Mensile Valori n. 104 2012

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 104. Novembre 2012. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

XINHUA / EYEVINE / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

L’era dei Narcostati La criminalità organizzata gestisce il traffico come una multinazionale Finanza > Con il sì dell’Italia scatta l’ora della Tobin Tax. Con qualche questione aperta Economia solidale > Boom di trivellazioni. Anche in zone a rischio sismico | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Campagna elettorale Usa. Chi ha pagato per il nuovo presidente?


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| editoriale |

La nuova frontiera del riciclaggio di Douglas Farah

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L’AUTORE Douglas Farah È presidente di Ibi Consultants e Senior Fellow presso l’International Assessment and Strategy Center. È consulente alla sicurezza nazionale e analista. Nel 2004 ha lavorato per nove mesi presso il Consortium for the Study of Intelligence, dove si è occupato del tema dei gruppi armati e della riforma dei servizi di intelligence. Nei due decenni precedenti è stato corrispondente all’estero e giornalista d’inchiesta per il Washington Post e altri giornali, occupandosi in particolare di Africa Occidentale e America Latina. *

Questo editoriale è basato sul contenuto di un’intervista rilasciata a Valori nel mese di ottobre 2012.

e regole internazionali per il contrasto al riciclaggio di denaro e al traffico di droga sono state progettate oltre vent’anni fa. Ma il mondo che si conosceva all’epoca era molto diverso da quello globalizzato in cui viviamo oggi. I flussi di libero scambio commerciale, i rapidi trasferimenti di denaro e i nuovi paradisi offshore hanno finito per plasmare un nuovo ambiente capace di rendere gli attuali strumenti di contrasto sorpassati e inutili. Vale per molte attività, dal riciclaggio al traffico di armi, un settore nel quale le regole erano state pensate per contrastare gli scambi tra gli Stati e oggi risultano completamente inadatte nel prevenire gli scambi illegali tra i mercanti privati che attualmente dominano il mercato. Tutto è cambiato. Dieci anni fa lo scambio commerciale tra Cina e America Latina era valutato in dieci miliardi di dollari. Oggi vale venti volte tanto. La maggior parte di queste transazioni rientra nello scambio legale. Ma l’aspetto più importante, sfortunatamente, è che, al crescere dell’ammontare degli scambi, aumenta anche la facilità con cui vi si possono nascondere i traffici e le transazioni illegali. In definitiva qualcuno può sempre guadagnare qualche milione di dollari qua o là, oppure spostare qualche container da un’altra parte senza che questo sembri attrarre molta attenzione. E probabilmente, come ha evidenziato il caso di Hsbc, l’interesse a sapere cosa accade non esiste nemmeno. Oggi le compagnie cinesi controllano molti dei principali porti del Messico, gli stessi in cui, da un lato, si può osservare una forte crescita del traffico di metanfetamine e, dall’altro, una miriade di processi finanziari fittizi, attività tipiche del riciclaggio, realizzati attraverso banche cinesi di piccole dimensioni che magari neanche esistono (nessuno ha voglia di controllare). Nei porti messicani si vedono container provenienti dalla Cina con un valore dichiarato di 2 o anche 4 milioni di dollari. Stanno fermi lì in attesa che qualcuno se li venga a prendere. In seguito, dopo un bel po’ di tempo, magari anche sei settimane, visto che nessuno li reclama, le autorità messicane intervengono, li aprono e scoprono che non contengono nessuna merce di valore. E allora, sei settimane dopo che qualcuno ha pagato 2 o 4 milioni di dollari per “niente”, è perfettamente chiaro cosa sia realmente successo: 2 o 4 milioni di dollari sono già entrati in circolo nel sistema finanziario illegale. In America Centrale, contrariamente alle aspettative, la debolezza dell’economia non ha condotto a un grande collasso finanziario. La ragione principale è probabilmente la forte crescita del narcotraffico e delle attività illegali. Un elemento decisivo, qualcosa di cui queste economie hanno bisogno. Basta guardare a Paesi come El Salvador, Panama o Ecuador – “economie dollarizzate” in cui non devi nemmeno cambiare valuta se vuoi fare business – e alle molteplici opportunità che questi offrono ai trafficanti di droga e ai riciclatori. Di fatto non c’è nessun controllo sui flussi di denaro e per i criminali i rischi sono molto bassi. Ci sono grandi investimenti, si importano auto di lusso, si costruiscono appartamenti nuovi di zecca: l’economia sembra crescere, ma il 90% della popolazione continua a non prenderne parte. La verità è che è tutto fasullo e ogni cosa non è che un sintomo delle attività di riciclaggio. Secondo il programma della Casa Bianca noto come Strategy to Combat Transnational Organized Crime, le attività di riciclaggio valgono da 1,3 a 3,3 trilioni di dollari. Il controvalore stimato dallo United Nations Office on Drugs and Crime è pari invece a 2,1 trilioni, una cifra equivalente all’incirca al Pil dell’Italia.  | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 3 |


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| decrescita: il dibattito |

Da anni Valori “parla” di Decrescita, proponendo diversi punti di vista. Con il dossier pubblicato sul numero di settembre – a poche settimane dalla terza Conferenza internazionale sulla Decrescita (Venezia, 19-23 settembre), a cui la redazione ha partecipato – si è scatenato un acceso dibattito. Diamo spazio alle diverse posizioni sia sul sito internet www.valori.it, sia su queste pagine.

Spostamento, non decrescita per la società del benvivere di Francuccio Gesualdi Centro Nuovo Modello di Sviluppo

Non so se l’idea che mi sono fatto della Decrescita sia la stessa dei suoi teorici, ma vi scorgo tre messaggi importanti. 1. Non si può perseguire la crescita infinita in un Pianeta dalle risorse limitate. 2. La corsa dietro ai consumi compromette la qualità della vita per strangolamento delle relazioni. 3. Se vogliamo garantirci un futuro dobbiamo ridurre consumo di materia e produzione di rifiuti. Ma, enunciati i principi, spuntano i nodi. Ad esempio: in un mondo squilibrato come quello in cui viviamo l’invito a ridurre non può valere per tutti, ma solo per gli opulenti, quelli che consumano 100 chili di carne all’anno, che possiedono più di un’auto ogni due persone, che producono più di 500 chili di rifiuti all’anno. Quanto ai tre miliardi di poveri assoluti, hanno diritto a mangiare di più, vestirsi di più, studiare di più, curarsi di più, viaggiare di più, ma potranno farlo solo se gli opulenti accettano di sottoporsi a cura dimagrante perché c’è competizione per le risorse scarse. Dunque tutto bene con lo sviluppo avviato in Cina, India o Sudafrica? Non proprio, considerato che agli impoveriti arrivano solo le briciole sottoforma di consumismo spazzatura. La verità è che sia il Nord che il Sud hanno bisogno di un nuovo modello economico, più orientato all’equità, con il Nord in posizione di maggiore difficoltà perché deve fare due operazioni in una: ridurre e riequilibrare. Premesso che l’efficienza tecnologica non è sufficiente a realizzare il miracolo, la domanda che si pone chi si occupa non solo di ambiente, ma anche di sopravvivenza delle persone, è: come fare senza mietere vittime? Non a caso fra i più accesi oppositori della Decrescita ci sono i sindacati, preoccupati per i posti di lavoro in un sistema dove la forma prevalente di lavoro è quella salariata fortemente ancorata alla crescita dei consumi. In fin dei conti il grande punto interrogativo è se sia possibile coniugare sobrietà con piena occupazione e sicurezza sociale, concetti che sarebbe meglio ribattezzare piena partecipazione lavorativa e vita sicura per tutti. La risposta è sì, che si può, precisando che la battaglia vera non è per la riduzione tout court del Pil, ma per una ristrutturazione di produzione e consumo, ben sapendo che il sistema in cui viviamo ha sovraprodotto per il consumo privato e sottoprodotto per il consumo pubblico. | 4 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

Forse la parola giusta è spostamento, a significare che dovremo ridurre certi settori e ampliarne altri: meno automobili più treni e autobus, meno strade più ferrovie, meno acqua in bottiglia più acquedotti, meno centrali a carbone più pannelli solari, meno case di nuova costruzione più ristrutturazione di quelle esistenti, meno pubblicità più scuola, minor uso di materie prime più recupero di rifiuti, meno importazione di cibo più agricoltura locale. Di sicuro una società che dispone di meno deve decidere cosa privilegiare e personalmente non ho dubbi che la priorità va data ai bisogni fondamentali: acqua, cibo, alloggio, energia, sanità, scuola, comunicazione, trasporti. Bisogni da garantire in maniera gratuita perché appartenenti alla fascia dei diritti e proprio per questo di esclusiva competenza dell’economia pubblica, che, funzionando sul principio della solidarietà collettiva, è l’unica forma organizzativa che può praticare la gratuità. Per questo credo che un serio progetto di Decrescita debba depotenziare il mercato e rafforzare l’economia pubblica, smettendo di concepirla come una struttura parassitaria che succhia ricchezza. Al contrario deve viverla come uno spazio produttivo comune che, oltre a garantire i bisogni fondamentali, garantisce un’occupazione minima per tutti. Certo, per raggiungere un obiettivo tanto ambizioso, in un contesto di economia rallentata, bisogna inventarsi altri modi di fare funzionare l’economia pubblica, che non sia più quello fiscale. Potrebbe essere il servizio civile obbligatorio, la tassazione del tempo in alternativa alla tassazione del reddito, il lavoro comunitario in cambio di un reddito di cittadinanza. Le soluzioni tecniche alla fine si trovano, il problema è culturale. Bisogna saper ripensare il lavoro, il ruolo del mercato, la funzione dell’economia pubblica, le forme di contribuzione all’economia collettiva, l’intreccio fra economia locale ed economia globale, il ruolo e il governo della moneta. Questi sono i nodi da affrontare per una società del benvivere, termine più appropriato per una società che dopo avere superato la fase di dimagrimento, cerca la giusta dieta per mantenere il peso forma. Dunque politica alta per la Decrescita, tenendo a mente l’avvertimento di Langer: «La conversione ecologica avverrà solo se sarà socialmente desiderabile».


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BANCA ETICA E LA DECRESCITA di Riccardo Milano (responsabile delle relazioni culturali di Banca Etica) Anni fa, nel pieno della crescita finanziaria degli anni ’90, nasceva l’idea di fondare una nuova banca che si occupasse, a seguito della nascita di un movimento denominato finanza etica, di attività che avessero a che fare con temi quali trasparenza, diritto al credito, giustizia e solidarietà, uso del denaro, rispetto dell’ambiente, e così via. Di fatto è stata una rivoluzione culturale che ha aperto molti orizzonti e oggi si può affermare che è stata lungimirante. Non si può dire che tutto sia stato risolto, anzi: la crisi attuale ha di nuovo rimescolato le carte e le problematiche per le quali è sorta la finanza etica si sono ampliate, fino a mettere in discussione le motivazioni stesse dell’intera attività economica mondiale. In tal senso il versante della Decrescita – nome ormai da moltissimi considerato sì ambiguo, ma che rende plasticamente l’idea di un “qualcosa” da rivedere – si è imposto con tutto il suo carico di positività, negatività, idealità e ideologia, accondiscendenza e altro. Banca Etica è stata da subito nel dibattito grazie ai suoi soci, che sono o attivisti/estimatori del movimento o solo osservatori più o meno interessati, e ha cercato, ma senza una neutralità pericolosa, di comprendere le ragioni delle parti per impostare una sua linea operativa. Da subito ha accettato la “provocazione” come un forte appello culturale e ha condiviso molte delle

battaglie, specie sulla finanza e sull’ambiente; e ancora oggi continua a studiare, a partecipare alle varie manifestazioni, a cercare di capire e di tentare di dare una risposta al “come bisogna vivere?” socratico. L’art. 5 dello Statuto della banca recita: «La finanza eticamente orientata è sensibile alle conseguenze non economiche delle azioni economiche». Non c’è dubbio che la sua attività è per un futuro di crescita umana, cosa del tutto naturale e rafforzata dal suo Manifesto. D’altra parte non può ignorare le tante aporie dell’attuale mainstream economico e le tante problematiche sia nuove e sia trascinatesi da tempo. Sicuramente il dibattito sollevato dal movimento della Decrescita, o da altri economisti più tiepidi al riguardo, è appena agli inizi e dovrà essere sempre più precisato sia culturalmente che operativamente. Per quanto riguarda Banca Etica si ribadisce che la sua visione è all’interno di quella nuova impostazione economica chiamata “Economia civile” che ben rappresenta tutti coloro che hanno a cuore uno sviluppo umano che possa essere solidale, mutualistico e generazionale nel pieno rispetto del pianeta Terra. Ciò ben sapendo che le risposte non debbono essere a lungo termine e che debbono essere sempre condivise e mai strumentalizzate da nessuna parte.

SPOSTARE LA PRIORITÀ DELLA DECRESCITA DEL PIL ALLA CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE IN LAVORI UTILI di Movimento per la Decrescita felice Appello di imprenditori, tecnici, consulenti e attivisti del Movimento per la Decrescita felice per un cambio di priorità in Italia nelle scelte economiche e industriali, al fine di iniziare a superare l’attuale crisi di sistema. In tempi normali è sufficiente gestire l’ordinaria amministrazione con accortezza perché tutto proceda bene. […] Ma quando, come ora, si vivono grandi cambiamenti epocali, dove masse sempre più grandi di persone soffrono per mancanza di lavoro, occorre rimettere in discussione idee consolidate, in particolare il dogma della crescita continua del Prodotto interno lordo. Vediamo con apprensione che si parla di Project Bond per realizzare grandi opere infrastrutturali. Si tratta di fare altri debiti per realizzare grandi opere finalizzate, più che alla reale utilità, a far ripartire la crescita, come se fosse la soluzione ad ogni male. […] E si dà per scontato che la crescita faccia automaticamente aumentare l’occupazione, ma non è vero […]. Dagli anni ’60 a oggi il Pil è aumentato di quasi 4 volte, mentre l’occupazione in proporzione all’aumento della popolazione è diminuita! […] La galleria per il Tav in val di Susa […] consentirebbe di creare […] al massimo seimila nuovi posti di lavoro contro un investimento minimo di 8,2 mld di euro, ovvero 0,73 nuovi posti per ogni milione di euro investito, sempre che il costo dei lavori non subisca aumenti […] La spesa sarebbe coperta a debito ribaltando ancora una volta il problema sulle generazioni future, che dovrebbero anche sorbirsi i danni ambientali e le spese per

l’energia necessaria a illuminare e climatizzare l’opera. Tutte le grandi opere infrastrutturali hanno per comun denominatore l’uso del debito, di molto cemento, di molta energia e quindi un impatto ambientale molto rilevante. […] Si può fare diversamente? Certo che sì! Bisogna solo cambiare le priorità e spendere il denaro in altro modo, […] in molte migliaia di piccoli e micro cantieri e solo successivamente, eventualmente, in grandi opere infrastrutturali. I micro cantieri dovrebbero riguardare in primo luogo l’efficientamento energetico degli edifici pubblici e privati. Poi anche le bonifiche ambientali e per la messa in sicurezza del territorio rispetto agli eventi catastrofici. […] In un articolo del 13 febbraio 2012 sul Sole 24 ore si legge che per ogni 10 miliardi di euro investiti si possono avere 130 mila nuovi posti di lavoro di buona qualità, mentre investendo la stessa cifra in grandi opere daremmo lavoro al massimo a 7.300 persone. […] Occorre abbandonare il dogma della crescita continua. Nell’Universo NULLA cresce per sempre. Si tratta di una sciocca illusione generata dalla mente dell’homo oeconomicus, […]. E solo per questa sciocca specie di umani, e per gli altri che ci credono, il Pil è l’indicatore unico e indiscutibile del nostro benessere.

La versione integrale sul sito di Valori e su: http://decrescitafelice.it/2012/05/spostare-la-priorita-dalla-crescita-del-pilalla-crescita-delloccupazione-in-lavori-utili-una-proposta-concreta/

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Lacrime e sangue

Quei Keynesiani del Fmi di Alberto Berrini

ella seconda settimana di ottobre si è svolta a Tokyo l’assemblea annuale più importante del Fondo monetario internazionale (Fmi). In tale sede si è preso atto del forte rallentamento che sta caratterizzando, pur nella diversità dei risultati dei singoli Paesi, l’intera economia mondiale. Ciò implica anche ammettere che, ancora una volta, si sono commessi significativi errori previsionali. Ma ciò che più stupisce (favorevolmente) è che l’Fmi attribuisca tali errori alla sottovalutazione degli effetti depressivi delle manovre di rigore che, peraltro, era lo stesso organismo economico internazionale a pretendere. Come dichiarato dalla direttrice del Fondo, Christine Lagarde, «le misure di austerità adottate nel mondo hanno avuto effetti più forti di quelli previsti». Del resto, dal 2010 in poi, soprattutto in Europa, i Paesi hanno cominciato a tagliare significativamente e simultaneamente i bilanci pubblici. Trattandosi di regioni economiche altamente integrate tra loro, la riduzione della spesa pubblica e della domanda interna di ciascuna di esse non poteva che tradursi in minori esportazioni e, quindi, minore Pil anche per i Paesi vicini. L’Fmi ha quindi dovuto ammettere che politiche fiscali di austerità non possono essere l’unico strumento di politica economica in mano ai governi. Anche perché il debito pubblico ha continuato ad aumentare in molti Stati, nonostante i tagli alla spesa e l’aumento delle tasse. In definitiva sia i dati che le analisi del Fondo monetario internazionale sconfessano la cosiddetta “auste-

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

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Anche il Fondo monetario internazionale ha ammesso che l’austerity, da sola, non può farci uscire dalla crisi rità espansiva”, ossia la ricetta liberista di politica economica seguita, in particolare dall’Europa, per affrontare la crisi. Secondo tale ricetta la riduzione dei deficit pubblici, grazie anche al calo dei tassi di interesse che

dovrebbe indurre (ma non si sono fatti i conti con mercati finanziari lasciati colpevolmente liberi di agire indisturbati), libera risorse che saranno poi utilizzate dai privati (consumatori e imprese) e, quindi, favoriranno la ripresa. In realtà, come la storia ha sempre dimostrato, non è scontata l’autonoma e spontanea capacità del mercato di risollevarsi, soprattutto quando la crisi è così profonda e riguarda l’intera economia globale. In breve, senza realistiche aspettative di crescita, difficilmente consumi e investimenti intraprendono spontaneamente la strada della ripresa. Ma la ricetta “keynesiana” dell’Fmi, per quanto rivoluzionaria per un organismo che in passato imponeva dolorosissime ancorché inefficaci politiche di tagli, è assai limitata. Il Fondo suggerisce, infatti, ai governi di prendere tempo, ossia di diluire nel tempo le politiche di aggiustamento per dare più ossigeno alla crescita. Ma i Paesi hanno ormai il fiato corto. E, come ricordava Keynes, «nel lungo periodo siamo tutti morti». Servono robusti interventi pubblici contro la crisi. Il capo-economista keynesiano del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, sicuramente lo sa. Gli daranno ascolto?  | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 7 |


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i nostri titoli non sono tossici Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 104. Novembre 2012. € 4,00 Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 103. Ottobre 2012. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

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Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità XINHUA / EYEVINE / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità REUTERS / ANDREA COMAS

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Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Saldi made in Italy Per ridurre il debito dell’Italia è giusto (s)vendere il suo patrimonio? Finanza > Agenzie di rating sotto processo: da loro dipende la salvezza di un Paese Economia solidale > Primi passi: 5 banche tolgono le mani dalle commodity agricole 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Obama vs Romney: chi vincerebbe se Wall Street| ANNO potesse votare?

Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 102. Settembre 2012. € 4,00

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Decrescita forzata

L’era dei de ei Narcostati

Lavoro, welfare, redistribuzione. Una teoria che non critica il sistema Finanza > Sei mila miliardi di derivati nelle casse delle banche europee. Enormi i rischi Economia solidale > Caccia al petrolio nei mari italiani. Le lobby ringraziano Passera | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Da mezzo della malavita a semiconduttore: la magia dei diamanti

La criminalità organizzata gestisce il ttraffico ra come una multinazionale Finanza > Con il sì dell’Italia scatta l’ora della Tobin bi Tax. Con qualche questione aperta d on a rischio sismico Economia solidale > Boom di trivellazioni. Anche in zone | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 2 | t per il nuovo v pr vo Internazionale > Campagna elettorale Usa. Chi ha pagato presidente?

ren rendiamo endiamo nd amo odebito pe p per es e esempio p e ili caso o delle c correzioni di bilancio per svincolarsi vn o dalla la trappola paccumulare delle e spirali p pir deficit e t interessi nteress d deficit def c t ep ancora r debito. Una correzione troppo tn pp pchd lenta l ll'economia fapp ca mu disavanzi savanzi e debiti debiti; una a correzione correz r one più rapi rap rapida p rischia di mettere re e in n g ginocch ginocchio gino o e econom economia r ritirando t rando il supporto upporto pp d della a domanda da pubb pub p pubblica buna bnac blica ca oup pen penali penalizzando nalizGoldilocks: n la domanda adi privata pr p vata att e con ll'aumento aumento od delle e tasse.. Ci vuo v vuole o e u soluz soluzione one misure d sostegno o eg g o ne i g g l breve brreve e periodo per pe p odo o accompagnate cc mp p g a e da a cred credibili c e b i misure di correzione ne ne n nel lungo g p perio pe per periodo; rio io odo; o odo cioè c oè o misure m sure ch che, c h o adell'età Dfofet come m l aumento dell de e ma età à detti p pe pensionabile, nsionabile, nsionab ns n seffetti offett onab e,i, cu e no n non portano restrizioni oni significative signif significat sducono g gnif cattang iiv v veg ssub subito, to, sono o lente e ente te ib ab mnel ma manifestare nifestare n festare sl'aumento g gli oe gl effetti, d ett et f ab tt le si cumulano uo non nel tempo eera rriducono unormali tangibilmente gibilmente bica lmente esm eno g gli squili squ sq squilibri q ne e el lungo ungo ng p periodo.Questa occaduta Q est e crisi, cr s si, , insomma, n m ha visto all'opera p a i norma rm r m meccanismi s del ciclo, o, o u s e l l'inciampo inciampo nciampo p de della del a a e il l rimbalzo r mba m ba b a zo z de dell della ripresa. Ha chiamato m mato in i c causa u no n non o on t tanto n la a p politica po t ca a hpol economica ol "troppo quanto q an anla politica t ca caliare enteress so soluzio soluzioni uzi diGoldilocks richiedono ie ed oideologici, edono di m d media med mediare a are e ffra ra a il "troppo ttro o oppo ppo cald caldo" d e ilonomica troppo pposociale: freddo", ,adi dtp conciliare iare a ssensi e en g gliliLe i interessi interessi, econte es a affrontare i dissensi sensi sens se ideo de deo ogici, gdtempi di placare p la contesa conte dvvera. idissensi o sfreddo interessi, ess dis e contese e che diventano p più ù intensi t in e p di d crisi. cr s r d n A d e ssfide D rfronte Di fron aq queste d lao politica po tica tti a haastentato t an è chea la trovare i ritmi tmi tmtrovata e i pa p passi as grriveli a ef Li troverà? overà? à?an am L'augurio aug gurio gur g ootra è certamente questo. o.p . oE"70 la a0 speranza speranz soluzione a nella non oadeguati. sicostellazione veli effimera eff me e erdella aq qua quanto a un un'altra altra a speranza: sper piP znn il questo pianeta p a 70 Virginis Vprgin rg g tosza b è un pianeta b" extrasolare xtraso xéenon xtrasolare raso ao era are a e ne la aop coste laz one del d apo p p ’a Ve Verg Vergine; g ne; e scoperto pe per o nel 1 1996 fu u battezzato Goldilocks, perché né troppo opp c caldo né troppo p pp l o c freddo, eddo, eddo e quind quindi potenzialmente potenz almente e ab abitabile. a ttabile l M Ma le osservazioni azioni deltroveremo ssa satellite Hipparcos dimostrarono in n seguito che Goldilocks era il giusto mezzo, sia su sk troppo questocaldo. che Ma forse un giorno pianeta. o i K a m i t l U

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spirali ndo il sse. Ci e che, te a uilibri iclo, ca caldo" ontesa

quanto ppo arono ia su

novembre 2012 mensile www.valori.it anno 12 numero 104 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Paolo Bellentani, Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Giuseppe Di Francesco, Marco Piccolo, Fabio Silva (presidente@valori.it), Sergio Slavazza direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Giuseppe Chiacchio (presidente), Danilo Guberti, Mario Caizzone direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Roberto Caccuri, Fabio Cuttica, Xinhua (Contrasto); Fabrizio Bensch, Handout, Jorge Silva (Reuters); Olivier Douliery (Photoshot); Tomaso Marcolla abbonamento annuale ˜ 10 numeri Euro 38 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 48 ˜ enti pubblici, aziende Euro 60 ˜ sostenitore abbonamento biennale ˜ 20 numeri Euro 70 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 90 ˜ enti pubblici, aziende come abbonarsi  carta di credito sul sito www.valori.it sezione come abbonarsi Causale: abbonamento/Rinnovo Valori  bonifico bancario c/c n° 108836 - Abi 05018 - Cab 01600 - Cin Z Iban: IT29Z 05018 01600 000000108836 della Banca Popolare Etica Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori + Cognome Nome e indirizzo dell’abbonato  bollettino postale c/c n° 28027324 Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri. chiusura in stampa: 25 ottobre 2012 in posta: 31 ottobre 2012

XINHUA / EYEVINE / CONTRASTO

| sommario |

Guachinango, Messico, ottobre 2012. Un soldato messicano partecipa alla distruzione di una coltivazione di marijuana. Era stata seminata insieme al mais per renderne più difficile il rilevamento. Il campo, secondo la stampa locale, aveva un’estensione di 30 mila metri quadrati.

globalvision fotonotizie dossier L’era dei Narcostati Economia drogata Crimine globale Il narco-servizio bancario: da Wachovia a Hsbc Regole vecchie, sanzioni minime. Così prospera la finanza dei narcos Mex, drugs & rock ‘n’ roll. L’assalto dei narco-petrolieri Argentina, narcostato sempre più attivo

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finanzaetica Riforme finanziarie, è scattata l’offensiva europea Le banche restano in paradiso Shaxson: «La City? Uno dei tanti tax havens» Banca Etica e i Gas. Non così vicini

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narcoglobalizzazione economiasolidale

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La banda del buco Il dilemma di Milano: meglio il cibo sano o una nuova autostrada? Il mais italiano alla guerra della produttività Biogas, attenzione a chiamarla “energia pulita” La sostenibilità viaggia a pedali

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valorifiscali internazionale

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Paperini e Paperoni: chi finanzia il nuovo presidente? Se un mormone sale alla Casa Bianca Lo sporco business delle cavie umane Libia. Dall’occupazione coloniale alla “guerra umanitaria” Brasile di terra, business e pallottole

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consumiditerritorio altrevoci bancor action!

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LETTERE, CONTRIBUTI, ABBONAMENTI, PROMOZIONE, AMMINISTRAZIONE E PUBBLICITÀ Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano tel. 02.67199099 - fax 02.67479116 e-mail info@valori.it ˜segreteria@valori.it

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| fotonotizie |

Contributi all’energia: rinnovabili 66 miliardi, fossili mille

[Il disastro ambientale nella piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, che tra aprile e agosto del 2012 ha sversato tonnellate di combustibile nelle acque del Golfo del Messico. Ancora oggi, a due anni di distanza, se ne vedono pesanti tracce].

REUTERS / HANDOUT

Che gli studi scientifici valgano meno dei ritorni economici lo si capisce dalla inesorabile disparità tra fonti rinnovabili e combustibili fossili come beneficiari dei contributi finanziari mondiali. Il dato emerge da una ricerca diffusa a fine agosto dal Worldwatch Institute e realizzata da Vital Signs: i contributi totali per l'energia rinnovabile nel 2010 ammontavano a 66 miliardi di dollari, mentre i sussidi planetari attribuiti ai combustibili fossili raggiungono un valore stimato in 775 miliardi di dollari per il 2010 e più di 1 trilione (mille miliardi) di dollari nel 2012. Un confronto impari, con la sola magra consolazione che viene calcolando le sovvenzioni per kilowattora prodotto: basandosi sulla produzione di energia del 2009, Worldwatch Institute dice che quella rinnovabile avrebbe ricevuto tra 1,7 e 15 ¢ (cent di dollaro) per kWh, mentre i sussidi per i combustibili fossili restano compresi tra 0,1 e 0,7 ¢ per kWh. Peccato che attraverso il trilione di dollari concesso a petrolio&Co. la collettività finanzi anche le cosiddette “esternalità negative” sulla disponibilità delle risorse, l'ambiente e la salute umana: la Us National Academy of Sciences stima che le sovvenzioni ai combustibili fossili pesino in costi sanitari (perlopiù da inquinamento) per 120 miliardi di dollari l’anno. Costi evitabili se eliminassimo il solito trilione entro i prossimi 8 anni, perché allora – secondo le proiezioni della International Energy Agency (Iea) – il consumo globale di energia si ridurrebbe del 3,9%, colpendo innanzitutto la domanda di petrolio (-3,7 milioni di barili al giorno), gas naturale (-330 miliardi di metri cubi) e carbone (-230 milioni di tonnellate). Per non dire delle emissioni di CO2 risparmiate. E sul prossimo numero di Valori ne saprete di più. [C.F.]

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| fotonotizie |

Ingrassato, ma ufficialmente guarito dal cancro a causa del quale è stato a lungo assente dalla ribalta politica lo scorso anno, il 58enne Hugo Rafael Chávez Frías si è riconfermato per la quarta volta consecutiva presidente del Venezuela. Ha annunciato la sua vittoria lo scorso 8 ottobre, affacciandosi da palazzo di Miraflores brandendo la spada di Simon Bolivar, l’eroe venezuelano vissuto tra la fine del ’700 e inizio ’800 che ha contribuito all’indipendenza di molti Paesi del Sudamerica e al quale il programma di Hugo Chávez, il socialismo del XXI secolo, si ispira. L’ex militare ha ottenuto il 54,2% delle preferenze contro il 45% del suo sfidante, il quarantenne Henrique Capriles Radonski, avvocato e governatore dal 2008 dello Stato di Miranda; il riconfermato presidente porta a casa 7 milioni e 400 mila voti, il suo sfidante 6 milioni e 200 mila. Un risultato non sufficiente per l’elezione, ma in crescita rispetto al 36% che l’opposizione aveva conseguito nel 2006, confermando la credibilità di Capriles tra le fasce di popolazione contrarie a Chávez, che nella scorsa elezione era stato votato dal 63% dei venezuelani. C’è da dire che a queste elezioni si è presentato il 6% dell’elettorato in più, che ha espresso il suo consenso per il presidente del Partito socialista unito del Venezuela. Capriles ha preso sportivamente i risultati esprimendo l’intenzione di durare nel tempo e di continuare a lavorare per Prima la giustizia (Primero justicia), il partito di centro destra favorevole al libero mercato e alla democratizzazione del Paese, nato come associazione nel 1992. In carica dal 1998, Chávez continuerà a governare fino al 2018, con un incarico non facile: i risultati mostrano un Paese polarizzato e diviso verticalmente. Mentre l’aspetto da bravo ragazzo di Capriles ha compattato l’opposizione e raccolto i consensi dei più ricchi, ancora oggi chiamati los escualidos (gli squallidi) dai ceti medi e popolari. [Pa.Bai.] [Hugo Chávez vittorioso affacciato dal Palazzo di Miraflores lo scorso 8 ottobre].

REUTERS / JORGE SILVA

Venezuela, Chávez eletto presidente per la quarta volta

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Mais Ogm: tumore nei topi, paura per l’uomo Un nuovo allarme sugli Ogm, suffragato da un corposo lavoro scientifico, è rimbalzato in tutto il mondo a fine settembre, lanciato da uno studio francese che ha smosso in primis il governo di Parigi. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Food and Chemical Toxicology, ha richiesto due anni di lavoro ed è stato curato da un’équipe di ricercatori guidata da Gilles-Eric Seralini, dell’Università di Caen, con una collaborazione anche dell’Università di Verona. Ha dimostrato che topi alimentati con mais geneticamente modificato “NK603” (varietà tollerante al pesticida Roundup brevettata da Monsanto) sono morti prima di altri, dopo aver sviluppato tumori alla mammella e danni gravi a fegato e reni. Il ministro francese dell’Agricoltura Stéphane Le Foll ha dichiarato che sarà necessario rivedere i protocolli di autorizzazione dei prodotti geneticamente modificati e, non appena lo studio sarà convalidato dall’Agenzia nazionale per la sicurezza sanitaria (Anses), Parigi chiederà che venga disposto «il blocco delle importazioni di questo tipo di prodotti. Occorrerà prendere decisioni politiche di notevole importanza, anche su scala europea». Ma a preoccuparsi non è solo il Paese transalpino, se è vero che l’autorità tedesca sulla sicurezza alimentare ha dato mandato a un gruppo di esperti di stilare una relazione sull’argomento. E in Canada la coalizione ambientalista Vigilance Ogm, che chiede da tempo l’imposizione di un’etichettatura specifica per tali tipi di prodotti, vuole ripetere nuovamente lo studio, al fine di fugare anche alcuni dubbi che sono sorti in merito alla metodologia utilizzata dai ricercatori francesi. [C.F.]

