Mensile Valori n. 106 2013

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 13 numero 106. Febbraio 2013. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

NOORT / HOLLANDSE HOOGTE / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Gioco pericoloso La terza economia italiana. Vincono criminalità e lobby, perdono le persone Finanza > Da Saipem a Finmeccanica, l’ombra della corruzione affossa i titoli in Borsa Economia solidale > I negozi di zona portano ricchezza al territorio e inclusione sociale N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Argentina, con i fondi avvoltoio torna il fantasma| ANNO del12 crack finanziario


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| editoriale |

Contro il gioco o con le lobby? di Don Armando Zappolini

I

L’AUTORE Don Armando Zappolini Presidente del Cnca (Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza) ed esponente di primo piano nella campagna “Mettiamoci in gioco”. Per conto di Libera partecipa al Coordinamento provinciale degli enti locali per la legalità, promosso dalla Provincia di Pisa. È inoltre vicino ai temi dell’economia solidale attraverso l’associazione di volontariato Chiodofisso di Perignano (Pi), che promuove il consumo critico, la nonviolenza e l’intercultura.

l gioco d’azzardo è ormai un fenomeno di massa. La quantità di denaro che movimenta e il numero di giocatori che coinvolge sono davvero impressionanti. L’ultima notizia, al momento in cui scriviamo, è l’allarme lanciato da Eurispes e Telefono azzurro: un minore su quattro, in Italia, gioca a soldi. Tra i bambini spopola il “Gratta e vinci”, agli adolescenti piacciono le scommesse sportive. Il gioco d’azzardo dà l’illusione di poter “svoltare”, tanto più in tempi di crisi, ma è anche una moda: le concessionarie dei giochi “vendono” ormai i loro prodotti come un nuovo stile di vita, una “tendenza” ammantata di glamour. Ma ha senso continuare a favorire la diffusione di giochi d’ogni sorta? Perché è evidente che le principali istituzioni del Paese – governo e Parlamento in testa – e buona parte delle forze politiche hanno sostenuto la crescita del fenomeno, attraverso provvedimenti che hanno permesso ai concessionari dei giochi di prosperare senza doversi curare delle ricadute sociali. Si è detto che bisognava risollevare le casse dello Stato e, per questo, tornavano utili anche le tasse sui giochi. Peccato che le imposte siano diminuite con il passare degli anni: i nuovi giochi vengono tassati molto meno di quelli più vecchi. Si gioca sempre di più, ma lo Stato incassa ogni anno più o meno la stessa cifra. E i tentativi di regolamentare la diffusione del gioco d’azzardo, a partire dalla pubblicità, sono stati sempre stoppati dalla “lobby dell’azzardo”. Vedi la recente approvazione del decreto sulla sanità, che ha costretto lo stesso ministro Balduzzi a denunciare pubblicamente lo strapotere della lobby. Purtroppo non mancano collusioni con diversi esponenti politici. Ma si sta anche rafforzando un movimento di organizzazioni assai eterogenee – da organismi della Chiesa cattolica a tanti Comuni della Penisola, dai sindacati a numerosi soggetti del terzo settore, da riviste ad associazioni di consumatori – che fanno pressione e informano l’opinione pubblica sulla realtà di un fenomeno molto diverso dalla rappresentazione che ne dà una pubblicità pervasiva ed efficace. Come ha chiarito “Mettiamoci in gioco”, la campagna nazionale contro i rischi del gioco d’azzardo, il punto non è eliminare un fenomeno che non si intende demonizzare in toto, ma farsi carico delle ricadute economiche e sociali negative che produce. Specie tra i soggetti più deboli. Giocano più i disoccupati degli occupati e le persone con titolo di studio più basso. I casi di dipendenza sono ormai diverse centinaia di migliaia, tanti sperperano (i magri) stipendi e pensioni nelle slot machine o ricorrono all’usura o vedono compromesso il loro matrimonio. Senza contare gli interessi delle mafie nel settore. Insomma, non basta che il gioco d’azzardo sia legale per garantire sicurezza. Cosa vogliono fare le istituzioni e le forze politiche dinanzi a questa situazione? Noi glielo chiediamo, tanto più in vista delle elezioni. Dicano chiaramente se intendono limitare la pubblicità dell’azzardo, assicurare nuovi poteri ai sindaci che vogliono regolamentare l’offerta dei giochi sul loro territorio, garantire risorse al servizio sanitario nazionale per curare e assistere le persone in stato di dipendenza (prendendole proprio da quanto incassato dai concessionari), varare campagne di sensibilizzazione rivolte a tutta l’opinione pubblica e ai giovani in particolare. O se preferiscono mettersi al servizio della lobby.  | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 3 |


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| decrescita: il dibattito |

Il dibattito attorno al tema della Decrescita continua. Il dossier pubblicato da Valori lo scorso settembre ha acceso un vivace confronto, con opinioni anche molto diverse tra loro. Le ospitiamo su queste pagine e sul sito internet www.valori.it.

La crescita che vorrei Redistribuzione e contaminazione di Andrea Nicolello-Rossi (Presidente Fairtrade Italia)

Nel perdurare della crisi economica mondiale, a calare drammaticamente sono soprattutto i salari dei lavoratori nei Paesi del Sud del mondo. Parallelamente gli effetti dei cambiamenti climatici, già in atto, mettono in ginocchio le produzioni agricole più fragili, in quei Paesi che in percentuale hanno contribuito meno di altri all’emissione dei gas climalteranti. Di contro, osserviamo una crescita costante, in Italia come nella maggior parte dei Paesi europei, dell’acquisto – soprattutto nella media e grande distribuzione organizzata – di prodotti del commercio equo. Sono questi i macrofenomeni che, dall’osservatorio di Fairtrade Italia, cerchiamo di tenere a mente quando si riflette di Decrescita. Nel dibattito avviato su Valori il tratto comune condiviso è la necessità di mettere in discussione il sistema economico dominante, liberista e capitalistico, il cui solo fine è il profitto, ottenuto soprattutto con la speculazione finanziaria. Il commercio equo ha indicato una strada oltre trent’anni fa quando, fin dalle origini, perseguiva l’obiettivo di mettere al centro l’uomo e dare un’alternativa ai grandi trader internazionali che accumulavano guadagni e facevano concorrenza scaricando i costi sull’anello più debole della catena, i produttori. Nella crisi economica in atto, a livello nazionale, politiche di redistribuzione della ricchezza per raggiungere una maggiore equità possono essere affrontate con manovre fiscali e, a valle, aumentando i redditi da lavoro. A livello globale, ciò significa consentire a fasce povere ed emarginate della popolazione mondiale di diventare produttori di beni che accedono al mercato, che trovano sbocchi commerciali e ai quali è riconosciuto il valore della produzione. Per questo siamo impegnati a far aumentare i consumi dei prodotti equi, rendendoli sempre più disponibili e accessibili, senza creare una contrapposizione fra produzione locale e quella del Sud del mondo.

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La catena del valore di una produzione etica può essere lunga migliaia di km se da un lato c’è un produttore africano e dall’altra un consumatore europeo, purché questa sia caratterizzata da reciprocità, trasparenza ed equità. Ma la sfida ulteriore è fare in modo che anche nei Paesi del Sud del mondo valga l’equazione maggior reddito uguale a consumi differenti, cioè indirizzati a merci la cui produzione necessita di minori risorse naturali (ad es. meno intensità energetica per unità di prodotto). Ciò si ottiene grazie a imprese che cambiano la loro produzione, indirizzandola verso l’eco-efficienza e con lavoratori ben formati e quindi meglio retribuiti. Per questi motivi ci collochiamo nell’orizzonte dello sviluppo sostenibile, che ci interroga sul tipo di crescita alla quale vogliamo puntare, che ci fa superare un modello a crescita illimitata a favore di uno che accolga al suo interno i concetti di limite (tra cui quello delle diseguaglianze fra i popoli della Terra). Se guardiamo con favore all’aumento delle esperienze dei Gruppi di acquisto solidale locali, è l’allargamento della platea dei cittadini responsabili fra quelli che si rivolgono a forme tradizionali di acquisto e mercato, che ci interessa maggiormente per far crescere stili di vita eco-compatibile (aumento dei consumi biologici, riduzione degli sprechi energetici, mobilità non inquinante). Per questo bisogna promuovere la contaminazione, l’incontro, gli intrecci: ad esempio quello fra la tradizione dell’industria di trasformazione agroalimentare italiana con le materie prime del commercio equo. La strategia è evitare di lasciare sole le aziende del Nord del mondo che si interrogano, ancorché mosse da ragioni di fatturato, sulla sostenibilità in senso lato delle loro produzioni. Sarebbe miope lasciare la partita in mano a chi propone soluzioni facili di greenwashing. Che percorsi vogliamo condividere con chi, nel mondo del for profit, vuole affrontare la responsabilità sociale di impresa? La Decrescita sembra preferire dribblare questa occasione, noi preferiamo rischiare.


