che sopravvive tra i fumi tossici del gas flaring, la paura della violenza – di entrambe le fazioni armate – e l’aspirazione a uno sviluppo locale fatto di scuole, strade e assistenza sanitaria pagate con la vendita degli idrocarburi.

Tra cinema e giornalismo Delta boys denuncia tutto questo entrando nel cuore dell’azione, senza fil-

Il regista Andrew Berends e alcuni frames del film

tro, e si integra perfettamente in una rassegna come Colpe di Stato, dai «contenuti politici forti e che punta ad aprire uno squarcio sulla contemporaneità senza trascurare aree geografiche e ponendo attenzione al piano stilistico e ai linguaggi cinematografici», parola di Paola Piacenza, giornalista, critico cinematografico e curatrice della sezione, la quale sottolinea il valore odierno del “cinema di realtà” e del lavoro del regista. «Quello che ha fatto Andrew Berends – ci spiega – è offrire ai protagonisti una prospettiva interna, mettendo la sua persona a grandissimo rischio e dando in questo modo una garanzia di adottare uno sguardo onesto e non compromissorio nei confronti del potere. Una scelta particolarmente incosciente e desiderosa di raccontare i fatti in modo frontale», guardando in faccia i combattenti e mostrandone debolezze e con-


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| internazionale |

traddizioni, vivendo in accampamento con loro, nascosti nella foresta. Ma il film, secondo Paola Piacenza, evidenzia anche l’atto di rinuncia – in parte frutto di una scelta politico-culturale – del

GLOSSARIO GAS FLARING: bruciare in torcia in atmosfera il gas connesso al processo d’estrazione del petrolio greggio, con conseguenti emissioni di diossina, benzene, sulfuri e particolati vari.

giornalismo d’inchiesta italiano, in qualche modo sostituito dall’impegno di registi e filmakers: «Due dei tre documentari italiani che presentiamo sono inchieste molto ben fatte, estremamente diverse da ciò che si produce altrove in Europa. Abbiamo scelto di includerli proprio perché qui ci troviamo in una sorta di stato d’eccezione, in cui l’inchiesta giornalistica è ormai un genere inesistente sui media italiani. Noi crediamo che sia una necessità della società disporre di

approfondimenti di livello e informazioni elaborate e ragionate, capaci di mettere insieme tasselli di una realtà complessa, e abbiamo constatato che talvolta il cinema colma questo vuoto. Come mai questo lavoro che i nostri giornalisti sanno fare bene, ma non fanno più, viene fatto ora dai registi?». L’intenzione è chiederlo al pubblico del Milano Film Festival.  www.milanofilmfestival.it

MFF: Milano al centro dello schermo di Corrado Fontana

La diciassettesima edizione del festival milanese proietta il cinema delle produzioni indipendenti attraverso gli schermi sparsi per la città

all’aperto) e l’ottava edizione di Colpe di Stato, rassegna che presenta opere incentrate sul sistema di potere e mette al centro la sperimentazione registica e l’utilizzo di nuovi linguaggi.

IL POTERE E LE COLPE Dal 12 al 23 settembre Milano si trasforma e si anima per dodici giorni di cinema – soprattutto – ma anche di musica e incontri con ospiti e registi internazionali. Un programma culturale fitto che ha il suo cuore nel Teatro Strehler e si dipana attraverso numerosi altri spazi cittadini (Teatro studio, Auditorium San Fedele, i cinema Anteo, Ariosto, Rosetum e lo Spazio Oberdan, sede della Cineteca italiana) e persino outdoor (il Parco Sempione). La doppia direzione artistica di Alessandro Beretta e Vincenzo Rossini è confermata e propone un festival attento alle nuove produzioni e al cinema indipendente, alla ricerca delle pellicole innovative, coraggiose, di qualità. Con un concorso diviso tra lungometraggi (opere prime e seconde di registi provenienti da ogni parte del mondo) e cortometraggi (riservati a registi under 40) e un corollario ricchissimo di sezioni fuori concorso, film in anteprima, ospiti, workshop ed eventi paralleli. Da non perdere, ad esempio, il primo atto (il secondo sarà nel 2013) di Italia 80. Quando la televisione provò a mangiarsi il cinema: retrospettiva collettiva dedicata a «una fase critica, in cui la televisione commerciale indebolisce il sistema-cinema e ne cambia irreversibilmente le regole», occasione irripetibile per tornare a vedere in sala alcune pellicole significative di allora accompagnate dai loro registi (Gianni Amelio, Colpire al cuore; Maurizio Nichetti, Ladri di saponette; Salvatore Piscicelli, Le occasioni di Rosa; Franco Diavoli, Il pianeta azzurro; Silvano Agosti, Quartiere); e poi materiali inediti, miniserie televisive, video-documentari, cortometraggi ed edizioni restaurate. Ma oltre a questo, protagonisti attesi saranno la musica nel grande cinema di Woody Allen, in una sezione curata dal celebre music supervisor Randall Poster, o la rassegna fuori concorso The outsiders (che comprende la maratona di corti di animazione proiettati

Mentre scriviamo la selezione dei film ospitati nella sezione Colpe di Stato dell’MFF è ancora in corso. Alcune opere sono però già confermate e dimostrano il carattere versatile di questa “sezione militante” del festival, che oscilla tra la ricerca di verità storiche negate e il racconto di annosi conflitti ancora vivi, tra le lotte per conquistarsi un lavoro e quelle per la dignità dei lavoratori.