[Alcuni ricercatori dell’Università di Caen mentre eseguono i test. Valori ha scelto di non mostrare le immagini più agghiaccianti. Ci scusiamo per aver comunque pubblicato la foto di un animale sottoposto ai test].

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dossier

a cura di Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Matteo Cavallito e Valentina Neri

Nella cittĂ di Tijuana, al confine con il Messico, il 22 ottobre del 2010 furono sequestrate da polizia ed esercito 134 tonnellate di marijuana, che poi vennero date alle fiamme

Economia drogata > 18 Crimine globale > 20 Il narco-servizio bancario > 22 L’assalto dei narco-petrolieri > 24 Argentina-narcostato sempre piÚ attivo > 26


FABIO CUTTICA / CONTRASTO

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L’era dei Narcostati Delocalizzano, fanno dumping, aprono nuovi mercati, investono nella finanza. Sono le corporation del crimine, quasi indistinguibili da quelle legali


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dossier

| l’era dei narcostati |

Economia drogata di Paola Baiocchi

Si parla di una nuova fase del potere criminale, ormai in simbiosi con il sistema economico legale e che usa tutte le potenzialità della “globalizzazione” per svilupparsi: Stati deboli, culture sottomesse alla dittatura del profitto e finanziarizzazione del mondo. In un quadro di collaborazioni transnazionali tra organizzazioni criminali economia della droga, un mercato che ingenera bisogni e sfrutta debolezze umane, produce fiumi di danaro che si stima rappresentino il 4% del Pil mondiale. Ma diventano centinaia di volte di più dopo esser stati moltiplicati dalle leve “legali” dei prodotti finanziari, attraverso i quali i narcocapitali vengono lavati e rientrano nell’economia, indistinguibili dagli altri capitali finanziari. Sulla base della difficoltà di separare legale e illegale, chi studia il potere criminale parla di una nuova fase nella storia del crimine organizzato, che sarebbe in questo momento simbiotico all’economia legale e quindi “globalizzato”, avendo saputo approfittare del vuoto di potere politico conseguente alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, come spiega Umberto Santino, storico delle mafie, in Droga, mafia e globalizzazione. Il progressivo indebolimento degli Stati nazione, trasformati in Stati mercato dalla fine della guerra fredda e dall’avanzare del neoliberalismo, per Loretta Napoleoni, esperta di terrorismo ed economia internazionale, rende possibile l’evoluzione della ’ndrangheta calabrese che, tra gli anni ’80 e ’90, esporta all’estero la rete che ha costruito in Italia in un secolo, cavalcando l’occasione delle guerre nei Balcani, che bloccano le tradizionali rotte (Economia canaglia, Il Saggiatore 2008). La ’ndrangheta convince contrabbandieri albanesi, bulgari, turchi e isla-

L’

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mici a deviare i loro traffici per far diventare le coste della Calabria le nuove frontiere illegali dell’Europa. Scrive la Napoleoni: «Alla fine della guerra nei Balcani le rotte calabresi sono tanto comode e frequentate che quelle di prima non vengono più riaperte».

Sicilia – continua Prestipino – la ’ndrangheta ha accumulato un enorme potere e un’enorme ricchezza. Compatta e con un grande serbatoio di liquidità finanziaria per poter far fronte in ogni caso a qualsiasi pagamento, la ’ndrangheta si è affermata per affidabilità e solvibilità di cassa».

L’integrazione verticale della ’ndrangheta

La proletarizzazione della cocaina

Nel frattempo la ’ndrangheta consolida i rapporti con i cartelli colombiani e messicani della cocaina e riesce a costruire un’organizzazione a “integrazione verticale” sul modello delle corporation multinazionali, che offre come nessun altro il pacchetto completo (volendo anche di voti elettorali). Le ’ndrine garantiscono dal contrabbando della droga ai pagamenti in armi, al riciclaggio del danaro dei narcos in euro, in questo facilitate dall’unione monetaria europea, che aiuta a coprire l’origine dei proventi illegali, assieme all’insufficiente monitoraggio comunitario sui contanti in entrata e in uscita dall’Unione. Spiega Michele Prestipino, procuratore aggiunto presso la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria: «Nella sua ascesa come intermediatore e organizzatore dei traffici internazionali della cocaina, la ’ndrangheta ha approfittato di due “jolly”: l’impegno di Cosa nostra nella strategia stragista e poi il suo indebolimento per la reazione dello Stato. Negli anni in cui tutta l’attenzione era focalizzata sulla

Interconnessione dei mercati, velocità nelle transazioni, segretezza del sistema bancario, grandi diseguaglianze sociali all’interno dei Paesi e tra i Paesi e svuotamento della funzione politica degli Stati che non agiscono più come regolatori dei mercati, sottoposti solo alle leggi del profitto. Tutte queste caratteristiche della “globalizzazione” sono colte dal traffico internazionale delle droghe che approfitta per svilupparsi, secondo Santino, sia del deficit che dell’abbondanza. Così dalla povertà della Colombia nasce la ricchezza dei narcos, che hanno “proletarizzato” una droga come la cocaina che fino a 25 anni fa era solo per ricchi e ora è diffusa sulle piazze quanto l’hashish, mentre coltivazioni e laboratori dalla Colombia si diffondono in Bolivia e Perù. Azzardiamo l’ipotesi che la cocaina sia spinta nella sua discesa verso prezzi più “popolari”, che non ne intaccano comunque il “saggio di profitto”, anche dalle economie di scala permesse dall’efficienza organizzativa della ’ndrangheta. La diffusione della cocaina nei Paesi dell’Est, così come nel resto del mondo, è


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| dossier | l’era dei narcostati |

1. FLUSSI GLOBALI DI EROINA DI ORIGINE ASIATICA Flussi di eroina [tonnellate]

38

[not actual trafficking routes]

11 6-10

Opiu m

5,300

Transformed into heroin

2,700

Produzione di oppio [tonnellate]

1-5

500 450

Russian Federation

Afghanistan

Myanmar

77

West, Central, East Europe

USA, Canada

Central Asia

88

South-East Europe

Caucasus 82

95

Turkey 95

China

Afghanistan Islamic Republic of Iran

Gulf area, Middle East

10

5

1 50

culturalmente legata all’imitazione di modelli che ne fanno una droga per “vincenti”. Modelli di quel pensiero unico che, sempre per Umberto Santino, incarna “l’etica della globalizzazione”: cioè una summa di codici culturali ispirati al dogma del profitto, alla sudditanza del lavoro al capitale, alla competitività e al consumismo come filosofia di vita, per arrivare al successo ad ogni costo. In queste praterie culturali e legislative libere da “lacci e lacciuoli”, tra le criminalità si stabiliscono collaborazioni transnazionali in nome del “mercato”, per evitare clamorose guerre.

Pakistan India

Myanmar

Africa South-East Asia

Nuovi mercati si aprono L’eroina, dopo la flessione nei consumi conseguente alla conoscenza dei suoi effetti e alla diffusione dell’Aids, ora fumata e sniffata oltre che iniettata, ha conquistato nuovi mercati: l’Iran, per esempio, che è allo stesso tempo piattaforma nei flussi dall’Afghanistan verso l’Europa e consumatore, con 4/5 milioni di dipendenti da oppiacei. Ma anche la Russia e i Paesi dell’Est si stanno affermando come consumatori oltre che come trafficanti, dopo la caduta del Muro di Berlino. Dall’Afghanistan arrivano i tre quarti della produzione mondiale di oppio, materia base per l’eroina, che ora viene anche raffinata localmente. «Per questioni economiche: è molto più facile contrabbandare eroina che pani d’oppio», spiega Rosario Aitala, consigliere del ministro degli Affari esteri per le Aree di crisi e Criminalità internazionale, che continua: «L’Afghanistan ha una storia complessa per cui lì è diventato facile coltivare l’oppio e sarà molto difficile che smettano di coltivarlo». La proxy war, la guerra per procura, combattuta dagli afghani contro l’Urss alla fine degli anni ’70, finanziata con capitali Usa e dell’Arabia Saudita, con la collaborazione dei servizi segreti pakistani, israeliani ed egiziani, ha riaperto “la via della seta” per i missili Stinger destinati ai mujaheddin, ma anche al traffico di droga. E ha aperto la strada anche, sostiene Chalmers Johnson, storico e saggista statunitense autore di Nemesi, all’11 settembre e alle successive guerre Usa contro il terrorismo. 

Oceania

FONTE: WORLD DRUG REPORT 2010, UNODC

2. FLUSSI GLOBALI DI COCAINA NEL 2008

14 Canada 124 165

Europe

Principali produttori di cocaina

USA Traffico di cocaina [tonnellate] 140

Mexico 17 Caribbean

60

B.R. of Venezuela

Pacific

15

West Africa

6 Consumo di cocaina

Brazil

[tonnellate]

ANDEAN REGION

Southern Africa

FONTE: WORLD DRUG REPORT 2010, UNODC

1-2 Ad oggi, i dati relativi al consumo totale di eroina nel mondo, insieme a quelli legati ai sequestri, indicano un flusso complessivo nel mercato globale di circa 430-450 tonnellate. La quantità prodotta dal Myanmar e dal Laos raggiunge circa le 50 tonnellate, mentre il resto – circa 380 tonnellate di eroina e morfina – è prodotto esclusivamente in Afghanistan. Sono due le principali “autostrade” della droga: una che passa dai Balcani e un’altra che sfrutta il territorio della Russia, in direzione dell’Europa. Il primo corridoio tocca l’Iran (ma spesso anche il Pakistan), la Turchia, la Grecia e la Bulgaria, prima di entrare nella ex-Jugoslavia; rappresenta un giro d’affari di circa 20 miliardi di dollari all’anno. Il secondo passa per Tagikistan e Kirgizistan (o Uzbekistan e Turkmenistan), tocca il Kazakistan e arriva in Russia; il valore stimato è di 13 miliardi di dollari all’anno. Per quanto riguarda la cocaina, il mercato non è più quasi unicamente europeo, come nel caso dell’eroina, ma anche nordamericano. Sono le nazioni andine (Colombia su tutte, ma anche Perù e Bolivia) i principali produttori: per raggiungere Usa e Canada i trafficanti sfruttano le vie marittime o il Messico. Le navi sono invece il mezzo privilegiato per arrivare in Europa. | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 19 |


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| l’era dei narcostati |

Crimine globale

SEQUESTRI DI CANNABIS NEL MONDO

Canada 50.7

Southeast Europe 55.0

United States of America 1,931.0 Morocco 186.6

di Valentina Neri

La criminalità organizzata gestisce il traffico di droga come una multinazionale: produce dove costa meno e dove è più sicuro. E sfrutta le economie di scala. Lo racconta Franz Trautmann difficile dire come sono organizzati i gruppi criminali. L’unica cosa certa è che seguono le stesse regole: cercano di sfruttare le economie di scala». Esordisce così Franz Trautmann, direttore dell’unità Affari internazionali al Trimbos Institute, centro studi olandese sulle droghe e la salute mentale.

«È

Mexico 2,313.1

Belize Caribbean 97.0 92.3 Guatemala 4.4 Panama Venezuela (Bolivarian El Salvador 1.8 Republic of) 0.9 38.9 Costa Rica 0.6 Colombia 255.0 Suriname Ecuador 0.15 2.5 Peru 3.9

Sequestri nel 2010 [tonnellate] Tendenza 2009-2010

| 20 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

Kyrgyzstan 1.4

Iran 8.2

Japan 0.2

China 3.2 Bangladesh 22.3

Chad Australia 0.6 Burkina Faso 1.8 0.13 Nigeria Côte d’Ivoire 174.7 Kenya Cameroon 3.6 Togo 15.0 Ghana 0.3 0.6 0.15 Gabon Tanzania (United Republic of) 1.1 279.5 Senegal 15.9

Brazil 155.1

Mali 3.33

Kazakhstan 27.3 Uzbekistan 1.7

Israel 4.9 Egypt 107.0

Boliva (Plurinational State of) 4.4

Mozambique 3.25

India 173.1

Myanmar 0.2

Lao People's Democratic Republic 3.5

Vietnam Philippines 0.2 Thailand 1.1 17.9 Malaysia 1.1 Indonesia 22.7

Madagascar 0.8 Australia 1.8

Botswana 0.7

In crescita (>10%)

Uruguay 0.38 Argentina 36.3

Chile 8.1

Stabile (+/- 10%)

Swaziland 5.94

New Zealand 0.8

In calo (>10%)

Sequestri di cannabis dal rapporto UNODC (2006-2010)

Nessun dato disponibile per l’anno precedente

Nessun sequestro di cannabis dal rapporto UNODC (2006-2010)

SEQUESTRI DI COCAINA NEL MONDO

Canada 2.95

West & Central Europe 60.95

East Europe 0.27

South-East Europe 0.37

United States of America 163.34

Islamic Republic of Iran 0.02 Pakistan 0.23 Saudi Arabia 0.05 0.03 United Arab India Emirates 0.02

Israel 0.07

Morocco 0.07 Caribbean 7.28 Mexico 9.89 Central America 85.7

Venezuela (Bolivarian Republic of) 25.09

Ritiene che esistano veri narcostati? E che la criminalità organizzata sia organizzata come le multinazionali? È un tema di cui mi sto occupando per la Commissione europea. Abbiamo la sensazione che ci siano Paesi “deboli” in cui vige un regime di corruzione e le organizzazioni criminali sono piuttosto stabili perché non hanno molto da temere. Lo possiamo vedere ad esempio nel traffico di cocaina in America Latina. La criminalità organizzata sfrutta le economie di scala. Che non vuol dire soltanto che i siti di produzione sono più grandi, ma anche che le organizzazioni criminali cercano di differenziare i rischi, ad esempio delocalizzando la produzione in diverse zone. Puoi scovare un centro di produzione, ma a quel punto ne hai solo uno. Ci vuole uno sforzo maggiore per riuscire a individuare i centri di produzione più piccoli e meno visibili.

East Europe 39.0

West & Central Europe 69.2

FONTE: WORLD DRUG REPORT 2012, UNODC

dossier

Colombia 211.21

Guyana 0.09 0.38 Suriname

In crescita (>10%)

Stabile (+/- 10%)

Mali M 0.02 0.0 Benin B 0.01 Ghana 0.03

Ecuador 15.47

Sequestri nel 2010 [tonnellate] Tendenza 2009-2010

Senegal 0.04

Nigeria 0.71 Cameroon 0.01

Brazil 27.07 Peru 31.06

Chile 9.94

Kenya 0.02

China 0.44

Hong Kong, China 0.58 0.03 Thailand

0.34 Philippines

Malaysia 0.02

Tanzania (United Republic of) 0.06

Bolivia (Plurinational State of) 29.09 Paraguay 1.43

Australia 1.89

Uruguay 0.65 Argentina 7.3

In calo (>10%)

Sequestri di cocaina dal rapporto UNODC (2006-2010)

Nessun dato disponibile per l’anno precedente

Nessun sequestro di cocaina dal rapporto UNODC (2006-2010)

Sono più difficili le operazioni antidroga... I metodi di contrasto alle droghe attivati finora stanno convogliando la produzione in certe direzioni. Capita, ad esempio, che si delocalizzi da un territorio a un altro perché è più sicuro. La polizia olandese negli ultimi anni ha agito molto attivamente per scovare le coltivazioni di cannabis, utilizzando addirittura rilevazioni con telecamere a infrarossi. Risultato: parte della produzione è stata spostata in Belgio, a 20-50 km di distanza, perché

è un territorio meno controllato. Pur rimanendo nelle mani delle stesse organizzazioni. È lo stesso meccanismo per cui, se oggi si compra un prodotto Apple, è fabbricato a Taiwan. È una legge economica: si produce dove costa meno. Il mercato della droga sta facendo più o meno lo stesso. La maggiore differenza fra i mercati legali e quelli illegali è che questi ultimi, oltre ai costi di produzione, trasporto, smistamento ecc., devono considerare costi extra per il rischio di sequestri.


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| dossier | l’era dei narcostati |

SEQUESTRI DI ECSTASY NEL MONDO

Canada West & Central Europe 1,029.4

528.9

East Europe 5.9

South-East Europe 276.2

United States of America

China 381.9

1,069.1

Mexico 2.0

Japan 4.95

4.00 Thailand 129.7 Malaysia

Colombia 1.8

Sequestri nel 2010 [tonnellate] Tendenza 2009-2010

1.74 Hong Kong, China

Singapore 2.4 127.4 Indonesia

Peru 68.1

Australia 111.6

In crescita (>10%)

Stabile (+/- 10%)

Argentina 25.5

New Zealand 12.5

In calo (>10%)

Sequestri di ecstasy dal rapporto UNODC (2006-2010)

Nessun dato disponibile per l’anno precedente

Nessun sequestro di ecstasy dal rapporto UNODC (2006-2010)

SEQUESTRI DI EROINA E MORFINA NEL MONDO Russian Federation 2.6 0.1 Canada

Belarus West & Central Europe 0.04 5.8 Southeast Europe (excl. Turkey) Turkey 0.68 12.7

United States of America 3.5

Caribbean 0.03

Mexico 0.4

Central America 0.2

Ecuador 0.9

0.05 Colombia Venezuela (Bolivarian 1.7 Republic of)

0.2 North Africa

Kazakhstan 0.3

Uzbekistan Turkmenistan 1.0 0.2 Syrian Arab Republic 0.1 Kyrgyzstan China 1.0 0.05 5.4 Islamic Rep. of Tajikistan Iran Afghanistan Israel 35.24 Pakistan 14.1 0.5 Bangladesh 10.3 0.2 0.1 United Arab Emirates 0.06 Saudi Arabia

0.2 West and Central Africa 0.2 East Africa

Hong Kong, China 0.07 Taiwan province of China 0.07 0.01 0.1 Macau, China Myanmar 0.08 0.8 Lao People’s Dem. Rep. India Thaliand 0.1 0.3 0.1 Viet Nam Malaysia Sri Lanka 0.3 0.05 0.03 Singapore Indonesia

Sequestri nel 2010 [tonnellate] Tendenza 2009-2010 Australia 0.5

In crescita (>10%)

Stabile (+/- 10%)

In calo (>10%)

Sequestri di eroina e morfina dal rapporto UNODC (2006-2010)

Nessun dato disponibile per l’anno precedente

Nessun sequestro di eroina e morfina dal rapporto UNODC (2006-2010)

Ma esiste una vera organizzazione del lavoro criminale a livello globale? È difficile entrare nello specifico dell’organizzazione del lavoro. Le organizzazioni illecite si occupano di diversi settori: il traffico di droga spesso è legato al traffico di esseri umani e talvolta anche al gioco d’azzardo. I traffici hanno bisogno in primo luogo di infrastrutture: aeroporti, strade, ecc. Lo si vede a Rotterdam come in Sudafrica: uno Stato che inizia ad aver un certo ruolo perché ha ottime in-

frastrutture. Ma ci sono anche infrastrutture “invisibili”. Le organizzazioni criminali hanno iniziato a lavorare di più nelle zone dell’Africa occidentale che erano excolonie portoghesi: da lì le sostanze stupefacenti vengono portate in Portogallo e Spagna. Legami storici che in un certo senso agiscono da infrastrutture. Secondo i dati dell’Unodc, i proventi del traffico di droga sono in diminuzione... Ho i miei dubbi su questi dati. Il de-

L’ultimo rapporto dell’Unodc (l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Controllo della droga e la prevenzione del crimine) sottolinea che quello legato alla cannabis è un fenomeno globale: spiccano i casi di Stati Uniti e Messico, ma i sequestri risultano effettuati in tutto il mondo. Per la cocaina, la maggioranza delle operazioni si concentra in America centrale (nella regione andina) e del Sud, negli Usa ed Europa occidentale. La maggior parte dei sequestri di eroina si concentra in Asia meridionale, ricalcando la geografia dei principali luoghi di produzione. Nel solo 2008 in tutto il mondo sono state sottratte ai trafficanti 73,7 tonnellate di eroina. Solo due Paesi, Iran e Turchia, registrano oltre la metà dei sequestri mondiali. Al contrario, nello Stato che più di ogni altri produce eroina, l’Afghanistan, la quota sequestrata risulta assolutamente esigua: solamente 5 tonnellate contro le 375 introdotte sul mercato internazionale. Discorso opposto per l’ecstasy, sequestrata quasi unicamente in Usa, Canada, Europa e Cina. I dati relativi ai sequestri però non sono di per sé indicativi di una maggiore o minore presenza di droga sul territorio. Dipendono anche dalla capacità (o volontà) delle forze di polizia di contrastare il fenomeno.

naro che circola nel narcotraffico deriva da varie fasi: produzione, traffico, vendita su larga scala e al dettaglio. Sappiamo che la produzione è la parte minore perché l’agricoltore che coltiva la coca prende solo le briciole, sappiamo anche che i profitti arrivano nel passaggio tra “ingrosso” e “dettaglio”, ma è difficile capire a quanto ammontino. Ci si sta spostando verso le droghe sintetiche, più facili e veloci da produrre, da delocalizzare e da nascondere. Per coltivare coca o papavero, invece, sono necessari campi vasti e visibili e servono mesi. Le droghe sintetiche, però, non sono ancora monitorate a sufficienza. Da cosa dipende lo spostamento del traffico da una droga all’altra? Ci sono molti fattori. In Olanda in questo momento l’età media delle persone in trattamento per l’uso di eroina è sui cinquant’anni: non ci sono persone giovani che iniziano a fare uso di eroina. Si tratta di trend che hanno a che fare con la moda: l’eroina non è più di moda, i giovani pensano che sia una droga per perdenti. Al contrario la cocaina, le anfetamine e la cannabis sono più “cool”, sono le droghe delle persone che vogliono soldi, vogliono fare carriera. Le politiche reagiscono al problema ma non riescono a dare forma al problema stesso.  | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 21 |


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Il narco-servizio bancario: da Wachovia a Hsbc di Matteo Cavallito

Un rapporto del Senato inchioda la banca britannica, per anni efficace lavanderia dei trafficanti di droga. Ma il suo non è un caso isolato ultimo scandalo è del luglio scorso e le cifre sono da capogiro. Il colosso finanziario britannico Hsbc – 2.500 miliardi di dollari (in asset gestiti), 89 milioni di clienti e 22 miliardi di profitti annui – ha prestato i suoi servizi al riciclaggio internazionale di denaro sporco. La denuncia, contenuta in un rapporto di oltre 300 pagine del Committee on Homeland Security and Governmental Affairs del Senato statunitense parla chiaro: in barba ai regolamenti sulla traspa-

L’

renza finanziaria, l’istituto ha aperto migliaia di conti correnti in favore di clienti sospetti, società fantasma, riciclatori ed evasori di stanza nei paradisi fiscali come Bahamas, Nauru e Isole Cayman. Il controvalore delle transazioni potenzialmente rischiose e non adeguatamente monitorate dalla banca ammonterebbe a circa 60 trilioni (mila miliardi) di dollari all’anno. Oltre due terzi del Pil mondiale. I regolamenti internazionali impongono al sistema bancario l’adeguamento costante a due tipi di standard preventivi: l’Aml (Anti money laundering, antiriciclaggio) e il Ctf (Counter-terrorism financing, contrasto ai canali di finanziamento dei terroristi). In ossequio a questi criteri, l’Office of foreign assets control (Ofac) del dipartimento del Tesoro Usa ha elaborato

da tempo una lista nera di soggetti e giurisdizioni cui proibire l’accesso ai servizi finanziari. Tra il 2002 e il 2007 la filiale Usa di Hsbc è stata usata da ignoti clienti per effettuare transazioni potenzialmente proibite dall’Ofac per quasi 20 miliardi di dollari, coinvolgendo giurisdizioni “problematiche” tra cui Iran e Corea del Nord. I vertici Usa di Hsbc, sostiene il rapporto, erano stati informati delle operazioni sospette già nel 2001, ma non avevano attuato alcuna significativa misura di contrasto. Anzi, per dieci anni la banca ha intrattenuto rapporti con almeno tre istituti, noti per le loro attività di finanziamento del terrorismo internazionale: la banca saudita Al Rajhi Islami e le bengalesi Bank Bangladesh Ltd. e Social Islami Bank.

Regole vecchie, sanzioni minime Così prospera la finanza dei narcos di Matteo Cavallito

Secondo l’ex direttore dell’Unodc Costa, il collegamento banche, narcotraffico e riciclaggio è un problema endemico. Mancano regole e sanzioni adeguate. La globalizzazione finanziaria aiuta a spostare, e lavare, capitali «Il nesso tra narcotraffico, finanza e riciclaggio non è un fatto congiunturale, ma il frutto di un problema endemico che parte dalla mancanza di moralità». Non ha dubbi l’ex direttore dell’Unodc Antonio Maria Costa. A quasi quattro anni dalla denuncia sulle connessioni tra banche e proventi della droga, i problemi di fondo sono tuttora irrisolti.

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Dottor Costa, che impressione le ha fatto il caso Hsbc? È stato uno dei tanti casi clamorosi che sono emersi, come quelli di Wachovia o di Citibank. La cosa che più mi colpisce è che si tratta di banche di grande importanza che non avrebbero bisogno di ricorrere a certi stratagemmi per reperire la liquidità. Tuttavia siamo di fronte a un problema sistemico: regole globali in parte assenti e in parte inadeguate che spesso vengono anche disattese. Quindi è un problema di regole? Nel luglio del 1989, quando ero vice segretario generale dell’Ocse, l’allora G7 creò la Financial Action Task Force (Fatf), che negli anni successivi fissò alcune regole adatte a un mondo


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La “risorsa” dei narcodollari La storia più incredibile nell’epopea di Hsbc viene dalla filiale messicana della banca, Hbmx, che tra il 2007 e il 2008 ha materialmente spedito 7 miliardi di dollari in contanti negli Stati Uniti. Un simile ammontare di denaro liquido non tracciabile, si sospetta sia riconducibile ai cartelli della droga. La vicenda di Hbmx richiama alla memoria un’altra storia messicana, quella cominciata con il sequestro di un DC-9 carico di 5,7 tonnellate di cocaina (controvalore stimato: 100 milioni di dollari) a Ciudad del Carmen, il 10 aprile del 2006. Dalle indagini successive si scoprì che il velivolo era stato acquistato con denaro riciclato attraverso la banca statunitense Wachovia, di base a Charlotte nel North Carolina. La banca, riferì in seguito il quotidiano britannico The Observer, aveva condotto transazioni per quasi 380 miliardi di dollari con le oscure Casas de cambio locali, le agenzie messicane di conversione della valuta da tempo clienti dell’istituto. Nel gennaio del 2009, in un’intervista al settimanale austriaco Profil, il direttore (dal 2002 al 2010) dello United nations office on drugs and crime (Unodc) Antonio Maria Costa lanciò una pesantissima accusa all’intero sistema bancario globale: nella seconda metà del 2008, spiegò, «il denaro derivante dal traffico di droga

OBAMA DICHIARA GUERRA AL CRIMINE ORGANIZZATO Si chiama Strategia per combattere il crimine organizzato transnazionale (Transnational Organized Crime Strategy). È stata lanciata da Barack Obama nel luglio del 2011 ed è la prima politica nazionale mirata a combattere le reti criminali con un giro d’affari di oltre mille miliardi di dollari. Si sono profondamente evolute negli anni: sfruttando l’innovazione tecnologica e la globalizzazione sono diventate più fluide, in grado di ramificarsi e stringere alleanze internazionali. Ai vertici fra le organizzazioni più pericolose c’è anche la camorra, che secondo le autorità Usa si affianca al cartello messicano Las Zetas, alla mafia russa del Circolo dei fratelli e alla Yakuza giapponese. E “scavalca” Cosa nostra, storicamente più radicata nelle città americane. Le priorità di Obama sono migliorare l’intelligence, proteggere i sistemi finanziari, rafforzare le indagini, ostacolare il traffico di droga (a suon di controlli, ma anche di programmi di prevenzione e riabilitazione), costruire cooperazione e partnership a livello internazionale. rappresentava l’unico investimento liquido di capitale». Tradotto, con un mercato interbancario congelato (gli istituti avevano smesso di prestarsi denaro temendo vicendevolmente l’insolvenza) a salvare dal collasso il sistema era stato il denaro dei trafficanti/riciclatori, gli unici a disporre di liquidità e di propensione all’investimento. Nei mesi convulsi del collasso Lehman (e del tracollo della stessa Wachovia, salvata dalla bancarotta dall’acquisizione da parte di Wells Fargo), di fronte alle richieste di apertura dei conti da parte degli investitori più facoltosi, gli istituti di credito avevano preferito non fare troppe domande. Ma il problema di fondo resta. Tanto che, spiega oggi Costa, «è impossibile non

pensare che possa esserci anche una sola grande banca che non abbia giocato un ruolo significativo nel ricevere fondi sospetti». Nel 2011 gli economisti Alejandro Gaviria e Daniel Mejía dell’Universidad de los Andes di Bogotá hanno accusato il sistema bancario europeo e statunitense di favorire il riciclaggio del denaro dei narcos grazie all’applicazione di standard di controllo meno rigorosi. «In Colombia le banche fanno domande che non ti sentiresti mai fare negli Stati Uniti dove ci sono norme molto solide sulla segretezza», ha dichiarato Gaviria. Secondo la ricerca la Colombia riesce a trattenere nei suoi confini solo il 2,6% dei profitti del traffico di cocaina. Il restante 97,4 viene trasferito e riciclato in Occidente. 

non ancora stravolto dalla globalizzazione finanziaria. Oggi è possibile portare contanti nelle cosiddette rogue jurisdictions, i Paesi “canaglia”, in Africa, nel Pacifico, in America Centrale, paradisi fiscali in genere, e vederli trasferire nel giro di poche ore nelle giurisdizioni tradizionali. Occorre anche denunciare il ruolo di altri soggetti protagonisti del riciclaggio, come l’industria alberghiera, del turismo in generale e del gioco d’azzardo (i casinò ad esempio). Detto questo esiste anche un altro problema, quello delle sanzioni.

Un recente studio ha accusato il sistema bancario Usa di avere regole antiriciclaggio assai meno severe di quelle adottate dalla banche colombiane. Sembra un paradosso... In realtà, a differenza di quanto accade in Messico, dove la corruzione è endemica a livello delle amministrazioni locali, in Colombia si stanno compiendo sforzi lodevoli nella lotta al narcotraffico. Questo è importante perché, nella mia esperienza, il contrasto al traffico di droga deve andare ben oltre i controlli di frontiera. Negli Usa, come dicevo, c’è un grave problema di immoralità del sistema bancario.

Sono troppo lievi? Nel caso Wachovia i responsabili se ne sono andati e hanno trovato una nuova occupazione altrove nel sistema bancario americano, mentre la loro banca, accusata di riciclare oltre 400 miliardi di narcodollari, riceveva una multa pari a qualcosa come il 2% circa del suo profitto annuale. Se si vuole arrestare il fenomeno occorre avere sanzioni molto più severe per i soggetti e le istituzioni coinvolte.

Forse non solo delle banche, basti pensare al caso Pemex I privati cittadini che entrano negli Stati Uniti sono sottoposti a controlli molto severi, pensate ai mille controlli al JFK di New York. Apparentemente non altrettanto si può dire delle merci che entrano senza difficoltà nel Paese, anche dal Messico, che pure è un Paese sospetto. È evidente che c’è qualcosa che non va. In altre parole, la lotta al narcotraffico ha possibilità di successo solo se si integra con la caccia ai narcodollari.

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Mex, drugs and rock ’n’ roll. L’assalto dei narco-petrolieri di Matteo Cavallito

Diversificare il business e garantirsi finanziamenti illimitati: così Pemex, il monopolista messicano degli idrocarburi, è diventato il bancomat dei narcos. Dal libro-inchiesta della giornalista Ana Lilia Pérez la quarta compagnia del mondo nel settore degli idrocarburi, il principale finanziatore dello Stato messicano nonché, in qualche modo, un simbolo dell’orgoglio nazionale e della sovranità petrolifera del Paese. Fondata nel 1938 dopo la nazionalizzazione delle risorse energetiche, la Petróleos Mexicanos - Pemex è il principale punto di riferimento della 14ª economia del Pianeta.

È

Eppure, da diversi anni, l’impresa è diventata anche l’inesauribile bancomat del narcotraffico nazionale.