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Decrescita è… più qualità, eticamente

* Goel (www.goel.coop) è un gruppo di imprese sociali nate nella Locride. Tra le sue priorità la lotta alla ’ndrangheta e alle massonerie deviate. Nel 2009 ha lanciato il fashion brand etico e sociale Cangiari (www.cangiari.it), in calabrese “cambiare”, e il marchio biologico Goel Bio (www.goel.coop/bio), che raggruppa produttori agricoli della Locride e della Piana di Gioia Tauro che si oppongono alla ’ndrangheta.

di Vincenzo Linarello (Goel*)

A mio parere la “decrescita” dovrebbe criticare la crescita “numerica”, quantitativa. Non credo però debba essere demonizzata la crescita di disponibilità economica o la crescita della “qualità” a 360°. È la crescita “quantitativa” che porta con sé i danni maggiori, come la riduzione dei diritti e la dequalificazione del mercato. Ma, se si punta a una politica di crescita “qualitativa”, i redditi crescono al pari delle condizioni di vita. Più che puntare a un livellamento verso il basso, si dovrebbe puntare a un livellamento socio-economico verso l’alto, che provochi un miglioramento della qualità della vita. Tali riflessioni nascono anche da Cangiari, il marchio di moda etica lanciato dal Gruppo Goel. È innegabile che i capi che proponiamo afferiscano a una fascia prezzo alta e si rivolgano a un target di consumatori con un buon potere di acquisto. È stato quindi inevitabile interrogarci sul significato di portare avanti un’esperienza simile. Siamo partiti da qui per capire che spesso, a livello valoriale, si confondono due aspetti che sembrano sovrapposti, ma in realtà sono distinti: la sobrietà e il risparmio. La corsa al risparmio, innescata da una crisi come quella che stiamo vivendo, è pericolosa. Perché butta il mercato del lavoro mondiale (e tutti siamo obbligati ormai a confrontarci con i mercati mondiali) in una concorrenza al ribasso. Oggi il principale fattore di produzione su cui si può agire per abbassare i prezzi è il costo del lavoro. Risparmiare sui prezzi dei beni di largo consumo significa mettere selvaggiamente in concorrenza l’operaio calabrese con quello indiano o cinese. Il nuovo orizzonte – a nostro avviso – dovrebbe essere il consumo consapevole, dove l’alta qualità diventa il contrappeso del consumismo. Per rimanere nel campo dell’abbigliamento, invece che comprare 2030 pantaloni fatti in serie con un prezzo medio-basso, permesso grazie allo sfruttamento selvaggio della mano d’opera, ne compro solo 5, fatti bene, di alta qualità, prodotti legalmente, ecologici e magari artigianali. Non bisogna puntare al ribasso del prezzo, ma all’aumento della qualità dei prodotti, che a sua volta richiede una riqualificazione delle competenze, processi produttivi etici ed ecologici e, quindi, un mercato del lavoro che innesca una concorrenza “verso l’alto” e non verso il basso come spesso accade. È qui che abbiamo trovato il senso di Cangiari: i capi sono costosi perché sono artigianali, ecologici, rifiniti, etici. Oggi la “sobrietà” che cambia il mondo passa da una scelta ben precisa: consumare meno (quantitativamente, con tutto ciò che ne consegue in termini di sostenibilità ambientale per esempio) e consumare meglio, acquistando prodotti etici di altissima qualità. L’aumento dei “costi” di produzione non mette in crisi il mercato, anzi ci sono numerosi esempi che dimostrano che a volte lo rilanciano. Ad esempio quando qualche anno fa si sono introdotte le

normative a tutela dell’ambiente ciò ha fatto nascere nuovi costi di produzione che però hanno letteralmente dinamizzato il mercato (raccolta differenziata, riciclo, energie rinnovabili, ecc.). Anche con i prodotti di agricoltura biologica di Goel Bio abbiamo fatto la stessa scelta: ci collochiamo in una fascia di prezzo e di qualità medio-alta. Lo facciamo consapevolmente, perché così garantiamo alle aziende agricole un prezzo minimo per gli agrumi ben otto volte più alto di quello che garantisce il mercato locale. Se le nostre arance bio non costassero di più e non fossero qualitativamente eccellenti ai produttori renderebbero appena 5 centesimi al chilo, che si traduce in un basso prezzo per la massaia, ma provoca la rivolta dei braccianti a Rosarno. Parlando di “crescita” un altro ingrediente che noi di Goel riteniamo importante è “l’etica innovativa”, intesa come fattore competitivo. Finora abbiamo visto usare l’etica come “abbellimento” dei piani marketing, una Csr come strumento di sviluppo e manutenzione della reputazione dell’impresa. Uno dei grandi equivoci è pensare che il mercato sia fatto solo di denaro; niente affatto, è fatto di persone, che non hanno bisogno solo di denaro, ma anche e soprattutto di senso (anche se non ne sono consapevoli). E molte di queste persone che compongono “il mercato” sono disposte ad assumere decisioni imprenditoriali non solo sulla base di criteri di efficienza, ma anche sulla base del senso e significato della loro attività. Lo stiamo scoprendo in molte delle nostre attività. A ciò bisogna aggiungere che oggi non è affatto sufficiente costruire la propria competitività sulle leve tradizionali di prezzo e qualità di prodotto. Il mercato è così ampio (globale) e interconnesso che ci sarà sempre qualcuno che offre qualità e prezzo migliori dei tuoi. Pur mantenendo un livello adeguato di questi due fattori, la competizione può efficacemente essere agita anche unendo innovazione ed etica. Vedo pertanto nella crisi un’importante opportunità. Perché costringe a rivedere gli schemi tradizionali e obsoleti del mercato. “Scrosta” modelli vecchi che non funzionano e rende vani opportunismi storici. Ad esempio al Sud, luoghi come le amministrazioni comunali potrebbero non essere più così ambiti dalla mafia e dalla ’ndrangheta. Perché oggi guidare comuni piccoli in Calabria vuol dire faticare ogni giorno per risolvere problemi e pagare gli stipendi. È un aspetto drammatico, ma anche “disinfettante” della realtà. Dall’altro lato, però, la situazione è preoccupante perché non vedo nella classe politica – e anche in quella imprenditoriale – capacità progettuale dell’alternativa. Mentre viene meno il welfare pubblico, ad esempio, non c’è nessuno che stia costruendo una seria alternativa, né privata, né pubblico/privata. Il problema delle alternative è urgente e drammatico.

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Centrismo radicale

Il “falso progressismo” dell’Agenda Monti inita l’emergenza euro, o almeno così pare, ti aspetti programmi di ampio respiro che tengano in considerazione quanto successo e le sue cause, per riprendere, con lungimiranza, anche sociale, un sentiero di crescita. Non è il caso della cosiddetta “Agenda Monti”. In essa la crisi non è che la conseguenza di un insieme di politiche economiche “indisciplinate”,

F

di Alberto Berrini

in termini di finanza statale, condotte da alcuni Paesi periferici europei. Ma fare semplicemente “i compiti a casa”, come prescrive l’ortodossia tedesca, significa non riconoscere che la crisi europea è anche politica e sociale, oltre che economica. In breve è sistemica e come tale richiede un nuovo e complessivo progetto europeo. Ma non solo. L’Agenda è anche una fedele riproposizione dell’ortodossia liberista: tutto è nuovamente affidato al mercato. E solo politiche economiche di “austerity” – dunque finanza sana, vale a dire bilanci in pareggio – consentono al mercato di operare garantendo, in prospettiva, crescita e occupazione. In questo modo non si riconoscono le recenti autocritiche del Fondo monetario internazionale. In un recente paper intitolato Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers il capo economista Blanchard ha ammesso che si sono decisamente sottostimati gli effetti dei tagli di spesa sulla crescita economica. In definitiva siamo di fronte a una visione tecnocratico-liberista, caratterizzata da due gravi limiti. In primo luogo, un progetto europeo di basso profilo. Alla fine dell’attuazione del Fiscal Compact non si vede, infatti, una Fiscal Union in grado di attuare politiche anti-cicliche, a partire dall’introduzione degli euro-

di “una nuova politica centrista radicale” per contrastare le disuguaglianze senza frenare la crescita. In realtà sono state proprio le riforme finalizzate ad aumentare la concorrenza nei mercati dei beni e del lavoro a provocare, almeno in parte, un aumento della sperequazione nella distribuzione dei redditi e della ricchezza. Ma, soprattutto, è la natura finanziaria (non regolata) dell’attuale capitalismo la principale causa delle disuguaglianze. Per uscire dalla crisi non serve l’ennesimo “falso progressismo”. Incapace di rompere con l’ortodossia che ha causato la crisi ed è stata poi incapace di affrontarla. Come ricorda Paul Krugmann, «dovremmo usare gli stimoli di bilancio, una politica monetaria anticonvenzionale che includa l’innalzamento dell’obiettivo di inflazione. Non farlo significa accettare sprechi e ristrettezze enormi. Ma, dicono le Persone Tanto Coscienziose, ciò comporta dei rischi. Beh, la vita è piena di rischi. Ma è follia pura e semplice preoccuparsi dell’eventualità che gli invisibili vigilantes del mercato obbligazionario si manifestino, o che l’idra dell’inflazione emerga dalla sua grotta segreta, invece di preoccuparsi della concreta realtà dei danni colossali, sul piano umano ed economico, prodotti dall’inazione». 