Ici on noie les Algériens - 17 octobre 1961 di Yasmina Adi, Francia, 2011, 90’ Festival: Dubai film festival, Rome independent film festival Vincitore: Second prize for Muhr arab documentary, Dubai IFF The law in these parts di Ra’anan Alexandrowicz, Liran Atzmor, Israele/USA/Germania, 2011, 101’ Festival: Sundance film festival 2012, Jerusalem film festival Vincitore: World cinema jury prize, Documentary (Sundance) - Best documentary (Jerusalem film festival) War matador di Avner Faingulernt, Macabit Abrahamson, Israele, 2011, 70’ Festival: Dok Leipzig, Jerusalem film festival, Krakow film festival, London international documentary film festival L’accordo di Jacopo Chessa, Italia, 2011, 52’ Festival: Festival del cinema europeo di Lecce (aprile 2012) The price of sex di Mimi Chakarova, USA, 2011, 73’ Festival: DFA - International documentary film festival Amsterdam Delta boys di Andrew Berends, USA, 2012, 56’ Festival: Stranger than fiction film festival (World première)

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altrevoci DIVIDENDI, LA FRANCIA IMPONE UNA TASSA DEL 3% Nella legge di bilancio presentata al parlamento di Parigi all’inizio di luglio, il governo socialista guidato da Jean-Marc Ayrault ha incluso una tassa straordinaria sui dividendi. Si tratta di un prelievo del 3%, che dovrà essere applicato a tutti i profitti distribuiti dalle aziende. Il che significa che non colpirà solamente i classici dividendi versati agli azionisti, ma anche le somme utilizzate per il riacquisto di azioni o i gettoni di presenza concessi ai membri dei consigli di amministrazione. La misura è stata presentata dal governo francese come uno strumento volto a incitare le imprese a distribuire meno capitali e, piuttosto, a investire per rilanciare l’economia. Non è chiaro, per ora, quali siano le cifre che la nuova imposta sarà effettivamente in grado di garantire alle casse dello Stato d’Oltralpe (una prima stima governativa parla di circa 800 milioni di euro all’anno). Tra le aziende maggiormente colpite, sempre secondo i calcoli dell’esecutivo, ci sarebbero le compagnie petrolifere Total e Gdf Suez (rispettivamente con 170 e 101,4 milioni di euro), il colosso farmaceutico Sanofi (123,5 milioni) e France Telecom (94,5 milioni). [A.BAR.]

UN SINDACALISTA ALLA TESTA DELL’ILO L’AFRICA INVASA DA FARMACI SCADENTI O CONTRAFFATTI Una quota non indifferente di medicinali venduti in Africa e approvati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) – tra i quali figurano farmaci anti-malaria e antibiotici – non raggiunge standard accettabili in termini di qualità. A lanciare l’allarme, e al contempo un duro atto d’accusa, sono due studi pubblicati a luglio dalla rivista inglese Research and Reports in Tropical Medicine. Nella prima analisi gli autori hanno verificato 2.652 farmaci per il trattamento della malaria, della tubercolosi e delle infezioni batteriche, distribuiti in una serie di Paesi poveri. Il risultato è stato che il 13% dei medicinali non autorizzati dall’Oms può essere considerato al di sotto degli standard minimi di qualità. Ma – cosa ancora più allarmante – anche il 7% di quelli che hanno ricevuto il via libera dell’organismo internazionale è stato bocciato. La maggior parte dei farmaci scadenti proviene dalla Cina (il 18%): secondo il documento potrebbe trattarsi di prodotti contraffatti. Un secondo studio indica, similmente, che in Ghana e nella città di Lagos (in Nigeria) circa l’8% dei farmaci anti-malaria – sebbene certificati da un’autorità locale o dall’Oms – sono risultati bocciati ai test di qualità, dal momento che non contengono quantitativi sufficienti di principi attivi. [A.BAR.]

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Si tratta di una vittoria non soltanto simbolica: per la prima volta al posto di direttore generale dell’Ufficio Internazionale del Lavoro, ovvero del segretariato permanente dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni Unite), è stato eletto un sindacalista. A guidare l’organismo sarà, infatti, il britannico Guy Ryder, già alla testa della Confederazione internazionale dei sindacati liberi (dal 2002 al 2006) e poi della Confederazione sindacale internazionale (dal 2006 al 2010). La scelta di puntare su di lui ha premiato, di fatto, un outsider, dal momento che la sua candidatura era opposta a quella, più “istituzionale”, del francese Gilles de Robien, lanciato dall’ex presidente Nicolas Sarkozy e appoggiato dall’attuale inquilino dell’Eliseo, François Hollande. Nel programma del nuovo direttore generale c’è in particolare l’accrescimento del peso dei Paesi emergenti e delle loro istanze all’interno dell’Ilo. Ma Ryder ha spiegato di voler fare sentire la voce dell’agenzia Onu anche con il Fondo monetario internazionale e con la Banca mondiale, sottolineando le conseguenze sociali dei regimi di austerity imposti ad alcuni Paesi. [A.BAR.]