Il saccheggio In Messico si chiamano ordeñadores, letteralmente “mungitori”, gli uomini al servizio della “Compagnia”, il sodalizio criminale che attraverso le minacce, le estorsioni, la corruzione e la violenza si è impossessato della catena produttiva

dell’impresa. Antonio Ezequiel Cárdenas Guillen, detto Tony Tormenta; Jorge Eduardo Costilla Sánchez, noto come El Coss o Doble equis (XX); Heriberto Lazcano, El verdugo (il boia). Ecco i nomi dei nuovi imprenditori del settore. L’idea dei narcotrafficanti è stata di collocare pompe clandestine lungo gasdotti e oleodotti, “mungere” materia prima e lanciarsi nel commercio. Colto in flagrante dagli uomini della sicurezza della Pemex, un capo dei narcos ha chiarito: «Il nostro business è il narcotraffico, ma dal momento che il mercato è depresso, rubiamo idrocarburi». La verità, spiega la giornalista Ana Lilia Pérez nel libro-in-

LOS SEÑORES DEL NARCO Un patrimonio di circa un miliardo di dollari, che lo porta al cinquantacinquesimo posto fra le persone più potenti al mondo: più del Ceo di Apple, Tim Cook, o del presidente russo Dimitri Medvedev. Così la rivista Forbes definisce Joaquín Guzmán Loera (conosciuto come El Chapo), il numero uno del cartello di Sinaloa, che spartisce con Las Zetas il controllo sul narcotraffico in Messico. La sua ascesa risale ai primi anni Ottanta, quando prende il posto del “Padrino” Miguel Ángel Félix Gallardo. Nel 1993 – dopo essere sfuggito a un attacco tesogli dal cartello di Tijuana e costato la vita a un cardinale – viene arrestato e condannato a vent’anni e nove mesi per traffico di droga, corruzione e associazione a delinquere: ma il 20 gennaio del 2001 riesce a evadere dal carcere di massima sicurezza di Puente Grande. A ricostruire le sue vicende è il libro Los señores del narco di Anabel Hernández, nato da cinque anni di indagini. Da tempo, secondo diverse fonti, nel carcere vigeva un regime di corruzione per cui i narcos avevano il controllo assoluto. Secondo la versione comunemente accettata, El Chapo sarebbe fuggito dentro il carrello della lavanderia: ma nell’evasione, denuncia la Hernández, sarebbero state implicate decine di persone. I sospetti vanno molto oltre: secondo alcune

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indiscrezioni, il governo di Vicente Fox avrebbe cercato di favorire il cartello di Sinaloa. E, si legge nell’inchiesta, proprio a Fox sarebbe stata offerta una tangente milionaria per ottenere protezione politica per la fuga. Tornato in libertà, Guzmán Loera accresce il proprio potere, mentre si scatena la guerra contro il narcotraffico che finora – si stima – ha portato alla morte di 60 mila persone, compresi molti innocenti. A giugno è stato arrestato il figlio, Jesus Alfredo Guzmán Salazar (El Gordo). Ma anche su traguardi come questo la giornalista è scettica: “Negli ultimi anni – si legge – il governo federale ha assestato alcuni colpi mediatici ai componenti del cartello di Sinaloa per cercare di deviare l’attenzione da una serie di indizi che segnalano una complicità di fondo con quest’organizzazione. Le sue azioni sono sempre state contro bracci operativi, ma non hanno danneggiato il cuore del cartello: i suoi affari”. In uno Stato come il Messico in cui a partire dal 2000 sono già morti quarantacinque giornalisti che avevano osato troppo, è inevitabile che anche Anabel Hernández abbia ricevuto minacce: ha fatto il giro del mondo l’appello alle autorità affinché la proteggano. V.N.


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chiesta El cártel negro (fonte di queste informazioni), è paradossale. «Ironicamente – scrive la Pérez – quando Felipe Calderón (attuale presidente del Messico, ndr) avvia la guerra contro il narcotraffico, i cartelli penetrano con maggiore intensità nell’industria più lucrosa del Paese, quel settore petrolifero non meno redditizio del business della droga». Nel luglio scorso il quotidiano messicano Excelsior ha quantificato il valore del narcobusiness petrolifero ai danni di Pemex: mezzo miliardo di pesos al mese. Al cambio attuale fa circa 470 milioni di dollari l’anno. I punti di estrazione clandestina identificati, ha riferito la Pemex, sarebbero oltre 5 mila in tutto il Messico.

Insider & gringos L’attività dei narco-petrolieri coinvolge dai contractors dell’azienda agli impie-

gati della Pemex. Nel 2009, a Tamaulipas, nel Messico Nord-orientale, le autorità individuano una cellula de Los Zetas, uno dei più potenti cartelli della droga del Paese. Tra gli affiliati ci sono anche dipendenti e fornitori dell’azienda petrolifera, che si occupano di estorsioni e acquisizioni “forzate” di imprese. A garantire uno sbocco al commercio illegale di petrolio, invece, ci pensano le raffinerie americane. Nel gennaio 2007 il direttore operativo del consorzio texano Continental Combustibiles Inc, Josh Crescenzi, intercettato, telefonò al suo omologo della Trammo Petroleum Donald Schroeder: «C’è del petrolio messicano rubato, ti interessa? Mi hai sentito Donald? È ru-ba-to». Donald aveva sentito benissimo e ricevuta la proposta, acquistò il petrolio per rivenderlo al gigante tedesco Basf (che ha affermato di non sa-

PEMEX IN CIFRE Fondazione: 1938 Sede: Città del Messico Dipendenti: 150 mila circa Ricavi netti: 1.558,4 mld di pesos (111,6 mld di dollari*) Produzione giornaliera petrolio: 2,5 milioni di barili Produzione giornaliera gas naturale: 104 milioni di metri cubi Rating: S&P BBB (stabile), Moody’s BBB (stabile), Fitch Baa1 (stabile) * al tasso di cambio del 31/12/2011 (100 pesos = 7,17 dollari Usa) pere dell’origine illecita).Tra il 2010 e il 2012 Pemex ha avviato cause contro una miriade di compagnie Usa, tra cui ConocoPhillips, Shell e Sunoco Partner, accusate di aver comprato petrolio rubato. I casi sono ancora aperti. 

3. LA DOMANDA GLOBALE NEL 2008 E NEL 2010 1990

72%

NORD AMERICA 1990

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EUROPA 1990 42%

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AFRICA 1990

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Oppiacei Cannabis Cocaina Anfetamine Altri

65%

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OCEANIA 1990

2008

SUD AMERICA 66% 47%

FONTE: WORLD DRUG REPORT 2010, UNODC

3 Il consumo di droghe non è omogeneo nel mondo. Negli Usa e nel Canada, ad esempio, il mercato è decisamente vario: nessuno stupefacente prevale nettamente sugli altri. In America Latina, invece, cocaina e cannabis (con la seconda in netto aumento negli ultimi due decenni) costituiscono quasi la totalità del consumo. In Europa e Asia sono gli oppiacei (eroina inclusa) a risultare i più consumati.

Complessivamente, l’eroina consumata in tutto il mondo è pari oggi a circa 340 tonnellate, mentre la cocaina raggiunge le 470 tonnellate. I consumatori di quest’ultima, tra il 2007 e il 2008, sono stati 16-17 milioni di persone: il 40% di loro vive nell’America del Nord, circa un 25% in Europa. A livello globale, il mercato della cocaina vale circa 88 miliardi di dollari. | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 25 |

FONTI: PEMEX (WWW.RI.PEMEX.COM, FORTUNE MAGAZINE)

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| l’era dei narcostati |

Argentina, narcostato sempre più attivo di Andrea Barolini

Nel Nord del Paese i narcos sfruttano piste di atterraggio clandestine per introdurre la droga, che poi viene facilmente esportata in Europa, grazie ai forti legami che l’economia argentina ha stabilito con il Vecchio Continente Argentina è sempre più coinvolta nel traffico internazionale di droga. Il New York Times ha recentemente ricordato numerosi casi di cronaca nera eclatanti, che danno la misura del fenomeno. Hector Jairo Saldarriaga, alias The Dragger, fu ucciso nello scorso aprile a Barrio Norte, quartiere di Buenos Aires. La polizia gli trovò addosso tre passaporti e ben presto le indagini consentirono di identificare quello che era stato uno dei più spietati assassini al

FONTE: BASEL INSTITUTE ON GOVERNANCE, 2012. HTTP://INDEX.BASELGOVERNANCE.ORG/INDEX.HTML#RANKING

L’

soldo di Daniel Barrera, conosciuto col soprannome di Crazy One, noto boss colombiano. Saldarriaga aveva coordinato l’assassinio di due ex membri di un gruppo paramilitare che protegge i trafficanti, che furono freddati in un garage della capitale argentina nel giugno del 2008. Qualche giorno dopo l’uccisione di Saldarriaga, Ruth Martinez Rodriguez, 39 anni, fu arrestata alla periferia della città: stava cercando di esportare 280 chilogrammi di cocaina, nascosti in suppellet-

RICICLAGGIO E RISCHIO PAESE Iran, Kenya, Cambogia. Eccolo, secondo gli ultimi dati disponibili, il podio dei Paesi a maggior rischio riciclaggio del mondo. La graduatoria, stilata dal Basel Institute of Governance, si basa su un indicatore, il Basel Aml Risk Index (ponderato a sua volta per altri 15 indici indipendenti) capace di misurare l’adeguamento di ogni nazione agli standard antiriciclaggio e di contrasto al finanziamento del terrorismo (unitamente ad altri elementi quali le norme finanziarie, la trasparenza e il livello di corruzione). Tra i 144 Paesi presi in esame (per molti altri mancano dati sufficienti), l’Italia ottiene solo il 56esimo miglior punteggio, a metà strada tra Algeria e Albania. TOP 10 DEL RISCHIO 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Iran Kenya Cambogia Haiti Tajikistan Mali Uganda Paraguay Belize Zambia

Punteggio

Rischio

8.57 8.49 8.46 8.16 8.12 7.88 7.63 7.57 7.44 7.41

elevato elevato elevato elevato elevato elevato elevato elevato elevato elevato

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TOP 10 DELLA SICUREZZA

Punteggio

Rischio

Norvegia Estonia Slovenia Svezia Finlandia Nuova Zelanda Lituania Cile Sud Africa Francia

2.36 3.28 3.37 3.50 3.59 3.82 3.96 4.08 4.12 4.14

basso basso medio medio medio medio medio medio medio medio

tili antiche. Ancora, nel 2010 fu fermata Angie Sanclemente Valencia, ventunenne sospettata di aver capeggiato un gruppo di modelle spacciatrici di droga: aveva 55 chilogrammi di cocaina nel bagaglio a mano, mentre cercava di imbarcarsi su un aereo. Più di recente, le autorità hanno sequestrato 7 tonnellate di marijuana a Posadas, al confine col Paraguay, mentre un caporale della gendarmeria è stato fermato con 110 chilogrammi di cocaina. Perfino le ambulanze sono utilizzate per trasportare la polvere bianca. «L’Argentina è un Paese di europei – racconta Ruben H. Oliva, giornalista e regista – con rapporti commerciali molto forti con il Vecchio Continente: una nave battente bandiera argentina non desta sospetti in un porto europeo. Per questo i narcos utilizzano il Paese come trampolino. Dapprima arrivano nelle regioni a Nord di Buenos Aires, sfruttando anche la mancanza di controlli radar aerei e atterrando su piste clandestine. Quindi smerciano parte della droga nel Paese: non a caso sono moltissime le “cucine” di cocaina, “laboratori” dove si produce la polvere bianca. Il resto parte per l’Europa. E gli scarti sono usati per il Paco, sostanza ultra-tossica, capace di dare dipendenza fin dalla prima dose: una droga che sta uccidendo la gioventù delle bidonville». «I boss operano volentieri nel nostro Paese: qui non ci sono problemi con la giustizia, né guerre tra narcos», ha dichiarato Claudio Izaguirre, presidente dell’Associazione Antidroga locale. E il fenomeno,


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L’AFRICA, LA NUOVA MINACCIA

IL PUNJAB, LA “NARCOREGIONE” INDIANA

Tutto cominciò una decina di anni fa. La Guinea Bissau fu individuata dai cartelli sudamericani della droga come un ottimo trampolino verso l’Europa. Il Paese offriva sostanziale impunità, i controlli erano quasi inesistenti e le deboli agenzie governative erano facilmente corrompibili. In breve i narcos penetrarono l’intero apparato statale, arrivando perfino all’ufficio del presidente João Bernardo Vieira, che fu ucciso nel 2009. Eppure – ha ricordato un’inchiesta di Davin O’Regan, della National Defense University di Washington, pubblicata dal New York Times nel marzo scorso – nonostante il tasso di omicidi nel Paese sia aumentato del 25%, arrivando a toccare il triplo della media globale, e la povertà sia rimasta un problema endemico, il caso della Guinea Bissau avrebbe potuto anche essere derubricato come un unicum. Al contrario, la nazione è stata solamente il primo dei nuovi narcostati africani. Negli ultimi anni il traffico di eroina, anfetamine e cocaina si è, infatti, drammaticamente esteso nel continente, arrivando a toccare un giro d’affari di non meno di 6-7 miliardi di dollari. Coinvolgendo Stati di importanza strategica, economicamente e politicamente, come Ghana, Kenya, Nigeria, Mozambico e Sudafrica. Con annessi numerosi scandali tra parlamentari, ufficiali di polizia e ministri. Un business favorito anche da Hezbollah e Al Qaeda, in un intreccio che rischia di mettere in pericolo anche le democrazie più giovani.

A volte non si può parlare di veri e propri “narcostati”, bensì di “narcoregioni”. È il caso del Punjab indiano, area prospera nel Nord del Paese, nella quale si registra una statistica impressionante. Secondo le stime dell’amministrazione locale, in circa il 67% delle famiglie rurali presenti nella zona, almeno un membro è tossicodipendente. Il Punjab corre lungo la frontiera con il Pakistan e costituisce un luogo di ingresso privilegiato dell’eroina in India. La droga, di provenienza afghana – ha spiegato un recente reportage dell’agenzia AFP – ha generato una vera e propria economia locale, al cui centro ci sono pastori e contadini. Essi, nel corso degli anni, hanno costituito una rete di smercio e di approvvigionamento clandestina, che ormai gestisce un commercio colossale e difficilmente accessibile (è impossibile, ad oggi, quantificare il transito di droga dal Pakistan all’India). Complice la scarsa informazione sui danni, molti “agricoltori-spacciatori” entrano a loro volta nel tunnel della droga, grazie anche alle disponibilità economiche superiori rispetto ad altre regioni indiane. La questione è nota alle autorità internazionali – come confermato da Rajiv Walia, coordinatore regionale dell’Unodc – ma è molto difficile da fronteggiare. Ad Amritsar, centro spirituale della religione sikh, un milione di abitanti, il quartiere di Maqboolpura è l’esempio più chiaro della trasformazione del Punjab in una “narcoregione”: qui sono così tanti i morti provocati dalle droghe che il luogo è stato ribattezzato “il villaggio delle vedove”.

IL PREZZO “RETAIL” DI UN GRAMMO DI COCAINA IN EUROPA (IN $ USA) Austria Belgio Danimarca Finlandia Francia Germania Grecia Irlanda Italia

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Lussemburgo Norvegia Paesi Bassi

Il grafico evidenzia in modo molto evidente un calo complessivo dei prezzi della cocaina dal 1990 al 2010. Secondo Franz Trautmann, sociologo a capo dell’Unità Affari Internazionale del Trimbos Institute, non è un calo del consumo a spiegare l’abbassamento del costo: «L’uso sta aumentando moltissimo, soprattutto nell’Europa dell’Est. La cocaina è la droga dei ricchi, degli uomini d’affari, dei famosi. Ciò che spiega i prezzi più bassi – continua Trautmann – è piuttosto la qualità della droga: è la purezza a diminuire, altrimenti il dato rimarrebbe fondamentalmente stabile».

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Portogallo Spagna Regno Unito Svezia Svizzera 0 1990

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FONTI: UNODC ARQ DATA, EUROPOL E STIME UNODC

che ha origini lontane, non riesce ad essere arginato neanche dai funzionari pubblici più zelanti: «È nel 1989, con il governo di Carlos Menem, che si effettuò l’apertura “ufficiale” ai cartelli della droga. Il presidente dichiarò: “Che arrivino capitali esteri, non importa da dove”. Da allora non è cambiato nulla, anche per via della corruzione dilagante nelle forze dell’ordine, operata da organizzazioni potenti come la ’ndrangheta. Il governo attuale, che pure ha alcuni meriti, sul fronte della droga non ha fatto nulla. Il ministro della Difesa Nilda Garré, ad esempio, pare sia armata di buone intenzioni. Ma se la polizia è al soldo dei trafficanti come si fa?». 


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REUTERS / FABRIZIO BENSCH

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Le banche restano in paradiso > 32 Gas e Banca Etica. Stranamente lontani > 35 | 28 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |


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| finanza da rifare |

Un attivista del movimento “alter-global Attac” indossa una maschera raffigurante il ministro dell’Economia tedesco Philipp Roesler nel corso di una protesta satirica a favore della tassa sulle transazioni finanziarie, la cosiddetta Tobin Tax, di fronte alla Liberi Democratici (FDP), partito con sede a Berlino, il 16 gennaio 2012

Riforme finanziarie

Con il sì dell’Italia la Tobin Tax è ormai a una svolta. Ma sul tavolo ci sono molti altri importanti provvedimenti. Con qualche ombra

È scattata l’offensiva europea di Matteo Cavallito

alla fine scocca anche l’ora della svolta. L’8 ottobre scorso: Italia, Spagna e Slovacchia hanno dato il loro nulla osta all’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie o Tobin Tax, come viene comunemente ribattezzata nella cronaca finanziaria (sebbene nel progetto di James Tobin si pensasse di colpire i soli scambi valutari). L’assenso definitivo, che si affianca così all’ok di altri otto Paesi (Francia, Germania, Austria, Portogallo, Slovenia, Belgio, Grecia ed Estonia), permetterà l’avvio della cooperazione rafforzata, il sistema che garantisce la possibilità di approvare il provvedimento quando il consenso unanime è impossibile (Regno Unito, Malta, Irlanda, Olanda e Svezia sono totalmente contrarie). La richiesta

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di cooperazione passa ora alla Commissione che, a quel punto, dovrebbe rinviarla al Consiglio europeo per un voto a maggioranza. In caso di successo, la tassa potrebbe entrare in vigore già a inizio 2013.

Tobin Tax, due interrogativi Attorno alla “Tobin” restano però aperti almeno due interrogativi, a cominciare dall’origine dell’assenso italiano. Una premessa. La Germania, notoriamente, aveva preso l’iniziativa per prima: Angela Merkel ha sempre sostenuto l’ipotesi della tassazione ottenendo in cambio il consenso sui provvedimenti di fiscal compact dai socialdemocratici del Bundestag (da sempre a favore della “Tobin”). Durante il vertice chiave del 28-29 giugno, Italia e Spagna avevano però frenato. Nell’occasione Monti e Rajoy si erano impuntati minacciando il veto sulla questione se la Germania non avesse offerto adeguate aperture sul fronte delle strategie salva Stati, con la “Tobin” trasformata in un mezzo di scambio per lo scudo anti spread. Ancora alla fine di settembre, fonti vicine alle istituzioni europee riferivano di un governo italiano intenzionato a condizionare il sì alla tassa all’ottenimento di un meccanismo automatico di contenimento dello spread (cosa che l’attuale scudo anti differenziali ancora non contempla). Resta ora da chiedersi se il via libera di Roma e Madrid possa essere dunque il preludio a una modifica in futuro del funzionamento del fondo salva Stati.

L’ok alla cooperazione rafforzata sulla tassa sulle transazioni finanziarie è una vittoria. Ma restano dubbi sull’origine del “sì” italiano. Ora si punta a limitare gli scambi over-the-counter e l’high frequency trading La seconda questione è relativa all’uso del gettito che, alle attuali condizioni (0,1% di aliquota su azioni e obbligazioni, 0,01 sui derivati) dovrebbe garantire qualcosa come 57 miliardi all’anno. Le stesse fonti europee sostengono che Berlino punterebbe a usare i ricavi per incrementare il fondo salva Stati. Un’ipotesi che a quel punto suonerebbe come una beffa per le campagne internazionali – tra cui l’italiana Zerozerocinque – che da sempre chiedono di destinare il 50% del gettito alle iniziative di cooperazione internazionale, welfare e contrasto al cambiamento climatico. «Ogni Stato che aderirà alla cooperazione rafforzata – ricordano da Zerozerocinque – potrà decidere della destinazione del gettito». Tuttavia, «la Commissione ha intenzione di utilizzare parte del gettito per le proprie risorse, come ha affermato con decisione nel suo Multilateral Financial Framework. Gli Stati non sono per niente convinti né condiscendenti». Quel che è certo, in ogni caso, è che «ora che il percorso è avviato le risorse diventano ap-

STATO DELLE RIFORME FINANZIARIE NELLA UE HIGH FREQUENCY TRADING

DERIVATI E COMMODITIES

UNIONE BANCARIA

Proposta di riforma Gli scambi ad alta velocità vengono rallentati con l’introduzione della regola dei 500 millisecondi. I sistemi di trading algoritmico gestiti dai computer dovranno far passare almeno mezzo secondo tra l’attivazione di un’offerta per un acquisto o una vendita sul mercato finanziario e la sua successiva modifica.

Proposta di riforma • Passaggio degli scambi over-the-counter su piattaforme sottoposte a monitoraggio (organized trading facilities OTFs). • La European Securities and Markets Authority potrà bloccare lo scambio di prodotti giudicati eccessivamente rischiosi. • Limiti alle posizioni sui contratti futures sulle materie prime.

Proposta di riforma • Versione soft del Dodd-Frank, tutto sotto lo stesso tetto ma riorganizzazione delle attività quando le operazioni “rischiose” eccedono una certa soglia (15-25% degli asset totali o limite di 100 miliardi di euro). • Vigilanza bancaria sui grandi istituti. Possibile estensione dei controlli anche agli istituti di piccole dimensioni.

Status dell’iter Approvazione Commissione economicofinanziaria del Parlamento europeo.

Status dell’iter Approvazione Commissione economicofinanziaria del Parlamento europeo.

Status dell’iter Proposta ufficiale da parte della Commissione europea (Rapporto Liikanen).

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| finanzaetica |

petibili per molti e il budget europeo è più che mai nella mente del Commissario».

Derivati: stop alla speculazione Quello della “Tobin” è solo uno dei molteplici fronti del piano di riforma della finanza europea. A fine settembre la Commissione per gli affari economici e monetari del Parlamento Ue ha adottato un report elaborato dall’eurodeputato popolare tedesco Markus Ferber che prevede un piano per la riorganizzazione degli scambi di titoli derivati. I dettagli sono in via di definizione, ma il principio di fondo è chiaro: limitare gli scambi over-the-counter (transazioni bilaterali fuori dalle borse) e ricondurre le operazioni in piattaforme elettroniche monitorabili. L’obiettivo è quello di ridurre la speculazione, la stessa finalità condivisa dal principio di limitazione alle posizioni assunte sul mercato dei futures (contratti derivati di acquisto differito) sulle materie prime (la cui proliferazione ne ha favorito la volatilità dei prezzi) e del deciso rallentamento alla pratica dell’high frequency trading (vedi BOX ).

“Dodd-Frank” e beffa provvigioni Mentre resta aperta la polemica sui piani di unione bancaria (la Germania vorrebbe escludere i piccoli istituti dall’ombrello dell’autorità di controllo), quelli di riforma del sistema creditizio sembrano trarre ispirazione dalla lezione americana. Alla fine di settembre, il governatore

HIGH FREQUENCY TRADING, SI PREGA DI RALLENTARE Sul fronte dell’high frequency trading la Commissione europea ha approvato la proposta per la regola dei 500 millisecondi. La norma impone ai sistemi di trading algoritmico gestiti dai computer di far trascorrere almeno mezzo secondo tra l’attivazione di un’offerta per un acquisto o una vendita sul mercato finanziario e la sua successiva modifica. Ovvero, in sintesi, limitare la velocità e la frequenza degli scambi, la chiave stessa di un sistema che garantisce guadagni notevoli sulle variazioni dei margini di prezzo che, come noto, si intensificano di pari passo con l’accelerazione degli scambi. Mezzo secondo può sembrare nulla, ma in realtà è un tempo che può fare la differenza soprattutto per quei sistemi informatici capaci di effettuare migliaia di operazioni all’istante. A metà settembre, la Sec (la Consob americana) ha multato di 5 milioni di dollari due sistemi di trasmissione dei dati del Nyse Euronext, chiamati Open Book Ultra e Pdp Quotes, per aver inviato informazioni chiave come dati, statistiche e cifre agli operatori ad alta velocità prima che queste ultime fossero rese pubbliche al mercato. La differenza in molti casi era nell’ordine dei millisecondi. Potenzialmente devastanti nei periodi di maggiore speculazione (l’attività si è regolarmente intensificata nei momenti caldi dell’eurocrisi), le operazioni “Hft” condotte negli Stati Uniti rappresentavano nel 2011 circa il 60% degli scambi (contro il 15% del 2006) e il 40% di quelli condotti in Europa.

della Banca centrale finlandese e numero uno del gruppo di esperti europei Erkki Liikanen ha proposto ufficialmente la separazione legale tra le attività di rischio dell’investment banking e quelle ordinarie della clientela retail (la gestione dei depositi). Il progetto di riforma, nato sulla falsariga del Dodd-Frank Act statunitense, ipotizza una separazione interna (niente creazione di società distinte dunque) delle attività bancarie quando le operazioni “rischiose” eccedono una soglia compresa tra il 15 il 25% degli asset totali o il limite dei 100 miliardi

PROVVIGIONI

TOBIN TAX

Proposta di riforma Obbligo di comunicazione degli incentivi da parte dei promotori ma sì al mantenimento delle provvigioni. Resta il conflitto d’interesse.

Proposta di riforma Via alla cooperazione rafforzata con l’assenso di 11 Paesi. Imposta dello 0,1% su scambi di azioni e obbligazioni e dello 0,01% sui derivati. Ancora incerto il destino dei ricavi.

Status dell’iter Approvazione Commissione economicofinanziaria del Parlamento europeo.

Status dell’iter Avvio della cooperazione rafforzata.

di euro. In estrema sintesi si tratta di proteggere il denaro dei correntisti dai rischi della speculazione. Ma è proprio questo principio, oggi, ad essere messo in crisi da un altro provvedimento: la conferma delle provvigioni. Nel sistema attualmente in vigore i promotori finanziari possono ricevere incentivi per la vendita dei loro prodotti. Il risultato tipico è che gli operatori e i consulenti finiscono per piazzare ogni genere di prodotto, specialmente quelli della loro banca di riferimento o quelli sui quali ottengono maggiori provvigioni (spesso le due cose coincidono). È così che sono state collocate negli ultimi anni le oscure polizze unit linked o index linked. È così che i tango bond, le obbligazioni Lehman e i titoli di debito di Bank of Ireland (sì, proprio quelli svalutati a 1 centesimo per ogni 1.000 euro investiti) sono finiti nel portafoglio dei cittadini comuni. Ebbene, il testo presentato alla Commissione prevedeva, di fatto, l’abolizione degli incentivi ma a pochi minuti dall’approvazione una richiesta dei socialdemocratici ha provocato una modifica radicale: sì alle provvigioni purché siano dichiarate pubblicamente. Il conflitto di interessi è salvo. Il portafoglio dei risparmiatori un po’ meno.  | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 31 |


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| finanzaetica | offshore |

Le banche restano in paradiso di Andrea Barolini

Barclays e Lloyds, che controllano 1.649 filiali offshore, la maggior parte alle Isole Cayman (solo Barclays arriva qui a quota 174), Delaware (Hsbc ha 156 società nello Stato americano) e Channel Islands (meta preferita del gruppo Lloyds). Dall’altra parte dell’Atlantico, negli Stati Uniti, i dati sulla presenza offshore delle banche non sono così aggiornati. L’ultimo riferimento lo diede un rapporto pubblicato nel dicembre del 2008 dal Government Accountability Office, secondo il quale tra le prime 100 aziende quotate a Wall Street, 83 risultavano

I colossi bancari francesi avevano 494 filiali nei “tax havens” nel 2010. Oggi, nonostante le promesse, il numero è salito a 513. E anche gli istituti inglesi e americani sono fortemente presenti. Quello che manca, infatti, per contrastare seriamente il fenomeno, è una forte volontà politica Justice Network (che identifica 60 Stati particolarmente “opachi”), il dato risulta appunto in aumento. E, proprio per comprendere tale presenza, una commissione d’inchiesta sull’evasione fiscale del Senato parigino ha interrogato il numero uno di Bnp, Badouin Prot, chiedendo conto delle 360 filiali presenti nei paradisi fiscali. Le risposte, tuttavia, secondo quando spiegato al settimanale Alternatives Economiques da Mathilde Dupré, del Ccfd, non sono state soddisfacenti: «La banca non ha voluto parlare dei documenti interni che dimostrano come vengano proposti alla clientela servizi di “ottimizzazione fiscale” attraverso i tax havens. Noi chiediamo massima trasparenza sulle attività effettuate Paese per Paese».

Altro che addio

GB e Usa, la musica non cambia

Proprio mentre i governi di tutto il mondo occidentale stanno chiedendo ai cittadini enormi sacrifici, gli istituti di credito si guardano bene dall’abbandonare i “buchi neri” della finanza globale. Secondo un rapporto di Ccfd-Terre Solidaire (Banques et Paradis Fiscaux, luglio 2012) Bnp Paribas, Société Générale e Crédit Agricole controllano oggi 513 filiali nei tax havens, mentre due anni fa la cifra non superava le 494 unità. Va detto che, in effetti, le banche hanno abbandonato alcune giurisdizioni. Ma – si legge nello studio – rispetto alla lista di paradisi fiscali elaborata dalla Ong Tax

D’altra parte i colossi francesi sono in buona compagnia. Quasi tutte le grandi aziende (non solo banche) di tutto il mondo sfruttano le giurisdizioni “opache”. Secondo un’analisi dell’associazione inglese ActionAid, 98 dei 100 più importanti gruppi britannici (quelli quotati nell’indice Ftse 100 alla Borsa di Londra) possiedono circa 34 mila controllate. E un quarto di queste, oltre ottomila, hanno sede in Paesi che offrono basse aliquote fiscali o richiedono standard limitati in termini di trasparenza. Anche nel caso inglese, in testa alla “classifica” ci sono le banche: Hsbc, Rbs,

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Gli istituti di credito hanno dimostrato di non essere in grado di autoregolamentarsi. E il G20 si è fermato alle promesse di Londra NL.WIKIPEDIA.ORG

ra il 29 settembre del 2009, quando il direttore generale del colosso francese Bnp Paribas annunciava l’uscita del gruppo da tutti i territori presenti nella lista grigia dell’Ocse. Pochi giorni dopo, numerosi altri istituti di credito transalpini manifestavano la stessa volontà. In poche parole, si sarebbe dovuto trattare di un ve ro e proprio addio ai paradisi fiscali. Tanto che l’allora presidente Nicolas Sarkozy annunciò la scelta in pompa magna. A distanza di tre anni, però, non solo le promesse appaiono disattese, ma a rileggere la cronaca di quei giorni la sensazione è quella di una presa in giro: le banche non hanno affatto abbandonato i paradisi fiscali. Al contrario, hanno rinforzato la loro presenza.


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| finanzaetica |

presenti nei paradisi fiscali. E dire che molte di esse, dopo l’esplosione della crisi finanziaria, avevano attinto al Trouble Asset Relief Program, ovvero al fondo – finanziato con denaro pubblico – istituito da Washington per salvare il sistema dal collasso. Tra i principali utilizzatori di giurisdizioni “esotiche” figuravano Morgan Stanley (273 filiali controllate nel complesso, 158 nelle sole Isole Cayman), Citigroup (ben 472) e Bank of America (59).

«La City? Uno dei tanti tax havens»

Un problema soprattutto istituzionale È difficile, molto difficile, immaginare insomma che le banche possano autoregolamentarsi (non lo fanno i mercati, perché dovrebbero farlo quelli che sono attori protagonisti del capitalismo globale?). Servirebbe un piano organico e condiviso a livello internazionale. Ma i proclami del G20 di Londra, quando per la prima volta si puntò con decisione il dito contro i “buchi neri” della finanza, sono rimasti lettera morta. Al massimo si è riusciti a siglare qualche accordo bilaterale (ad esempio quello tra la Germania e la Svizzera). Gocce in mezzo al mare: in una finanza globalizzata ci vuole molto poco per muovere i capitali verso i lidi, di volta in volta, più convenienti. Al contempo anche in Europa la situazione appare di stallo. Da oltre un anno si parla della necessità di imporre un reporting Paese per Paese (nello scorso aprile l’Europarlamento ha ribadito la questione in una risoluzione), ma il progetto è lontano dal diventare legge. I deputati europei chiedono in particolare l’introduzione di un elenco ampio e dettagliato delle operazioni contabili effettuate in ciascuna giurisdizione, al fine di comprendere se le imposte versate in patria dalle aziende siano o meno in linea con gli affari effettuati offshore. Ma per ora i governi dei Ventisette sembrano molto più attenti ad ascoltare le esigenze delle imprese, piuttosto che la volontà degli eurodeputati. E pazienza se questi ultimi rappresentano il popolo. 

di Andrea Barolini

Nicholas Shaxson, giornalista e scrittore inglese, è autore di Le isole del tesoro, duro atto d’accusa contro il mondo offshore. E contro i Paesi ricchi, alcuni dei quali sono giudicati al pari di Svizzera e British Virgin Islands erché, a suo avviso, governi come quelli di Usa e Regno Unito non fanno qualcosa per modificare gli status del Delaware o della City di Londra? In tempi di crisi dovrebbero avere bisogno di recuperare i capitali evasi. La risposta è semplice: i paradisi fiscali sono un progetto dei Paesi ricchi e delle più potenti élite delle nostre società. La loro influenza politica è enorme. Per questo gli sforzi apparenti per combattere i tax havens si rivelano parole. Così la City resta il più importante attore singolo del mondo offshore, e il Delaware può rimanere funzionale all’ingresso di capitali sporchi negli Usa. La verità, insomma, è che Regno Unito e Stati Uniti sono essi stessi paradisi fiscali.