La “dottrina” del leader centrista è fedele al neoliberismo e non considera neppure l’autocritica dell’Fmi projetc bond per investire nella green economy e nella green society. Il secondo limite riguarda la questione sociale, di cui per altro non si riconosce la gravità. Ma, soprattutto, Monti è ancorato all’idea liberista che ogni interferenza con il funzionamento dei mercati non possa che ridurre la crescita e, quindi, la dimensione della torta da distribuire. Secondo questo schema la disuguaglianza rappresenta il prezzo da pagare per ottenere un’economia più dinamica. Non a caso l’ex Presidente del Consiglio, nella conferenza stampa di fine anno, ha fatto riferimento al true progressivism (vero progressismo) proposto recentemente in un editoriale dell’Economist. Si tratta del manifesto

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febbraio 2013 mensile www.valori.it anno 13 numero 106 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Paolo Bellentani, Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Giuseppe Di Francesco, Marco Piccolo, Fabio Silva (presidente@valori.it), Sergio Slavazza direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Giuseppe Chiacchio (presidente), Danilo Guberti, Mario Caizzone direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Roberto Caccuri, Fabio Cuttica, Xinhua (Contrasto); Fabrizio Bensch, Handout, Jorge Silva (Reuters); Olivier Douliery (Photoshot); Tomaso Marcolla abbonamenti Annuali Biennali Ordinario cartaceo - scuole, enti non profit, privati - enti pubblici, aziende Only Web Reader Cartaceo+Web Reader

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NOORT / HOLLANDSE HOOGTE / CONTRASTO

| sommario |

Quella per le slot machine è una vera mania. Ce ne sono ovunque, molte illegali. Solo nel 2010 sono state 6.295 le violazioni riscontrate dalla Guardia di finanza: oltre 8 mila le denunce, 3.746 le macchine sequestrate (312 al mese) e 1.918 i punti di raccolta di scommesse non autorizzate scoperti (+165% rispetto al 2009).

globalvision fotonotizie dossier Gioco pericoloso La Repubblica delle Slot Machine Il lato oscuro della Dea Bendata Se il banco lo tiene la mafia Il gioco in Italia: da Mussolini alla Mondadori Lobby, la “terza Camera” che decide le leggi Malati di gioco

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finanzaetica Da Saipem a Finmeccanica. Quando la reputazione si paga in Borsa Lavoro, Borsa e Btp. L’insostenibile leggerezza delle banche italiane Regoliamo la finanza con un’imposta efficace... e non solo

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valorifiscali pianetagioco economiasolidale

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La (piccola) distribuzione della ricchezza Tra Gas e marketing territoriale Finanza etica, Gas, economia civile. Per costruire insieme La valle degli occhiali in lotta contro il deserto (industriale) Gli inquinatori finiranno all’Inferno Stipendi e tenore di vita. L’Ue delle disuguaglianze Economia sociale, pilastro d’Europa

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internazionale Argentina, processo al debito Olmos: «L’Argentina? Nessun miracolo, parlano le cifre» La truffa che ha messo in ginocchio l’Afghanistan Il Camerun e l’economia dei funerali

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consumiditerritorio altrevoci bancor resistenze

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LETTERE, CONTRIBUTI, ABBONAMENTI, PROMOZIONE, AMMINISTRAZIONE E PUBBLICITÀ Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro che legno e derivati non provengano da foreste ad alto valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali. Involucro in Mater-Bi®

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Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano tel. 02.67199099 - fax 02.67479116 e-mail info@valori.it ˜segreteria@valori.it

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| fotonotizie |

“Gulag Earth” Così internet ha smascherato Pyongyang

[Una schermata del celebre programma web Google Earth. Al centro, la Corea del Nord con la sua capitale, Pyongyang].

© GOOGLE EARTH

La mappa dei campi di prigionia della Corea del Nord, soggiorno obbligato e spesso permanente di un numero indefinito, ma presumibilmente molto elevato, di dissidenti politici, potrebbe essere stata definitivamente svelata e documentata grazie all’impiego di una nota applicazione informatica: Google Earth. Nell’ultima edizione del rapporto The hidden gulag – riferisce la Reuters – lo Us Committee for Human Rights in North Korea (hrnk.org), un’organizzazione non governativa di Washington che si occupa di monitorare le attività del regime di Pyongyang, ha citato infatti tra le sue fonti proprio il programma elaborato anni fa dall’azienda di Mountain View e il suo utilizzo da parte dei blogger Joshua Stanton's (freekorea.us) e Curtis Melvin (nkeconwatch.com), da tempo impegnati a tracciare una distribuzione delle zone di detenzione avvalendosi sia della rinnovata alta risoluzione delle immagini satellitari sia della testimonianza di alcuni ex internati riusciti miracolosamente a fuggire dal Paese. Il rapporto 2012 del Committee è uscito diversi mesi fa, ma le sue rivelazioni sono tornate di stretta attualità a gennaio, in occasione della “missione” condotta in Corea del Nord dal presidente di Google Eric Schmidt e dall’ex governatore del New Mexico Bill Richardson, con l’obiettivo dichiarato di sollecitare il regime a bloccare il programma nucleare e ad aprire il Paese a internet (ma si sospetta che il vero scopo del viaggio fosse la richiesta di liberazione del cittadino Usa di origine coreana Pae Jun-Ho, incarcerato con l’accusa di spionaggio). La Corea del Nord, ufficialmente, nega la presenza di gulag all’interno dei suoi confini. Secondo Amnesty International, al contrario, sarebbero circa 200 mila i nordcoreani detenuti nei campi di concentramento del Paese. [M.CAV.]

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Ad accendere la polemica era stato lo scorso ottobre Alex Salmond, premier scozzese e leader indipendentista dello Scottish National Party, in un’intervista alla Bbc : «Se la Scozia con il referendum del 2014 otterrà l'indipendenza, sloggerà i sottomarini nucleari della flotta britannica, armati di missili intercontinentali (Slbm) Trident». E oggi la questione è tutt’altro che risolta. Perché i sottomarini nucleari inglesi sono placidamente ancorati sulla riva est della penisola di Gare Loch, presso la Hmnb Clyde (Base navale di Sua Maestà del Clyde) di Faslane, una delle tre operative della Royal Navy britannica, insieme a Devonport e Portsmouth. E proprio a Devonport gli indipendentisti scozzesi vorrebbero che fossero trasferiti i sommergibili, con l’annesso arsenale atomico, ma il ministero della Difesa del Regno Unito ha dichiarato che le disposizioni di sicurezza del sito non consentono la presenza di sottomarini con i Trident a bordo (40 testate nucleari, che conterrebbero circa 160 chilogrammi di plutonio): la base si trova in una zona densamente abitata e, se ci fosse un incidente, gli esperti della marina hanno delineato uno scenario peggiore che prevedrebbe fino a 11 mila vittime nell’area della vicina città di Plymouth (sono circa 166 mila le persone che vivono nel raggio di dieci chilometri dalla base di Devonport, contro le circa 5.200 di Faslane). E poi, sicurezza a parte, in ballo ci sono anche tanti soldi (alcuni miliardi di sterline per lo spostamento dei Trident) e gravi problemi occupazionali all’orizzonte. Al sito di Faslane lavorano attualmente 6.700 persone tra militari e civili (cifra che dovrebbe salire a 8.200 entro il 2022): per questo gli indipendentisti pensano già a una riconversione della base per accogliere le armi convenzionali delle future forze armate scozzesi. Il voto è previsto a ottobre 2014. [C.F.]

[Uno dei sottomarini Hms Vanguard, ormeggiato alla base navale scozzese di Faslane, non lontano da Glasgow, nel dicembre del 2006].

REUTERS / DAVID MOIR

Sull’indipendenza scozzese incombono i sottomarini britannici

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L’altra faccia dell’arancia: l’economia dei Gas diventa un film Se scavalcare i canali della distribuzione di massa è un atto sovversivo, questo documentario è una porta spalancata su una rivoluzione in atto. Per fortuna pacifica e senza armi. E per una volta utile a migliorare la qualità della vita, delle tasche e dei rapporti umani di centinaia fra consumatori e produttori. Il docu-film “L’altra faccia dell’arancia”, realizzato da Federico De Musso, racconta gli incontri che si sono svolti in decine di città italiane durante il progetto “Sbarchi in Piazza”. Un modo per far incontrare gli agricoltori del Sud Italia con i membri dei Gruppi d’acquisto solidale (Gas) del Nord. Obiettivo: conoscersi, confrontarsi sulle reciproche esigenze, costruire un nuovo modo di organizzare una filiera agricola, cercando di liberarsi dal giogo e dai diktat della Grande distribuzione. Un laboratorio dell’Economia del Noi. Raccontata attraverso decine di interviste raccolte nei mercati. Fedele allo spirito dell’iniziativa, il documentario è disponibile gratuitamente sul sito www.docusip.tumbir.com. Gli organizzatori, però, hanno lanciato una campagna di finanziamento: «Se vi è piaciuto il film, potete fare una donazione libera al progetto oppure acquistare i dvd con i contenuti speciali. I fondi serviranno a pagare i lavoratori che si sono impegnati nella produzione e post-produzione de “L’altra faccia dell’arancia”». Finora sono stati raccolti 2.105 dei 4.800 euro necessari. [EM.IS.]

[Una scena tratta dal film-documentario “L’altra faccia dell’arancia”].

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dossier

a cura di Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Riccardo Mandelli e Valentina Neri

???

La Repubblica delle Slot Machine > 18 Il lato oscuro della Dea Bendata > 20 Se il banco lo tiene la mafia > 22 Il gioco in Italia, da Mussolini alla Mondadori > 24 Malati di gioco > 26


LAIF / CONTRASTO

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Gioco pericoloso È la terza industria italiana per fatturato e assicura all’Erario entrate per 8 miliardi. Ma i costi sociali e familiari sono più alti. E a vincere, alla fine, sono solo la criminalità e le lobby


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dossier

| gioco pericoloso |

La Repubblica delle Slot Machine di Emanuele Isonio

arà probabilmente ricordata come la campagna elettorale dell’Imu, quella che sta entrando nel rush finale. E c’è da credere che da qui all’apertura dei seggi si moltiplicheranno gli attacchi di chi spera di guadagnar voti criticando la tassa sulla prima casa, reintrodotta dal Governo Monti e indicata da molti sondaggi come una delle più invise agli italiani.

S

Ma tanti riflettori puntati su un solo tema abbagliano. E, soprattutto, celano nell’ombra altri fenomeni che incidono sulle tasche dei cittadini ben più di molte tasse. Gli scettici possono provare a rispondere a questa domanda: quanto è costata in media a ogni italiano l’Imu e quanto invece si è speso (e perso) nei giochi d’azzardo nel 2012? Usare Google non vale. Anche perché i dati ufficiali ve li forniamo noi nelle prossime righe.