DA UN CALVARIO ALLA TUTELA DELLE VITTIME DI MALAGIUSTIZIA Respingere un tentativo di concussione per poi trovarsi invischiato in un calvario processuale fatto di accuse in virtù di cariche mai ricoperte, vedendosi negare più volte la possibilità di essere ascoltato. Sembra la trama di un romanzo kafkiano, invece purtroppo è la storia – vera – di Mario Caizzone, un commercialista siciliano trapiantato a Milano, ormai da 19 anni alle prese con una complicata serie di traversie giudiziarie. Caizzone da qualche mese ha deciso di spendersi per i tanti che subiscono vicende simili alla sua: situazioni che possono mettere a dura prova le finanze, la reputazione e i rapporti familiari. Nasce per questo l’Aivm, Associazione italiana vittime di malagiustizia. «Io non lotto contro la magistratura, io ho piena fiducia nella magistratura – dichiara Caizzone – tanto che nel 2010 ho rinunciato alla prescrizione perché voglio che mi giudichi». L’Aivm, associazione senza fine di lucro e su base volontaria, dà consigli su come scegliere il legale o come gestire il primo impatto con i magistrati e garantisce quell’appoggio morale che, assicura Caizzone, spesso fa la differenza. E, in fin dei conti, dimostra che «questi vent’anni non sono stati buttati via: quello che è successo almeno può aiutare gli altri». www.aivm.it - www.mariocaizzone.it [V.N.]


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| LASTNEWS |

VIVERE SENZA RATING IN TOSCANA SI PUÒ Fare a meno delle agenzie di rating e dei loro giudizi? È possibile, almeno secondo una serie di enti locali toscani che, da almeno un anno, insistono con la dismissione dei contratti precedentemente stipulati con i tre colossi della valutazione esterna: Moody’s, Fitch e Standard & Poor’s. Il trend, racconta il quotidiano Il Tirreno, va avanti ormai da diversi mesi. Nel capoluogo toscano il sindaco Matteo Renzi ha deciso da tempo di rinunciare al giudizio dei valutatori esterni, una scelta che dovrebbe garantire un risparmio da 120 mila euro. Un’opzione condivisa anche dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, che dal 2011 ha licenziato le tre agenzie. Iniziative analoghe sono state prese anche a Pistoia e a Carrara. La popolarità delle agenzie di rating è ormai ai minimi storici dopo le pesanti accuse mosse dagli osservatori in merito alle loro responsabilità nello sviluppo della crisi globale (ad essere contestati sono soprattutto i conflitti di interesse in seno alle agenzie, nonché alcuni clamorosi errori di valutazione, come il giudizio di piena solidità attribuito alla Lehman Brothers). La recente ondata di declassamenti patita dall’Italia, dai suoi enti pubblici e da alcune delle maggiori società private ha alimentato ulteriore tensione. [M.CAV.]

DERIVATI-TRUFFA: INDAGINE SU INTESA SANPAOLO È presto per parlare di offensiva giudiziaria, ma i presupposti, almeno sul fronte delle inchieste, ci sono tutti. La finanza strutturata torna sotto la lente degli inquirenti e i protagonisti, tanto per cambiare, sono sempre loro: i titoli derivati. Contratti complessi, spesso indecifrabili e troppo difficili da gestire per una clientela che, dopo averli sottoscritti con l’obiettivo di ammortizzare i rischi, si trova in definitiva a fare i conti con perdite ingenti. L’ultimo capitolo, in ordine di tempo, si sta scrivendo in Toscana dove la sezione di polizia giudiziaria della Finanza del Tribunale di Prato sta ascoltando alcuni imprenditori che da tempo sospettano di essere stati truffati. Secondo il quotidiano locale Il Tirreno , che ha riportato la notizia in estate, si sarebbero già registrati una dozzina di casi a Prato, tre a Livorno, cinque ad Arezzo e altri ancora tra Empoli, Pistoia e Firenze. Al vaglio degli inquirenti alcuni contratti stipulati con Intesa Sanpaolo per l’ammortizzazione dei rischi connessi alle oscillazioni sui cambi e sui tassi di interesse. Le perdite dei singoli operatori, secondo Il Tirreno , andrebbero dai 200 mila ai 3 milioni di euro. [M.CAV.]