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Dunque anche le poche nuove regole imposte negli ultimi anni sono inutili? Assolutamente, non è stato fatto nulla di serio. Mi spiego: molte calamità occorse negli Usa negli ultimi anni sono “partite” dal Regno Unito. L’unità che fece vacillare Aig fu Aig Financial Products, con sede nella City. Ciò significa che Londra è la scappatoia offshore di Wall Street: è qui che bisognerebbe intervenire. Ma la City è molto più potente del Tesoro inglese. L’introduzione di un’agenzia internazionale potrebbe aiutare? Esistono varie agenzie Onu che cercano di fare qualcosa. L’Un Tax Committee, ad esempio, dovrebbe combattere le regole dominanti a livello internazionale. Ma il “club” dei Paesi ricchi dell’Ocse ha fatto in modo che l’organismo sia privo di risorse e abbia scarsa influenza. Quindi i tax havens sono parte integrante, e non una degenerazione del capitalismo? I paradisi sono diventati elementi costitutivi del capitalismo finanziario globale, anche se rappresentano comunque una stortura del mercato. Il problema è proprio nella globa| ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 33 |


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| finanzaetica |

lizzazione della finanza, che al contrario di quella del commercio – che comporta grandi problemi ma anche vantaggi – è fortemente negativa. In larga parte proprio a causa del modello offshore che ne costituisce il cuore. Nel suo libro spiega che anche i Paesi in via di sviluppo ne sono vittime: come possono difendersi? È incredibilmente difficile per loro, perché le regole globali – disegnate dai Paesi ricchi – li mettono all’angolo. Le banche private mandano rappresentanti nei Paesi in via di sviluppo invitando i clienti a sfruttare i servizi offshore, e offrendo eserciti di avvocati. Senza contare che spesso le persone che distolgono denaro dalle casse pubbliche locali sono le stesse che decidono leggi e regole. 

LIBRI Nicholas Shaxson Le isole del tesoro. Viaggio nei paradisi fiscali dove è nascosto il tesoro della globalizzazione Feltrinelli, 2012

LE ISOLE DEL TESORO (DA 21 MILA MILIARDI DI DOLLARI) Seimila miliardi di dollari. È l’imponente, quasi incalcolabile cifra relativa ai capitali sottratti ai governi di tutto il mondo dai paradisi fiscali. Tasse che non saranno mai versate, nemmeno in questo momento di grande crisi. Questo e molti altri dati impressionanti sono contenuti nel libro Le isole del tesoro, di Nicholas Shaxson, costruito sulla base di esperienze dirette, incroci di dati, analisi dei flussi di denaro. Alla popolazione inglese che si domanda come mai la pressione fiscale continui a salire, ad esempio, Shaxson risponde con una sola parola: «Offshore». È per via dei paradisi fiscali, infatti, che lo Stato britannico perde ogni anno circa 20 miliardi di sterline: «Basterebbero per far tornare la Vat (l’iva inglese, ndr) al 15%». E attenzione: il libro spiega che non dobbiamo prendercela solamente con i soliti noti. Jersey, Cayman o Liechtenstein sono solo la punta dell’iceberg: nel mirino del giornalista ci sono anche l’Irlanda, Hong Kong, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, il Ghana. E lo stesso Regno Unito, a causa delle regole che imposero le autorità britanniche quando decisero lo status della City londinese. Per non parlare della Svizzera, nelle cui banche «nel 2009 eranodepositati 2.100 miliardi di dollari, intestati a non residenti, la metà dei quali di provenienza europea». D’altra parte, uno studio pubblicato dall’associazione Tax Justice Network ha indicato in almeno 21 mila miliardi di dollari il valore complessivo degli asset finanziari detenuti presso i paradisi fiscali di tutto il mondo. Una cifra spaventosa, gestita in buona parte da tre banche: le svizzere UBS e Credit Suisse e l’americana Goldman Sachs. «Si tratta di qualcosa come la somma del valore di due economie come gli Stati Uniti e il Giappone», ha sottolineato la Ong, che ha specificato come la cifra possa essere perfino sottostimata (lo studio non tiene conto di immobili, opere d’arte o altri beni simili). Anche ipotizzando un rendimento medio piuttosto basso per tali capitali (3% annuo), se si tassassero tali profitti al 30%, si potrebbe generare un flusso fiscale compreso tra i 190 e i 280 miliardi di dollari: il doppio di tutti gli aiuti allo sviluppo versati ogni anno dai Paesi ricchi dell’Ocse.


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| finanzaetica | consumo responsabile |

Banca Etica e i Gas Non così vicini di Elisabetta Tramonto

Continua il dibattito attorno al piano industriale di Banca Etica lanciato sul numero di settembre di Valori . Parliamo di Gruppi di acquisto solidale, per la banca tra gli interlocutori principali, ma nella realtà non sempre interessati alla finanza etica onsumo responsabile e finanza etica. Si potrebbe pensare che siano due facce della stessa medaglia, ma non è necessariamente così. I Gruppi di acquisto solidale nascono dall’idea di essere consapevoli di quello che mangiamo, usiamo, compriamo, di chi e come lo produce. Lo stesso desiderio di consapevolezza, trasparenza e partecipazione alla base della finanza etica. Peccato che questi due mondi non sempre coincidano (su Valori ne abbiamo già parlato, sul numero di settembre 2011). Tanto che da qualche anno, all’interno del mondo dei Gas, sono nati dei tavoli

TERESA MANUZZI

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dedicati alla finanza etica (in particolare in Lombardia). «Continuiamo a riflettere su una situazione che a noi sembra contraddittoria: il movimento del consumo critico, i Gas e i Des si occupano poco di finanza etica», si legge nel documento del tavolo sulla finanza etica riunitosi durante il convegno nazionale dei Gas, lo scorso giugno a Golena del Furlo, nelle Marche. Banca Etica, dal canto suo, ha sviluppato un discorso analogo, tanto che nel piano industriale, votato dal Consiglio di amministrazione lo scorso giugno, ha indicato nei Gas uno dei propri interlocu-

tori principali. «Vogliamo rafforzare le relazioni con alcune categorie particolarmente in linea con i nostri valori, come i Gruppi di acquisto solidale», aveva spiegato, in un’intervista pubblicata sul numero di settembre 2012 di Valori, il presidente di Banca Etica, Ugo Biggeri. Ma il lavoro da fare per raggiungere questo obiettivo sembra ancora lungo.

Finanza etica, quella sconosciuta «La finanza etica non è al centro degli obiettivi dei Gas, almeno non quanto altre modalità di consumo critico», esordisce Davide Biolghini del tavolo Res nazionale. «Certamente è una questione che riguarda Banca Etica, che deve trovare il giusto approccio. Ma è soprattutto un problema dei Gas: per loro l’idea di consumo critico riguarda alcune categorie merceologiche in cui non rientrano i prodotti finanziari», commenta Ugo Biggeri. «È necessario avviare una dialettica da entrambe le parti – aggiunge David Marchiori della rete dei Gas veneziani –, da parte dei Gruppi di acquisto serve una presa di coscienza della finanza etica. E da parte di Banca Etica sarebbe necessaria un’operatività non solo relativa agli aspetti tecnici, ma anche nella cura dei processi, ad esempio per rendere i Gas più trasparenti e tracciabili». «Il discorso di acquistare mele bio a poco prezzo passa subito. La finanza etica meno», aggiunge Claudia Gazzale, socia di Banca Etica e presidente del Des Brianza. «Spesso i gasisti aprono il conto con una banca non etica semplicemente perché costa meno. Senza applicare gli stessi principi che guidano l’acquisto dei prodotti». | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 35 |


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VTERESA MANUZZI

| finanzaetica |

Kuminda, cibo consapevole Alcuni momenti di Kuminda, il festival del diritto al cibo, organizzato da Acra e Terre di mezzo Eventi a Milano dall’11 al 15 ottobre scorso, presso la Cascina Cuccagna. Un racconto del cibo, in tutti i suoi aspetti, per parlare di chi lo consuma, di chi lo produce, per condividere le esperienze virtuose di produzione agricola, i progetti di cooperazione con i Paesi del Sud del mondo, le filiere di distribuzione sostenibili, le scelte di consumo consapevoli. www.kuminda.org

Banca Etica: così vicini, così lontani Al di là della scarsa conoscenza e consapevolezza nei confronti della finanza etica, da parte dei Gas sembra esistere una vera distanza (talvolta delusione, talvolta solo non conoscenza) da Banca Etica. «A livello nazionale prevale un atteggiamento critico», conferma Katia Mastrantuono, copresidente della Res Marche. Critiche diverse: da una mancanza di efficienza («Di fronte a una richiesta di finanziamento per un’attività assolutamente in linea con lo spirito di Banca Etica non siamo neanche riusciti a ottenere un preventivo. Banca Prossima ci ha risposto in una settimana », racconta David Marchiori) al rifiuto di finanziare tutti i progetti virtuosi presentati: «Banca Etica era vissuta dai Gas come un istituto che dovrebbe sostenere le imprese sociali non bancabili – spiega Davide Biolghini – ma purtroppo ci si è resi conto che non sempre lo fa. L’esempio classico è quello dell’azienda Tomasoni, il produttore di formaggio che anni fa fu salvato grazie all’intervento di alcuni Gas e di Mag2, dopo il “no” di Banca Etica al finanziamento che aveva richiesto». «A volte si guarda un singolo caso non finanziato senza considerare che la stragrande maggioranza dei prestiti conces| 36 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

si da Banca Etica riguardano progetti che i Gas apprezzerebbero e a cui gli altri istituti di credito avrebbero sbattuto la porta in faccia», replica Ugo Biggeri. Che aggiunge: «Il fatto che i Gas non abbiano ben chiaro cosa sia la finanza etica fa sì che abbiano aspettative non coerenti». E non è tutto: «Banca Etica viene percepita come distante e poco coinvolta nel percorso dell’economia solidale che i Gas portano avanti», spiega ancora Katia Mastrantuono. «Non ha una presenza concreta e reale sul territorio. Quella dei Gas è una rete complessa che va seguita da vicino», aggiunge David Marchiori. «Le Mag (Mutue di autogestione) – continua Davide Biolghini – sono più vicine, più presenti sul territorio e hanno una relazione più diretta con i Gas». Netta la replica di Ugo Biggeri: «Banca Etica non ritiene che esista una vera distanza dai Gas. È consapevole che esistono percorsi diversi, ma l’obiettivo è comune. Da parte della banca c’è una grande volontà di partecipare ai percorsi dei Gruppi di acquisto: a partire dalle operatività specifiche, come il conto dedicato ai Gas, alla presenza nei diversi momenti di confronto. All’ultimo Sbarco Gas io c’ero». «Il conto gas è solo un primo passo – precisa Paolo Ferraresi, responsabile dell’ufficio progetti di Banca Etica – ha ottime condizioni di costo, ma è soprattutto un segno di attenzione, un modo per aprire un canale di comunicazione. Stiamo cercando di creare dei prodotti adatti anche alle esigenze dei produttori, attivando un sistema di garanzie dal basso, non patrimoniali».

Un partner ideale E infine l’accusa di un mancato coinvolgimento dei Gas. «Banca Etica ha organizzato dei laboratori di economia civile. Cosa che ha molto infastidito i Gas perché non si sono sentiti coinvolti. Sono state interessate solo alcune singole realtà», racconta Katia Mastrantuono. «Certo, abbiamo coinvolto solo alcune realtà del mondo dei Gas come la Res Marche», risponde Ugo Biggeri. «Ma non è possibile considerare tu tti e non è facile trovare dei referenti. Quella dei Gruppi di acquisto è una realtà pulviscolare e senza una

vera rappresentanza. Sinceramente mi sembra una polemica fuori luogo». Per il presidente il fulcro della questione è un altro: «Vorrei che i Gas capissero le specificità di Banca Etica che la rendono un interlocutore ideale per loro. Innanzitutto è l’unica realtà che offre strumenti di parte cipazione e coerenza nelle modalità con cui lavora. La trasparenza nei finanziamenti e soprattutto la forma partecipativa sono caratteristiche innovative. Se vogliono che Banca Etica sia la banca dei Gas, basta che diventino soci. Questo mi sembra che non venga compreso. Banca Etica è dei suoi soci».

Un rapporto biunivoco Insomma servirebbe uno sforzo da parte di entrambi. «Banca Etica non è nata per finanziare i Gas o i produttori, bensì il terzo settore – spiega Ugo Biggeri – ma può avvenire un avvicinamento, come è successo con la legalità. Il finanziamento alle realtà della legalità non apparteneva a Banca Etica, oggi sì, grazie al percorso fatto con Libera». Ma paradossalmente oggi è Banca Etica ad avere bisogno di un aiuto, anche per poter aiutare i Gas. Per poter concedere più finanziamenti serve, infatti, più capitale sociale, lo richiedono le regole bancarie. Ma i Gruppi di acquisto sono disposti a investire nel capitale di Banca Etica? «Al momento non credo», risponde Davide Biolghini. «Servirebbe maggiore dialogo per costruire quanto Banca Etica chiede. I Gas portano avanti con i produttori rapporti basati sulla fiducia e sulla conoscenza reciproca, non basta che un agricoltore sia biologico. Bisogna stabilire una relazione. Lo stesso vale per Banca Etica. Non basta la parola “etica” per farla diventare automaticamente un interlocutore dei Gas. Serve un rapporto di fiducia e azioni di reciproca conoscenza». «I Gas però – conclude Ugo Biggeri – dovrebbero usare con Banca Etica gli stessi criteri di selezione e di valutazione impiegati per i produttori dove acquistano la verdura o il formaggio bio. In quel caso si valuta come vengono prodotti, con quali materie prime e quali procedimenti. Lo stesso vale per la finanza etica». 


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inaugura

L’Università della sostenibilità A PARTIRE DA GENNAIO 2013 Nella splendida cornice della settecentesca Cascina Cuccagna, a Milano (zona Porta Romana, facilmente raggiungibile con metropolitana e autobus). Con la classica formula week-end: circa 15 ore di lezione nell’arco di due giorni Per studenti universitari, sindacalisti, imprenditori, mondo associativo, cittadini attivi, un piano formativo modulare, che ogni partecipante potrà comporre a suo piacimento. Docenti preparati useranno un linguaggio chiaro e un approccio attento ai non addetti ai lavori. Una metodologia basata sull’interazione, sulle esercitazioni collettive e sulla presenza continua di un facilitatore d’aula. Accanto ai corsi un programma di stage nel campo dell’imprenditoria non profit e della ricerca economica e finanziaria.

PROGRAMMA • Basi per una comprensione critica dell’economia. • Basi per una comprensione critica della finanza etica. • Finanza Etica: principi e strumenti alternativi ai modelli speculativi. • Economie Solidali. • Green economy: un futuro sostenibile per l’Europa. • Giornalismo economico finanziario. • Giornalismo e nuovi media: dalla distrazione di massa all’attivismo democratico. (per il calendario www.corsivalori.it) OLTRE ALLA SCUOLA ESTIVA: • Un nuovo rapporto città-campagna: agricoltura peri-urbana e di prossimità. • La riconversione dell’economia verso il controllo delle filiere. • Realtà e prospettive delle energie rinnovabili. • Green economy e impatti sull’occupazione.

INFORMAZIONI SUL SITO info@corsivalori.it / www.corsivalori.it


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| inumeridellaterra |

Narcoglobalizzazione di Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Matteo Cavallito e Valentina Neri

tilare una mappa che descriva esaustivamente la divisione dei compiti nell’“organizzazione del lavoro criminale” è impossibile, data l’estrema rapidità di adattamento delle strategie dei gruppi malavitosi al variare delle condizioni di mercato. Quello che descriviamo è un mercato che si avvale di tutte le possibilità offerte dalla “globalizzazione” e dalle regole neoliberaliste per realizzare profitti straordinari, in cui le criminalità hanno capito che mettersi “in rete” è più proficuo che farsi apertamente la guerra. 

S

OLANDA In Europa riveste il ruolo di importante centro temporaneo di stoccaggio e smistamento dell’eroina destinata ai mercati inglesi, francesi, belgi e tedeschi, in un network gestito da organizzazioni olandesi, turche e nigeriane. MAGHREB I Nordafricani sono presenti nei mercati dei Paesi mediterranei (Spagna, Francia e Italia) e in Olanda. Organizzazioni criminali di origine maghrebina sono impegnate nel traffico di sostanze stupefacenti: sono composte da cittadini provenienti dal MAROCCO, dalla TUNISIA, dall’ALGERIA, dalla LIBIA e dalla MAURITANIA, che operano in piccoli gruppi. GUINEA BISSAU

MESSICO/CARTELLI Uno degli Stati maggiormente coinvolti nel narcotraffico. Il cartello di Tijuana, quello del Golfo, di Sinaloa e di Juárez si spartiscono il mercato delle droghe dal Messico verso gli Usa. Il cartello di Los Zetas, nato come gruppo paramilitare, traffica verso l’Europa grazie ai collegamenti con la ’ndrangheta calabrese. Violentissimi e dotati di armi da guerra come bazooka e mitragliatrici, i cartelli messicani hanno “colonizzato” intere regioni del Paese, imponendo regole neofeudali. Il conflitto tra i cartelli avrebbe causato più di 13 mila morti nel 2011.

Un hub sempre più importante per la droga proveniente dall’America Latina, destinata al mercato europeo e agli Usa, soprattutto a causa della corruzione: i narcos negli anni hanno penetrato l’intero apparato statale, arrivando perfino all’ufficio del presidente João Bernardo Vieira, che fu ucciso nel 2009. Il traffico coinvolge Paesi strategici – economicamente e politicamente – come GHANA, KENYA, NIGERIA, MOZAMBICO e SUDAFRICA. E gruppi terroristici come Hezbollah e Al Qaeda.

COLOMBIA/CARTELLI Con 325 tonnellate l’anno, è il principale produttore mondiale di cocaina, anche se – secondo i dati di Narcoleaks – la quantità prodotta in Colombia e valutata in base ai sequestri sarebbe sei volte di più. Il dato reale sarebbe tenuto basso grazie al sistema di monitoraggio dell’Unodc, per far passare in secondo piano l’importanza della Colombia e spostare l’attenzione delle politiche antidroga verso il Perù. I tre cartelli colombiani più noti sono quello di Medellín, un vero Stato nello Stato che assolda poliziotti, magistrati, giornalisti, personaggi dello spettacolo, quello di Cali e il cartello di Norte del Valle. I cartelli colombiani lavorano in stretta correlazione con gruppi terroristici e contano importanti collegamenti con le criminalità europee (spagnole, italiane e olandesi) e con gruppi di origine caraibica (domenicani in Spagna, jamaicani nel Regno Unito e cittadini delle Antille in Olanda) e dell’Africa Occidentale (presenti in Francia, Svizzera, Austria, Germania, Italia e Portogallo). PERÙ Coltivazioni di cocaina: 61.200 ettari Valore dei ricavi per i coltivatori: 384 milioni di $ [2009] Sequestri complessivi: 30,7 tonnellate [2010] ARGENTINA Uno dei principali trampolini per l’esportazione di droga in Europa, grazie ai forti rapporti commerciali che il Paese vanta con il Vecchio Continente, insieme agli scarsi controlli e agli episodi di corruzione della polizia.

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BOLIVIA È uno dei Paesi latino-americani dove si produce più cocaina. Le piantagioni sono controllate da cartelli che riforniscono il mercato dell’America del Nord (Stati Uniti e Canada) e dell’Europa. Coltivazioni di cocaina: 30.900 ettari Valore netto: 13 miliardi di $ Sequestri effettuati: 25,7 tonnellate [dati 2009]


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ITALIA/COSA NOSTRA

AFGHANISTAN

Agli inizi degli anni ’70 la mafia siciliana entra nel mercato internazionale degli stupefacenti, superando una sorta di suo tabù nei confronti delle droghe. Realizza una coalizione transnazionale con i marsigliesi che forniscono i chimici: la morfina base arriva dagli Stati Uniti e in Sicilia, ad Alcamo, viene localizzata la più grande raffineria di eroina d’Europa, che verrà scoperta nel 1985. Dopo una flessione nella leadership di Cosa nostra, dovuta al suo coinvolgimento nella strategia stragista e agli arresti di suoi membri, in questi anni si stanno stabilendo nuove reti per il controllo territoriale e internazionale con la ’ndrangheta, finalizzate al traffico di stupefacenti (soprattutto cocaina) dal Sudamerica attraverso il Nord Europa (Olanda, Germania, Belgio e Austria), come dimostrato anche dalla vasta operazione di metà ottobre scorso, coordinata dalla Dda della Procura di Milano, con 52 arresti in 8 regioni italiane del Nord e del Sud.

Dal 2008 è diventato il primo produttore mondiale di oppio, nonostante (o grazie) al fatto di essere un Paese che quasi non conosce la pace. La regia è gestita da cinque importanti gruppi criminali compositi, che operano o dietro la copertura di traffici leciti oppure avvalendosi di gruppi minori, spesso legati da vincoli famigliari. Con il nome pittoresco di Mezzaluna d’oro viene indicata la regione asiatica con la maggiore produzione di oppiacei del mondo, che comprende oltre all’Afghanistan, l’IRAN, il PAKISTAN e in minor misura INDIA e NEPAL. Coltivazioni di oppio: 123 mila ettari Valore della produzione: 2.900 $ netti per ettaro Coltivazioni di cannabis: 9-29 mila ettari Valore della produzione: 8.341 $ netti per ettaro [dati 2010]

ITALIA/’NDRANGHETA Attualmente considerata una delle più potenti organizzazioni criminali d’Europa, offre come nessun altro il “pacchetto completo” (anche di voti elettorali). Le ’ndrine garantiscono dal contrabbando della droga ai pagamenti in armi, al riciclaggio del danaro dei narcos in euro. In collaborazione e sovente con la doppia affiliazione dei suoi capi con le principali mafie italiane e internazionali. Tra gli anni ’80 e ’90 hanno conquistato un ruolo di leadership come intermediatore e organizzatore dei traffici internazionali della cocaina.

SERBIA E ALBANIA/GRUPPI Gruppi criminali serbi e albanesi stanno muovendosi autonomamente per acquistare cocaina dai Paesi di produzione, provvedendo al trasporto fino ai mercati di consumo. Tagliano molto la cocaina per diminuirne il prezzo e realizzare i profitti necessari alla loro ascesa. MYANMAR [dati 2010]

INDIA/PUNJAB

LAOS

Il Punjab, regione dell’India al confine con il Pakistan, è una porta d’ingresso privilegiata per la droga di origine afghana [vedi BOX pag. 27]. Viene sfruttata la “rete” sul territorio costituita da numerosi contadini, che si occupano di fatto di smerciare gli stupefacenti.

Coltivazioni di oppio: 3 mila ettari [dati 2010]

Coltivazioni di oppio: 38.100 ettari Addetti: 224 mila persone Prezzo medio di vendita: 305 $ al kg Valore dei ricavi per i coltivatori: 177 milioni di $

Il Triangolo d’oro composto da LAOS, MYANMAR, THAILANDIA e VIETNAM è attualmente la seconda area asiatica di produzione dell’oppio.

MARIJUANA

NIGERIA/CRIMINALITÀ Il network creato dai gruppi criminali nigeriani sta reinvestendo i proventi di prostituzione, cocaina ed eroina su droghe sintetiche e metanfetamine, con una strategia criminale mirata a produrre prodotti di origine sintetica di qualità e costo maggiore, in questo modo affermando la loro leadership rispetto ad altri gruppi etnici. I nigeriani occupano un posto di rilievo, soprattutto in Olanda, poiché gestiscono un proprio mercato che riforniscono attraverso corrieri aerei in partenza dalle Antille e dal Suriname e, in seguito all’incremento dei controlli, dal Perù, dalla Repubblica Dominicana e dal Messico. Recenti stime indicano che in Nigeria operano circa 400 centrali del crimine, 136 delle quali specializzate nel traffico di droga e la metà con ramificazioni internazionali. Gruppi criminali nigeriani, stanziati in TAGIKISTAN, acquistano oppio nell’area afghana e lo indirizzano verso la Cina finora rifornita dalla produzione del Sudest asiatico, abbassandone il prezzo di carico e di vendita e andando a sovrapporsi ai flussi di traffico dell’oppio proveniente dal Myanmar, il cui prezzo risulta triplo rispetto a quello acquistato in Afghanistan dalla criminalità nigeriana.

È prodotta in quasi tutto il mondo: maggiori produttori sono il Nord e Sud America (46% del totale mondiale: MESSICO, USA, PARAGUAY), l’Africa con il 26% (SUD AFRICA, NIGERIA, GHANA) e l’Asia con il 22% (AFGHANISTAN, PAKISTAN). Il maggior produttore mondiale di hashish è il MAROCCO (27,2%) che contende la prima posizione all’Afghanistan, seguono Pakistan (7,8%) e NEPAL (6,6%). In Europa è molto diffusa la coltivazione intensiva in serra, utilizzando varietà geneticamente modificate, riscaldamento, illuminazione artificiale, in coltura idroponica. I prodotti che ne derivano hanno un più alto contenuto di Thc.

LE DROGHE SINTETICHE Un mercato in crescita, soprattutto per le metanfetamine, afferma l’Unodc, e per la prima volta numerosi Paesi ne hanno segnalato la presenza sui loro territori (ARGENTINA, BRASILE, GUATEMALA). Costituiscono un pericolo senza precedenti, perché percepite erroneamente come meno dannose; nel 2009 sono stati scoperti 45 laboratori, tutti in Europa, che utilizzano anche internet per il reperimento dei “precursori”. Siti di lavorazione esistono nell’Est e Sudest asiatico, Nord America, Oceania, Sudamerica, Turchia, Libano, Giordania. Il 97% dei sequestri si concentra in Europa e in Medio Oriente, con un traffico intraregionale, caratterizzato in base alle preferenze dei consumatori. Il grande mercato cinese attira l’attenzione dei gruppi criminali per le sue potenzialità di produzione e di diffusione.

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FONTE: NOSTRA RIELABORAZIONE DA DATI WWW.UNODC.ORG; WWW.NARCOLEAKS.ORG; MINISTERO DELL’INTERNO; CAMERA DEI DEPUTATI - ILLUSTRAZIONE: DAVIDE VIGANÒ

| risiko del narcotraffico |


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ROBERTO CACCURI / CONTRASTO

economiasolidale

Il dilemma di Milano: cibo sano o autostrada? > 45 Il mais italiano alla guerra della produttivitĂ > 47 Biogas: attenzione a chiamarla energia pulita > 49 La sostenibilitĂ viaggia a pedali > 51 | 40 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |


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| la lobby delle estrazioni |

Viggiano (Potenza) dicembre 2003: lavori di ampliamento del Centro Oli Eni-Agip. Qui viene desolforato il petrolio greggio proveniente da tutti i pozzi della Basilicata. Con un oleodotto il lavorato viene poi inviato alla raffineria Agip di Taranto. Negli ultimi mesi, più di una volta, alte fiamme si sono sprigionate per ore dalla torcia del Centro Oli

La banda

Grazie a leggi permissive e tasse minime c’è un boom delle trivellazioni per ricercare ed estrarre gas e petrolio. A questo si aggiunge il nuovo business degli stoccaggi di gas e CO2. Ma mancano gli strumenti di controllo e la valutazione del rischio è scarsa

del buco di Paola Baiocchi l sisma del maggio scorso in Emilia, con il suo triste bilancio di morti e di distruzione, ha sollevato nuovamente il problema della scarsa prevenzione del rischio che si pratica in Italia. Mentre le telecamere dei telegiornali erano puntate sulle macerie, gli emiliani sono riusciti a denunciare sulla ribalta mediatica nazionale la loro preoccupazione per il progetto di deposito sotterraneo di gas a Rivara, una frazione del Comune di San Felice sul Panaro. Localizzato a poca distanza dall’epicentro del terremoto, in un’area classificata nella mappa sismo-tettonica a rischio propagazione di onda sismica e di liquefazione delle sabbie sature, il sito di stoccaggio Erg Rivara Storage – come riportato sul sito ufficiale – prevede di utilizzare «un serbatoio naturale perfetto per lo scopo: una struttura geologica a forma convessa il cui vertice si trova a 2.500 metri di profondità dalla superficie». Due chilo-

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| economiasolidale |

metri e mezzo sotto terra il metano troverebbe spazio nel calcare, poroso e con fessure naturali piene di acqua salata che verrebbe spinta in basso dalla pressione; il gas formerebbe una specie di bolla e resterebbe intrappolato tra l’acqua e una sorta di “tappo” di argille impermeabili dello spessore di 1.700 metri. La capacità di stoccaggio dovrebbe essere di 3.700 milioni di metri cubi di metano, con un’estensione sotterranea di 12 chilometri quadrati e uno spessore di 400 metri. In superficie, con 19 pozzi di estrazione, dovrebbe occupare un’area di circa 11 ettari nei Comuni di San Felice sul Panaro, Crevalcore, Camposanto, Finale Emilia, Medolla e Mirandola.

Tre miliardi di metri cubi di gas sottoterra Rivara sarebbe il primo sito di stoccaggio in “acquifero profondo” in Italia e la scelta della società Erg Rivara Storage, costituita apposta per questo progetto nel 2008 dall’inglese Independent Resources (85%) e da Erg Power & Gas (15%),

Nessuna valutazione del rischio sismico viene richiesta per le trivellazioni in mare e il decreto Cresci Italia ha ridotto la distanza di 12 miglia dalla costa per gli impianti marini è caduta su questa zona soprattutto per la centralità dell’Emilia, all’incrocio delle vie della distribuzione del gas. Però i cittadini, che avevano dato vita a comitati contro il deposito prima del sisma, sono ora disposti a continuare la loro opposizione, anche se il progetto è stato fermato dal ministero dell’Ambiente, perché temono possa venire ripresentato quando l’attenzione calerà. Guardando sul sito della Erg Rivara Storage, infatti, tutto fa pensare che non abbiano rinunciato al progetto. Intanto gli emiliani, e noi con loro, chiedono cosa sarebbe successo se il terremoto avesse scaricato la sua energia sopra più di tre miliardi di metri cubi di gas.

CASINÒ ROYALTIES: IL FISCO RISPARMIA I PETROLIERI Si intitola con il gioco di parole che richiama Pietro Dommarco Trivelle d’Italia. un fim di 007, uno dei capitoli del libro di Pietro Perché il nostro Paese Dommarco Trivelle d’Italia. Il sistema delle royalties è un paradiso per petrolieri in vigore, cioè le tasse di compensazione Altraeconomia, 2012 ambientale versate, rendono particolarmente appetibile estrarre in Italia. Le compagnie petrolifere godono di una franchigia, per cui sono esentate dal pagamento delle royalties sulle prime 20 mila tonnellate di greggio estratte sulla terraferma, sulle prime 50 mila tonnellate di greggio estratte in mare, sui primi 25 milioni di metri cubi di gas estratti sulla terraferma e sui primi 80 milioni di metri cubi di gas estratti in mare. Tradotto in milioni di euro, le compagnie risparmiano, per ogni anno di produzione, circa 8 milioni di euro sul greggio estratto sulla terraferma, 19 milioni di euro sul greggio estratto in mare, 7 milioni di euro sul gas estratto sulla terraferma e 24 milioni di euro sul gas estratto in mare. Un bottino milionario che, in tempi di vacche magre come sono questi, i cittadini dovrebbero poter recuperare. Facilitazioni fiscali nate perché il petrolio italiano era considerato residuale, quando le tecnologie, però, erano molto meno efficienti: ora si arriva tranquillamente a 5.000/6.000 metri di profondità e quindi, anche se il petrolio italiano ha molto zolfo, il risparmio è esorbitante rispetto alle royalties del 50% che si pagano mediamente in area Opec. In Italia invece sono pari al 10% per le estrazioni di greggio e gas sulla terraferma, al 7% per l’estrazione di gas in mare e al 4% per l’estrazione di greggio in mare. Di queste il 55% va alle Regioni, il 30% lo incassa lo Stato. Mentre ai Comuni che sono i più colpiti dall’impatto ambientale, va il 15%. Oppure niente nel caso delle estrazioni in mare. Pa. Bai.

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Rivara sarebbe il primo sito di stoccaggio in “acquifero profondo” in Italia, ma diversi altri progetti di stoccaggio sono stati presentati al ministero dello Sviluppo economico.