Un salasso mascherato da Luna Park

sportive, hanno speso 1.450 euro. Neonati compresi. Considerando solo i maggiorenni (visto che il gioco è vietato ai minori) il salasso sfiora i 2 mila euro. Dieci volte di più dell’odiata tassa, per una spesa complessiva che, secondo le stime di fine anno, supera i 90 miliardi. Ogni italiano, in media, destina a scommesse e giochi il 13,5% del suo reddito. Una realtà impressionante, che rimarrebbe tale anche se, invece di considerare i soldi spesi, volessimo calcolare solo le somme perse: 18,4 miliardi. Ovvero 387 euro a testa. Dati che, già da soli,

Un successo anticiclico I cinici potrebbero rallegrarsi di questo boom. In fondo, più si gioca, più soldi dovrebbero finire all’Erario. L’industria dell’azzardo ha infatti dimostrato di reggere assai bene alla crisi. Da 25 a 94 miliar-

LA SPESA CRESCE MA PER L’ERARIO NON CAMBIA NULLA

L’ANDAMENTO DEL TASSO DI RISPARMIO DELLE FAMIGLIE DAL 2005 AD OGGI

100

19

Entrate per l’erario [miliardi di euro]

94

Giocato

90

70

47,5

42

35,2

61,4

16 15 14

7,2

7,7

8,8

8,7

8,8

7,9

13

6,7

10

28

20

17

6,1

30

24,8

50

54,4

60

40

18

79,9

80

7,3

FONTE: CONAGGA (COORDINAMENTO NAZIONALE GRUPPI PER GIOCATORI D’AZZARDO)

I conti del governo indicano che in media gli italiani hanno pagato 194 euro di imposta sugli immobili. Negli stessi dodici mesi, per lotterie, slot machine, videopoker, gratta & vinci, sale Bingo, scommesse

In media spendiamo in gioco d’azzardo 1.450 euro, neonati compresi. L’Imu ci è costata 194 euro, sette volte meno

dovrebbero suscitare allarme sociale. Ma a nostra disposizione, grazie al fondamentale lavoro di molte associazioni che lottano per arginare il fenomeno delle ludopatie, ce ne sono anche altri. Una fotografia di una realtà composta da 5 mila aziende, che contribuiscono al 4% del nostro Pil, con 120 mila addetti. Un vero impero, terza industria nazionale per fatturato, con frequenti zone grigie, assai appetibile per gli interessi criminali (il gioco illegale vale altri 15 miliardi di euro, senza contare i guadagni per riciclaggio, usura, evasione fiscale) e capace di costruire muri di gomma spesso invalicabili ai tentativi di limitarne l’espansione (la frustrazione di molti parlamentari “anti-lobby” è lì a dimostrarlo – vedi ARTICOLO a pag. 25).

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

0

12 11

| 18 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

2005

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Come si spiega un fatturato che si quadruplica in otto anni e, al tempo stesso, entrate fiscali che rimangono stabili nei valori assoluti e si riducono del 60% in termini percentuali? Nel Paese dove spesso l’impensabile diventa possibile succede anche di avere un sistema di imposte che, per molti giochi, ricorda quello di un Paradiso fiscale. E così, se per lo storico Lotto la quota che finisce all’Erario è del 27% e per il Superenalotto addirittura del 44,7%, per i giochi di nuova generazione rasenta lo zero: 3% per le videolottery e 0,6% per i casinò on line. La ratio di questa scelta? Fidelizzare i giocatori. «L’attuale sistema di tassazione – spiega Matteo Iori, presidente Conagga – è concepito per attrarre grandi investitori esteri e per incentivare le persone a giocare. Da qui la scelta di ridurre drasticamente le tasse per i giochi a maggiore frequenza». In questi casi si alzano (si dovrebbero alzare?) enormemente le percentuali di ritorno per i giocatori e, ampliando il monte del giocato, dovrebbe guadagnarci anche lo Stato: la filosofia del “pagare meno, pagare tutti” applicata al gioco.

di in otto anni (+400%). Il Paese dei Balocchi cresce mentre altrove i fatturati crollano, le aziende chiudono e le famiglie risparmiano sempre meno (dal 16% del 2005 all’11% del 2012, dato peggiore dal 1995). Ma il cinismo, almeno in questo caso, non paga: le entrate fiscali, complice un sistema di tassazione ai limiti dell’assurdo (vedi BOX ), sono ferme al palo. Dietro le decine di miliardi di giro d’affari si nascondono costi sociali enormi e risvolti criminali altrettanto gravi (ai quali dedichiamo le prossime pagine). Il gioco per milioni di persone si trasforma in una vera ossessione, che distrugge intere famiglie. SISAL E LOTTOMATICA: CHI CONTROLLA I BIG DELL’AZZARDO

Apax Partners (gestione private equity) Permira Fin Clessidra SGR Spa

Insieme i due colossi del gioco italiano hanno un fatturato superiore al Pil di Islanda e Malta. Se per Lottomatica, SpA quotata alla Borsa di Milano, capire chi possiede le azioni è semplice, la proprietà di Sisal è più nebulosa ma saldamente nelle mani di gestori di private equity. Riuniti nella Sisal Holding Istituto di Pagamento (Ship) S.p.A. La sua sede? Lussemburgo.

Gioco

“Età”

Erario

vecchio

43,6%

11,7%

Lotto

vecchio

57,9%

15,1%

27,0%

Gratta e vinci

medio

71,6%

11,9%

16,5%

Slot machine

medio

75%

12,4%

12,6%

Videolottery

nuovo

88%

9%

3%

Poker Cash e Casinò on line

nuovo

97%

2,4%

0,6%

44,7%

Ci sono però due falle in questo ragionamento: i giochi “a maggiore frequenza” sono anche quelli a maggior rischio di utilizzi patologici. E, dopo il boom degli ultimi anni, l’esigenza di attrarre investimenti è scemata: Sisal e Lottomatica sono ormai dei veri giganti planetari con fatturati rispettivamente di 13,3 e 2,97 miliardi e utili netti di 525 e 173 milioni. Davvero c’è spazio per attirare altri investitori?

«I soldi non vengono spesi nelle stesse percentuali in tutti i giochi», spiega Matteo Iori, presidente del Conagga (Coordinamento nazionale gruppi per giochi d’azzardo). «La somma maggiore viene giocata tra videopoker e slot machine». Che stanno fiorendo a vista d’occhio: c’è una slot machine ogni 150 abitanti (di medici ce n’è uno ogni 275 pazienti). Insieme hanno raccolto oltre il 55% del fatturato totale. «Calcolando che per questi apparecchi il payout (il denaro che “torna” al giocatore, ndr) è del 75%, attraverso di esse, gli italiani hanno giocato quasi 52 miliardi e ne hanno persi DA SLOT E VIDEOPOKER LA METÀ DEL FATTURATO

16,3

55,6

Al giocatore Filiera del gioco

Superenalotto

Ventuno sigle per una svolta

De Agostini (53,7%) DeA Partecipazioni SpA (5,8%) Mediobanca (12,7%) Assicurazioni Generali (2,9%) Oppenheimerfunds Inc. (2%) Altri (22,9%)

PIÙ SONO NUOVI E MENO PAGANO ALL’ERARIO

FONTE: M. FIASCO SU DATI MEF E AAMS

QUEI GIOCHI QUASI ESENTASSE

11,4 7,2 4,2

2,2

1,2

2,0

Apparecchi

Giochi on line

Lotterie

Lotto

Scommesse sportive

Giochi numerici

Bingo

Scommesse ippiche

oltre 12». Ma c’è di più: le ricerche dell’Ipsad (Italian Population Survey on Alcool and Drugs) e del Consiglio Nazionale delle Ricerche hanno evidenziato che alle slot gioca un numero piuttosto esiguo di persone (più o meno il 6,7% dei giocatori). Tradotto: 1.139.000 italiani hanno perso alle slot oltre 12 miliardi. Ovvero: 10.500 euro a testa. Un problema etico, oltre che economico. Contro il quale ventuno sigle, riunite nella campagna “Mettiamoci in gioco”, stanno facendo pressione su Parlamento, Governo ed Enti locali. Dimostrando che il gioco d’azzardo non è una buona leva di sviluppo. A loro si sono aggiunti i Comuni e lo stesso ministro della Salute Balduzzi, che ha lavorato per inserire la ludopatia fra le patologie curate dal Servizio Sanitario Nazionale e bloccare la pubblicità del gioco d’azzardo. Impegno che non si è però tradotto in vittoria: per rendere effettive le cure ai malati di gioco il ministro dell’Economia Grilli dovrà garantire la copertura di spesa. Poi servirà il placet delle commissioni parlamentari e della Conferenza Stato-Regioni, nella quale potrebbero emergere i dubbi di alcune Regioni preoccupate di dover sostenere nuove spese senza adeguati fondi. E lo stop agli spot non partirà prima di metà 2013. Sempre che, nel frattempo, la lobby del gioco non riesca a piazzare altri colpi nel nuovo Parlamento appena insediato.  | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 19 |


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dossier

| gioco pericoloso |

Il lato oscuro della Dea Bendata di Emanuele Isonio

I giochi d’azzardo non assicurano allo Stato solo 8 miliardi di introiti. Ma anche costi sociali, danni sanitari ed espansione della criminalità. Che, sommati, sono ben più alti dei vantaggi economici arebbe un errore imperdonabile parlare dei giochi d’azzardo limitando l’attenzione sulle entrate che garantiscono allo Stato italiano. Sarebbe come considerare il fatturato e l’indotto dell’Ilva tralasciando i danni sanitari. O come parlare del nucleare senza conteggiare i costi ambientali provocati da scorie e fughe radioattive. Non per motivi etici, ma per valutare con distacco costi e benefici. Perché, se le esternalità di un’attività produttiva superano i vantaggi economici, allora è forse il caso di guardare altrove. E nel caso del gioco, i danni economici per la colletti-

S

Costi [in milioni di euro]

Le ludopatie provocano alla collettività un danno tra 5,5 e 6,6 miliardi. Senza contare i mancati versamenti Iva per 3,8 miliardi vità, sotto forma di costi sociali e sanitari, sono ingenti. Anche senza considerare le ripercussioni negative in termini di legalità.