QUALITÀ DELLA VITA A ROMA: IL BENESSERE IN UNDICI FATTORI

IL MERCATO AGRICOLO APPRODA IN FABBRICA

Dimensione economica, sicurezza, istruzione, occupazione, pari opportunità, cultura, mobilità, salute, partecipazione, condizione abitativa, ambiente. Undici fattori per un unico indicatore che potesse render conto dei tanti aspetti rilevanti nella vita quotidiana dei cittadini e calcolare il livello di benessere della popolazione. Scenario dell’analisi: Roma con i suoi 19 municipi. A realizzare il rapporto, il Laboratorio di sviluppo locale ed economia sociale dell’Università di Roma Tre. «Per decidere quale peso dare a ogni fattore – spiega l’economista Pasquale de Muro, coordinatore della ricerca – i ragazzi del corso hanno realizzato interviste e focus group con gli abitanti di ciascun municipio, chiedendo loro quanto contassero le diverse dimensioni considerate». I risultati incoronano vincitore il I municipio (Centro storico) con giudizi sopra la media cittadina su tutte le voci, ad eccezione del capitolo sicurezza. Sul podio anche altre due zone “altolocate”: il II e il XVII municipio (Parioli e Prati). Significativi due aspetti: il benessere complessivo peggiora di più nei quartieri ad alta densità abitativa che nell’estrema periferia. E sul fronte “cultura” e “condizione abitativa”, i risultati sono ovunque negativi, tranne che nel centro storico. Un fattore da tenere in considerazione in un anno pre-elettorale che, per Roma, si preannuncia particolarmente infuocato. [EM. IS.]

Una fabbrica, forse, è l’ultimo posto in cui ci si aspetterebbe di trovare un mercato agricolo. Ma è proprio questa l’opportunità offerta ai dipendenti dello stabilimento Whirlpool di Cassinetta di Biandronno, in provincia di Varese. Inaugurato lo scorso luglio, il “Mercato a un passo” è l’ultimo nato fra i tanti mercati a km zero che si stanno moltiplicando in giro per l’Italia, che aiutano a riscoprire i sapori delle specialità locali anche nel pieno delle metropoli. Una volta alla settimana, dunque, dopo il turno di lavoro gli operai di Whirlpool possono acquistare direttamente dai produttori frutta, verdura e una vasta gamma di prodotti alimentari, esposti e venduti in uno spazio dedicato all’interno dello stabilimento. L’iniziativa è del Cral Whirlpool, con il sostegno dell’azienda e il patrocinio dei comuni di Biandronno e Ternate, in collaborazione con il Crivello di Varese, un’associazione di produttori alimentari che hanno deciso di prestare un’attenzione particolare alle tradizioni e alle pratiche naturali. E chissà – auspica il Cral Whirlpool – che l’iniziativa possa prendere piede fino a spingere all’insediamento di veri e propri gruppi d’acquisto. [V.N.]

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| ECONOMIAEFINANZA | a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

DOBBIAMO AMARE LA FRAGILITÀ DELL’ITALIA Linda Gobbi, Giovanni Lanzone, Francesco Morace L’impresa del talento Nomos Edizioni, 2012

Da anni ormai si ragiona su come uscire dalla crisi che dal livello finanziario sta contagiando l’economia reale. Poiché le vecchie ricette non aiutano a trovare la via d’uscita, bisogna affidarsi a qualcos’altro, guardando a chi dalla crisi non è stato toccato. In alcune aziende ci sono caratteri distintivi che hanno permesso di continuare a crescere nonostante il contesto negativo. La ricerca della bellezza del prodotto, la passione e la trasformazione dell’impresa in un luogo dove prevalgono la persona, la condivisione e l’aspetto comunitario più che quello gerarchico e di comando. E poi c’è il talento che è l’elemento comune dei dieci casi imprenditoriali trattati nel libro. Francesco Morace, uno dei tre curatori del volume, nella sua introduzione esprime un concetto che può sembrare contraddittorio, ma che in realtà apre una via nuova alla comprensione del successo del made in Italy: «In questo passaggio epocale il messaggio che bisogna lanciare al mondo dell’impresa è: bisogna amare – del nostro Paese – la sua fragilità». E per preservare questa ricchezza fragile occorre un nuovo rinascimento i cui perni strategici sono la sensibilità e l’intelligenza delle persone e dei territori.

SI PUÒ ESSERE POVERI E INSIEME FELICI

SALVARE IL MERCATO DAL CAPITALISMO È POSSIBILE

OCCORRE UNA VISIONE NUOVA E DEMOCRATICA DEL MONDO

Il cinema italiano del secondo dopoguerra sfornò una serie di film rimasti nell’immaginario collettivo. Uno di questi era “Poveri ma belli”, diretto da Dino Risi, a cui seguirono “Povere ma belle” e “Poveri milionari”. La domanda che scaturiva da quella trilogia era semplice e complicata al tempo stesso: che cosa serve per essere felici? I soldi non fanno la felicità, ma nell’ubriacatura di questi ultimi venti anni ci siamo illusi che fosse proprio il danaro e il poter comprare ciò che volevamo il motore principale del nostro stare bene in tutti i sensi. Questo modello, a causa della crisi economica internazionale, ha calato finalmente la maschera di felicità effimera per mostrare il suo lato peggiore: la capacità di ridurre gli esseri umani a consumatori seriali. La sfida è confutare l’assunto “consumo, dunque sono” (come direbbe Zygmunt Bauman) e riscoprire il valore della cultura della povertà (ben diversa dalla miseria), che non spreca ma custodisce e che è in grado di far riscoprire il senso di una vita felice al di fuori dello scaffale di un supermercato.