Rischio sismico sottovalutato «Ho letto le relazioni geologiche e sismiche allegate al progetto di Rivara – spiega Franco Ortolani, ordinario di Geologia all’Università di Napoli – e vi ho trovato che la sismicità era sottostimata: si diceva che non poteva essere superiore a 5,8 gradi della scala Richter, invece a maggio è stata superiore. Non possiamo dire cosa sarebbe successo nel caso in cui il deposito fosse già stato operativo, perché le conoscenze sono scarse. È invece ampiamente documentato scientificamente – continua Ortolani – che qualsiasi iniezione nel sottosuolo determina una perturbazione e se la zona è già di per sé instabile tettonicamente e sismicamente, come la zona dell’epicentro del 20 maggio, qualsiasi attività nel sottosuolo può determinare un’accelerazione dei fenomeni di instabilità tettonica e quindi accelerare quelli che poi andranno a trasformarsi in eventi sismici». Come evitare, allora, che nuove attività di stoccaggio possano creare criticità? Per Ortolani la soluzione è a portata di mano: «In Italia sarebbe facilissimo mettere dei paletti, partendo dalle mappe dell’Istituto nazionale di geologia e vulcanologia (Ingv), che hanno individuato dove in passato si sono verificati terremoti. Dove il sottosuolo è instabile, perché ci sono delle faglie che periodicamente si muovono dando luogo a sismi, va detto che non si deve toccare il sottosuolo con nuovi depositi sotterranei di anidride carbonica o di gas». Invece in Italia siamo testimoni di una vera e propria “corsa alla trivellazione” sia per nuovi pozzi che per nuovi siti di stoccaggio, in presenza di una legislazione molto condiscendente rispetto alle compagnie e con la tendenza a eliminare ulteriori “lacci e lacciuoli” che, viene detto, “limitano il mercato” ma sono, invece, tutele per la sicurezza e la salute. Come la riduzione di fatto del già minimo limite di 12 miglia dalla costa per le estrazioni in mare, introdotto nel decreto Cresci Italia.


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| economiasolidale |

Venezia

Cremona

Mantova

Livorno

Busalla

Operanti > coltivazione idrocarburi In iter > istanza/permesso

Trecate Sannazzaro

SIAMO PROPRIO SICURI?

Pantano

Falconara

Mappa di pericolosità sismica del territorio nazionale e principali attività estrattive

< 0.025 g

Taranto

0.025 - 0.050

Pozzi a terra operanti

Porto Foxi

Po

0.050 - 0.075 0.075 - 0.100 0.100 - 0.125 0.125 - 0.150

Milazzo

0.150 - 0.175 Pozzi a terra in iter

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U

A F

P

0.200 - 0.225 0.225 - 0.250

Piattaforme operanti

0.275 - 0.300

Priolo Augusta

PANTELLERIA (TP)

0.250 - 0.275

Gela

EGADI

Piattaforme in iter Dal 2011 divieto di perforazione e di coltivazione Lg. 179/01

0.175 - 0.200

Pa

Raffinerie

Le sigle individuano isole per le quali è necessaria una valutazione ad hoc Elaborazione: aprile 2004

Pe

Ma quello che è ancora più grave, e sembra incredibile, è che la legislazione attuale per le trivellazioni in mare non richiede la valutazione del rischio sismico.

L’autocontrollo delle compagnie Spetta alle compagnie anche autocertificare la produzione sulla quale pagare le tasse, come ha scritto Emanuele Isonio nell’articolo “Trivella libera vuol dire sviluppo?” (Valori n. 102, settembre 2012), sottraendo importanti introiti al fisco (vedi BOX ). «Sta di fatto che su un centinaio circa di compagnie petrolifere in attività, solo 11 pagano le tasse, spiega Pietro Dommarco, autore di Trivelle d’Italia, un viaggio lungo lo stivale in cui ha documentato installazioni e richieste di nuovi impianti in località vicine ad aree intensa-

mente abitate o di interesse naturalistico, agricolo, artistico o storico. Alle compagnie si lascia poi il ruolo di controllori di sé stessi anche in materia di sicurezza e salute pubblica, a proposito di emissioni e incidenti: dal 2010, in nome della “semplificazione”, è stata introdotta l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che rende “superflue” numerose autorizzazioni ambientali di settore. Gli impianti soggetti ad Aia sono tenuti a comunicare ciò che avviene nel-

le proprie aziende all’Ines (Inventario nazionale delle emissioni e loro sorgenti). Succede così che i cittadini vedano svilupparsi delle fiamme dai pozzi di petrolio, ma non riscontrino nessuna denuncia di incidente, come ha spiegato a Valori Luciana Coletta, segretaria regionale della Basilicata di Csp-Partito comunista e membro del Comitato Aria pulita, che continua: «Eppure quei pozzi a Villa d’Agri di Potenza sono ad appena 250 metri dall’ospedale civile».

IN RETE http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/ Ministero dello Sviluppo economico www.gm.ingv.it/index.php/sismologia-e-ingegneria-sismica/ricerca-scientifica/15-studio-degli-effetti-di-sito-nelbacino-della-val-dagri2 Studio degli effetti di sito nel bacino della Val D’Agri www.wwf.it/client/ricerca.aspx?root=29949&content=1 Dossier del Wwf “Milioni di regali - Italia: Far West delle trivelle”

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| economiasolidale |

Sembra però che la sicurezza sia un problema che non riguarda le compagnie petrolifere, ma solo i cittadini, che continuano a organizzarsi in centinaia di comitati e movimenti, che restano, però, in ambito locale e per la mancanza di una cinghia di trasmissione che li col-

vuole ora puntare al raddoppio della produzione proprio in Val d’Agri: “Una delle aree italiane a maggiore potenziale sismogenetico”, certifica l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Una zona cioè dove possono facilmente generarsi terremoti, come il devastante sisma del 1857, tra i più potenti d’Italia, con magnitudo tra 6,9 e 7. 

leghi alla politica nazionale, ottengono scarsissimi risultati. «Questo perché manca un partito che abbia un progetto alternativo di società e quindi di economia, come è stato il Partito comunista italiano» aggiunge Luciana Coletta. La Basilicata è la Regione a più alta capacità estrattiva d’Europa, pur essendo l’Italia il quarto produttore europeo. Si

GLOSSARIO

Il progetto pilota di iniezione delle emissioni di CO2 a Cortemaggiore, proposto da Stogit (Gruppo Eni), ha ricevuto ad aprile esito favorevole nella Valutazione di impatto ambientale (Via), a condizione che l’approvvigionamento della CO2 avvenga in zone più vicine, ai fini di un risparmio energetico ed emissivo. Nei giacimenti già utilizzati dal 1964 come stoccaggio del metano in provincia di Piacenza, nei Comuni di Cortemaggiore e Besenzone, per tre anni l’Eni inietterà l’anidride carbonica per sperimentarne l’uso come cushion gas (vedi GLOSSARIO ) a 1.400 metri di profondità, per un totale di 8.000 tonnellate di CO2 l’anno. Il progetto solleva le preoccupazioni dei cittadini per la sicurezza, dopo il recente sisma, ma anche perché inciderebbe poco sulla riduzione delle emissioni: la CO2 utilizzata nel giacimento di Cortemaggiore, infatti, sarà in parte approvvigionata con trasporto su gomma dall’impianto di cattura di recente inaugurato da Enel a Brindisi.

STOCCAGGIO DEL GAS NATURALE IN SOTTERRANEO: il deposito in strutture del sottosuolo del gas naturale prelevato dalla rete di trasporto nazionale e successivamente reimmesso nella rete in funzione delle richieste del mercato. I componenti principali di un sito di stoccaggio sono: il giacimento, la centrale di stoccaggio con gli impianti di compressione e trattamento e i pozzi. Lo stoccaggio è un’attività mineraria soggetta a concessione, con modalità recentemente aggiornate con Decreto ministeriale 21 gennaio 2011. Attualmente in Italia sono in attività dieci siti di stoccaggio, tutti realizzati in corrispondenza di giacimenti a gas esauriti; sono in corso di realizzazione tre nuovi impianti, e ci sono otto istanze di concessione di stoccaggio, compresa quella di Rivara, in corso di rigetto.

SCHEMA GENERALE DI SITO DI STOCCAGGIO

FONTE: STOGIT SPA

CENTRALI DI STOCCAGGIO CRESCONO

WORKING GAS: la quantità di gas naturale gestita secondo le richieste degli shippers (i proprietari del gas). Una parte del working gas deve essere mantenuto in giacimento per garantire la riserva strategica (attualmente 5.100 milioni di mc). CUSHION GAS: è il “gas cuscino”, il quantitativo minimo indispensabile di gas presente o inserito nei giacimenti in fase di stoccaggio, che ha la funzione di consentire l'erogazione dei restanti volumi senza pregiudicare nel tempo le caratteristiche minerarie dei giacimenti stessi. Nel caso di giacimenti quasi esauriti dove verrebbe iniettata la CO2, questa farebbe da “cuscino” permettendo l’estrazione del metano rimasto sul fondo. La capacità di stoccaggio di gas naturale al 31 dicembre 2011 è pari a circa 15.620 milioni di standard metri cubi (MSmc), di cui 5.100 MSmc riservati allo stoccaggio strategico.

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FONTE: NOSTRA ELABORAZIONE SU DATI UNMIG, STOGIT, ENI

Le homepage dei siti indicati a pagina 43


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| economiasolidale | difesa della terra |

Il dilemma di Milano: meglio il cibo sano o una nuova autostrada? di Emanuele Isonio

I lavori della nuova Tangenziale esterna condanneranno a morte la filiera corta del pane di Spiga & Madia. Il distretto di economia sociale della Brianza fa ricorso alla Commissione europea. Con una motivazione originale: il valore preminente della sicurezza alimentare e questa vicenda avrà un lieto fine darà concretezza al sogno di chi crede nella sicurezza alimentare, nella tutela del territorio, nel diritto al cibo sano. Ma per ora la realtà è tutt’altra: una striscia di asfalto, larga otto corsie, lunga 32 chilometri con sei svincoli e altrettanti caselli, che sorgerà su un’area agricola rara e preziosa con il serio rischio di cancellare uno dei più ambiziosi progetti di ricostruzione di filiera corta del pane. La (flebile) speranza di cambiare le cose è legata a un ricorso che potrebbe creare un precedente storico.

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Asfalto al posto del grano bio Nel Parco agricolo Sud Milano è attivo da quasi cinque anni il progetto Spiga & Madia, nato per produrre, attraverso un originale sistema di “coproduzione” tra consumatori, agricoltori e fornai, pane di alta qualità, da agricoltura biologica, a prezzi altrove impensabili. L’area scelta sembrava ideale per l’esperimento: è a pochi chi-

lometri da Milano (a Caponago), è molto fertile e in loco si può trovare tutto il necessario per creare una filiera a chilometro zero. Ma su quell’area dovrà passare la nuova Tangenziale esterna (Teem) e, sui terreni coltivati a grano, sarà costruita la rotatoria per collegarla all’autostrada A4. Le decine di chilometri della Teem – oltre ai 32 di autostrada da Agrate Brianza a Melegnano, ci sono anche 38 km di nuove strade ordinarie e 15 di riqualificazione di arterie esistenti – è considerata “opera infrastrutturale per lo sviluppo strategico del Paese”, tanto da essere stata inserita nella Legge obiettivo, che permette di derogare alla legislazione ordinaria. Per i suoi ideatori (un consorzio composto da Provincia di Milano, Benetton, Gavio, Intesa San Paolo, Impregilo, Pizzarotti, Coopsette, Cmb, Unieco e Cmc), servirà a decongestionare l’attuale Tangenziale Est permettendo di passare dalla A1 alla A4 bypassando Milano. Ma in parecchi dubitano dell’utilità dell’opera. «La

IL DES.BRI: AIUTATECI A COPRIRE LE SPESE LEGALI Portare avanti un’azione legale complessa richiede molto denaro. Lo sanno bene i grandi gruppi industriali, che spesso contano proprio sui costi della giustizia per fermare chi si oppone a opere controverse. Il Des Brianza ha quindi lanciato un appello per coprire le spese legali. I contributi possono essere versati sul conto corrente di Banca Etica, intestato al “Comitato verso il Distretto di Economia Solidale della Brianza”, causale “Campagna Spiga e Madia”, Iban IT74E0501801600000000141046. Teem non ridurrà il traffico della Tangenziale Est, che è usata quasi esclusivamente per andare da una parte all’altra di Milano», spiega Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia. A sostegno della sua tesi, un calcolo degli stessi committenti: in quel rapporto, per di più stilato prima della crisi economica, la nuova

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| economiasolidale |

Teem ridurrebbe di appena il 7% il traffico dell’attuale tangenziale. Troppo poco per un’autostrada che, già sulla carta, promette di essere tra le più costose: 80 milioni di euro al chilometro. Tra l’altro i primi lavori stanno partendo anche se è stato reperito solo il 20% dei due miliardi necessari a completarla. Il sospetto che questo costringa la Cassa Depositi e Prestiti a intervenire è concreto. «Sarebbe comunque una follia – osserva Di Simine – bloccare risorse bancarie per un’opera inutile mentre centinaia di imprese falliscono per mancanza di liquidità».

Accanto a questo, viene sottolineato il danno alle colture biologiche e a produzioni agricole di pregio (la Teem, si legge nell’istanza, è «capace di alterare in maniera irreversibile le condizioni attuali dell’area e privarla delle sue peculiari qualità agronomiche e ambientali») e il concreto pericolo per la biodiversità del territorio: «La proprietà agricola impiegata nel progetto Spiga & Madia è al-

locata in uno dei residui corridoi ecologici esistenti nella Brianza». «Se, come speriamo, la DG Ambiente aderirà alle nostre motivazioni – commenta Monci – potremo chiedere al Tar di bloccare l’opera e al tempo stesso avremo creato un precedente epocale: avremmo dimostrato che il diritto al cibo sano non può essere sacrificato sull’altare degli interessi delle lobby industriali». 

A8

Monza A4

Un’istanza inedita A queste motivazioni, si uniscono quelle delle 600 famiglie del progetto Spiga & Madia, che hanno deciso di tentare un ricorso originale: invece di contestare i criteri di esproprio dell’area coltivata a grano, hanno preferito invocare il diritto al cibo sano. Rivolgendosi, per il ricorso, a un pool di avvocati e professori universitari, coordinati da Domenico Monci, docente di Diritto ambientale all’università del Molise. «Un ricorso a più tappe», spiega Monci. Con un destinatario di alto livello: la Direzione generale Ambiente della Commissione europea, l’organismo che, nella Ue, ha competenza sulla legislazione ambientale e alimentare. «La nostra speranza è che chieda chiarimenti alle istituzioni nazionali coinvolte (ministero delle Infrastrutture, Cipe, Regione Lombardia) e verifichi se sono state ignorate le esigenze delle popolazioni locali, in violazione della Convenzione di Aarhus». Quattro i punti su cui pone l’accento l’istanza inviata a Bruxelles, che Valori ha potuto visionare in assoluta anteprima: oltre ai dubbi sull’effettiva utilità dell’opera, contestata persino da 34 dei Comuni dell’area, che avevano proposto un progetto alternativo (vedi BOX ), si denuncia la violazione del diritto di accesso al cibo sano. «Una motivazione praticamente inedita in Europa – spiega Monci – ma sostenuta da importanti basi legali. Non solo per il principio di precauzione sancito dall’articolo 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ma anche per le regole già in vigore nella Ue con il regolamento 178/02 sulla sicurezza alimentare». | 46 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

Agrate Brianza

A52 Rho Vanzago Arluno Pregnana Milanese

Gorgonzola Cernusco sul Naviglio Cassina de Pecchi

Pero Pialtello

Sedriano Cornaredo Settimo Milanese

Vittuone Bareggio

Melzo

Milano

Liscate

Rodano

A50

Corbetta

A51 Cusago Cesano Boscone Corsico Trezzano sul Naviglio S. Donato Milanese Mediglia Buccinasco Assago

Vermezzo

Settaia

Pantigliate Peschiera Barromeo

A7

Cisliano Albalrate

Vignate

Segrate

Paullo Tribiano

Gaggiano Colturano S. Giuliano Milanese Dresano A1 Locate Triulzi Melegnano Pieve Emanuele Vizzolo Predabissi Carpiano !! Basiglio Cerro al Lambro Lacchiarella Rozzano

Zelo Surrigone Gudo Visconti Rosate Bubbiano

Binasco

CalvignascoVernate Casarile

Area del Parco Agricolo Sud Milano

Opera

Noviglio Zibido S. Giacomo

TEEM - Tangenziale Est Esterna di Milano

ALTRO CHE TEEM: 34 COMUNI SOSTENGONO IL RAPPORTO “POLINOMIA” A mettere in dubbio l’utilità della Tangenziale esterna non ci sono solo ambientalisti e sostenitori dell’agricoltura biologica. 34 comuni lombardi, situati tra la BreBeMi (l’autostrada di collegamento tra Brescia, Bergamo e Milano) e la nuova Teem hanno commissionato all’istituto Polinomia uno studio sui vantaggi dell’opera e sulle possibili varianti. Obiettivo: dimostrare che la Teem è tutt’altro che indispensabile e che si possono decongestionare le arterie esistenti in modo ben diverso. «Non esiste a tutt’oggi alcuna evidenza tecnica, asseverata da studi e valutazioni redatti secondo gli standard correnti, dell’effettiva rispondenza della Teem alle numerose e rilevanti problematiche del sistema di trasporto interessato». Il rapporto “Polinomia” propone quindi soluzioni alternative: il potenziamento delle ferrovie regionali, soprattutto nelle tratte comprese tra 35-40 chilometri dal centro di Milano; la riorganizzazione della rete di trasporto pubblico extraurbano; la razionalizzazione della rete stradale esistente; una revisione dei criteri di gestione del traffico; lo sfruttamento di aree industriali dismesse connesse alla rete di trasporto pubblico. «Se 34 Comuni, enti pubblici di prima istanza, concordano su un piano alternativo – commenta l’avvocato Monci – si conferma in modo inequivocabile che un’alternativa alla Teem è concreta e attuabile».


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| economiasolidale | made in italy a rischio/puntata 19 |

Il mais italiano alla guerra della produttività di Emanuele Isonio

biogas – potrebbero rivelarsi medicine peggiori della malattia da curare.

La maiscoltura tricolore ha perso il primato europeo e i suoi profitti dipendono ormai dal premio Pac che ben presto potrebbe scomparire. Uno scenario a tinte fosche. E, sullo sfondo, due soluzioni che non convincono

C’

sopravvivenza stessa della filiera. Per decenni fiore all’occhiello dell’agricoltura italiana, ma che da qualche anno è stata superata, in termini di produzione e resa, da altri Stati europei, primo tra tutti la Spagna. Dai produttori si leva quindi un appello per individuare sistemi che aumentino i loro redditi e coprano i costi di produzione. Ma le soluzioni – varietà Ogm e

Tre i problemi principali: la resa per ettaro non cresce più da quindici anni, le aziende sono troppo piccole e i costi di produzione crescono

I dati Istat segnalano nel 2011 una produzione di 9,6 milioni di tonnellate, in ripresa rispetto al triennio orribile 20082010, ma comunque quarto peggiore risultato degli ultimi 15 anni. Le superfici coltivate tornano a superare la soglia psicologica del milione di ettari. Ma a preoccupare gli analisti sono i dati delle rese per ettaro: «Nonostante siano in ripresa rispetto al 2010 – spiega Dario Frisio, ordinario di Economia ed Estimo rurale all’Università Statale di Milano – la crescita inarrestabile avuta fino agli anni ’90 si è ormai fermata». Un confronto con la Spagna (vedi GRAFICO ): nel 1993 la resa per ettaro era di 85 quintali contro i 93 dell’Italia. Nel 2011 il mais iberico è cresciuto a 105 quintali per ettaro mentre quello italiano si è fermato a 94.

EVOLUZIONE DELLE SUPERFICI E DELLE PRODUZIONI DI MAIS DA GRANELLA IN ITALIA TRA IL 1961 E IL 2011 [Mil t] 12,0

[.000 ha] 1.500

9,6 10,0

1.250

8,0

1.000

1.019 6,0

750

4,0

500

2,0

250

0,0

1961

1966

Produzioni (milioni t)

1971

1976

1981

1986

1991

1996

2001

2006

2011

0,0

Superfici (.000 ha)

| ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 47 |

FONTE: ELABORAZIONI OECV-DEPAAA SU DATI ISTAT (2010 E 2011 PROVVISORI)

è un dato che più di tutti fa impressione tra quelli che ci aiutano a fotografare il mondo del mais italiano: nel 2011 le importazioni nette di questo cereale si sono attestate al 23% della domanda totale, dopo decenni in cui l’Italia era di fatto autosufficiente. Alla luce di questo dato, i costi di importazione dei cereali per mangimi animali hanno annullato i ricavi dell’esportazione dei nostri prodotti tipici di origine animale. Alla base di questo dato c’è un problema di produttività, figlio diretto di un disperato bisogno di redditività. Un’esigenza certamente comune a molti altri settori agroalimentari, che però, nel caso della maiscoltura, diventa condizione indispensabile per la

La resa non cresce più


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PREZZO MEDIO MENSILE DEL MAIS IBRIDO

Una situazione già complicata per i produttori nostrani, resa ancor più difficile dalla struttura delle aziende italiane e da costi di produzione spesso superiori ai prezzi di vendita. «Le imprese italiane – conferma Frisio – sono ben più piccole dei loro concorrenti esteri». 103 mila delle 154 mila aziende agricole che coltivano mais in Italia (il 67% del totale) hanno un’estensione inferiore ai 10 ettari. «E più sono piccole, più è difficile per loro coprire i costi, soprattutto ora che i prezzi dei fertilizzanti, stabili per vent’anni, stanno avendo oscillazioni mai viste prima». Un solo esempio: il prezzo del fosfato doppio di ammonio è passato dai 280 dollari a tonnellata del gennaio 2007 ai 1200 del marzo 2008 (vedi GRAFICO ). Ancora una volta, la colpa di questa oscillazione va ricercata nelle speculazioni mondiali sulle commodity agricole. I produttori sono quindi spinti a ridurre l’uso di fertilizzanti per abbassare i costi: «Ma così calano anche le rese e siamo obbligati ad acquistare all’estero il mais per coprire la domanda nazionale (circa 11 milioni di tonnellate)». Risultato: ad oggi, la redditività della maiscoltura è legata al beneficio del premio unico aziendale previsto dalla Pac (Politica agricola comunitaria). Tolto quel premio – cosa assai probabile con la prossima riforma della Politica agricola – il settore potrebbe entrare in una crisi definitiva.

[euro/q]

FONTE: ISMEA

Imprese troppo piccole costi in salita

26,56 23,81

23,66

18,30 16,71

14,10

Viste le premesse, è inevitabile cercare nuove strade per aumentare redditi e produttività. Ma, analizzate a livello globale, le soluzioni lasciano molti dubbi. Per fare profitti, oggi non c’è idea migliore che destinare il proprio mais agli impianti di biogas. Una manna dal cielo per i produttori italiani: minimizza i problemi di coltivazione e aumenta la garanzia di reddito (vedi ARTICOLO ). Per incrementare la produzione nazionale, l’alternativa pare obbligata: o aumentare le superfici coltivate oppure ridurre i vincoli all’uso di varietà di mais geneticamente modificate. «L’Italia – spiega Frisio – ha per decenni utilizzato semi proveniente dagli Stati Uniti, dove l’ambiente climatico è molto simile a quello della pianura padana. Ma dal 1996 il mais statunitense è quasi esclusivamente Ogm e questo ne ha impedito l’uso [q/ha]

110

105,4

92,4

EVOLUZIONE DEL PREZZO DEI PRINCIPALI FERTILIZZANTI 1.400

[$ USA per tonnellata]

DAP: diammonium phosphate, f.o.b. US Gulf UREA: f.o.b. Black Sea POTASSIO: muriate of potash, f.o.b. Vancouver FOSFATO: Phosphate rock, 70% BPL, f.a.s. Casablanca

1.000

90

87,4

800

80 600 70

400 200

Spagna

Francia

Italia

| 48 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

2010

2009

2008

2007

2005

2006

2004

2002

2003

2001

1999

2000

1997

1998

1995

1996

1993

1994

1991

60

0

gen 12

set 11

mag 11

set 10

mag 10

gen 10

in Italia». Nel nostro Paese, tra l’altro, i vincoli sono più rigorosi che in altri Stati Ue: «L’uso di materiale genetico migliorato e la riduzione delle perdite in campo ha permesso alla Spagna di superarci in termini di rese. Se anche da noi si usassero tipi di mais più resistenti ai parassiti la nostra produzione potrebbe superare i 100 quintali per ettaro». Un tema delicato e controverso: se si rifiuta il ricorso agli Ogm, non rimane che pensare a uno stop all’uso di cereali per fini diversi da quello alimentare (leggi: biogas) sviluppando sistemi consortili che superino la frammentazione dell’offerta: «Sarebbero utilissimi per abbassare i costi e ridurre gli sprechi – conferma Frisio –. O si arriva a una migliore organizzazione sovra-aziendale oppure perderemo ulteriore terreno rispetto ai nostri concorrenti europei». 

1.200

100

gen ’11 lug ’11 dic ’11

gen 07

gen 08

gen 09

gen 10

gen 11

FONTE: ELABORAZIONI OECV-DEPAAA SU DATI WORLD BAR

Il futuro sarà Ogm?

set 09

gen ’10

mag 09

gen 09

set 08

gen ’09

mag 08

set 07

gen 08

gen ’08

mag 07

gen 07

gen ’07

gen 11

12,91

MAIS DA GRANELLA RESE A CONFRONTO

1992

FONTE: EUROSTAT

| economiasolidale |


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| economiasolidale |

Biogas, attenzione a chiamarla “energia pulita” di Emanuele Isonio

Cereali da trasformare in elettricità: i vantaggi per i produttori sono enormi. Frutto di incentivi molto generosi e mal calibrati. Ma sono in aumento le voci critiche contro una tecnologia che, se usata male, può aprire le porte a una frontiera della speculazione rodurre cibo per dargli fuoco: in periodi di crisi alimentare già l’idea dovrebbe far sgranare gli occhi. Eppure è quanto avviene, sempre più spesso, nei campi italiani. Dove la difficoltà di far quadrare i conti spinge gli agricoltori a sposare la via delle coltivazioni destinate a biogas. In alcune aree il fenomeno ha raggiunto livelli impressionanti: «A Bagnoli – denunciava l’estate scorsa l’associazione “Il Moraro” – abbiamo tre impianti di biogas e nella Bassa Padovana si coltiva ormai quasi esclusivamente per alimentarli. Ben 800 ettari di mais prodotti per essere di-

P

strutti. Uno schiaffo a chi muore di fame e un business in cui i profitti sono garantiti solo grazie ai contributi statali e comunitari».

Drogati dagli incentivi I dubbi di molti ambientalisti sono in effetti confermati dagli esperti. Gli impianti di biogas in dieci anni sono praticamente decuplicati. «E la maggior parte – spiega Giovanni Carrosio, docente di Sociologia del territorio all’Università di Padova – hanno una potenza inferiore a 999 KWe». Non è un caso: la potenza degli impianti è infatti legata a filo doppio al sistema di incentivi in vigore nel nostro Paese. «Gli impianti di potenza inferiore al megawatt hanno diritto a ricevere 28 centesimi per ogni chilowattora prodotto (circa tre volte quanto si paga per l’energia prodotta “normalmente”, ndr). Oltre entrerebbero nel sistema dei certificati verdi». Ma per ottenere gli incentivi non fa alcuna differenza il materiale utilizzato nelle centrali. «Un errore madornale – prosegue Carrosio – perché in questo modo

non si spinge un’impresa agricola a realizzare un impianto per smaltire gli scarti agricoli e le deiezioni animali prodotte nella propria azienda. Si incentiva invece una conversione delle coltivazioni. Dall’agricoltura alimentare a quella energetica». Un’analisi dei dati conferma questo sospetto: su 532 impianti a biogas agricolo, almeno 293 impianti utilizzano una quota di mais al loro interno. Di questi, il 12% impiega solo mais. «Per soddisfare una potenza di 999 chilowatt elettrici (l’unità di misura con cui si calcola la potenza elettrica di un impianto, ndr) – spiega Carrosio – occorrono 200 ettari di mais ciascuno. Moltiplicato per i 293 impianti, abbiamo 58 mila ettari di mais. In pratica oltre mezzo milione di tonnellate di mais coltivato in Italia è destinato a essere bruciato a scopi energetici». Una situazione ben diversa dal sistema virtuoso che pure il biogas, se usato bene, potrebbe garantire: «L’assetto attuale – concorda il preside della facoltà di Agraria della Statale di Milano, Dario Frisio – è drogato dagli incentivi. Se non ci fossero, degli attuali 500 impianti ne rimarrebbero | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 49 |


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FONTE: PICCININI (2011), GSE, CONSORZIO ITALIANO BIOGAS, REGIONE VENETO, REGIONE LOMBARDIA

| economiasolidale |

chiaramente Carlo Petrini, fondatore di Slow Food: «In primo luogo, si sottrae cibo a uomini e animali per produrre energia. Inoltre, la monocoltura di mais impoverisce i terreni, aumentando la necessità di concimi chimici costosi. Infine, chi produce energia può permettersi di pagare affitti dei terreni ben più alti, andando a danneggiare gli agricoltori che usano la terra per l’agricoltura alimentare e per l’allevamento».

2000-2011 IL GRANDE BOOM DEGLI IMPIANTI 350 300 250 200 150 100

Metodi alternativi

50 0

2000 > 1000 KWe

2001

2002

2003

2004

> 100 < 500 KWe

2005

2006

> 500 < 1000 KWe

2007

2008

2009

2010

2011

< 100 KWe

Per bloccare la speculazione gli incentivi vanno limitati al solo uso di scarti agricoli al massimo qualche decina. Di certo questo è un invito a nozze sia per i proprietari degli impianti sia per gli agricoltori. Questi ultimi possono vendere in blocco tutta la loro produzione di mais, trattenendosi il premio unico aziendale concesso dalla Pac e guadagnando con il contratto di remunerazione del biogas». In pratica, si trasformano in produttori di energia. Dal loro punto di vista, un modo per sopravvivere alla crisi del settore agricolo. Ma, a livello di sistema, gli aspetti preoccupanti sono più di uno. Lo spiega

Una soluzione tutto sommato facile da applicare per fortuna esiste. «Bisogna rimodulare gli incentivi» spiega Carrosio. «In Germania, ad esempio, più fai piccolo l’impianto, più sono alti i contributi. In questo modo si scoraggia la costruzione di strutture troppo grandi. Inoltre, i contributi vanno legati all’utilizzo di sottoprodotti agricoli, come reflui, deiezioni e scarti agricoli, e non alle materie prime. Infine, bisogna costringere a recuperare l’uso del calore prodotto dall’impianto che oggi finisce per buona parte in atmosfera». In caso contrario una tecnologia nata per essere pulita rischia di trasformarsi nell’ennesima Mecca per gli speculatori. Arrivando a un paradosso: a seconda degli impianti, per seminare, coltivare, raccogliere e trasformare il mais in biogas si può finire per consumare più energia di quella che si produce (vedi BOX ). 

QUANTA ENERGIA PER PRODURRE ENERGIA: BOLZANO PROVA A CALCOLARLA Dareste via dieci pannocchie per averne indietro otto? La risposta sembrerebbe lapalissiana. Ma attenzione prima di rispondere no. Perché se poi poteste vendere le otto pannocchie a tre volte il loro valore di mercato, la risposta molto probabilmente sarebbe diversa. Questo è più o meno quello che succede con gli impianti di biogas. Perché spesso ci si concentra sui chilowattora prodotti dall’impianto ma non si prende in considerazione quanta energia serve per arrivare a produrli. «In molti casi – denuncia Giovanni Carrosio – il bilancio energetico degli impianti non è positivo, ma questo è un aspetto che poche volte viene evidenziato». Quando si calcola la produzione di energia di un impianto infatti si dovrebbe sottrarre l’energia consumata per coltivare il mais, irrigare il campo, alimentare i trattori per la raccolta e per il trasporto del materiale. Solo così si può avere un’idea esatta

| 50 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

di quale sia l’apporto dell’impianto. Uno studio interessante, in tal senso, lo ha svolto la Provincia di Bolzano, focalizzando l’attenzione su tre dei 31 impianti presenti sul territorio: un piccolo impianto agricolo aziendale, uno di media taglia e un impianto per la trasformazione dei rifiuti solidi urbani. I calcoli sul rendimento elettrico delle tre centrali indicano, rispettivamente, una percentuale del 39, 42 e 37%. «In pratica, il bilancio energetico ci dice che per produrre un kWh se ne consuma circa 0,6» spiega Carrosio. E i tre impianti considerati nella ricerca sono da considerarsi “virtuosi” perché non utilizzano materie prime ma scarti. «Se facessimo un calcolo del bilancio energetico degli impianti da 999 kWe alimentati soprattutto da mais e altri cereali, i risultati sarebbero ben peggiori». A quel punto, giustificare i forti incentivi dei quali godono diventerebbe ancor più faticoso.