La ricerca di Neuchâtel Purtroppo dare un valore economico all’impatto negativo che ha il gioco sull’uStima minima

Stima massima

85

85

Costi indiretti

4.258

4.663

Costi perdita qualità della vita

1.147

1.878

Costi totali

5.490

6.627

Costi sanitari diretti

NEL GIOCO PERDE LO STATO [in miliardi di euro] 10

Costi sociali Mancata Iva

8

3,8

6 4

8

more di uno scommettitore e alle ripercussioni che ha sulla sua famiglia è esercizio ben più complicato che sommare i bilanci delle varie società del settore. Il rischio di sottostimare o sopravvalutare il problema è dietro l’angolo. «Le ricerche in questo caso danno esiti molto diversi», ammette Matteo Iori, presidente del Conagga (Coordinamento nazionale gruppi per giocatori d’azzardo). «Quelle statunitensi puntualmente assegnano costi sociali molto bassi. Quelle realizzate in Germania invece contengono cifre ben più alte». Pur consapevole delle difficoltà, l’Istituto di ricerca economica dell’università svizzera di Neuchâtel ha realizzato un’approfondita indagine (finanziata con una parte del fondo costituito grazie alla “tassa” dello 0,5% sulle giocate effettuate). Per quantificare i costi sociali sono state considerate numerose voci, divise in tre categorie (vedi tabella): costi sanitari diretti (ricorso al medico di base del 48% più alto rispetto ai non giocatori, supporti psicologici ambulatoriali, ricoveri sanitari, cure specialistiche antidipendenza); costi indiretti (riduzione delle performance lavorative del 28% maggiore rispetto ai non giocatori, perdita di reddito); costi per la qualità della vita (problemi causati ai familiari, violenza, ansia, deficit d’attenzione, riduzione della resistenza ad altre dipendenze, indebitamento per avere i soldi con cui giocare).

6

Sei miliardi oltre l’Iva

2 0 Costi

Guadagni (per l'Erario)

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FONTE: MATTEO IORI - CONAGGA (COORDINAMENTO NAZIONALE GRUPPI PER GIOCATORI D’AZZARDO)

Visto che i dati sulla popolazione patologica svizzera sono analoghi a quelli italiani (0,5% contro lo 0,8% stimato dal mi-


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| dossier | gioco pericoloso |

SCOMMESSE ON LINE: IN ITALIA IL 23% DEL MERCATO GLOBALE

POVERTÀ E IGNORANZA: I DUE ALLEATI DELL’INDUSTRIA DEL GIOCO

Sisal.it, Stanleybet (ramo internazionale del bookmaker irlandese Stanley Leisure Plc), Iziplay (sponsor del Genoa Calcio), Bwin (sponsor principale del campionato cadetto di calcio), Betclic, Casinò Italia, Eurobet, Betshop, Betsicily, Paddy Power, William Hill. E poi le innumerevoli piattaforme che non “poggiano” su suolo italiano, ma sono comunque raggiungibili da qualunque pc collegato a internet. Tra i molti record poco invidiabili di cui l’Italia ostinatamente ama fregiarsi uno riguarda il gioco d’azzardo. Il nostro Paese, infatti, è di gran lunga il primo fruitore al mondo di scommesse on line: il 23% del mercato globale (pur avendo solo l’1% della popolazione mondiale). Un dato che allarma dal punto di vista sociale. Ma che presenta risvolti preoccupanti anche dal punto di vista fiscale: perché l’amore crescente degli italiani per le scommesse on line riduce le entrate dell’Erario (la quota dello Stato si ferma allo 0,6% in questo tipo di giochi) e internet per sua natura rende difficile controllare guadagni e truffe. Il perché lo spiega bene il senatore Luigi Li Gotti, coordinatore del comitato Antiriciclaggio in Commissione Antimafia: «Solo le piattaforme registrate in Italia devono sottostare all’articolo 88 del Testo unico di Pubblica sicurezza che permette il controllo sulle società italiane. Quelle estere invece sono libere da ogni vincolo. Raccolgono soldi in Italia, ma non versano nemmeno un euro». Analisi confermata anche da Matteo Iori, presidente del Conagga: «I siti “.it” sottostanno alle regole imposte dallo Stato italiano e sono sottoposti al controllo dell’Agenzia dei Monopoli (Aams), che deve anche verificare l’effettivo rispetto della soglia minima di payout (la quota di denaro che deve tornare ai giocatori sotto forma di vincite). Tutti gli altri siti non rientrano nella normativa italiana. Nessuno può garantire quale sia la percentuale di ritorno dei soldi spesi». E certamente essi rappresentano una ghiotta occasione di evasione fiscale. Basti pensare che, nei primi cinque mesi del 2012, l’Aams ha oscurato 4.025 piattaforme. Ma, come si può immaginare, aprire un sito di scommesse è molto più facile che imporne l’oscuramento.

«Il modello di business dell’industria dell’azzardo può raggiungere dei grandi traguardi se fa un business sulla povertà, perché chi ha poco reddito rappresenta un alto bacino a cui attingere». Sicuramente cinica, ma altrettanto indubbiamente profetica l’analisi fatta, oltre mezzo secolo fa, da Milton Friedman. Molte analisi di numerose fonti diverse danno, infatti, ragione all’economista ultraliberista e premio Nobel. Accomunate da una constatazione: il gioco è la più regressiva delle “tasse”. Se n’è accorta, nel 2011, anche la Corte dei Conti, che nel suo rapporto sul coordinamento della Finanza pubblica ha denunciato: «Il consumo dei giochi interessa prevalentemente le fasce sociali più deboli». Già quattro anni prima l’Eurispes aveva calcolato che tenta la Fortuna il 47% degli indigenti e il 56% di chi appartiene al ceto medio-basso. Analoghi i risultati di un’analisi dei coordinamenti delle Comunità d’accoglienza (Cnca) e dei gruppi per giocatori d’azzardo (Conagga), che ha messo in correlazione scommesse e tipo di contratto di lavoro: gioca il 71% dei lavoratori a tempo indeterminato, l’80% dei precari e l’87% dei cassintegrati. Se dal livello economico ci spostiamo a considerare quello d’istruzione, il discorso cambia poco: la stessa ricerca di Cnca e Conagga mostra come la platea degli scommettitori coinvolga oltre l’80% di chi ha solo la licenza media, il 70% di chi ha un diploma superiore e “appena” il 61% di chi è laureato. Preoccupante è anche un altro dato, fornito dal Consiglio nazionale delle Ricerche: il gioco attira quote sempre più ampie di popolazione, coinvolgendo adolescenti e anziani. Si stima che scommetta quasi uno studente delle superiori su due, prevalentemente maschi e più nelle scuole professionali che nei licei: 720 mila contro 450 mila studentesse tra i 15 e i 19 anni (ma il gioco non era riservato ai maggiorenni?). Dai Sert (Servizi per le tossicodipendenze) dell’Emilia Romagna arriva infine l’ultima denuncia: l’11% dei giocatori patologici in cura hanno più di 64 anni e sono molti anche gli ultrasettantenni. Un dato che la crisi sta facendo aumentare anno dopo anno. Em.Is.

nistro della Sanità Balduzzi durante l’audizione alla commissione Affari sociali di Montecitorio), gli esperti del coordinamento nazionale gruppi per giocatori d’azzardo hanno calcolato i costi sociali per il nostro Paese. I risultati? Una forbice compresa tra i 5,5 e i 6,6 miliardi di euro. Più del doppio dell’intero deficit del Servizio sanitario nazionale. Considerando però gli 8 miliardi di introiti garantiti all’Erario, i mali sembrerebbero comunque inferiori ai vantaggi di aprire le porte ai giochi. Ma ai 6 miliardi di costi sociali vanno aggiunti i mancati versamenti Iva (sui giochi c’è un’imposta me-

dia dell’11% rispetto al 21% della maggior parte dei beni di consumo): calcolando solo i 18 miliardi di euro persi dai giocatori, è una cifra che si aggira attorno ai 3,8 miliardi. E già il confronto sarebbe negativo. Queste cifre dovrebbero poi essere integrate dai danni provocati dal diffondersi della criminalità legata al gioco: infiltrazioni mafiose, crescente ricorso all’usura, sussidi da versare a chi va sul lastrico inseguendo una scala reale o un jackpot che si ostinano a non arrivare. Conti ancor più difficili da fare. Ma i costi potrebbero solo crescere.  | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 21 |


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dossier

| gioco pericoloso |

Se il banco lo tiene la mafia di Andrea Barolini

Casalesi, Mallardo, Santapaola, Condello, Mancuso, Cava, Lo Piccolo, Schiavone. Sono 49 i clan coinvolti nel gioco d’azzardo, che rappresenta il 13% del fatturato criminale. E le infiltrazioni nelle attività legali sono in aumento

macchine sequestrate (312 al mese) e 1.918 i punti di raccolta di scommesse non autorizzate scoperti (+165% rispetto al 2009). Dieci procure, nell’ultimo anno, hanno inoltre aperto inchieste. E uno scandalo ha travolto perfino un parlamentare.