La finanza è stata demonizzata, ma tutti gli economisti sanno che il suo ruolo è fondamentale perché rende efficiente il mercato e perché senza la finanza l’economia perde il suo slancio, la sua forza vitale. Il problema è che oggi i mercati finanziari hanno abdicato a quel compito originario, diventando spesso antagonisti dell’economia con un potere crescente, autarchico e incontrollato che detta legge e impone politiche economiche agli Stati sovrani. Nella realtà alcune soluzioni per pensare una nuova finanza sono già in atto, come il ritorno a pratiche finanziarie e bancarie fino a poco tempo fa considerate obsolete, ma che ora mostrano tutta la loro solidità, come le forme di credito cooperativo e di finanza senza interesse. D’altra parte, emergono spontaneamente altre pratiche, come i sistemi di compensazione, locali e internazionali. Quello che invece manca ancora è una prospettiva d’insieme, teorica e politica, nella quale inquadrare le pratiche vecchie e nuove.

Bisogna cambiare il sistema a partire dall’economia e dalla politica che oppongono la resistenza maggiore al cambiamento. I segnali che qualcosa si sta muovendo ci sono già: se da una parte le crisi finanziarie hanno evidenziato le numerose zone pericolose e devianti del sistema, dall’altra emergono con forza e sempre più numerosi i tentativi di un’economia civile che non è fatta di carta e di scommesse ma di cose reali che tendono al bene comune. Per cambiare occorre riscoprire la passione attraverso la condivisione e riportare nella vita delle persone una nuova “grammatica democratica” che i vecchi politici rifiutano. Occorre andare verso un postsviluppo, una nuova visione del mondo che dovrà scaturire da una realizzazione collettiva capace di togliere il primato alla ricerca del benessere materiale, responsabile della distruzione dell’ambiente e dei legami sociali. La demonetizzazione dell’economia, la dematerializzazione dei rapporti umani e la riacculturazione delle masse costituiscono i passaggi necessari all’introduzione di questa nuova visione e delle risposte alle grandi domande esistenziali, ma soprattutto alla possibilità che l’umanità tali domande se le possa porre anche in futuro.

Andrea Pomella Dieci modi per imparare a essere poveri ma felici Laurana Editore, 2012

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Massimo Amato, Luca Fantacci Come salvare il mercato dal capitalismo Donzelli Editore, 2012

Claudio Ferrari Economia e democrazia Publistampa Edizioni, 2012


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| NARRATIVA | a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

LA STORIA, MAESTRA DI LETTERATURA Davide Orecchio Città distrutte Gaffi Editore, 2012

C’è la mano dello storico nelle vite raccontate in questo libro. Sei biografie che riannodano con arte, in tempi e luoghi differenti, i fili della grande storia. C’è il tempo del fascismo e quello del comunismo, della poesia e del terrorismo, della democrazia europea e della dittatura argentina. Dietro le singole vite, spesso dure, marcate irrimediabilmente dalla tragedia e da un che di misterioso, si muove il grande scenario del mondo con la sua facciata riportata dai manuali e dai documenti ufficiali. Non importa che il punto di partenza sia una ricerca d’archivio o fatti veramente accaduti, perché le esistenze qui replicate vanno ben oltre la semplice ricostruzione storica per riproporsi su un piano letterario che diventa necessario e universale. Senza ricerca non c’è storia. Senza compassione non c’è letteratura.

LA FAMIGLIA CERCA UN SENSO

QUANDO I BACI SONO SCAGLIATI ALTROVE

L’ESTATE CHE NON PASSÒ PIÙ

Vincenzo Chironi mette piede per la prima volta sull’Isola di Sardegna nel 1943. Con sé ha solo un vecchio documento che certifica la sua data di nascita e il suo nome, ma per scoprire chi è veramente dovrà intraprendere un viaggio ancora più faticoso di quello affrontato col piroscafo che l’ha condotto fin lì. A Nuoro trova ad attenderlo il nonno, Michele Angelo, maestro del ferro, che gli farà da padre e da complice in parti uguali. C’è anche sua zia Marianna, che vede nell’inaspettato arrivo del nipote l’opportunità per riscattare un’esistenza puntellata dalla malasorte. Anni dopo, quando ormai a Nuoro la presenza di Vincenzo Chironi sembra scontata, la forza del sangue torna a far sentire il suo richiamo. Perché quando Vincenzo conosce Cecilia, innamorarsi di lei gli sembra l’unica cosa possibile, anche se è promessa sposa di Nicola, con cui lui è mezzo parente. Se è vero che “la disobbedienza chiama il castigo”, forse è anche vero che quell’amore è l’ultimo anello di una catena destinata a non aver fine.

Questo libro inizia con una profezia e prosegue con una serie di racconti tutti declinati al maschile, alla ricerca di una risposta a un’esistenza sempre in bilico tra il sogno – ciò che si vorrebbe – e la nuda realtà, che impone sempre le sue scelte, a volte dolci a volte crudeli. La bellezza di questa prova d’autore è che affida ai dettagli o a episodi apparentemente insignificanti il ruolo cruciale di riportare l’esistenza dei protagonisti sui binari del destino. Si deraglia per semplice disattenzione o perché si crede che l’amore sia ancora lontano. Si ritorna sulla via grazie a una tartaruga, per una telefonata fatta dal cielo di San Francisco, per un tragico suicidio o per un accendino laccato di rosso. Ma poco importa, perché le vie della bella e sana letteratura sono infinite. In calce al libro un regalo dell’editore. Impaginato su due colonne Amore, un racconto di David Foster Wallace.