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| economiasolidale | muoversi con dolcezza |

La sostenibilità viaggia a pedali di Valentina Neri

Tra mille difficoltà, si moltiplicano le iniziative dei Comuni per stimolare l’uso della bicicletta in città. Le più interessanti sono state premiate con il Klimaenergy Award a differenza, a volte, si nota anche dalle piccole cose. Come l’home page del sito ufficiale di un ente pubblico. In quella del comune di Lodi, fra “Bandi, concorsi, aste e avvisi” e “Bilancio comunale”, spicca una voce: “Biciclette e piste ciclabili”. Non è che un piccolo segnale del ruolo centrale assunto dalla mobilità green nella città lombarda: non solo sul web. L’ha riconosciuto la giuria del Klimaenergy Award (vedi BOX ), che ha premiato l’impegno dell’amministrazione che prosegue da sette anni su diversi fronti. Il primo, indispensabile, è quello delle piste ciclabili: una rete di circa 39 km. Ma per pedalare e camminare in tranquillità sono state introdotte anche delle zone con limite a 30 km/h e da ottobre partirà un’inedita “zona 20” nel centro storico. Alcune resistenze, spiega l’assessore all’Ambiente e alla Mobilità Simone Uggetti, «sono state inevitabili, soprattutto quando per fare una pista ciclabile si è costretti a togliere spazio ai parcheggi. Per questo cerchiamo di fare un progetto il più possibile partecipato». Al di là degli spazi servono i servizi. Come la ciclostazione in cui si può parcheggiare al sicuro vicino alla stazione ferroviaria per poi recarsi a Milano per lavoro. O ancora la ciclofficina, che oltre al parcheggio custodito offre i servizi di bike

L

FIORILLO: «SERVE UNA MOBILITÀ PIÙ DEMOCRATICA» In queste pagine presentiamo le esperienze di Comuni e associazioni che si sono messi alla prova per una mobilità sostenibile. Esperienze che – si auspica – potranno servire da esempio, visto che il panorama generale nel nostro Paese è ben diverso. O addirittura «emergenziale». Parola di Alberto Fiorillo, responsabile Aree urbane di Legambiente, che specifica: «Tranne poche eccezioni, alle amministrazioni manca la capacità di mettere mano alla mobilità per renderla a misura del territorio e soprattutto meno pericolosa e stressante per i cittadini». Si tratta di un tema che negli ultimi mesi è salito agli onori delle cronache: basti pensare alla campagna #salvaiciclisti, o agli Stati generali della bicicletta di inizio ottobre a Reggio Emilia. O ancora ad Area C (vedi Valori di febbraio 2012), che ha rivoluzionato la mobilità milanese, ma dall’altro lato ha scatenato un vespaio di controversie e ricorsi al Tar. Ma nella stragrande maggioranza dei casi, spiega Fiorillo, a cambiare abitudini e a ridurre l’uso dell’auto sono stati direttamente i cittadini. C’è chi sostiene che la crisi abbia dato una mano, così come i forti aumenti della benzina. Ma, a suo parere, «la crisi non aiuta mai» e le soluzioni ecologiche come il car sharing e i mezzi pubblici paradossalmente si sono diffuse soprattutto tra le persone benestanti che di norma abitano in zone più servite come il centro città. Per chi vive nell’hinterland, invece, abbandonare l’auto spesso non è un’opzione praticabile: le alternative mancano e la crisi non fa che complicare le cose. Le amministrazioni non hanno risorse da investire nei trasporti oppure, prosegue Fiorillo, «continuano a destinare centinaia di milioni di euro al trasporto su gomma e intanto tagliano sulle ferrovie regionali o sui mezzi pubblici urbani». Ma gli esempi non finiscono qui: «Io non contesto l’alta velocità fra Roma e Milano – afferma – ma nei giorni feriali il treno che le collega trasporta circa 25 mila passeggeri al giorno, che sono molti meno di quelli che viaggiano sulla linea 8 di Roma o in una metropolitana di Milano. Ma i costi della Tav sono incommensurabilmente più elevati. La crisi ha offerto delle opportunità, ma nessuno se le è giocate: bisognerebbe abbandonare la logica della Torino-Lione e potenziare treni e metro leggere per i pendolari».

PREMIATI DALL’AMBIENTE Lodi e Caronno Pertusella sono fra i vincitori dei Klimaenergy Award, assegnati a settembre a Bolzano in occasione delle fiere Klimaenergy e Klimamobility, dedicate rispettivamente all’innovazione nel campo delle rinnovabili e alla mobilità sostenibile. Fra gli altri premiati figurano due comuni piemontesi, Buttigliera Alta e Bra, che hanno intrapreso percorsi mirati all’efficienza energetica. Ad assicurarsi un riconoscimento sono stati anche Lasa in provincia di Bolzano, che si è impegnato a ridurre le emissioni di CO2, e Padova, che ha puntato sul solare, costituendo gruppi d’acquisto per incentivare le installazioni di piccoli impianti domestici.

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40

40

CITTÀ GRANDI

34,86 35

CITTÀ MEDIE

CITTÀ PICCOLE

35

28,39 27,81

30

24,93 24,57 25

5

0

0

Cu n

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a on Cr em

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10

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15

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20

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20

La top ten delle città italiane per indice di ciclabilità (metri ciclabili per abitante calcolati tenendo conto di: lunghezza e tipologia piste ciclabili, estensione aree pedonali e zone30, interventi di traffic calming)

sharing, riparazioni e vendita di biciclette e ricambi. Nelle aule scolastiche non mancano le ore di educazione ambientale, con un’impronta specifica sulla mobilità. A coordinare le iniziative è l’ufficio per la Mobilità ciclistica promosso dal Comune, che lavora fianco a fianco con Ciclobby, un’associazione affiliata alla Fiab (la Federazione italiana amici della bicicletta). Proprio dalle scuole è partito Caronno Pertusella, un comune di poco più di 10 mila abitanti in provincia di Varese, che, per diffondere la cultura della mobilità sostenibile, ha scelto gli spostamenti quotidiani per eccellenza: quelli degli studenti. È questo il fulcro del progetto “Tempo a ruota libera”, finanziato dalla regione Lombardia nell’ambito del Piano territoriale degli orari, che sostiene le iniziative per il coordinamento e la pianificazione dei servizi urbani. Per circa un anno sono stati organizzati laboratori di educazione alla mobilità sostenibile e consapevole, mirati ai ragazzi delle scuole elementari e medie e ai loro genitori. Un percorso – sottolinea Viviana Biscaldi, assessore ai Servizi alla persona, alla famiglia e alla solidarietà sociale – che ha coinvolto gli insegnanti e due consulenti del Comune, ma anche Lura Ambiente, la società che gestisce le risorse idriche nel territorio, e soggetti del Terzo Settore come l’Auser (associazione di volontariato attiva a livello nazionale che lavora soprattutto con gli anziani).  | 52 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

16,47 12,97 9,46 8,76 6,00 4,34 2,70 1,80 1,68 0,69

21,11

Padova Venezia Verona Bologna Torino Firenze Trieste Milano Roma Palermo Reggio Emilia Forlì Piacenza Ravenna Modena Alessandria Brescia Bolzano Ferrara Lucca Lodi Cremona Mantova Sondrio Vercelli Pordenone Pavia Verbania Cuneo Rovigo

22,65 22,40 22,24

25

21,53 20,15 20,08 19,73 19,11 17,51 17,13 16,58 16,08 25,70 25,53 25,47 15,20 14,99 14,98 14,97 14,68 11,75 8,58

31,14 30

[metri equivalenti di piste ciclabili ogni 100 abitanti]

PEDALOPOLIS, BERGAMO SI RISCOPRE A DUE RUOTE Chi non ha mai fatto una pedalata su una Graziella? A Bergamo l’amarcord diventa una festa a luglio con le Grazielliadi, un evento a metà fra la competizione e la goliardia. Si tratta di una delle iniziative promosse da Pedalopolis, un’associazione di “temerari ciclisti quotidiani” che dedicano tempo ed energie alla promozione della bici, vista come mezzo privilegiato per riappropriarsi della città. Nel 2008 è stata aperta la Ciclostazione 42 alla stazione ferroviaria, che si occupa di riparazioni, servizio di custodia, vendita di accessori e pezzi di ricambio, recupero e restauro. Nel 2009 è arrivata anche la Ciclostazione dei Colli a Ponteranica. «I negozi – spiega Dennis Carrara, uno dei promotori – di norma preferiscono trattare bici di alto livello. Noi invece accogliamo anche i ragazzi, gli anziani, le persone che trovano reperti vecchissimi in cantina. A Bergamo non mancano i ciclisti della domenica né chi fornisce servizi per loro: quello che manca sono persone che considerino la bici come uno strumento quotidiano e davvero alternativo all’auto». L’obiettivo dell’associazione, insomma, è quello di sensibilizzare ad ampio spettro e fare pressione affinché si vada incontro alle esigenze di chi vuole lasciare a casa l’auto, anche in una città come Bergamo che ha una conformazione urbanistica “difficile” in cui grosse arterie a tre corsie si dirigono verso il centro. Ma le cose possono cambiare: per cominciare, ad esempio, basterebbe una rete di parcheggi più strutturata. «Noi – conclude Carrara – non premiamo tanto per le piste ciclabili, quanto per le strade ciclabili». www.pedalopolis.org

FONTE: ECOSISTEMA URBANO 2011 - XVIII RAPPORTO SULLA QUALITÀ AMBIENTALE DEI COMUNI CAPOLUOGO DI PROVINCIA. DATI RIFERITI AL 2010

LE PISTE CICLABILI NELLE CITTÀ ITALIANE 35,13

LE CITTÀ PIÙ AMICHE DELLA BICICLETTA

Re Em ggio ilia

FONTE: LEGAMBIENTE, L’A-BICI, SETTEMBRE 2010

| economiasolidale |


40-55_ecosol_santoro_V104 25/10/12 16.19 Pagina 53

| valorifiscali |

I dubbi sulla politica fiscale

L’Iva funesta a qualche anno il dibattito sulla politica fiscale è caratterizzato dall’idea che sia opportuno uno spostamento dalle imposte sui redditi a quelle sui consumi (“dalle persone alle cose”). Questo sembra effettivamente essere stato uno dei criteri guida delle politiche fiscali adottate sia dal governo Berlusconi sia dal governo Monti. Solitamente chi sostiene questo tipo di

D

di Alessandro Santoro

politica (il Fondo Monetario internazionale primo fra tutti) lo fa perché in un’Unione monetaria la variazione delle aliquote Iva rappresenta il miglior succedaneo possibile della svalutazione monetaria, se accompagnata da una riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Per la maggior parte dei beni, infatti, l’aliquota nazionale si applica alle importazioni, mentre, come noto, le esportazioni sono non imponibili. Se gli sgravi sul costo del lavoro si trasferiscono sui prezzi delle imprese nazionali, la manovra determina una riduzione dei prezzi relativi della produzione domestica e un conseguente guadagno di competitività. Secondo i dati Eurostat nella Ue l’aliquota Iva ordinaria è mediamente aumentata nel corso del triennio 20092011 di 2,5 punti percentuali. Tuttavia questo tipo di manovra presenta dei seri problemi. In primo luogo va considerato che la base imponibile dell’Iva è costituita per il 70% dai consumi delle famiglie italiane. Ovviamente la struttura dei consumi delle famiglie povere è diversa da quella delle famiglie ricche. Se si volesse ridurre la diseguaglianza, le aliquote dell’Iva dovrebbero basarsi sulle caratteristiche distributive dei consumi: beni e servizi consumati maggiormente dai più poveri dovrebbero essere tassati con aliquo-

convenienza di venditore e compratore a occultare la transazione. Secondo alcuni osservatori questo fenomeno si è già pesantemente manifestato negli ultimi mesi del 2011 e nei primi mesi del 2012, ed è esattamente questa la causa della riduzione del gettito Iva di proporzioni ben maggiori rispetto al calo dei consumi. Infine l’aumento dell’Iva corrisponde a un aumento dei prezzi e, quindi, ha un effetto depressivo, sebbene questo elemento vada combinato con la deflazione osservata in alcuni settori. Fino a pochi mesi fa era previsto un ulteriore inasprimento dell’aliquota Iva ordinaria, che doveva passare dal 21% al 23%, e di quella ridotta per cui era previsto un incremento dal 10 al 12%. A quanto sembra dalla Legge di Stabilità presentata dal governo, questi aumenti saranno (almeno parzialmente) evitati grazie ai tagli di spesa. Si tratta, in linea di principio, di una buona notizia. Gli aspetti negativi sul piano dell’equità e dell’evasione sono probabilmente superiori al potenziale competitivo della manovra. Tuttavia l’equità di un taglio di spesa non è per definizione maggiore rispetto a quella di un aumento di imposte: va verificato quali spese vengono tagliate e a danno di chi. Su questo aspetto torneremo prossimamente. 

Per ridurre le diseguaglianze, servirebbero aliquote più alte solo per i beni di lusso te inferiori rispetto ai “beni di lusso”, e viceversa. Ma tale differenziazione è fortemente limitata dal quadro istituzionale europeo, in cui gli Stati possono muoversi entro limiti angusti e non possono creare nuove aliquote. L’aumento dell’aliquota Iva ordinaria, realizzata recentemente in Italia con il passaggio dal 20 al 21% e in altri Paesi, finisce per colpire non solo i cosiddetti beni di lusso, ma, soprattutto, i consumi ordinari delle famiglie italiane. C’è poi un secondo problema. L’aumento dell’aliquota Iva può far aumentare l’evasione, perché incrementa la

| ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 53 |


54-65_intern_consV104 25/10/12 16.22 Pagina 54

OLIVIER DOULIERY / ABACA PRESS / MCT / PHOTOSHOT

internazionale

Lo sporco business delle cavie umane > 59 Libia: colonialismo e “guerra umanitaria” > 61 Brasile di terra, business e pallottole > 63 | 54 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |


54-65_intern_consV104 25/10/12 16.22 Pagina 55

| elezioni Usa |

Volontari e gadgets, un binomio inscindibile delle campagne presidenziali Usa

Paperini e Paperoni

Una pioggia di fondi sulla campagna elettorale per le presidenziali americane. Barack Obama potrebbe superare il miliardo di dollari. Per lui il sostegno dei singoli cittadini, delle università, dei sindacati e dei vip. Mitt Romney invece raccoglie fondi dai ricconi e dai big della finanza

Chi finanzia il nuovo presidente? di Mariangela Tessa

stata una partita giocata a colpi di milioni di dollari quella tra Barack Obama e lo sfidante repubblicano Mitt Romney nelle presidenziali americane. Quando Valori andrà in edicola i lettori sapranno chi, tra i due contendenti, si è aggiudicato l’ingresso alla Casa Bianca. Ad oggi (22 ottobre), la competizione resta ancora aperta con l’ultimo sondaggio Nbc-Wall Street Journal che indica Obama e Romney pari al 47% dei consensi. Pur nell’incertezza dell’esito finale, una cosa tuttavia appare sicura: mai, nella storia degli Stati Uniti, si erano visti così tanti soldi affluire nelle tasche di due candidati in corsa alla Casa Bianca. Se le previsioni dovessero rivelarsi corrette, Obama, finora vero vincitore nel fundraising, chiuderà la campagna superando il miliardo di dollari di donazioni, ben oltre le più rosee aspettative. Due anni fa i responsabili della sua campagna elettorale avevano affermato di puntare a 750 milioni di dollari, una cifra di fatto ampiamente superata già a fine agosto. Ma chi sono stati i grandi finanziatori della campagna elettorale più ricca nella storia degli Stati Uniti?

È

| ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 55 |


54-65_intern_consV104 25/10/12 16.22 Pagina 56

| internazionale |

Da un lato i Paperoni d’America e le banche… Uno sguardo veloce ai dati pubblicati dal centro studi indipendente Center for Responsive Politics sul sito OpenSecret conferma quella che, sin dalle prime battute di questa tornata elettorale, era ap-

Romney) che l’ex governatore del Massachusetts ha raccolto circa 144,7 milioni di dollari provenienti per lo più dalle tasche dei paperoni d’America. Una cifra che fa impallidire i 44,3 milioni accumulati da Priorities Usa, il cartello elettorale a sostegno di Obama.

parsa come una strada già segnata: se i micro-finanziamenti si sono rivelati, come nelle precedenti elezioni, la vera gallina d’oro di Obama, la fortuna di Romney è arrivata dai SuperPac. È, infatti, tramite Restore our future (questo il nome del principale SuperPac che sostiene

Mentre in Italia infuriano gli scandali e le polemiche sul finanziamento pubblico ai partiti, negli Stati Uniti solo una piccola fetta dei fondi per la campagna elettorale arriva dallo Stato. Gran parte dei milioni di dollari affluiti nelle tasche dei due candidati e dei rispettivi partiti arrivano infatti da donazioni private, dai Pac (Political action committee) e dai SuperPac. Vediamo come funziona. Per ogni cittadino americano viene fissato un tetto di contributo pari a 2.500 dollari per le primarie. Una volta che le Convention hanno designato i candidati alle elezioni si possono donare altri 2.500 dollari. Allo stesso tempo, ogni elettore può finanziare i comitati elettorali del partito per una cifra non superiore ai 30.800 dollari l’anno. Uno dei punti di forza delle due campagne elettorali di Obama (2008 e 2012) è stato quello di poter contare su un diffuso numero di micro finanziamenti (le donazioni partono da 3 dollari). Al contrario, l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney ha largamente beneficiato di una decisione presa dalla Corte Suprema americana nel 2010 che ha tolto i freni ai finanziamenti della campagna elettorale per il Congresso o la Casa Bianca, spianando la strada alla nascita dei SuperPac. Si tratta in pratica, di cartelli elettorali in cui, da due anni a questa parte, finiscono montagne di soldi per lo più provenienti dai magnati dell’industria e della finanza a stelle e strisce. Si differenziano dai tradizionali Pac, in quanto questi ultimi non possono accettare donazioni da aziende e hanno un limite di 5 mila dollari per quelle provenienti da individui singoli.

MARIANGELA TESSA

REGOLE PER I FINANZIAMENTI

ALASKA D $ 1,078,091 R $ 1,313,993 WASHINGTON D $ 21,240,190 R $ 14,419,396

OREGON D $ 7,581,217 R $ 6,523,078

I TOP DONORS DI OBAMA 1

Università della California

$ 706,931

2

Microsoft Corp

$ 544,445

3

Google Inc

$ 526,009

4

Università di Harvard

$ 433,860

5

Governo Usa

$ 389,100

NEVADA D $ 7,041,601 R $ 13,368,443

CALIFORNIA D $ 145,214,728 R $ 108,643,591

I TOP DONORS DI MITT ROMNEY 1

Goldman Sachs

$ 891,140

2

Bank of America

$ 668,139

3

JPMorgan Chase & Co

$ 663,219

4

Morgan Stanley

$ 649,847

5

Credit Suisse Group

$ 554,066

I finanziamenti riportati nella tabella non arrivano dagli enti in sé, ma rappresentano l’ammontare delle singole donazioni effettuate dai singoli dipendenti e dei familiari delle istituzioni. FONTE: DATI OPENSECRET.COM RIELABORATI DA FEDERAL ELECTION COMMISSION (AGGIORNATI ALL’1 OTTOBRE 2012)

| 56 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

HAWAII D $ 5,212,524 R $ 2,708,909

FINANZIATORI DEMOCRATICI E REPUBBLICANI DEGLI USA


54-65_intern_consV104 25/10/12 16.22 Pagina 57

| internazionale |

Charles, tra i maggiori sostenitori del movimento del Tea Party. E ancora Bob Perry, imprenditore edile texano e Jim Davis, proprietario del marchio di scarpe New Balance. La lista, decisamente lunga, mette insieme un nutrito club di miliardari che per diverse ragioni e in-

Tra i donatori più generosi del candidato mormone spicca il re dei Casinò, Sheldon Adelson che, insieme alla moglie Miriam, ha staccato un assegno da 40 milioni di dollari. Tra i top donors spiccano tra gli altri William Bill Koch, fratello degli ancora più ricchi David e MARIANGELA TESSA

MARIANGELA TESSA

WISCONSIN D $ 19,750,469 R $ 12,166,827 ILLINOIS D $ 44,447,402 R $ 46,957,885

NORTH DAKOTA D $ 906,517 R $ 2,718,269

UTAH D $ 2,418,667 R $ 12,908,181

INDIANA D $ 5,604,747 R $ 17,252,096

NEBRASKA D $ 2,468,138 R $ 6,325,818

MONTANA D $ 2,742,284 R $ 3,462,300

VIRGINIA D $ 43,761,481 R $ 73,840,457

MICHIGAN D $ 17,087,576 R $ 31,348,418

IOWA D $ 4,132,770 R $ 6,316,149

WYOMING D $ 1,025,011 R $ 4,273,674

WEST VIRGINIA D $ 1,905,335 R $ 4,390,285

TENNESSEE D $ 6,049,115 R $ 25,641,888

SOUTH DAKOTA D $ 787,095 R $ 3,343,671

IDAHO D $ 713,184 R $ 3,886,705

PENNSYLVANIA D $ 27,331,910 R $ 36,200,564

OHIO D $ 15,031,459 R $ 36,742,707 KENTUCKY D $ 6,713,056 R $ 9,241,305

NEW YORK D $ 107,365,803 R $ 75,151,208 VERMONT D $ 3,640,210 R $ 531,547

MAINE D $ 3,759,447 R $ 1,959,563 NEW HAMPSHIRE D $ 3,445,981 R $ 3,976,106 MASSACHUSETTS D $ 42,393,549 R $ 34,028,054

NEW JERSEY D $ 24,443,198 R $ 25,642,899 DELAWARE D $ 2,852,613 R $ 2,192,253 MARYLAND D $ 35,664,069 R $ 17,832,247

ARIZONA D $ 9,624,778 R $ 21,469,361

NEW MEXICO D $ 6,529,584 R $ 5,413,023

KANSAS D $ 2,673,861 R $ 8,003,70 OKLAHOMA D $ 3,195,242 R $ 13,861,977 TEXAS D $ 42,587,315 R $ 124,150,262 COLORADO D $ 13,852,927 R $ 20,548,315

ALABAMA D $ 2,856,214 R $ 11,812,774 MISSISSIPPI D $ 837,946 R $ 6,454,465 MISSOURI D $ 10,627,302 R $ 20,816,456 ARKANSAS D $ 2,999,817 R $ 7,195,280 LOUISIANA D $ 3,638,405 R $ 16,226,997

CONNECTICUT D $ 19,981,363 R $ 25,077,353 DISTRICT OF COLUMBIA D $ 110,900,498 R $ 85,438,720

NORTH CAROLINA D $ 10,797,352 R $ 18,448,533 SOUTH CAROLINA D $ 3,575,267 GEORGIA R $ 9,106,053 D $ 11,877,472 R $ 26,582,443 FLORIDA D $ 43,212,505 R $ 86,701,085

FONTE: DATI FEDERAL ELECTION COMMISSION AGGIORNATI ALL’1 OTTOBRE 2012

MINNESOTA D $ 13,322,535 R $ 14,210,102

teressi hanno deciso di scommettere sul candidato repubblicano. Al di fuori dei SuperPac, Romney ha goduto del supporto incondizionato dalla lobby di Wall Street. È sufficiente guardare la classifica dei cinque top donors per rendersi conto che, tra le protagoniste indiscusse della corsa del candidato repubblicano, è stata la comunità delle banche statunitensi. Da sempre tiepide nei confronti della riforma di Wall Street e nella speranza di ottenere leggi più permissive, Goldman Sachs & co. hanno staccato assegni a sei zeri pur di liberarsi del fautore della tanto odiata legge Dodd-Frank.

…dall’altro la gente comune e i divi di Hollywood Se Wall Street ha giocato la parte del leone nella corsa di Romney, come dicevamo, la fetta più grossa dei fondi di Obama è arrivata dalle piccole donazioni (in pratica quelle sotto i 200 dollari): 162 milioni dollari contro gli appena 46 milioni dello sfidante. Non meno significativo è stato il sostegno arrivato dall’industria hi-tech. Ripetendo un copione già visto nel 2008, Obama ha fatto incetta di donazioni arrivate dai dipendenti delle maggiori industrie hitech del paese (Microsoft e Google in testa). Altrettanto significativo è stato il sostegno della comunità accademica (Università della California e Harvard in testa). E, per finire, quello dei dipendenti del governo federale, chiaramente interessati a conservare il loro posto di lavoro. Meno ricco rispetto a quello di Romney, il principale SuperPac di Obama, Priorities Usa, sembra secondo le stime destinato a rivelarsi decisivo in queste ultime settimane. La discesa in campo di George Soros che, pochi giorni fa, ha versato un milione di dollari al cartello del Presidente in carica potrebbe, secondo la stampa americana, spingere altri ricchi sostenitori del partito democratico a effettuare donazioni sostanziose in queste ultime battute della campagna elettorale che sarà ricordata per essere stata finora la più ricca nella storia degli Stati Uniti.  | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 57 |


54-65_intern_consV104 25/10/12 16.22 Pagina 58

| internazionale |

Se un mormone sale alla Casa Bianca di Corrado Fontana

Mitt Romney in corsa per la presidenza americana è un mormone. Mentre la sua Chiesa predica neutralità politica, alcuni temono che la sua fede possa condizionarne la politica sociale l 70% degli americani partecipa a una funzione religiosa la domenica (in Europa e Italia il 18-20%) e il 91% ritiene che Dio abbia un ruolo importante nella propria vita (da noi il 50%). Oggi la religione si fa tema caldo negli Usa, con il repubblicano Mitt Romney, fedele

I

mormone, che ha sfidato Barack Obama alle presidenziali. Anche perché, ricorda Luigi Marco Bassani, professore di Storia delle dottrine politiche alla Statale di Milano specializzato sugli Usa, «Obama ha portato a una diminuzione dell’importanza della religione nella politica e

LA FINANZA RIVELATA Circa 40 miliardi di dollari: questo il valore complessivo della Chiesa di Gesù Cristo e dei Santi degli ultimi giorni secondo un articolo di Caroline Winter uscito per Bloomberg Businessweek. La giornalista la assimila a una multinazionale al cui vertice è la Società del presidente della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni, che fa capo a un solo individuo, oggi Thomas Spencer Monson, sedicesimo presidente della Chiesa, e controlla, tramite holdings, diverse attività. Ad esempio un parco divertimenti a tema polinesiano a Oahu, nelle Hawaii (23 milioni di dollari l’anno in biglietti d’ingresso e 36 milioni di dollari esentasse in donazioni). Proprio l’esenzione fiscale parrebbe essere – scrive la Winter – un affare assai lucroso per i Mormoni: niente tasse, infatti, sulle donazioni dei fedeli, che secondo un’inchiesta di Time sarebbero pari a 5 miliardi di dollari l’anno. E niente tasse anche sulle azioni: attraverso la società Bain Capital proprio Mitt Romney fece arrivare alla Chiesa milioni di azioni di Burger King e Domino’s Pizza, rivendute senza pagare nulla sui guadagni ottenuti. Ma la Chiesa possiede anche il fondo d’investimento Ensign Peak Advisors, la società di gestione immobiliare Utah Property Management Associates e la Deseret Management Corporation, holding che partecipa in giornali, stazioni radio e varie attività lucrative.

21.000 fedeli riempiono il Centro Conferenze di Salt Lake City durante la Conferenza Generale | 58 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

Tempio Mormone. Roma, Italia

di questo si avvantaggia ora il suo avversario». La Chiesa di Gesù Cristo e dei Santi degli ultimi giorni – nome ufficiale dei Mormoni – nasce ad opera di Joseph Smith nel 1830. Col successore Brigham Young, i Mormoni si trasferiscono nello Utah fondando Salt Lake City, base della loro diffusione (quasi 15 milioni nel mondo, oltre 6 milioni negli Usa, circa 25 mila in Italia). Alcuni precetti di questa fede destano qualche perplessità, se si pensa che potrebbero influenzare il possibile presidente degli Stati Uniti. Recentemente il New York Times ha lanciato un sospetto di razzismo: ricordando che il sacerdozio fu aperto ai membri di colore della Chiesa dei Mormoni solo nel 1978. Un fattore che si aggiunge agli atteggiamenti tenuti da alcune frange fondamentaliste, nonostante l’egualitarismo predicato dal Smith. L’etica familiare è al centro della società dei Mormoni: all’uomo meritevole onere e onore del sacerdozio, per la donna una certa immagine di angelo del focolare. E poi il rifiuto di alcol, caffeina, tabacco e droga; l’invito alla sobrietà contro il consumismo sfrenato; la riprovazione per la contrazione di debiti che non siano per la propria casa. Ma i precetti si sono adattati all’evolversi dei tempi. La poligamia, sostenuta per fini dichiarati di ripopolamento bianco delle terre americane dell’Ovest, ha subito una virata che evitò il conflitto con le autorità. E in politica? I Mormoni predicano assoluta neutralità. www.media-mormoni.it 


54-65_intern_consV104 25/10/12 16.22 Pagina 59

| internazionale | test farmaceutici|

Lo sporco business delle cavie umane di Andrea Barolini

India: il Paese dei test Storie come questa, nell’immenso Paese dell’Asia meridionale, sono sempre più frequenti. Il Washington Post ha raccontato ad esempio la vicenda dell’ottanten-

UN TAPPETO ROSSO INDIANO PER BIG PHARMA

EVOLUZIONE DEL MERCATO DEI TEST CLINICI ESTERNALIZZATI IN INDIA

In India prima del 2005 i test dovevano essere effettuati rispettando tre fasi. La prima prevedeva un controllo sulla tolleranza ai medicinali; la seconda sull’efficacia. La terza, la più onerosa in termini economici, era costituita da una comparazione tra l’efficacia del farmaco rispetto ad alcuni placebo su una popolazione compresa tra mille e tremila pazienti. Una riforma della legge ha consentito però alle multinazionali di passare direttamente alla fase tre, a patto che le prime due siano state approvate in un altro Paese. Una manna per le case farmaceutiche, dal momento che per trovare in Europa o negli Usa malati disposti a sottoporsi ai test occorre molto più tempo (e denaro: i pazienti devono essere rimborsati con migliaia di euro a testa all’anno). In India basta qualche settimana, e (neppure sempre) qualche decina di euro.

650

[in milioni di dollari]

468,0

575

360,0

500 425

125 50

2005

2006

161,2

94,5

200

123,5

275

2007

210,6

350

2008

2009

2010

2011

2012

| ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 59 |

FONTE: ZINNOV MANAGEMENT CONSULTING

«I

Nello specifico – ha rivelato di recente un’inchiesta del mensile francese Alternatives Economiques – la “cura” consisteva nella somministrazione di un nuovo broncodilatatore, l’Olodarerol, sviluppato dal secondo più importante laboratorio tedesco: Boehringer Ingelheim. Krishna è morto a gennaio, proprio poco dopo aver saputo che il medicinale che aveva assunto per un anno non era mai stato approvato in India.

275,0

l dottore ci disse che bastava firmare un documento per ricevere le cure di cui aveva bisogno mio padre, e che in questo modo sarebbe guarito completamente. Ma papà non sapeva leggere molto bene, è andato a scuola solo fino a 9 anni». A parlare è Pradeep Gehlot, ragazzo indiano figlio di Krishna, 61enne malato cronico di asma. Dal 2009 aveva accettato la proposta di uno pneumologo di un ospedale pubblico di seguire un “trattamento gratuito”. In realtà era stato inserito in uno delle decine di migliaia di test alle quali le multinazionali del farmaco sottopongono cittadini indiani. Era diventato una cavia umana. Con la complicità della legge locale.

ne Shrad Geete. Due mesi dopo aver perso la moglie, malata di Alzheimer, scoprì che era stata inserita in un trattamento di prova: «Il medico ci disse che i farmaci sarebbero stati concessi gratuitamente, e che si trattava di medicinali che sarebbero stati lanciati a breve da una compagnia straniera. Non spiegò che si trattava di un test. Se lo avessi saputo, pensate che avrei corso il rischio?». L’India è diventata la meta privilegiata dei colossi globali del farmaco, che preferiscono “delocalizzare” la morte, dando vita a una nuova forma di vero e proprio colonialismo, nata nel 2005, quando fu introdotta una riforma che semplificava fortemente la conduzione di trattamenti di prova nel Paese (vedi BOX ). Da allora e fino al 2010, solamente a Indore, città dove viveva Krishna Gehlot, sono stati realizzati 3.300 test clinici, per conto di 30 compagnie (tra le quali 22 mul-

608,4

L’industria farmaceutica delocalizza i test sui farmaci, per risparmiare costi e tempo. Sfruttando anche normative assurde, come quella che ha fatto nascere in India un fenomeno molto simile a una nuova forma di colonialismo


54-65_intern_consV104 25/10/12 16.22 Pagina 60

| internazionale |

tinazionali). Un rapporto delle autorità locali ha spiegato che la metà di tali trattamenti è stata effettuata senza un assenso formale da parte dei malati. Di questi, 81 persone – tra cui anche bambini e portatori di handicap – hanno subito gravi effetti collaterali; 33 sono morti. E nessuno, ad oggi, ha ricevuto un indennizzo. Una situazione che, allargata all’India intera, ha assunto i contorni di un massacro. Tanto da costringere, nell’agosto scorso, il ministro della Sanità di Nuova Delhi, Ghulam Nabi Azad, a sciorinarne le agghiaccianti statistiche: solo nei primi sei mesi di quest’anno sono 211 i decessi provocati dai test. Nel 2011 i casi sono stati 438; 668 l’anno precedente. Le vittime vengono gelidamente classificate con la sigla Sae: Serious Adverse Events (letteralmente, gravi eventi avversi). Come se a ucciderle fosse stato un terremoto o un’inondazione, e non una scelta drammaticamente lucida, che chiama in causa aziende, governo indiano e regolatori, locali e internazionali. Azad ha spiegato che sono state apportate modifiche alla legge: ora ogni test è registrato dal Consiglio indiano per la Ricerca Medica e alle case farmaceutiche è imposto l’obbligo di fornire cure ai malati e rimborsi alle famiglie dei deceduti.