Risonanza europea industria del gioco è la terza a livello nazionale. Un bilancio sempre in attivo, che non conosce crisi. È facile comprendere quali e quanto forti siano gli interessi della criminalità organizzata in un simile business. Il dossier Azzardopoli 2.0, pubblicato dall’associazione antimafia Libera, offre una fotografia inquietante. Secondo il rapporto, sono almeno 49 i clan che gestiscono i “giochi delle mafie”: dai Casalesi ai Mallardo, dai Santapaola ai Condello, dai Mancuso ai Cava, dai Lo Piccolo agli Schiavone. Ma attenzione: le loro attività non riguardano solo scommesse clandestine, totonero o bische. Numerose indagini giudiziarie hanno individuato infiltrazioni delle cosche nelle maglie del gioco legale. «Assistiamo alla diminuzione delle scommesse clandestine e all’aumento del gioco d’azzardo. E, siccome la mafia non lascia mai un settore dove ottiene profitti, c’è la reale preoccupazione che essa si stia trasferendo nel settore governativo», ha ammonito il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso.

L’

Cosche, corruzione e politica Libera ricorda una lunga serie di casi. Come quello del clan Valle-Lampada, che, con l’aiuto dei Condello, era riuscito a collocare slot machine e videopoker truccati in 92 locali di Milano e provincia, per un totale di 347 macchine. Una truffa da 25-50 mila euro al giorno, ordita anche ai danni dello Stato: ai Monopoli venivano, infatti, forni| 22 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

ti dati falsi e, si legge nel rapporto, per assicurarsi l’impunità i criminali avevano anche «corrotto con 700 mila euro un gruppo di finanzieri, nonché il magistrato di Reggio Calabria Giancarlo Giusti». Non solo: per ottenere una sponda politica, il clan «ha puntato anche sull’elezione di Alessandro Colucci alla regione Lombardia» (arrivata puntuale e con 16.449 preferenze). Un intreccio perverso tra cosche, corruzione e politica. Di vicende simili il Paese è pieno. Solo nel 2010 sono state 6.295 le violazioni riscontrate dalla Guardia di finanza: oltre 8 mila le denunce, 3.746 le Clan Misso Mazzarella Bidognetti Inzerillo Cosca di Villabate Crimaldi Lo Piccolo Pelle Gambazza Madonna Di Donna Gionta - Gallo - Cavaliere La Torre Tavoletta Amato - Belforte Vicientino - Pasimeni - Vitale Condello Libri - Zondato Parisi - Capriati Mancuso D’Agati - Villabate

Secondo l’Eurispes il gioco d’azzardo rappresenta ormai circa il 13,1% del “fatturato” delle mafie: tra i 30 e i 40 miliardi di euro annui. Un problema talmente grande da aver avuto risonanza anche a livello europeo: il commissario al Mercato Interno Michel Barnier ha dichiarato in proposito che «i cittadini devono essere protetti per prevenire frodi e riciclaggio». Ma in Italia, per ora, la multa per l’uso di macchine non autorizzate non supera i 30 mila euro al mese: l’incasso di una sola giornata. Per le mafie, è il caso di dirlo, il gioco vale la candela. 

Settore d’intervento Sale Bingo, videopoker, slot machine Sale Bingo, videopoker, slot machine Sale Bingo, videopoker, slot machine Sale Bingo Centri scommesse Estorsione videogiochi e slot machine Estorsione sale gioco Estorsione sale gioco Videopoker, riciclaggio, scommesse Distribuzione videopoker Videopoker Imposizione videopoker Monopolio noleggio videopoker Imposizione videopoker Estorsione videopoker - slot machine Monopolio gestione videpoker Monopolio gestione videpoker Riciclaggio biglietti - Lotto - Superlotto Acquisto biglietti vincenti - Superenalotto Scommesse clandestine

Area geografica d’affari Napoli Napoli Caserta e provincia Emilia Romagna Palermo Villabate - Bagheria (Pa) Acerra (Na) Sicilia - Chivasso (To) San Luca (Rc) - Piemonte Sicilia La Spezia - Massa Carrara Torre Annunziata (Na) - La Spezia - Massa Mondragone (Ce) Litorale domizio-flegreo S. M. Capua Vetere - San Prisco (Ce) Mesagne (Br), Albania Reggio Calabria Reggio Calabria Bari Locri Bagheria


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| dossier | gioco pericoloso | PIEMONTE Lo Piccolo Pelle-Gambazza Belfiore

I CLAN SI SPARTISCONO L’ITALIA DEL GIOCO

NELLE “SALE SLOT” IL RICICLAGGIO È DI CASA

LOMBARDIA Valle-Lampada

Alessandro De Lisi, direttore del Progetto San Francesco di Cermenate, Como (del quale abbiamo parlato anche su Valori 105, dicembre 2012), non va per il sottile: la piaga della ludopatia e i suoi effetti di lungo periodo ricordano la vicenda dell’eternit, coi tumori per il contatto con l’amianto e gli infiniti strascichi giudiziari. E prosegue: «Parlando della Lombardia, dove il gioco è in mano alla ’ndrangheta, va detto che se io vado a trasferire ogni sera 50 mila euro in contanti in banca si possono attivare le procedure connesse alla segnalazione di operazione sospetta (Sos); ma ciò non avviene se a farlo è un gestore in franchising di un comprooro oppure di una slot house, poiché costoro hanno la giustificazione al possesso di tali somme di denaro».

LIGURIA Zaza EMILIA-ROMAGNA Bidognetti PUGLIA Vicientino-Pasimeni-Vitale-Penna Parisi-Capriati Tornese Strisciuglio TOSCANA Terracciano LAZIO Moccia Mallardo Clan autoctoni ex Banda Magliana Schiavone

Aparo Santapaola Madonia Bottaro-Attanasio

Labate Vollaro Brandi Cava Grimaldi Aparo Santapaola Madonia Terracciano Tornese Bottaro - Attanasio Moccia Schiavone Zaza D’Alessandro Fabbrocino Mallardo Strisciuglio Clan ex Banda Magliana Valle - Lampada Belfiore

Corse clandestine cavalli Estorsione videogiochi e slot machine Estorsione videogiochi e slot machine Estorsione vincita - Superenalotto Estorsione videogiochi e slot machine Estorsione videogiochi e slot machine Società giochi e scommesse Riciclaggio denaro sale scommesse Scommesse clandestine eventi sportivi Raccolta illegale scommesse on line Mercato macchinette videopoker Sale Bingo Videopoker, roulette, poker on line illegali Bisca e poker Calcio scommesse, sale scommesse Scommesse gare clandestine cavalli Scommesse gare clandestine cavalli Scommesse gare clandestine cavalli Scommesse, Sala Bingo Noleggio Videopoker - Slot machine Bische clandestine e totonero

CALABRIA Pelle-Gambazza Condello Libri-Zondato Mancuso

Zona sud Reggio Calabria Portici (Na) Napoli Avellino e Provincia Napoli Siracusa (Sa) Catania e provincia Caltanissetta Toscana Monteroni (Le) Siracusa Napoli e Provincia - Ferentino (Fr) Casertano - Modenese - Basso Lazio Sanremo Napoli e provincia Ottaviano (Na) Giugliano (Na) - Basso Lazio Bari Roma Milano e provincia Torino

FONTE: ASSOCIAZIONE ANTIMAFIA LIBERA, AZZARDOPOLI 2.0, 2012

SICILIA Inzerillo Cosca di Billabate Lopiccolo Madonna D’Agati-Villabate

CAMPANIA Misso Mazzarella Bidognetti Crimaldi Gionta Gallo Cavaliere Brandi Grimaldi Moccia Mallardo D’Alessandro Fabbrocino La Torre Tavoletta Amato-Belforte Vollaro Cava

Sono perciò attività ad alto rischio di riciclaggio di denaro criminale... Sì. Ed è un fenomeno ulteriormente acuito dalla norma che ora permette di oscurare le vetrine delle sale slot, dietro le quali non potremo mai sapere quante giocate avvengono. Come mai, a differenza che per il Totocalcio, non c’è uno scontrino fiscale a certificarle? È ovvio un interesse spasmodico della ’ndrangheta nell’incrementare la diffusione delle slot houses. Non a caso in Sicilia sono stati arrestati numerosi gestori di sale slot in franchising collegati al clan Lo Piccolo. Anche le sale Bingo sono spesso in mano alla criminalità organizzata: la più grande in Europa è stata confiscata dalla sezione distrettuale antimafia di Palermo. La ludopatia è una questione determinante. E numerose domande vanno poste alle istituzioni. Perché i gestori in franchising delle sale slot non hanno l’obbligo di produrre una certificazione antimafia e una licenza di gioco? I controlli non vengono fatti per corruzione e incapacità nell’interpretare la gravità del fenomeno. C.F.

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Il gioco in Italia Da Mussolini alla Mondadori di Riccardo Mandelli

altri consideravano inestirpabile il vizio, tanto valeva ricavarne risorse per l’erario. Una divergenza tuttoggi presente.