Nel giugno del 1969 la regina d’Olanda arriva in visita ufficiale al paese di Wieringerwaard. A festeggiarla c’è il popolo, i contadini. Gente come la famiglia Kaan, che proprio in quel giorno di festa patiranno il loro dolore più grande: la perdita della figlioletta travolta dal furgone del fornaio accorso per immortalare in una foto la regina Giuliana. Sono passati quarant’anni e nella fattoria dei Kaan c’è già la terza generazione, ma quel dolore è ancora vivo nella madre che vive “reclusa” nel suo passato. Attorno a lei il vecchio marito, l’indolente primogenito Klaas, il ribelle Jan, e il fragile Johan, che le lesioni cerebrali di un incidente in moto hanno reso al tempo stesso lento e senza freni, si muovono come estranei tra i resti di una fattoria e di una famiglia sgretolate, sospese in un microcosmo di silenzi. Eppure qualcosa li unisce tutti nel profondo, qualcosa che solo la piccola Dieke, figlia di Klaas, con la sua spensierata curiosità infantile, può strappare ai fantasmi di quella lontana estate.

Marcello Fois Nel tempo di mezzo Einaudi, 2012

Sandro Veronesi Baci scagliati altrove Fandango Libri, 2011

Gerbrand Bakker Giugno Iperborea, 2012

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| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

L’ISOLA CHE C’È DÀ I NATALI A LIBERA COMO La nona edizione de “L’isola che c’è”, la fiera comasca delle relazioni e delle economie solidali, sarà teatro di un importante “battesimo”. Al parco comunale di Villa Guardia, infatti, prenderà vita ufficialmente Libera Como, la sezione locale dell’associazione presieduta da Don Ciotti, impegnata da anni nella lotta alle mafie. Ma nel programma della fiera, che si terrà sabato 22 e domenica 23 settembre, spiccano anche seminari sulle energie alternative e sulla comunicazione democratica e due incontri sull’agricoltura, che si concentreranno sulle certificazioni biologiche e sulle potenzialità occupazionali per i giovani. Spazio anche al dibattito sulla precarietà del lavoro e sulla situazione delle acque nella provincia di Como. I visitatori potranno inoltre degustare prodotti biologici, partecipare ai laboratori di autoproduzione e conoscere le attività di associazioni e produttori locali impegnati nel campo della sostenibilità. A partecipare saranno anche alcuni volontari sloveni impegnati in un progetto di scambio europeo che li porterà nella città lombarda proprio a fine settembre. www.lisolachece.org

AIAB PORTA IN PIAZZA LE TRE STRADE DEL BENESSERE “Bio, benessere garantito”? Sembrerebbe proprio di sì secondo Aiab (l’Associazione italiana per l’agricoltura biologica), che proprio a questo tema dedica la dodicesima edizione della Biodomenica, organizzata insieme a Coldiretti e Legambiente, che tornerà ad animare le piazze di 18 regioni italiane il prossimo 7 ottobre. «Stiamo preparando un dossier – racconta il coordinatore Eduardo Cuoco – che spiega che l’obiettivo del biologico è proprio quello di tutelare il benessere su tre filoni: umano, ambientale e animale». Seguendo questo filo conduttore, dunque, la Biodomenica non si propone come un mercato di prodotti biologici, ma come un momento d’incontro tra il mondo agricolo e i cittadini. Lo dimostrano le Officine del bio, una novità di quest’anno: veri e propri laboratori in cui i partecipanti potranno “sporcarsi le mani” partecipando in prima persona ad attività, selezionate a seconda del territorio, che vanno dalla produzione del mosto alla caseificazione. Spazio anche a dibattiti, convegni, workshop , degustazioni e mostre informative. www.aiab.it

ALL’ECOPARCO DI VEZZANO LA PIZZA EMILIANA 100% BIO

IL VERDE DELL’ORTOFFICINA FRA I PALAZZI MILANESI

Le occasioni per gustare una fetta di pizza sono tante. Ma fino al 31 ottobre chi passa una giornata all’Ecoparco di Vezzano, in provincia di Reggio Emilia, ne potrà assaggiare una molto particolare. È la Biopizza: la farina semi integrale per l’impasto è della cooperativa La Collina di Reggio Emilia, il pomodoro viene dalla cooperativa Iris di Cremona, la mozzarella dall’azienda agricola emiliana Casumaro che la prepara appositamente e la consegna in giornata. E così via: ogni ingrediente è fornito da un piccolo produttore biologico della zona. Il tutto è cotto in un forno a legna itinerante, da noleggiare per feste private, matrimoni o fiere. Poi c’è il BioBar che «al di là della ristorazione – spiega Alessandro Beffa, che gestisce le attività insieme alla moglie – organizza laboratori per bambini: andiamo per il parco a raccogliere la legna, prendiamo le uova dalle galline, maciniamo i cereali, facciamo l’impasto». L’idea, a detta di Alessandro, sta portando i suoi frutti: anche quando bisogna scontare qualche diffidenza iniziale da parte di chi non ha ancora confidenza col biologico, alla fine «la differenza, a livello di gusto, si sente». acasadibio.altervista.org