Guadagni per le multinazionali Nel frattempo, però, la quota di cavie umane indiane, sottoposte attualmente a test, è pari a oltre 200 mila persone. Un mercato da 500 milioni di euro, in cresci-

FRANCIA, UNO STUDIO GIUDICA INUTILE IL 50% DEI MEDICINALI Un medicinale su due tra quelli distribuiti in Francia sarebbe inutile se non dannoso. A rivelarlo è un libro pubblicato da un medico specialista, Philippe Even (direttore dell’Istituto Necker), insieme a un parlamentare transalpino. E, hanno specificato i due, «non si tratta di un libro di opinioni, bensì di un testo informativo, frutto dell’analisi di migliaia e migliaia di pubblicazioni». Diventato un best seller in poche settimane, il libro indica un elenco di 4 mila farmaci giudicati inutili: in particolare nel mirino ci sono numerosi medicinali contro il colesterolo, fortemente diffusi in Francia (li assumono tra i 3 e i 5 milioni di persone) e capaci di generare un giro d’affari da 2 miliardi di euro all’anno. Per Even ciò è sufficiente per definire quella farmaceutica «la più lucrativa, la più cinica e la meno etica di tutte le industrie». Il medico sottolinea inoltre come la maggior parte dei farmaci inutili sia rimborsata dal servizio sanitario pubblico, il che porta alla conclusione che per risolvere il problema dei finanziamenti alla sanità, sarebbe sufficiente eliminare dal commercio i medicinali non necessari. A.Bar. ta del 30% ogni anno. E solo alle famiglie di 22 vittime sono arrivati risarcimenti dalle compagnie di Usa ed Europa (a cifre in ogni caso indecenti, comprese tra 2 e 20 mila dollari). Ma l’India non è l’unica meta del business delle cavie umane. Uno studio realizzato dal Centro olandese per la Ricerca sulle Multinazionali (Somo) ha rivelato che il 37% dei pazienti sottoposti a test clinici su nuovi farmaci (sottomessi all’approvazione delle autorità europee) risiede in Europa dell’Est, Russia, America Latina e Cina (oltre alla stessa India). Percentuale che, per le compagnie degli Stati Uniti, sale al 60%. Nel sottolineare come sia fondamentale stabilire regole ferree per i test e co-

me sia complesso il problema, il Somo ha ricordato i casi dell’Abilify e del Seroquel, sviluppati da Bristol-Myers Squibb e da AstraZeneca. Si tratta di anti-schizofrenici testati in Sudamerica, Asia e Africa tra il 2003 e il 2005, attraverso la somministrazione di alcune sostanze placebo a una parte dei malati. Pratica che, però, proprio per via dei gravi rischi psicologici che possono insorgere nei pazienti schizofrenici, è stata vietata in Europa. Così le multinazionali possono risparmiare tempo, denaro e agire nell’ombra. Senza “effetti collaterali”: nonostante il modo in cui vennero effettuati i test, l’Abilify e il Seroquel sono stati approvati e oggi sono regolarmente in commercio. 

ALLE COMPAGNIE MULTE PER 11 MILIARDI DI DOLLARI L’industria farmaceutica globale, nel suo complesso, ha ricevuto negli ultimi tre anni multe per illeciti di vario genere pari a 11 miliardi di dollari. Complessivamente, hanno spiegato recentemente due ricerche pubblicate sul New England Journal of Medicine, 26 compagnie – tra le quali figurano otto delle prime dieci a livello mondiale – si sono macchiate di comportamenti giudicati “criminali”. La sanzione più onerosa – tre miliardi di dollari – è stata comminata al colosso inglese GlaxoSmith-Kline nello scorso mese di luglio; Pfizer ha raggiunto i 2,3 miliardi, Novartis i 420 milioni, Abbott Laboratories gli 1,5 miliardi. Tra gli illeciti figura l’aver nascosto dati utili per garantire la sicurezza dei malati, o la promozione

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di farmaci al di là di ciò che è consentito dalle licenze. Abbott, ad esempio, ha sostenuto un farmaco, il Depakote, senza che esistessero adeguate prove della sua efficacia. Le cifre, però, non devono ingannare: le multe difficilmente saranno in grado di convincere la lobby farmaceutica a modificare le proprie “abitudini”. Per Gsk, ad esempio, le sanzioni non rappresentano che il 10,8% dei propri ricavi. Inoltre, ha spiegato al quotidiano britannico The Independent Kevin Outterson, dell’Università di Boston, «nessun dirigente è stato mai giudicato responsabile a livello individuale. Per i colossi del settore si tratta solo di rinunciare a una piccola quota dei loro guadagni». A.Bar.


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| internazionale | osservatorio medio oriente/Libia |

Dall’occupazione coloniale alla “guerra umanitaria” di Paola Baiocchi

L’eliminazione di Gheddafi e la disgregazione della Libia sono segni della volontà occidentale di chiudere definitivamente la stagione delle indipendenze dal colonialismo, declinate su un ideale panarabo di identità culturale non basata sulla religione entre divampavano i disordini in Algeria, Tunisia ed Egitto durante lo scorso anno, molti osservatori erano pronti a giurare che il “contagio” non sarebbe arrivato alla Libia: largo il consenso popolare a Gheddafi, ben redistribuiti i proventi del petrolio nella società, solido l’appoggio dell’esercito al colonnello, lui stesso riabilitato dalla comunità internazionale dopo gli anni dell’embargo perché considerato uno Stato canaglia. Eppure il 2011 non si era ancora concluso quando il 20 ottobre Muammar al-Gheddafi veniva ucciso nei pressi della sua città natale, Sirte, e le immagini del suo corpo denudato e seviziato facevano il giro del mondo, impietosamente pubblicate da tutti i media. Cosa ha reso possibile il precipitare così rapido della situazione e il ribaltamento dell’immagine mediatica di Gheddafi, passato in pochi mesi da alleato strategico dell’Italia nel respingimento dei clandestini, da partner commerciale di rilievo per la Francia, a “massacratore della sua gente”?

M

Finanziatore di Sarkozy Sono del dicembre 2007 le fotografie di Gheddafi a Parigi, ricevuto dal neoeletto

presidente Sarkozy. A 34 anni di distanza dal suo ultimo viaggio in Francia, al colonnello vengono riservati gli onori ufficiali e cinque giorni di firme di trattati commerciali, di incontri con gli intellettuali, una visita all’Unesco e anche una battuta di caccia. Eventi che hanno segnato ufficialmente la fine del periodo delle ostilità e l’inizio di reciproci profittevoli affari: per un totale stimato di dieci miliardi di euro, in quei giorni viene sottoscritto un accordo di cooperazione nel settore dell’energia nucleare civile, che aprirebbe la strada alla fornitura di uno o più reattori francesi da destinare alla desalinizzazione dell’acqua e la collaborazione nelle attività di prospezione e sfruttamento dei giacimenti di uranio.

In quei giorni Tripoli firma anche un memorandum di cooperazione, in base al quale si impegna «a negoziati esclusivi con la Francia per l’acquisto di equipaggiamento» militare, e manifesta interesse per 14 caccia Rafale, 35 elicotteri da combattimento di fabbricazione francese, equipaggiamento militare per altri 5,4 milioni di euro e 21 aerei di linea della Airbus. Dietro la sfavillante accoglienza di Sarkozy a Gheddafi il sito francese d’informazione Mediapart afferma, con documenti dei servizi segreti libici, che ci sono 50 milioni di euro che Tripoli ha fatto arrivare per finanziare la vittoriosa campagna elettorale di Sarkozy, su conti svizzeri e panamensi.

MAI USARE LA PAROLA GUERRA: L’INTERVENTO ITALIANO Di “assoluto rilievo” il contributo delle Forze armate italiane secondo le dichiarazioni rilasciate dal ministero della Difesa alla conclusione delle “operazioni in Libia” a guida Nato, chiamate prima Odissey Dawn, in seguito Unified Protector. Di assoluto rilievo anche l’impegno profuso nel comunicato del gennaio scorso dove non viene mai utilizzata la parola guerra o bombardamento, che diventano, infatti, delle più asettiche missioni di “difesa aerea”. Su oltre 10 mila missioni, che hanno sganciato sul territorio libico qualcosa come 40/50 mila bombe e messili, 1.182 sono state condotte dagli italiani, che hanno potuto appoggiarsi su sette basi aeree, messe anche a disposizione della coalizione. «La Difesa – riporta il comunicato – ha altresì contribuito alla “cooperazione umanitaria”, in stretto coordinamento con il ministero degli Esteri, mettendo a disposizione aerei cargo C-130J, che hanno effettuato il trasporto di materiale medico e l’evacuazione di “personale ferito”, portato in Italia per essere curato». Peccato che molti di quei C-130J siano partiti dall’aeroporto militare di Pisa, che sicuramente non caricava cooperazione umanitaria dalla vicina base statunitense di Camp Darby, il più importante deposito di armi e munizioni del Mediterraneo. Pa.Bai.

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| internazionale |

Niente processo internazionale Un “investimento” che però non è servito a fermare i caccia francesi che hanno dato inizio ai bombardamenti sulla Libia e nemmeno a disarmare la mano che gli ha sparato. Dopo l’uccisione a Bengasi dell’ambasciatore Usa, Chris Stevens, avvenuta lo scorso 11 settembre, si sono aggiunti nuovi particolari sugli ultimi momenti di vita di Gheddafi, che sarebbe stato ucciso «da un agente straniero» molto probabilmente francese (un giovane morto in un ospedale a Parigi lo scorso settembre), all’interno di un’operazione Nato in cui è stato localizzato il telefono satellitare del colonnello. Gheddafi avrebbe potuto fare molte rivelazioni scomode per banche e Stati, se fosse arrivato vivo a un processo: avrebbe parlato per esempio sulla vicenda dell’abbattimento del DC-9 Itavia a Ustica, dove sono morti 81 civili che si sono trovati al centro di un’operazione internazionale di guerra coperta, in cui l’obiettivo era Gheddafi.

E sicuramente avrebbe avuto molto da raccontare anche sulla morte di Enrico Mattei, abbattuto con il suo aereo di ritorno da un incontro in Sicilia con rappresentanti libici e del mondo arabo, dove era stato preparato il colpo di Stato che ha deposto re Idris. Avrebbe aggiunto anche molto sull’eliminazione di Aldo Moro, continuatore della visione di Mattei in materia di politica energetica nell’area mediterranea. Ma, per assicurare la sopravvivenza al padre della rivoluzione verde e alla Libia, non sono bastati nemmeno i 1.500 milioni di dollari versati all’amministrazione Usa come risarcimento globale per i danni causati dagli atti di terrorismo di cui i libici sono stati ritenuti responsabili. In particolare l’esplosione dell’aereo Pan Am 103 in volo sopra la cittadina scozzese di Lockerbie, in cui il 21 dicembre 1988 sono morte 270 persone, 189 delle quali statunitensi.

Il nuovo colonialismo La scomparsa di Gheddafi è un segno della volontà occidentale di chiudere de-

1911/2011: CENTO ANNI DI GUERRA ALLA LIBIA La partecipazione alla guerra di aggressione della Nato nei confronti della Libia è stata una sorta di macabra commemorazione del centenario della dichiarazione di guerra del governo Giolitti all’Impero ottomano del 29 settembre 1911, con la quale viene instaurata la dominazione italiana in Libia fino all’amministrazione delle Nazioni Unite nel 1943. La Libia raggiunge l’indipendenza nel 1951, ma è solo con la deposizione di re Idris – a seguito del colpo di Stato incruento del 1969, organizzato da giovani L’ORO LIBICO

Oleodotti Gasdotti Giacimenti

Impianti di liquefazione gas Terminal per l’esportazione

Raffinerie Scenari a bombardamenti della coalizione

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Giacimenti petroliferi dell’Eni

finitivamente la stagione delle indipendenze dal colonialismo, declinate in nome di un ideale panarabo di identità culturale non basata sulla religione. Da sostituire con teocrazie organizzate su base etnica, come è già avvenuto con Saddam Hussein e l’Iraq. In Libia ora, nella completa disattenzione degli organi di informazione italiani, si è avviato un periodo che Tierry Meyssan, il fondatore del Reseau Voltaire, definisce di “somalizzazione”: di sanguinose lotte tra città stato, in un territorio che vanta le riserve petrolifere migliori, più abbondanti e ancora poco sfruttate dell’Africa. Dove le compagnie petrolifere non hanno più intenzione di pagare il 93% di tasse sulle estrazioni, un’eccezione nell’area Ocse dove la percentuale massima delle royalties è il 60% che chiede il Kuwait. Come ha affermato il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, alla conclusione dell’operazione Protettore unificato: «We came, we saw, he died» (Siamo arrivati, abbiamo visto, lui è morto). 

LA BANDIERA militari nasseriani e condotto da Muammar al-Gheddafi – che la Libia comincia a spostare il suo sistema politico. Nel 1970 i beni di circa 35 mila italo-libici, che ancora vivevano nella ex colonia, vengono confiscati. Il Consiglio nazionale Gheddafi, pur non assumendo nessuna carica di transizione (Cnt) pubblica, si pone come “guida della ha adottato come bandiera rivoluzione”. Con la riforma costituzionale quella del deposto re Idris del del 2 marzo 1977, il Paese assume il nome regno di Libia (1951-1969) di “Jamahiriya araba libica socialista popolare” sostituendo la bandiera verde e viene istituito un sistema di governo della Jamahiriya. popolare diretto che culmina nel Congresso generale del popolo, che eleggeva un Segretariato, composto da sette membri in cui il Segretario era in pratica il capo dello Stato, e un Comitato generale, equivalente grosso modo a un Consiglio dei ministri. Tra gli anni ’80 e i ’90 la Libia appoggia gruppi terroristici come il palestinese Settembre nero e l’irlandese Ira. Nel 1986 Tripoli viene bombardata dai caccia Usa e una delle figlie di Gheddafi trova la morte. A seguito dell’attentato di Lockerbie del 1988 e al rifiuto libico di consegnare gli attentatori, nel 1992 l’Onu decide l’embargo economico, che dura fino al 2003 con l’accettazione della responsabilità civile verso le vittime. A partire dagli anni ’90 comincia il riavvicinamento tra la Libia e la comunità internazionale. Il 17 marzo 2011, dopo una serie di scontri alimentati da bande armate infiltrate da corpi speciali qatariani, inglesi, francesi e le solite “bufale belliche” – come le false fosse comuni nei pressi di Tripoli con “diecimila vittime del regime” – il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite vota la risoluzione 1973 che dà il via alle operazioni militari. Tra le diecimila e le ventimila le vittime civili.


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| internazionale | questione agraria |

Brasile di terra, business e pallottole di Corrado Fontana

l grande proprietario terriero è oggi rappresentato dall’idroagro-business sotto il comando dei gruppi alimentari e chimici, che controllano le terre (non necessariamente avendone la proprietà) con contratti di affitto e/o controllo del lavoro contadino attraverso l’anticipazione di sementi e additivi da usare secondo indirizzi tecnologici prestabiliti». Già da queste parole possiamo intuire qualcosa dell’attuale gestione delle campagne in Brasile. Una sorta di identikit del latifondismo locale dipinto dalla professoressa Teresa Isenburg, docente di Geografia economico-politica al dipartimento di Studi internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università Statale di Milano, la quale completa il quadro ricordando che «in Parlamento c’è un gruppo ruralista molto trasversale politicamente e socialmente assai influente».

«I

Aspettando la riforma agraria Un blocco di potere forte, che fa capo all’agro-business ed è lontano dal modello arcaico dei latifondisti, che si avvantaggia del fatto che la tanto attesa riforma agraria che doveva ridare la terra ai contadini

THE BRAZILIAN FAR WEST - SEBASTIAN LISTE-REPORTAGE BY GETTY IMAGES

Un Paese in crescita con enormi estensioni agricole e foreste. Stretto tra l’interesse dei poteri consolidati e politiche assistenziali per le popolazioni rurali. Tra violenze e progetti infrastrutturali importanti, ma di grande impatto sociale e ambientale

FAR WEST BRASILIANO «In assenza di una qualsiasi presenza dello Stato, le armi vengono utilizzate per conquistare ogni pezzo di terra». Con queste parole del frate domenicano Henri Burin des Roziers, membro della Commissione pastorale per la terra (Cpt) brasiliana, Sebastian Liste apre l’introduzione al suo progetto video/fotogiornalistico intitolato The Brazilian Far West. Un lavoro premiato quest’anno ai Grants for Editorial Photography di Getty Images e destinato a creare una sorta di mappa multimediale della disuguaglianza e della violenza in Brasile. Mentre il Paese sta diventando una superpotenza agricola internazionale, il 4% dei suoi proprietari terrieri controlla ancora circa l’80% della terra coltivabile, costringendo circa cinque milioni di contadini a restare sem terra, senza terra, in balia di conflitti sanguinosi e a subire forme nuove di schiavitù, «accettando condizioni di vita e di lavoro disumane». Liste ha dedicato gli ultimi tre anni a documentare le loro vite, ma anche quella dei milioni di diseredati in fuga dalle campagne, spinti a costruire ex novo o ad ampliare gli insediamenti delle aree periurbane, fatti di case di lamiera e fango. Ambienti per noi inimmaginabili come quelli fotografati nei cosiddetti quilombos, urbani o nascosti nella boscaglia (vedi GLOSSARIO ), oppure scene di quotidiana sopraffazione dove per la terra si lotta e si muore. avanza con lentezza. Un ritardo compensato solo in parte dalle politiche sociali assistenziali recentemente sostenute dal governo, di Luiz Ignacio Lula da Silva prima e di Dilma Rousseff ora. «Il progetto Bolsa familha – continua la professoressa – impegna i municipi a comprare il 30% degli

alimenti per scuole e uso sociale dall’agricoltura famigliare del municipio stesso. Oppure il progetto Luz para todos, che ha portato energia elettrica in aree rurali, con un miglioramento delle condizioni di vita di base». È già un progresso si potrebbe dire. Ma, secondo Serena Romagnoli e | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 63 |


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| internazionale |

GLOSSARIO QUILOMBO: un quilombo era una comunità formata da schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano prigionieri nel Brasile all’epoca della schiavitù, abolita ufficialmente nel 1888. Oggi esistono ancora numerosi insediamenti quilombos sparsi per tutto il Brasile e quasi mai collegati tra di loro. Piccoli villaggi nascosti nelle foreste o nelle montagne fatti di capanne in fango e qualche volta con la sala comunitaria o le case dei meno poveri in muratura.

Avanza lentamente la molto attesa riforma agraria. Nel frattempo il governo ha investito 150 milioni nell’agro-business Claudia Fanti di Amig@s Mst-Italia, gruppo italiano che sostiene il Movimento sem terra brasiliano, l’anno scorso il governo ha investito 14 milioni nell’agricoltura famigliare e ben 150 nell’agro-business. «La mancanza di una vera riforma agraria (180 mila famiglie sono accampa-

te, con poche prospettive di ottenere la terra in un periodo ragionevole) e di importanti servizi, anche lì dove ci sono degli insediamenti, spinge gli abitanti delle campagne verso le favelas, con minime possibilità d’integrazione. Nelle favelas domina il lavoro informale, oltre ad alcolismo, spaccio, prostituzione. E il 6% della popolazione brasiliana (oltre 11 milioni di persone su più di 190 milioni, ndr) vive in questo tipo di agglomerati, secondo il censimento 2010 del Brazilian Institute of Geography and Statistics».

Sviluppo vs ambiente Un quadro che spiega come possano essere cattive le condizioni di lavoro nelle campagne, «specie per la contaminazione da agro-tossici in alcune zone», prosegue la professoressa Isenburg. E senza contare che «la violenza contro i lavoratori agricoli è particolarmente forte nello Stato di Parà e in alcune aree di avanzamento della frontiera agricola (Mato Grosso, Rondonia), dove circolano molte armi e l’elimina-

TERRA DI SCONTRI Brasile simbolo di contraddizioni al punto che, mentre le ultime previsioni dicono che il suo Pil 2013 crescerà comunque di oltre 4 punti percentuali, l’indice di diseguaglianza interna (il Gini index) diminuisce costantemente dal 2001, ma resta tra i più elevati del mondo (vedi MAPPA ). E le rilevazioni sui conflitti che avvengono annualmente nelle campagne contenuti nel rapporto Conflitos no campo Brasil 2011, realizzato dalla Commissione pastorale della terra (Cpt), fanno semplicemente paura. Anche se la situazione è in miglioramento più o meno progressivo, almeno dal 2003 (da 73 persone assassinate si passa alle 29 del 2011), la Cpt registra, in controtendenza, un incremento del 15% sul numero totale dei conflitti nelle campagne tra 2010 e 2011 e una crescita enorme del numero di ettari di terra teatro di scontri e oggetto di controversie (poco meno di 4 milioni nel 2003, l’anno scorso quasi 14 milioni e mezzo di ettari). Fa impressione pensare poi che i 1.363 episodi ascritti al 2011 (1.035 conflitti per la terra; 260 legati al lavoro; 68 per l'acqua) abbiano coinvolto complessivamente oltre 600 mila persone (quasi 1 milione e 200 mila nel 2003) e circa 70 mila famiglie. Che il tema delle risorse agricole sia sentito lo dimostra anche un significativo aumento dei conflitti per questioni di terra (+ 24% sul 2010) e del numero di famiglie allontanate dalla propria dimora (2137 nel 2011, +75,7% sull’anno precedente). Drammi per intere comunità, quindi, e “conflitti” che possono limitarsi a semplici controversie di natura legale o diventare aggressioni violente e omicidi: il numero delle famiglie minacciate da uomini armati ha subito il significativo aumento del 50,4% (!), da 10.274 a 15.456, tra 2010 e 2011. Un quadro generale di cui la Cpt attribuisce la gran parte delle responsabilità allo strapotere di alcuni soggetti privati: fazendeiros, imprenditori, produttori di legnami. | 64 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

BRASILE: DISTRIBUZIONE DEI CONFLITTI SUL TERRITORIO Numero di famiglie coinvolte

Famiglie per Comune 1.270 540 20

FONTE: RAPPORTO CPT “CONFLITO NO CAMPO BRASIL 2010”,

zione fisica di lavoratori rurali non è rara». Ma a minacciare la vita nelle campagne intervengono anche nuovi fattori. L’Amazzonia è oggetto di un programma di grandi progetti idroelettrici come la diga di Belo Monte: progetti di infrastrutturazione che portano l’area verso un’integrazione spaziale nazionale e continentale, nonché al centro di controversie. Come sottolinea la professoressa Isenburg, nonostante «le trattative ambientali e con i gruppi nativi siano complesse, con conflitti anche fra il potere federale e il ministero pubblico, nonché fra interessi diversi di gruppi locali, le popolazioni indigene o contadine sono spesso favorevoli al cambiamento». Ma l’impatto sociale resta pesante su queste comunità. Il governo della presidente Rousseff è molto criticato, sia per l’ammontare degli indennizzi proposti alle famiglie che hanno perduto terre, case, lavoro, e sono state espulse dal loro territorio finendo spesso nelle favelas insieme ai “senza terra”; sia per non aver messo il veto su un contestatissimo nuovo Codice forestale. E il tasso di deforestazione dell’Amazzonia brasiliana, fortemente rallentato in questi anni, è tornato a salire tra 2011 e 2012 (+220%, -642 mila ettari di foresta) per l’Inpe (National Institute for Space Research). 


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| consumiditerritorio |

Marketing emozionale

Strandmon e il programma MK-Ikea ulla copertina del catalogo Ikea 2013 c’è una poltrona degli anni Cinquanta: la MK, definita il “top della qualità” nel catalogo del 1951, il primo pubblicato dall’allora nascente colosso dell’arredamento. Nello stesso anno in cui veniva pubblicato Il giovane Holden di Salinger e al cinema usciva Bellissima di Visconti, la MK era in vendita per “207 corone svedesi”.

S

di Paola Baiocchi

La poltrona riprodotta sulla copertina del catalogo non solo è d’epoca e porta i segni del tempo ma è proprio di Ingvar Kamprad, il fondatore di Ikea. Se ci ricordiamo che Kamprad ha la fama di essere un gran tirchio, che si dice viaggi solo in classe economica e aspetti la fine del mercato per spuntare i prezzi migliori della frutta, allora siamo già entrati a far parte della famiglia allargata di Ikea e conosciamo almeno una parte della “narrazione” che il fondatore stesso ha contribuito a creare pubblicando nel 1976 il Testamento di un commerciante di mobili. Ma naturalmente c’è molto di più: c’è la scelta fatta dagli strateghi della comunicazione dell’etichetta gialloblu di collocare nel passato Ikea per dimostrare che non è solo contemporaneità e mobili usa e getta, invendibili se si trasloca, ma oggetti che durano nel tempo. E la poltrona del suo fondatore è lì, a testimoniare che c’è una “storia”. Anzi a tutti gli effetti c’è una mitologia, che retrodata Ikea perfino rispetto alla Barbie, un oggetto “culto” della produzione di massa. La poltrona MK precede di un paio di anni anche un suo quasi omonimo: il programma MK Ultra, il più esteso progetto di sperimentazione sul condizionamento mentale, condotto dalla

dell’azienda è dissimulata in una nebulosa societaria che fa perdere le tracce tra la fiscalmente benevola Olanda, il Lussemburgo, le Antille olandesi e Curaçao. Anche rispetto alle donne Ikea ha un atteggiamento bivalente, cancellando le presenze femminili nei cataloghi destinati all’Arabia Saudita. Ikea si presenta come ambientalista e socialmente responsabile, ma gli autori del libro Ikea, che cosa si nasconde dietro il mito della casa che piace a tutti? ritengono che «il suo modello di sovraproduzione e sovraconsumo – acquistare sempre di più, qualcosa di sempre meno caro da conservare sempre meno a lungo – sia incoerente con un discorso ambientalista e sociale credibile». D’altronde, secondo il sociologo tedesco Theodor Adorno, il bisogno indotto crea l’illusione che quello che è stato offerto sia in realtà una scelta individuale, ma è uno strumento chiave attraverso il quale si perpetua il capitalismo. La poltrona MK viene ora proposta nella versione Strandmon, stabilendo un collegamento intimo con questo «papà» di «131mila collaboratori» – scrivono nel catalogo Ikea – che afferma «abbiamo scelto di stare dalla parte del maggior numero possibile di persone». Naturalmente dalla parte dove tengono il portafoglio. 

Ambientalista e popolare? Quello che dice di essere non corrisponde a ciò che fa Cia su cittadini ignari e poi applicato in luoghi di detenzione come Guantanamo e Abu Ghraib. Le vie delle coincidenze sono infinite, ma per quanto il signor Kamprad abbia avuto simpatie naziste, i suoi programmi sono sicuramente diversi da quelli della Cia, anche se sempre di condizionamento mentale si parla. Perché Ikea ha una buona reputazione, nonostante ci siano delle incongruenze tra quello che fa e quello che dice di essere. Nella sua narrazione è egualitaria e popolare. Ma la proprietà

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altrevoci VACCINO ESAVALENTE: ANCHE LA SLOVACCHIA LO RITIRA

CMCGRUPPO.COM

Dopo Spagna, Germania, Francia, Australia e Canada e altri 13 Stati nel mondo, anche la Slovacchia ha deciso di ritirare dal commercio un lotto del vaccino esavalente Infanrix Hexa, prodotto dalla GlaxoSmithKline. Alla base della decisione – classificata con il massimo livello di urgenza (che si assegna quando c’è una potenziale minaccia di vita o di gravi danni per la salute pubblica) – una contaminazione batterica riscontrata nell’ambiente in cui è stato prodotto il vaccino incriminato. C’è però chi teme che questa sia solo una giustificazione di facciata: troppi i lotti ritirati e troppi gli Stati che hanno deciso il ritiro. Sotto accusa è quindi il vaccino in sé. L’esavalente è usato anche nelle strutture pubbliche italiane per vaccinare i neonati a partire dal 2-3° mese di vita. Sei le malattie contro cui protegge: difterite, tetano, poliomielite, epatite B, pertosse ed emofilo tipo B. Un utilizzo massiccio e secondo alcuni immotivato (l’Europa ha il certificato “polio free” dal 2002 e l’ultimo caso di difterite risale a parecchi decenni fa), soprattutto su bambini molto piccoli e nonostante, per la legge italiana, le vaccinazioni obbligatorie sarebbero solo quattro. «I ministeri della Salute di molti Stati – spiega il farmacologo Roberto Gava su Informasalus.it – hanno avvisato la popolazione affinché i genitori dei bambini che hanno ricevuto questa vaccinazione negli ultimi mesi contattino le autorità sanitarie con urgenza. Il nostro ministero, invece, tace, anche se pare che i laboratori GlaxoSmithKline di Verona siano tra quelli che producono il vaccino per la Germania e i tedeschi hanno prontamente ritirato i vaccini sospettati di contaminazione». [EM.IS.]

DIGA DI XAYABURI IL LAOS NON FERMA IL PROGETTO UE, SMOG: DUE ANNI DI VITA IN MENO PER GLI EUROPEI

CRESCONO LE AREE PROTETTE NEL MONDO

Due anni in meno di aspettativa di vita a causa dell’inquinamento atmosferico. Il destino accomuna gli abitanti di un terzo delle città europee. L’impietosa previsione arriva dall’Agenzia europea dell’Ambiente. Spiega il suo direttore, Jacqueline McGlade, citando i dati contenuti in una pubblicazione (“Qualità dell’aria in Europa”) presentata a Bruxelles: «La colpa è delle concentrazioni eccessive di particolato in sospensione nell’aria (le polveri sottili, ndr ), una delle sostanze inquinanti più nocive per la salute umana in quanto penetra nelle parti sensibili dell’apparato respiratorio». Oltre al particolato, sono presenti nell’aria di molte regioni urbane quantità eccessive di biossido d’azoto e benzo(a)pirene, mentre sono stati fatti passi avanti significativi per il monossido di carbonio e il biossido di zolfo. «Ma in molti Paesi i livelli rimangono al di sopra dei limiti legali», conclude McGlade. «Questa relazione – aggiunge il commissario Ue all’Ambiente, Janez Potočnik – serve a ricordarci quanto sia importante la qualità dell’aria per la salute dei nostri cittadini. Ecco perché voglio che il 2013 sia l’Anno della qualità dell’aria». [EM.IS.]

Le aree protette di tutto il mondo – parchi, riserve naturali o altre tipologie di zone sottoposte a tutela – sono cresciute sia in numero sia in estensione. A rivelarlo è il Protected Planet Report 2012, redatto dall’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (Iucn), che spiega come oggi la superficie terrestre protetta sia pari al 12,7% della terraferma (era l’8,8% nel 1990), e all’1,6% delle aree marine. «Le aree protette contribuiscono significativamente alla conservazione delle biodiversità, e un aumento della loro estensione è vitale per il nostro pianeta. In termini di accesso al cibo e all’acqua pulita, di lotta al cambiamento climatico e di riduzione dell’impatto dei disastri naturali», ha spiegato Julia Marton-Lefèvre, direttrice generale dell’organismo internazionale. L’obiettivo è di raggiungere gli “Aichi Targets”, una serie di obiettivi indicati due anni fa dalla Convenzione sulla Diversità biologica, che vuole far crescere le aree protette al 17% della superficie terrestre e quelle marine al 10%. [A.BAR.]