Dal Regno d’Italia al Fascismo. Dal dopoguerra fino alla Seconda Repubblica: c’è un’attrazione fatale che unisce politica e scommesse

Tutto sul nero

a storia del gioco d’azzardo in Italia è tutta un paradosso: proibito ma permesso, tollerato anche se illegale. Non solo bische clandestine, spesso gestite con la complicità di funzionari statali, ma anche i casinò, costruiti in molte località turistico-termali tra ’800 e ’900. Il permesso di gioco veniva concesso in deroga alla legge. I parlamentari del Regno erano divisi: alcuni pensavano che lo Stato non potesse favorire un’attività che favoriva l’usura, la prostituzione, la corruzione, il furto, la rovina di molte famiglie;

In realtà dietro alle spinte liberalizzatrici c’era il grande capitale e, in particolare, la Comit di Giuseppe Toeplitz: il banchiere ebreo-polacco e il suo amico veneziano Giuseppe Volpi tiravano le fila di un progetto internazionale di sfruttamento del turismo. Mussolini, una volta al governo, fu sul punto di realizzarlo. Deluse i suoi sponsor fino al 1924. Dopo le elezioni, forte di una larga maggioranza, emanò un decreto-legge con cui permetteva la proliferazione delle case da gioco. Le immediate polemiche furono tra le cause del delitto contro Matteotti, che stava indagando

L

METTIAMOCI IN GIOCO L’apertura alle scommesse in Italia doveva essere una “liberalizzazione controllata”, che riuscisse a tenere insieme il divieto imposto dal codice penale (l’articolo 718 ancora oggi punisce il gioco d’azzardo con l’arresto da tre mesi a un anno) e la creazione di sale giochi autorizzate. «L’abnorme espansione delle proposte di gioco in ogni Comune d’Italia testimonia che la liberalizzazione si è trasformata in una insidiosa deregulation», accusano le 21 sigle aderenti alla campagna “Mettiamoci in gioco”. Che lanciano una serie di proposte, con l’obiettivo principale di ridurre i costi sociali e sanitari provocati dal gioco compulsivo. A partire da una moratoria per i nuovi giochi. Al tempo stesso va ridata voce agli enti locali, che sono oggi espropriati di ogni funzione di governo del fenomeno: «I sindaci dei Comuni non possono intervenire sulle licenze, perché scavalcati dall’attuale legge dello Stato». C’è poi l’esigenza di risorse adeguate per la lotta alle dipendenze: da qui l’idea di vietare la pubblicità delle scommesse e di inserire il gioco patologico nei Livelli essenziali d’assistenza. Per le risorse si suggerisce di copiare la Svizzera, devolvendo l’1% del fatturato. I costi ricadrebbero in parti uguali sul giocatore (riducendo le sue vincite), sullo Stato (meno Em.Is. introiti per l’Erario) e sui profitti dei concessionari.

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LIBRI Riccardo Mandelli Al casinò con Mussolini. Gioco d’azzardo, massoneria ed esoterismo intorno all’ombra di Matteotti Lindau, 2012

su questo e su altri provvedimenti legislativi in odore di corruzione. Scottato dall’esperienza, Mussolini limitò l’affare a tre centri: nel 1927 legalizzò il casinò di Sanremo; nel 1933 Campione d’Italia; nel 1936 arrivò il permesso per un casinò a Venezia, “feudo” di Giuseppe Volpi. Corruzione circoscritta, ma non svanita. Dietro alle società che gestivano le case da gioco si intravedono gli equilibri tra

SLOT? NO GRAZIE L’ARCI EMPOLESE VALDELSA DICE NO Tolgono le slot dai Circoli Arci nonostante le macchinette “mangia-soldi” assicurino un’entrata dai 500 ai 3 mila euro al mese, che alle ex Case del popolo servono a far quadrare i conti, schiacciati sotto l’Imu, le bollette e le tasse per la spazzatura. Ma la scelta è etica e verrà sostenuta anche economicamente dal Comitato provinciale, perché l’azzardo non ha nulla a che vedere con i principi fondanti di un’associazione nata per favorire la crescita culturale, l’aggregazione e la socializzazione. L’iniziativa di “deslottizzare” gli Arci è partita dall’Empolese Valdelsa (FI), dove la crisi ha molte facce: da quella economica che vede la chiusura delle fabbriche artigianali storiche, a quella politica – che qui veste i panni del Pd – per finire nell’aumento dell’età media dei frequentatori dei circoli. Gli affiliati hanno risposto bene: nella zona le slot erano in 22 circoli su 85. Solo due non sono stati d’accordo e hanno preferito associarsi ad altre realtà. «La battaglia di “liberazione dalle slot” è cominciata diversi anni fa» spiega Valeria Carboncini dell’Arci Empolese Valdelsa. «Per adesso siamo l’unica Arci in Italia ad aver assunto questo tipo di decisione, ma non Pa.Bai. vogliamo rimanere soli ancora a lungo».


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le forze che allora contavano: la famiglia del duce e quella del re, i gerarchi fascisti, le grandi banche, gli industriali, politici siciliani, la massoneria, l’esercito. Un mondo su cui Mussolini, entrando in guerra, appose nel 1940 un temporaneo sigillo.

Il grande gioco va Oltreoceano Al termine del conflitto erano cambiati gli equilibri: il baricentro politico-economico si era spostato Oltreoceano. A Cuba e nel Nevada alberghi, spettacolo e gioco formavano un sistema integrato. I rapporti dell’Fbi mostrano l’intreccio tra Hollywood, mafia siciliana, finanza, politica e case da gioco. L’Italia ne viveva il riflesso: secondo l’Fbi traffici di droga e riciclaggio si concentravano tra la Riviera e la Costa Azzurra, coinvolgendo personaggi insospettabili, come il regista Roberto Rossellini. Ma perché la trama corruttoria comin-

ci ad affiorare occorre attendere i primi anni ’70, quando alcuni processi a carico di amministratori sanremesi lambirono politici nazionali, collegati a Michele Sindona. Uno spiraglio si aprì nel 1983 in seguito a una gara d’appalto per il casinò ligure: la Guardia di finanza iniziò a indagare su molte sale da gioco. Quindi il blitz e le manette per sindaci, assessori, esponenti di quasi tutti i partiti, incluso Claudio Scajola (poi scagionato). Secondo gli investigatori dietro a una delle cordate c’era Nitto Santapaola; dietro i concorrenti le cosche milanesi di Angelo Epaminonda.

Bingo, la tombola industrializzata Nella sua ultima fase il gioco si adatta all’elettronica. In principio fu il Bingo: D’Alema ne discute nel 1999, Amato lo regolamenta nel 2000. L’ex ministro Vincenzo Scotti aveva fondato con Luciano Consoli, vicino

a D’Alema, la società Formula Bingo, che svolgeva consulenze per l’apertura delle sale, ottenendo metà delle circa 400 concessioni promesse dalla normativa. Scotti, presidente di Ascob, l’associazione dei concessionari, si era impegnato in Senato per vietare le tombole nei circoli, in modo che le sale Bingo avessero il monopolio. Ma le tombole non erano abbastanza redditizie: quattro anni dopo i Monopoli affidarono a dieci concessionarie la gestione delle videolottery da collocare nei piccoli casinò che spuntavano come funghi, raccogliendo le quote dell’erario: oggi mancano all’appello quasi 100 miliardi. Tra i tessitori della rete anche Vittorio Emanuele di Savoia, accusato di corruzione e legami con la mafia. Più recenti le vicende di Fini, dei rapporti con la cosca Santapaola. E l’ingresso della berlusconiana Mondadori tra i concessionari del gioco. 

Lobby, la “terza Camera” che decide le leggi di Emanuele Isonio

Quei legami sconvenienti Certo, qualche legame con parlamentari “amici” ci deve essere. I casi non mancano. Su tutti, quello del senatore Amedeo Laboccetta (un tempo molto vicino a Fini, ora fresco di riconferma con il Pdl in Campania) che, avvalendosi dello AA.VV. status di parlamentare, portò via un pc Ma a che gioco che gli inquirenti stavano per sequestrare giochiamo? a casa di Francesco Corallo, capo della Edizioni A Mente Libera società Atlantis tramite una holding nelle Per richiederlo: coop@libera-mente.org Antille Olandesi, figlio di Gaetano Corallo, sodale del boss Nitto Santapaola. E poi: i casi dei Bingo riconducibili alla Lega in Veneto, o le sale Ludotech, societàvicina allora ai Democratici di Sinistra. «Non bisogna poi dimenticare i finanziamenti dei big del settore ai vari partiti», ricorda Matteo Iori, presidente Conagga. Rigorosamente bipartisan: «La Snai – racconta citando il libro “Ma a che gioco giochiamo?” – ha donato 60 mila euro ad Alemanno, 150 mila euro all’Udc, 30 mila ciascuno alla Margherita e alla rivista ItalianiEuropei di D’Alema». A questosi deve aggiungere un’incapacità dei controllori: «I Monopoli di Stato non erano in grado di vigilare sulle concessionarie dei giochi d’azzardo», ha denunciato il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, spiegando alla Camera i motivi della soppressione dei Monopoli e dello spostamento delle loro funzioni all’Agenzia delle Entrate. «Dobbiamo rafforzare il presidio su quest’area dove ci sono interessi economici enormi e le entrate per lo Stato sono grandissime».

LIBRI

Un muro di gomma respinge i tentativi di limitare il gioco d’azzardo in Italia. Per lo sconcerto di alcuni parlamentari e la gioia degli interessi di partiti e correnti Potentissima eppure senza volto. Criticata eppure ascoltatissima (soprattutto da chi conta). C’è una sorta di “terza Camera” che incide nella legislazione italiana sul gioco d’azzardo. Che spesso riesce a bloccare o a far varare norme meglio di molti parlamentari. “Mandando ai matti” quei deputati e senatori che invece cercano di introdurre leggi più stringenti. Genericamente viene definita “lobby del gioco”. Capire come funzionano le sue pressioni o a che livello interviene appare un nuovo mistero doloroso. Tra frustrazioni e zone d’ombra «Di certo, agiscono nell’ombra», rivela Emanuela Baio, senatrice dell’Api, una delle più impegnate nella lotta alle ludopatie: «In Commissione, quando discutiamo, nessun collega presenta emendamenti che riducano la portata dei provvedimenti. Fosse così, almeno ci metterebbero la faccia». Nel caso della Legge di Stabilità, in effetti, “l’annacquamento” delle norme è arrivato con un maxiemendamento del governo, sul quale è stata posta la fiducia (facendo decadere tutte le proposteavanzate dai parlamentari). «I ministri Balduzzi e Riccardi si sono impegnati molto sul tema», ammette la Baio. «Eppure queste forze agiscono su chi scrive leggi e maxi-emendamenti, scavalcando i ministri e il Parlamento».