Si sente parlare sempre più spesso della riscoperta degli orti in città. Anche l’impresa sociale milanese La Cordata, ormai da mesi, gestisce due mercatini agricoli, ma a partire dal 16 settembre farà un passo in più. Verrà ufficialmente inaugurata l’Ortofficina Cordata, all’intero del complesso di housing sociale di Zumbini Sei, nel quartiere Barona. Collabora al progetto l’Associazione Nostrale, che si occupa di promozione della filiera corta. L’Ortofficina è, di fatto, un orto collettivo, aperto quotidianamente per tutti coloro che vorranno ritagliarsi un piccolo spazio verde all’interno dei ritmi frenetici della metropoli lombarda. Per cercare di estendere l’esperienza, portando il verde fra i palazzi, sono stati organizzati diversi workshop che di settimana in settimana insegneranno a coltivare in vaso, a utilizzare gli scarti alimentari come concime e a scegliere prodotti davvero a km zero. Non mancheranno i laboratori studiati per i bambini. www.lacordata.it

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| FUTURE | a cura di Francesco Carcano | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

LA MILANO “NERA” ONLINE E TECNOLOGICA

HTTP://WWW.YOTEL.COM

Il progetto del giornalista Daniele Belleri si aggiorna e vuole rendere accessibile online il crime mapping della capitale finanziaria italiana. Diffuso nei Paesi anglosassoni come strumento di analisi e prevenzione dello sviluppo del crimine, il crime mapping in Italia è poco diffuso per molti motivi: da una errata interpretazione della legislazione sulla privacy da parte delle forze dell’ordine, alla volontà di queste ultime di gestire il dato di cronaca (dove e quando accadono i delitti) nell’ambito di un rapporto non sempre lineare con i mezzi di informazione. Vi sono poi problemi prettamente strutturali (assenza di database condivisi e di accesso pubblico al dato) o politici (utilizzo demagogico dell’emergenza, soprattutto in prossimità di elezioni locali o nazionali). La mappa del crimine assolve a questa duplice funzione: consente l’analisi di quanto realmente accaduto sul territorio (che diviene leggibile in forma di mappa in rapporto ai reati) e permette la valutazione sugli interventi necessari, siano essi urbanistici, sociali o di prevenzione e repressione. Online sul blog “il giro della nera” si possono trovare i link utili e le informazioni per l’uso della mappa 2012.

VIRUS INFORMATICI PER NUOVE GUERRE

“APP” UTILI PER UNA VITA MIGLIORE

Stuxnet è ormai una celebrità al punto di avere una pagina Wikipedia dedicata in più lingue. Duqu, invece, lo conoscono meno persone, non infetta e distrugge, ma ruba informazioni ed è più discreto. Hacker contro Hacker nel grande e quotidiano scontro informatico di cui poco sappiamo e spesso solo a cose avvenute. Stuxnet è stato scoperto da una società di sicurezza bielorussa e, secondo report e gossip, aveva fatto in tempo a infiltrare pesantemente i programmi nucleari dell’Iran, Paese nel quale si è maggiormente diffuso. Nella guerra sotterranea che serpeggia dietro la cosiddetta “Primavera araba” e che tira fili invisibili dall’Africa a Oriente emerge sempre più il ruolo dei malware , virus in grado di infettare a distanza macchinari industriali e di attingere a informazioni riservate. La guerra è dietro le quinte e anche per i tecnici è difficile risalire agli autori di worm e malware che infettano la Rete e raggiungono i centri di potere. Di certo, per ora, vi è solo che una nuova guerra ogni giorno è in atto dietro la Rete informatica e ne siamo passivi spettatori, a volte coinvolti senza saperlo da una rete di e-mail che possono raggiungerci o finire nello spam.

Il motto è “cambia il mondo una App alla volta” e, se non applicabile ai Paesi in cui la sopravvivenza è la principale fonte di preoccupazione quotidiana, ben si inserisce nel sempre più veloce e multitasking mondo occidentale. Applicationsforfood.org è un’organizzazione statunitense non profit che crea un ponte tra sviluppatori e programmatori informatici, da un lato, e Ong e istituzioni, dall’altro. Scopo finale: creare applicazioni per il mobile utili allo sviluppo sociale e alla coesione. Sono ormai numerosi i progetti che declinano sull’utilità sociale la creazione di nuove App per il mobile. Va in questa direzione anche il progetto “Reach” promosso dal dipartimento Usa dei Veterani che ha lanciato una gara per nuove applicazioni destinate al mondo dei senza tetto. Il progetto prevede che i dispositivi su cui sono installate le nuove applicazioni possano fornire informazioni utili in tempo reale sui ricoveri esistenti in prossimità del dispositivo in base a geolocalizzazione, indicando anche i posti ancora disponibili. Un potenziale ancora da sviluppare enorme se si pensa alla diffusione dei cellulari, spesso con funzioni avanzate, tra tutte le fasce della popolazione.