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«Non abbiamo bisogno di altri dati»: il Laos va per la sua strada e sbatte la porta in faccia alle proteste dei Paesi vicini e della comunità internazionale (ultima in ordine di tempo, quella del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton). Oggetto del contendere la diga di Xayaburi, che diventerebbe la prima barriera sulla parte bassa del fiume Mekong, il più lungo dell’Indocina. 880 metri di lunghezza, 32 di altezza, l’opera interesserebbe un bacino di 272 mila chilometri quadrati. Tre i motivi di maggiore preoccupazione: le esondazioni che metterebbero a rischio la sussistenza dei 60 milioni di persone presenti nei villaggi dal nord della Thailandia fino al delta del fiume in Vietnam, che dipende per l’80% dalla pesca; l’impatto sulla quantità di pesci presenti nel fiume e le conseguenze che i sedimenti prodotti dalla diga avrebbero sull’assetto idrogeologico della zona. «Se il Laos realizzerà quel progetto attirerà su di sé le stesse critiche che hanno coinvolto la Cina con la Diga delle Tre Gole», spiega Witoon Permpongsacharoen, direttore del Mekong Energy and Ecology Network. Quella di Xayaburi sarebbe la prima di undici dighe che dovrebbero sorgere sul basso Mekong: se fossero realizzate tutte, entro il 2030 la riserva ittica del fiume – prevede un rapporto Wwf – subirebbe una flessione del 16%. Cifra che salirebbe al 40% se si considerassero tutte le 88 dighe del fiume. [EM.IS.]


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| LASTNEWS |

L’EUROCRISI FAVORISCE LA BOLLA IMMOBILIARE TEDESCA?

FIRENZE.REPUBBLICA.IT

La presenza di tassi di interesse favorevoli e il persistente timore di sviluppi negativi nella crisi dell’euro starebbero alimentando una possibile bolla immobiliare nel mercato tedesco. È l’ipotesi avanzata dal Financial Times lo scorso ottobre attraverso l’analisi degli ultimi dati di settore disponibili. Negli ultimi cinque anni, sostiene la società di consulenza F+B, il prezzo medio delle abitazioni berlinesi è salito del 23%. Secondo i dati della Jones Lang LaSalle, un’azienda concorrente, il fenomeno sarebbe ancora più evidente: +37,5% dal 2009 a oggi, +20% solo nell’ultimo anno. Il fenomeno della crescita dei prezzi resta però prevalentemente confinato ad alcune città in particolare (la capitale tedesca su tutte, ma anche Monaco e Amburgo). Due, si diceva, i fattori determinanti. Da un lato il basso livello dei tassi di interesse può favorire il ricorso all’indebitamento, ovvero la sottoscrizione dei mutui per la casa. In un contesto come quello attuale, inoltre, i modesti rendimenti dei titoli di Stato (il bund decennale paga appena l’1,5% circa) e la turbolenza del mercato azionario sembrano indurre i risparmiatori a investire nella proprietà immobiliare. Dall’altro lato, la persistente crisi del mercato europeo spingerebbe gli investitori a puntare su assets sicuri in un’economia giudicata particolarmente solida come quella tedesca. In questo quadro non stupisce l’ampia presenza di compratori cash provenienti dal resto del continente (italiani, spagnoli e del Nord Europa in particolare). [M.CAV.]

SPAGNA, MEDICI “OBIETTORI” CONTRO IL GOVERNO

PEOPLE MOVER A PISA UNA FUNE PER TRAINARE IL TRENO

INVESTIMENTI RESPONSABILI L’EUROPA CI CREDE SEMPRE DI PIÙ

Al rigore, a volte, non c’è davvero limite. Neanche quello che dovrebbe essere garantito dal buon senso. Qualche mese fa, il governo conservatore spagnolo di Mariano Rajoy ha emanato un decreto che prevedeva la soppressione delle cure sanitarie gratuite per i senza tetto (salvo per i minorenni e per i casi di urgenza). La decisione ha suscitato grandi proteste nel Paese, tanto che tre regioni si sono rifiutate di applicare la riforma. Recentemente, poi, circa 2 mila medici si sono dichiarati “obiettori di coscienza”, e hanno firmato un appello nel quale chiedono ai loro colleghi di non osservare la legge. Un’iniziativa che arriva dopo che pazienti e personale medico hanno manifestato nel corso dell’estate per contestare una scelta giudicata ingiusta. E anche inefficace economicamente: curare un malato è meno costoso che farlo aggravare e doverlo poi trattare d’urgenza. Il provvedimento del governo spagnolo, tuttavia, per ora resta in vigore: a farne le spese saranno circa 150 mila persone. [A.BAR.]

1.780 metri per un costo previsto di 78 milioni. Tanto dovrebbe costare il People mover, un trenino trainato da fune, senza conducente, per collegare l’aeroporto Galilei con la stazione ferroviaria di Pisa. Un progetto approvato dal Comune, da far eseguire in project financing da privati consorziati in un’associazione temporanea (capofila la Leitner di Vipiteno). Ma il progetto ha fatto storcere la bocca ai pisani perché l’aeroporto è già servito dal treno e dalla pensilina della ferrovia al check-in , non bisogna neanche attraversare la strada. Non solo, il Galilei è un aeroporto cittadino: si raggiunge con i bus e anche a piedi, se ci si è fermati a dormire all’ostello o in un’altra sistemazione in centro. Alle obiezioni dei cittadini, l’amministrazione risponde con argomentazioni risibili: si eliminerebbero due passaggi a livello, dopo 40 anni l’impianto diventerebbe della città. Il People mover sembra essere diventata una moda contagiosa: Bologna sta provando, contro il volere dei cittadini, a costruirne uno da 5 km circa (costo: 110 milioni di euro), quando il problema del collegamento potrebbe essere risolto con un tapis roulant da 800 metri e il completamento di una stazione ferroviaria. [PA.BAI.]

Dai 6,9 miliardi di euro del 2005 ai 25,3 del 2009 ai 48 del 2011. Le cifre dimostrano un vero e proprio boom degli investimenti sostenibili e responsabili (Sri) in Europa, i capitali investiti in fondi che contengono imprese selezionate in base alla propria attenzione all’ambiente e alle tematiche sociali. Sono questi i dati contenuti nell’ultimo rapporto di Eurosif (European Sustainable Investment Forum), una rete di organizzazioni europee che si occupano di sostenibilità negli investimenti, presentato all’inizio di ottobre. Ma in realtà la lettura dei dati non è così semplice, perché «da quest’anno l’Sri si è ampliato ed è diventato più complicato», spiega Davide Dal Maso, segretario del Forum per la finanza sostenibile. «Sono stati individuati sei diversi modi di fare Sri: sei criteri per definire un investimento responsabile. Su questo tema a livello europeo non c’è ancora una convergenza: c’è una visione scandinava, una anglosassone, una mediterranea etc. Per esempio determinate cifre farebbero pensare a un boom di investimenti responsabili in Italia, ma non è detto che siano “veri” Sri. Tutte le strategie monitorate, comunque, mostrano dinamismo e/o crescita». Il rapporto è scaricabile dal sito www.finanzasostenibile.it [V.N.] | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 | valori | 67 |


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| FUTURE | a cura di Francesco Carcano | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

BLOG DA MENTI IN FUGA SOTT’OCCHIO Ci sono alcuni blog in lingua nostrana cui vale sempre la pena dare un’occhiata. Quello di Matteo Bittanti rientra nella categoria, quali che siano i vostri interessi. Bittanti è Senior Adjunct Professor nei programmi di VisualSstudies e Visual & Critical Studies del California College of the Arts di San Francisco & Oakland, California. E lì insegna materie come game studies, advanced visual studies e global cities. Insomma, temi per addetti ai lavori interessati alle interazioni tra culture visive, arte, nuovi media e strumenti della nuova cultura popolare come videogiochi. Da Mattscape.com si accede così a un blog che riporta chicche degne di nota. Tra queste, alcune riprese da Wired, dove si firma Mr. Bit, una “estetica della statistica” a opera dei californiani Stamen, che mostrano con molta bellezza il diffondersi surreale di un post su Facebook. La cultura digitale diventa una forma d’arte, non conta qui il contenuto, ma la sua modalità e intensità di propagazione. Il disegno animato mostra il propagarsi tra gli utenti, di un contributo postato ad arte. Cose su cui riflettere.

ELA & DIMITRI IN TRANSMEDIA LOVE

ELETTRICHE, ZERO EMISSIONI E VELOCI

LA DEMOCRAZIA È UN CLICK?

Esperimento tecnologico e opera artistica, Ela & Dimitri è un progetto multimediale di due giovani artisti di Marsiglia, che vogliono raccontare la nascita di un amore nell’era del web. “Nell’era degli sms, Romeo sarebbe stato ancora ridicolo sotto il balcone di Giulietta?”. Non viene data risposta, affidando il quesito a quanti vorranno interagire per una narrazione dall’esito incerto. Co-protagonisti e scenario, oltre alla città fisica, luogo di incontri attesi e mancati, sono gli strumenti che la moderna tecnologia mette a disposizione. Il progetto prevede la possibilità di entrare, come fosse un gioco di ruolo, nei panni di Ela o di Dimitri e utilizzare i diversi media urbani. Messaggi e sms, post su Facebook ed e-mail comporranno la narrazione. Il testo verrà poi trasposto in un grande telo urbano da affiancare a una mostra multimediale che prevede, ancora una volta, una diretta interazione del pubblico/attore, che può intervenire manualmente sull’esposizione e modificare, quasi la vita fosse una bacheca di social network , il proprio stato d’animo o sentimento verso la narrazione collettiva. Altra particolarità: il progetto è stato finanziato raccogliendo tutti i fondi in Rete tramite microdonazioni.

Sono stazioni private, pensate da un costruttore per il suo modello elettrico di punta. Ma hanno una particolarità: saranno diffuse in tutta la California, gratuite perché alimentate da fotovoltaico, aperte anche ad altri utenti e marche di veicoli elettrici. E saranno superveloci. Tesla sceglie la strada dell’installazione in stile web per il suo modello elettrico più veloce, ma coglie nel segno perché l’operazione non appare solo di propaganda, ma eroga un servizio utile e in modalità innovativa. Trecento stazioni di servizio previste, solo sei al momento quelle già attive, un tempo medio di ricarica di una trentina di minuti per poi avere un’autonomia di circa trecento chilometri di percorrenza. Chiamate Superchanger, hanno avuto un impatto minimo sia sull’ambiente sia in termini di investimento perché il progetto doveva svilupparsi a partire dall’ottimizzazione di tecnologie esistenti. La scelta del fotovoltaico per alimentare le stazioni di servizio e della gratuità dello stesso sono al contempo un’efficace campagna promozionale del marchio e un servizio che la società statunitense dichiara di voler espandere in Europa.

Ognuno può lanciare il suo appello on line e, se sarà convincente, diventerà una campagna d’opinione internazionale. Change.org è un sito che promuove campagne pubbliche di mobilitazione su temi sociali. Il suo credo è basato sul principio dell’adesione. Se un’idea intercetta il sentimento di molti, se sono numerosi a sostenerla firmando una petizione on line, allora significa che probabilmente quell’idea ha una sua validità e merita di essere conosciuta. «Change.org è una piattaforma d’azione che permette a chiunque, non importa da dove, di lanciare delle campagne per cambiare il mondo», recita il sito dell’organizzazione che annovera tra i suoi risultati la riduzione dei costi bancari di Bank of America e la difesa e affermazione di diritti civili di persone omossessuali. Il tema e l’approccio meritano analisi profonde e un raffronto con l’operatività di gruppi storici come Amnesty international o Greenpeace, che hanno costruito parte del loro consenso anche sul modello di partecipazione condivisa alle campagne d’opinione, che vengono tuttavia attentamente vagliate prima della diffusione da legali operatori dei diritti umani, specialisti e dagli stessi attivisti. Qualcosa di strutturalmente diverso dall’idea di un web luogo di autorappresentazione degli utenti non mediato da alcuna struttura che Change.org sembra invece esprimere.

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| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

REOOSE, IL WEB RISCOPRE IL BARATTO

ELISABETTA ZAVOLI

Un sito dalla grafica accattivante che ricalca la struttura delle piattaforme di aste online. Ma c’è una differenza fondamentale: il denaro non compare mai. È Reoose, un portale che mette le potenzialità del web a disposizione della più antica delle forme commerciali: il baratto. L’idea nasce quando Luca e Irina acquistano un materasso sbagliato e, dopo inutili giri di telefonate, sono costretti a disfarsene. A partire da questo piccolo danno economico e ambientale progettano una vetrina virtuale in cui chiunque può esporre oggetti che non usa più. A ogni prodotto, a seconda della sua categoria, viene assegnato un certo “peso” in crediti: quando lo si cede a un altro utente dunque si guadagnano punti da usare per ottenere un altro oggetto. Oppure da donare a una Onlus, che ad esempio, racconta Luca, può essere «una casafamiglia che procura su Reoose un passeggino da donare a genitori in difficoltà». Il passaparola, la partnership con Banca Etica, un blog dedicato all’ambiente, ma soprattutto l’entusiasmo degli utenti: e, senza spendere un euro in pubblicità, nell’arco di poco più di un anno si è arrivati a 20 mila iscritti. Con il progetto – spiega Luca – di allargare il team e sbarcare all’estero. www.reoose.com

BACI DI TRAMA, LA MODA È “NATURALE”

WEB E AMBIENTE PER L’INSERIMENTO SOCIALE

LA VIA D’USCITA ALLA CRISI? È “GREEN”

Dopo alcuni anni a lavorare come modellista e stilista per grandi aziende che delocalizzavano la produzione in Cina e India e trattavano anche pelli e pellicce, Susy Bonollo ha deciso di cambiare strada, assecondando la propria sensibilità ambientale. Da questa scelta, nel maggio del 2011, nasce “Baci di trama”, una linea di abbigliamento per donna («ma presto – anticipa – arriveranno anche i capi maschili») in materiali esclusivamente biologici: canapa, cotone bio, fibra di bambù, lana organica e nuove fibre ricavate dal mais e dall’ortica. Ogni modello è disegnato da lei e realizzato artigianalmente, al massimo in 50-60 capi, da piccoli produttori italiani che riescono a fatica a reggere alla concorrenza dei colossi industriali. Anche Susy Bonollo lo scorso settembre era a Milano, a So critical so fashion, ed è in contatto con i Gruppi di acquisto solidale che spesso organizzano piccole fiere del tessile etico. E auspica che in Italia si riesca a «coinvolgere sempre di più anche i non addetti ai lavori, per far comprendere il valore del biologico al pubblico più vasto possibile». www.baciditrama.it

La recente normativa dell’Unione europea, recepita anche in Italia, impone di smaltire in modo corretto i Raee. La sigla sta per “rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche”: computer, elettrodomestici, cellulari e così via. In Emilia Romagna un ampio gruppo di soggetti pubblici e privati ha deciso di cogliere quest’opportunità ambientale e darle anche un valore sociale, affidando questo lavoro ai detenuti. Dopo una fase sperimentale finanziata dalla Regione con il Fondo sociale europeo, la partenza ufficiale è stata circa tre anni fa: attualmente undici ragazzi sono impiegati in tre laboratori gestiti da altrettante cooperative sociali a Forlì, Bologna e Ferrara. Ma l’iniziativa ha avuto anche un’inedita “svolta digitale”: a gestire il sito ufficiale, infatti, sono un ragazzo e una ragazza che stanno finendo di scontare la propria pena ai domiciliari. «Per noi la cosa più importante, insieme al valore ambientale, è responsabilizzarli il più possibile», spiega Barbara Bovelacci di Techne Forlì-Cesena, l’ente di formazione che segue i detenuti insieme a Cefal Bologna. «Cerchiamo di fornire loro competenze digitali, ma anche di comunicazione: in futuro dovranno relazionarsi con i giornalisti e fare ricerche su temi ambientali». www.raeeincarcere.org

Ormai giunto alla sua sedicesima edizione, Ecomondo si attesta tra gli appuntamenti fissi nel panorama italiano della green economy . A Rimini Fiera, dal 7 al 10 novembre, ci sarà spazio per più di 150 eventi, collegati da un fil rouge di stretta attualità: qual è la via d’uscita alla crisi? Ecomondo propone una risposta: la green economy dev’essere al centro delle scelte di enti pubblici, imprese e cittadini, come volano per uno sviluppo sostenibile che garantisca nuove opportunità lavorative, soprattutto per i giovani. Sarà questo lo sfondo dei numerosi convegni, dedicati di volta in volta alla certificazione dell’impatto ambientale dei prodotti, agli strumenti finanziari e ai fondi europei da cui gli enti locali possono attingere per investire nell’efficienza energetica, o ancora alle tecnologie per la tutela dell’ambiente nei Paesi in via di sviluppo. Ma si parlerà anche di Patto dei sindaci, compostaggio, raccolta differenziata. Saranno ospitati dalla fiera, inoltre, gli Stati generali della Green Economy promossi dal Ministero dell’Ambiente e coordinati dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile. www.ecomondo.com

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| ECONOMIAEFINANZA | a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

LA FINANZA RICHIEDE INFORMAZIONI E BUON SENSO Ugo Biggeri e Giulio Tagliavini Manuale di finanza popolare Eif e.Book, 2012

La prima cosa che rende questo libro un po’ speciale è che è gratuito perché distribuito con licenza Creative Commons (http://t.co/VSNV0i1T). Gli autori partono da una considerazione semplice ma fondamentale: poter disporre di qualche competenza finanziaria è importante per la tranquillità e il benessere quotidiano della propria famiglia. In un mercato finanziario complesso come quello di oggi e in un momento di contrazione del reddito, il risparmiatore deve fare due cose: informarsi in maniera corretta per farsi le domande giuste e usare il buon senso nelle scelte finanziarie, come dovrebbe fare il buon padre di famiglia. Gli strumenti formativi e informativi, caratterizzati da un taglio popolare, sono ancora insufficienti e questo incide sulla consapevolezza dell’investitore comune che nelle sue scelte si affida necessariamente senza conoscere i rischi a cui va incontro. A livello collettivo le conseguenze sono ancora più gravi, perché se il livello di educazione finanziaria non è curato ne deriva un livello di tranquillità generale più basso, sono necessari maggiori interventi pubblici a salvaguardia del welfare , i percorsi di formazione e di sviluppo personale si fanno più difficili e l’esposizione delle famiglie alle vicende negative delle situazioni di crisi è più grave.

IL POTERE DELLE AGENZIE DI RATING

LA TERRA È DI TUTTI, SALVIAMOLA

IL SAPER FARE ITALIANO NELLA CRISI

Il loro giudizio pesa sulle economie degli Stati e sulle finanze dei risparmiatori, può gettare nel panico mercati, banche e nazioni. La responsabilità che hanno Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, le tre agenzie di rating, nel massiccio spostamento di capitali è dunque enorme. Finiscono sulle prime pagine dei giornali perché il loro potere, alimentato da un mercato miliardario, è ancora grande, nonostante gli errori eclatanti fatti in passato. Come non ricordare le valutazioni su Parmalat e Cirio, o quelle sulla Lehman Brothers. Non si può ignorare il conflitto di interessi che caratterizza le agenzie di rating in quanto una parte del loro capitale è detenuto da fondi che sono presenti in molte società sparse per il mondo che poi vengono giudicate dalle agenzie stesse. Errori di cui non rispondono in termini di responsabilità perché si tratta di opinioni e non di pareri. Le agenzie di rating vanno dunque riformate partendo da alcuni principi come trasparenza, indipendenza e responsabilità. O ancor meglio imparare a farne a meno.

Stagionalità degli alimenti perduta e produzione agricola massificata, industrializzata, portata all’estremo e senza più alcun legame con l’ambiente, ortaggi che percorrono migliaia di chilometri prima di arrivare sulle nostre tavole, sementi ibride e geneticamente modificate diffuse a danno delle varietà locali. Senza contare lavoro nero, land grabbing e rischio Ogm, terreni esausti e falde acquifere sempre più contaminate da concimi chimici e pesticidi, la scomparsa delle api e gli allevamenti trasformati in fabbriche che non garantiscono comunque dai rischi sanitari (come influenza aviaria e “mucca pazza” insegnano). Il libro mette a nudo le crepe sempre più evidenti del modello di agricoltura convenzionale, ormai insostenibile al punto che, dagli anni ’50 ad oggi, ha visto crescere il costo dei fattori produttivi dal 50 all’80% del fatturato. Ma Davide Ciccarese, agronomo da anni impegnato nello sviluppo dell’agricoltura periurbana, nella realizzazione di fattorie didattiche e orti urbani, suggerisce anche un modello alternativo fondato su nuove parole dal sapore antico: prossimità, stagionalità, sovranità e sicurezza alimentari.

È stato grazie ai distretti industriali che l’Italia per molti anni ha costruito la sua competitività sui mercati internazionali, coniugando culture locali e vantaggio competitivo in quei settori manifatturieri che molti economisti consideravano ormai destinati al declino. Il patrimonio di saperi artigianali, quel famoso “saper fare”, sedimentato nelle regioni italiane, è stato traghettato nell’economia globale attenta a cogliere il valore delle specializzazioni eccellenti. La domanda però non può essere elusa: che probabilità ha questo modello di confermare la sua validità in un contesto sempre più globalizzato e feroce come quello della crisi mondiale? Questo libro affida la risposta alla viva voce dei protagonisti, portando i lettori tra i distretti più famosi e dinamici. Un viaggio attraverso forme di aggregazione e di business che non hanno eguali nel mondo e rappresentano la spina dorsale del made in Italy, l’ultima carta vincente da giocarsi sui mercati esteri.

Paolo Gila, Mario Miscali I signori del rating Bollati Boringhieri, 2012

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Davide Ciccarese Il libro nero dell’agricoltura Ponte alle Grazie, 2012

Aa. Vv. Distretti Baldini & Castoldi, 2012


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| NARRATIVA | a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

DIETRO I LICENZIAMENTI CI SONO LE PERSONE Marina Morpurgo Risorse disumane Astoria, 2012

Tre donne vengono licenziate, all’improvviso. Prima della rabbia arriva la vergogna, perché se si è stati licenziati forse un motivo ci sarà. Poi arriva anche l’ansia: trovare un nuovo lavoro è difficile, c’è la famiglia e il mutuo da pagare. C’è anche la difficoltà di adattarsi ai nuovi ritmi di vita, dettati dal tempo liberato. Tutti quando lavorano sperano sempre di avere più tempo, ma quando il tempo a disposizione è troppo diventa un inferno. Trattandosi di tre lavoratrici intellettuali, non si limitano a voler capire cosa è successo e perché, ma decidono che importante è far capire, a chi questo licenziamento ha messo in atto, che licenziare forse non è la soluzione più brillante per far andar meglio le cose. Insomma, il responsabile va in qualche modo rieducato. Uno sguardo ironico e appassionato su un mondo travolto dalla crisi economica e dalle sue conseguenze. Un romanzo per resistere ai manager nell’era della crisi economica globale e riderci sopra.

LEGGIAMO PER REINCANTARE IL MONDO

I CAMORRISTI CHE GUARDANO IL “GRANDE FRATELLO”

L’AMORE AI TEMPI DEL NAZISMO

The New Yorker l’ha definito “una lettera d’amore alla letteratura”. Per raccontare la felicità la giovane autrice di origine iraniana si fa accompagnare da Vladimir Nabokov, l’eroe letterario che le ha cambiato la vita, attraverso quindici capitoli corrispondenti ad altrettante idee di felicità: quella legata all’esperienza, al tempo, alla memoria, alla sensualità, all’amore e al linguaggio. Una storia della felicità, che parte dal piacere della lettura e dal confronto serrato con quei libri che ci cambiano la vita e, soprattutto, con chi li ha scritti. Perché l’ispirazione del romanziere è una magica estasi che gli permette di percepire passato, presente e futuro in un solo istante. E il lettore può toccare con mano questo miracolo che offre la gioia fanciullesca di meravigliarci delle piccole cose.

Lo Zio è un boss della camorra con una passione patologica per il “Grande Fratello”. Non si perde una puntata del reality neanche quando è costretto a vivere in latitanza, braccato dall’agente di polizia Woody Alien, così soprannominato per la bruttezza intellettualoide, che potrebbe incastrarlo grazie a un misterioso informatore. Allora i guaglioni dello Zio arruolano un “bravo ragazzo” per mandargli un messaggio dalla casa del GF: il pusher Anthony, ventenne incensurato, ma in compenso lampadato, con le sopracciglia sagomate e depilato. Dopo un estenuante addestramento, Anthony riesce a superare il provino, entra nel cast e lancia un messaggio al boss. Stefano Piedimonte ha trovato un modo speciale di raccontare una realtà dura come quella napoletana: restituisce operai e manager del crimine ai loro gesti, ai loro tic, al loro linguaggio, alla loro infernale quotidianità, e proprio per questo li colpisce nel vivo.

Ai tempi del nazismo c’era l’amore. C’era anche a Vienna durante l’Anschluss (annessione) del 1938. La bella e giovane Trudi Miller, apprezzata modista specializzata nella creazione di cappelli in un atelier per le donne più eleganti della città, si innamora di Walter, uomo d’affari affascinante. Il loro amore però dovrà fare i conti con l’antisemitismo e la persecuzione dei nazisti perché entrambi sono ebrei e quando le truppe tedesche entrano in Austria saranno costretti a fuggire. Trudi lotta con tenacia per difendere il suo amore e i suoi genitori, sapendo che ogni momento potrebbe essere fatale per il loro futuro. Un’incredibile storia di vita vissuta che da Vienna a Praga, dall’Est Europa fino alla Londra dei bombardamenti, racconta dei disperati tentativi compiuti da questa giovane donna per garantire un rifugio sicuro a sé e a Walter, per fuggire dagli orrori che hanno inghiottito l’Europa.

Lila Azam Zanganeh Un incantevole sogno di felicità Nabokov, le farfalle e la gioia di vivere L’ancora del Mediterraneo, 2012

Stefano Piedimonte Nel nome dello Zio Guanda, 2012

Trudi Kanter Ragazze, cappelli e Hitler. Una storia d’amore edizioni e/o, 2012

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I nuovi laburisti inglesi

“Ed il Rosso” e la fine del Liblairismo o ha ripetuto per l’ennesima volta anche pochi giorni fa alla convention annuale di Manchester : l’appellativo di “Ed il Rosso” non gli piace. Il padre, accademico marxista nato in Belgio da genitori ebrei di origine polacca, ne sarebbe invece stato orgoglioso. E anche la madre probabilmente, anche se, come ha ricordato il quarantatreenne candidato nuovo primo ministro

L

dal cuore della City Luca Martino

inglese, è troppo buona per fargliene una critica. D’altra parte, molte delle posizioni del “nuovo” New Labour su temi importanti come riforma delle pensioni, fisco o immigrazione non sono poi così diverse da quelle del tanto rinnegato Tony Blair. Tuttavia Ed Milliband, rilanciando a due anni dall’elezione a segretario l’idea di una “One Nation” fondata su più marcati principi solidaristici di equi tà e giustizia, ha impresso una svolta radicale al suo partito, con l’obiettivo di rimuovere tra gli elettori il ricordo di quel “Liblairismo” giudicato troppo debole con la City. Riformare il welfare, sostenere la crescita, mantenere la finanza pubblica sotto controllo non possono far dimenticare «il gap inaccettabile tra ricchi e poveri», ha sostenuto Milliband davanti a una platea entusiasta: qualsiasi governo dovrebbe chiedere «a chi ha di più di prendersi più e più grandi responsabilità e alle banche di servire il Paese e non di servirsene per i loro interessi». Il messaggio è arrivato a Londra come uno tsunami: o entro le prossime elezioni la City approverà autonomamente riforme sostanziali e si adeguerà alle raccomandazioni della commissione Vickers sullo scorporo delle attività di casinò banking – con tutto ciò che

rio, perdendo forse quei punti di consenso decisivi nella sua rincorsa al voto in libera uscita dei Liberal Democratici. I rischi per Milliband non sono pochi, tra tutti quello di avvantaggiare concorrenti europei in un settore strategico per il Regno Unito, con possibili ricadute negative su molti altri settori economici. Inoltre, dal punto di vista delle relazioni con i partner d’Oltremanica, pesano i timori per l’esito, tutt’altro che scontato, delle elezioni in Italia e Germania. Ma l’aspirazione di Milliband è ambiziosa: riportare al centro dell’azione di governo alcuni dei valori fondanti della politica e della società britannica fin dai tempi dell’epopea vittoriana. Centociquanta anni fa fu Benjamin Disraeli, un conservatore tutto d’un pezzo, a promuovere per primo l’idea della “One Nation” sulla quale punta oggi “Ed il Rosso”: in un suo celebre discorso a difesa del Cartismo (il primo movimento politico di massa del mondo al quale il Regno Unito deve, tra l’altro, l’adozione del suffragio universale) Disraeli intimò, a chi nel suo partito appariva quasi esclusivamente alla ricerca spasmodica e confusa del benessere materiale, che «il potere ha uno e un solo dovere, quello di assicurare il benessere sociale di tutta la comunità». 

Il segretario del New Labour promette un cambio di rotta rispetto agli anni di Blair questo comporta – o lo farà, per decreto, il suo prossimo governo. E in molti, all’ombra di Westminster, guardando la soddisfazione dell’ex sindaco Ken Livingstone, lui sì fiero un tempo del soprannome di “Ken il Rosso”, hanno subito riattivato i canali lobbistici con il governo conservatore tanto che pochi giorni dopo, nel chiudere la sua convention dal palco della vicina Birmingham, l’attuale primo ministro Cameron non ha speso neanche una parola sul ruolo delle banche e sulle tante riforme mancate del settore finanzia-

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L’AZIONE IN VETRINA KRAFT 10 ott 2012:

KFT-U.TI 21,15

Il rendimento in Borsa di Kraft negli ultimi dodici mesi (in marrone, +27%) confrontato con l’indice Eurostoxx 50 (in arancio, +17%%)

^DJI 13485,97

30% 25% 20% 15% 10% 5%

-5% -10% -15%

2011

Dic

2012

Feb

Mar

Apr

Mag

Giu

Lug

Ago

Set

Ott

Kraft: meno imballaggi, meno rifiuti raft, cose buone dal mondo. Incartate, inscatolate, avviluppate da rotoli di alluminio, plastica colorata, mucche viola e in gelatina. Alla fine tutti rifiuti che, nella migliore delle ipotesi, gonfiano i sacchi del secco e, nella peggiore, finiscono indistintamente in discarica, sul ciglio della strada o galleggiano fieri sui greti di ruscelli montani. Ecco, se si iniziasse a ridurre questa pletora di scatole e scatolette, sacchi e sacchetti, forse ne trarremmo tutti un po’ di beneficio: l’aria, l’acqua, ma anche la stessa Kraft, che risparmierebbe qualche dollaro di materiali, dopo averne spesi milioni per cambiare il brand aziendale da Kraft a Mondelez (googlare per credere). All’azienda lo hanno fatto notare gli azionisti critici di As You Sow, associazione non profit californiana che prende il nome da un passo della Bibbia (“Quello che tu semini, raccogli”, Galati 6:7). Per ora ha raccolto il 25,6% dei voti degli azionisti. Non sono bastati per far passare la mozione sugli imballaggi, ma è già un buon risultato. Avanti così seminatori californiani. Un giorno, grazie a voi, il sacco del secco potrebbe diventare più leggero. 

K

| 74 | valori | ANNO 12 N. 104 | NOVEMBRE 2012 |

L’AZIONISTA DEL MESE

a cura di Mauro Meggiolaro

UN’IMPRESA AL MESE

FONTE: THOMSON REUTERS

0%

As You Sow

www.asyousow.org

Sede San Francisco, California, Usa Tipo di società Organizzazione non profit per la tutela dell'ambiente e dei consumatori. Dal 1992 promuove campagne di educazione sulla presenza di sostanze chimiche tossiche nei prodotti di consumo (alimentari, giocattoli, ecc.). Alla formazione dei consumatori si accompagnano, dal 1997, iniziative di azionariato critico nei confronti di imprese che violano i diritti dei consumatori o norme ambientali. Asset gestiti As You Sow non gestisce patrimoni L’azione su Kraft As You Sow ha presentato una mozione all’assemblea di Kraft chiedendo alla società di adottare una politica di riduzione del packaging per diminuire la quantità di rifiuti e le emissioni di CO2. La mozione è stata votata dal 25,6% degli azionisti. Altre iniziative Nel 2012 As You Sow ha presentato mozioni alle assemblee di 11 imprese su una serie di temi: riduzione dei rifiuti elettronici, rischi collegati allo shale gas e all'estrazione di carbone.

Kraft

www.kraft.com

Sede Northfield, Illinois Usa Borsa Nasdaq Rendimento negli ultimi 12 mesi +27% Attività La Kraft Foods Inc. è la più grande azienda alimentare dell’America settentrionale e la seconda più grande al mondo dopo la Nestlé. È nota ai consumatori per le cioccolate Milka e Cadbury, i biscotti Lu, le caramelle Halls e il formaggio Philadelphia. Azionisti principali Società a capitale diffuso. State Street (7,81%); Capital Research Global Investors (7,33%); Vanguard Group (6,38%); Warren Buffett (5,07%). Perché interessa agli azionisti responsabili? Kraft è stata spesso criticata dai consumatori e dagli azionisti attivi perché per un lungo periodo (1988-2007) il maggiore azionista della società è stato il colosso del tabacco AltriaPhilip Morris. Oggi Altria non detiene più alcun interesse in Kraft. Kraft è considerata una delle imprese più responsabili nel settore alimentare. 2011

Ricavi [Miliardi di dollari] Numero dipendenti

54,36 126.000

2011

Utile [Miliardi di dollari]

3,55


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