NUOVI HOTEL TRA LOVE E ROBOT Nell’immaginario occidentale erano i luoghi della perdizione, in quello orientale spesso anche luoghi di sosta e ristoro. Ora i Love Hotel rischiano di essere emulati in Occidente e superati dalla tecnologia che, dalla Francia a New York, accompagna i marchi Yotel e Hi-Matic. Nella capitale francese quest’ultimo offre, oltre alla riservatezza che caratterizzava i Love Hotel orientali, un completo servizio fai da te elettronico in versione eco-green. Addio all’intenso e romantico “portiere di notte” in stile Liliana Cavani o alla donna della reception di Amos Oz ne “Lo stesso mare”. Dimenticatevi questi romanticismi: al Yotel nessuno sarà al bancone ad accogliervi e un braccio meccanico prenderà in custodia il vostro bagaglio portandolo direttamente nella camera-loculo senza finestre che vi è stata assegnata. Privacy – e assenza di emozioni cinematografiche preconfezionate – assicurata, a meno che siate fanatici di fantasy iper-tecnologici. In compenso iPad in stanza e reception touch screen all’Hi-Matic fanno compagnia a vernici atossiche certificate green e merendine biologiche. Prenotazioni solo online, pagamenti con carta di credito, password via e-mail. Il robot è assicurato, alle emozioni ognuno deve provvedere da sé, se può farlo.

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La crisi di Barclays

Quelle pagine di storia nella Londra olimpica are che fino alla metà del secolo scorso alla Barclays il pranzo servito in sala mensa fosse ancora preceduto dalla Santa messa: un’eredità della disciplina etico-religiosa di cui i Quakers facevano, e fanno tuttora, il punto di forza del loro stato sociale. Esclusi da alcune libere professioni e dalle armi per i loro convincimenti morali e per il loro pacifismo, a

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dal cuore della City Luca Martino

partire dalla fine del XVII secolo fondarono una moltitudine di istituti di credito cooperativo che, nel tempo, si fusero e diedero vita a una tra le più grandi banche del Regno Unito, quella Barclays che, dopo le dimissioni di Bob Diamond, si ritrova oggi senza un amministratore delegato e alle prese con la crisi reputazionale più drammatica della sua storia. L’uscita di scena di Diamond sancisce la fine di un’epoca, non solo per la banca, ma per tutto il sistema finanziario inglese e mondiale, che negli ultimi vent’anni, tra imbrogli fiscali, illusionismi contabili e finanza creativa, credeva di poter gestire insieme il sistema del credito tradizionale e quello del trading speculativo. È stata in fondo questa l’accusa più stringente mossa a Diamond durante l’audizione alla commissione Finanze del Parlamento inglese, tre drammatiche ore che rimarranno nella storia dell’economia mondiale, nonostante i molti «non so» e «non ricordo» dietro i quali si è trincerato l’ormai ex capo indiscusso di Barclays. Per uno come lui, da 30 anni al centro dei più complessi e spesso pasticciati affari della finanza internazionale, scoperto con le mani nella marmellata dopo che l’Fsa (l’autorità britannica di controllo sulle banche) ha rintracciato centinaia di e-mail nelle quali alcuni

Tuttavia il banchiere americano di umili origini irlandesi, che in 30 anni ha messo da parte una fortuna senza rischiare un soldo di tasca propria, verso la fine della sua deposizione deve aver capito che il suo tempo era finito per sempre. Prima la conservatrice Andrea Leadsom gli ha rimproverato: «Pensa forse di abitare in un universo parallelo? Lei parla del suo stile di gestione alla Barclays come se avesse salvato la banca; si rende conto che è stato proprio quello il problema? Parla di poche mele marce, questa è criminalità!». Poi il laburista John Mann gli ha chiesto: «Saprebbe dirci i tre valori fondanti dei Quakers quando costituirono la Barclays?». «Non posso, signore», ha risposto Diamond, con la voce tremante dello studente impreparato al primo esame universitario. Si trattava di integrità, etica e tranquillità negli affari: valori esemplarmente impersonificati dal più illustre tra i banchieri Quakers, Samuel Gurney, celebrato da un obelisco proprio a poche decine di metri da quel parco olimpico dove sono passate milioni di persone, molte con le biciclette di Johnson, pagate con i soldi di Barclays, cosa che non basterà a riabilitare una reputazione centenaria distrutta in pochi anni per “qualche bottiglia di champagne”. 

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Una reputazione centenaria distrutta dallo scandalo dell’a.d. Bob Diamond “suoi” trader chiedevano ai colleghi della tesoreria di “aggiustare” le informative sul tasso di finanziamento della banca in cambio di “qualche bottiglia di champagne”, non è stato poi così difficile difendersi su questo, né sui tanti altri scandali sui quali i commissari lo incalzavano anche ripetutamente. La sua linea difensiva aveva una logica di fondo: questo era il sistema e così facevano tutti. D’altronde era lui il più ammirato banchiere della City fino a poche settimane prima; molti i politici, tra questi il sindaco Johnson, che lo cercavano quotidianamente; molti, decisamente troppi, anche i dirigenti della stessa Fsa che gli inviavano messaggi spesso a carattere personale e dal tono eccessivamente confidenziale.

todebate@gmail.com


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