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Malati di gioco di Valentina Neri

La ludopatia coinvolge oltre due milioni di persone. Per curarla servono interventi mirati: centri di sostegno, psicoterapia e farmaci leggerne i sintomi, si fatica a distinguere la ludopatia dalla tossicodipendenza o dall’alcolismo. Secondo i manuali un giocatore patologico ha bisogno di giocare sempre più spesso e con una quantità sempre maggiore di denaro; cerca di smettere, ma non ci riesce, perché il gioco lo aiuta a sfuggire ai problemi. O ancora, mente ai familiari e alle persone vicine, compromette il lavoro, lo studio o le relazioni, fino a infrangere la legge per trovare denaro: ragazzi che rubano i gioielli alla madre, assicuratori che trafugano i premi dei

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clienti, assegni a vuoto, tasse e affitti non pagati. Con tutto quello che ciò comporta in termini di crisi familiari. Una condizione estrema, ma più diffusa di quanto si creda. Il dossier Azzardopoli 2.0 cita una ricerca del Centro Sociale Papa Giovanni XXIII, coordinata dal Conagga (Coordinamento nazionale gruppi per giocatori d’azzardo), che stima che i giocatori a rischio siano il 5,1% del totale e quelli compulsivi il 2,1%: nel nostro Paese si tratta di 1 milione e 720 mila adulti a rischio e 708 mila patologici. Senza contare i minorenni. Alcuni studiosi hanno riscontrato che la propensione aumenta al diminuire del grado di istruzione. Ma le statistiche non spiegano tutto. «Non è sempre vero che giocano le persone meno abbienti o con un grado culturale più basso: è un problema che parte dall’individuo», afferma sicuro Fabrizio.

Gruppi di aiuto Fabrizio è sposato, padre, ha un lavoro remunerativo. Ma ha alle spalle trent’anni di gioco patologico. Ha iniziato a quattordici anni ed è arrivato a «perdere cifre improponibili, ma soprattutto a buttare via decenni di vita a discapito di rapporti familiari sani». Quando si è reso conto di aver toccato il fondo ha cercato aiuto su Internet, imbattendosi nei Giocatori Anonimi. Nata dall’esperienza degli Alcolisti Anonimi, l’associazione in Italia conta 62 centri e

coinvolge circa 1.500 persone, anche se, a detta di Fabrizio, «dovrebbero essere molte di più». La partecipazione è gratuita e non ci sono figure mediche perché a riunirsi sono i giocatori. «Al di fuori sei un rovinafamiglie, un perdente, mentre nelle nostre stanze non si giudica nessuno. Ciascuno tira fuori ciò che ha di marcio e lo riempie con elementi positivi», racconta. «Attraverso l’interazione nel gruppo si aiutano gli altri e se stessi», conferma Stefano Bertoldi, fondatore dell’Associazione di auto mutuo aiuto (Ama) di Trento che in 17 anni ha attivato gruppi in 45 ambiti diversi (depressione, ansia, sovrappeso, divorzio, ecc.) e nel 2012 ha accolto un centinaio di giocatori compulsivi. Spesso a contattare Ama sono i familiari e ci vogliono mesi per arrivare al giocatore, che nega di avere un problema. Le famiglie, invece, sono le prime a subirne l’impatto. A loro si rivolge Troppe vite in gioco, un vero e proprio manuale scritto da Lucio De Lellis, ex giocatore e ora life coach. Che parte dal presupposto per cui «il gioco è una malattia invalidante e progressiva che lentamente investe con la sua forza distruttiva tutta la vita della persona e di quelli che le sono accanto». «La menzogna è impregnata nel Dna del giocatore», conferma Simone Feder, psicologo alla Casa del Giovane di Pavia. Che continua: «Non lo si vede consumarsi a livello fisico come un tossicodipendente, perché all’apparen-

I COMUNI FRUSTRATI E MAZZIATI Tra le istituzioni più convinte che l’azzardo non sia un buon affare i Comuni sono in pole position. Tanto che la loro associazione, l’Anci, ha aderito alla campagna “Mettiamoci in gioco”. Il combinato disposto di toccare con mano i disastri a cui il gioco patologico può condurre i propri concittadini e l’assenza totale di ritorno economico rende probabilmente i Comuni più sensibili alle ricadute sociali e meno influenzabili dalle pressioni delle lobby. Lo spiega bene Lorenzo Guerini, primo cittadino di Lodi, responsabile Welfare per l’Anci e da marzo deputato Pd alla Camera (è quasi certo, per lui un seggio “tranquillo” nella circoscrizione Lombardia 3): «Il nostro assessorato alle Politiche sociali ha sempre maggiori pressioni. Le famiglie vengono dilaniate economicamente e psicologicamente quando il capofamiglia entra nella spirale del gioco. Nel fenomeno sono poi coinvolti sempre più anziani. E noi non possiamo fare praticamente nulla, se non raccogliere i cocci». In effetti

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il paradosso è che i sindaci, pur toccando con mano il problema, non possono fare ordinanze per bloccare nuove licenze per istallare slot machine o per limitarle nei pressi di luoghi sensibili, come scuole e ospedali. Chi ci ha provato si è visto bocciare l’ordinanza dal Tar, talvolta con annessa multa. «Possiamo solo segnalare alle autorità competenti i casi sospetti di infiltrazione criminale», aggiunge Guerini. Tre le proposte dell’Anci: concedere ai sindaci i poteri di controllo sulle licenze, bloccare la pubblicità dei giochi e ricevere risorse per la ludopatia. «La nostra è una posizione di buonsenso – spiega Guerini – perché riconosciamo le attività legali ma anche l’esistenza di ricadute sociali. Vogliamo eliminare le zone d’ombra». E anche sulle lobby nessuna volontà vessatoria: «I portatori d’interessi fanno il loro mestiere. Sta alla politica sapersi mantenere autonoma. È una questione di coerenza e di responsabilità». Che speriamo possa dimostrare anche dopo essere entrato a Montecitorio.


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za si comporta come una persona qualunque. Ciascuno pensa che il proprio compagno, o padre, non sarà come gli altri». Il percorso di cura può essere lungo e va dai gruppi di auto-aiuto alla psicoterapia, al trattamento farmacologico. Secondo la tesi comune la malattia è curabile, ma non guaribile: arginata la condizione patologica, l’unica possibilità è la totale abolizione del gioco. «Sono a tre anni di astinenza – racconta Fabrizio – e la qualità della mia vita è cambiata perché ho iniziato a ragionare in modo onesto. Ero e sono una persona malata, ma ora mi so controllare».

PAVIA LA CAPITALE DEL GIOCO SI RIBELLA ALLE SLOT Parte dalla Casa del giovane di Pavia, città conosciuta come la Las Vegas italiana, e dal magazine Vita la campagna “No Slot”. Simone Feder, psicologo che lavora da anni nella struttura, la spiega con poche parole: «Sconfiggere il proliferare delle macchinette». Il manifesto declina questo scopo in cinque imperativi: tutelare i giovani, sostenere gli esercenti “virtuosi” che rifiutano le slot e i vi deopoker, avanzare proposte concrete per arginare le sale giochi, promuovere una loro mappatura periodica, attivarsi per una legge di iniziativa popolare che limiti l’avanzata del gioco on line. «Vogliamo arrivare a una carta etica per i bar – spiega Feder – che faccia capire che nel nostro territorio c’è spazio per qualcosa di diverso, per luoghi più sicuri. E vogliamo partire dalle scuole per costrui re una maggiore consapevolezza dei rischi del gioco». La mobilitazione si è fatta strada di giorno in giorno, amplificata dal tam tam dei social network, fino ad assicurarsi il supporto di associazioni, centri Auser, circoli Arci, parrocchie, rappresentanti delle istituzioni pubbliche e molti sindaci.

Una vera patologia Il gioco d’azzardo patologico è riconosciuto come malattia psichiatrica dall’organizzazione mondiale della Sanità dal 1980. Ma in Italia ancora pochi accedono alle cure: 6 mila persone nel 2011, accolte da 186 centri (Asl, enti pubblici, associazioni, cooperative). Strutture che devono fare i conti con la mancanza di risorse. Mentre scriviamo questo numero di Valori la ludopatia sta per entrare tra i Livelli essenziali di assistenza (Lea). Ma se non verrà disposta una copertura economica ad hoc si rischierà solo di sovraccaricare un sistema sanitario pubblico già al collasso, senza garantire un’assistenza adeguata. «I SerT trattano già il gioco d’azzardo, ma di norma a varcare le loro soglie sono solo giocatori anche tossicodipendenti», spiega Feder. In attesa di una svolta politica con una nuova legge, bisogna lavorare sul territorio, in modo che a intervenire in sostegno dei giocatori in difficoltà siano anche il medico di famiglia, l’assistente sociale o il direttore di banca. Si è dato questo compito anche Educa, il festival dell’educazione di Rovereto. Un lavoro non facile, visto che bisogna fare i conti con occasioni per giocare sempre più diffuse e allettanti. «A Pavia – racconta Feder – le tabaccherie vendono le slot machine giocattolo e i bambini ricevono i gratta e vinci per il compleanno. E intanto si stanziano soldi per capire come funziona il cervello di un ludopatico. Ma la vera prevenzione è togliere le macchinette dal territorio, combattendo la cultura del gioco d’azzardo». 

LE VIE D’USCITA DALLA SCHIAVITÙ DEI DEBITI Un giocatore compulsivo può contrarre debiti con amici e parenti, col fisco, con i negozi sotto casa, ma anche con banche e compagnie finanziarie. Per questo il rientro economico è uno scoglio che può complicare drammaticamente il cammino di uscita dalla ludopatia. «Quando si smette di giocare – spiega Lucio De Lellis, ex giocatore e autore di Troppe vite in gioco – il primo istinto è quello di pagare immediatamente tutto il possibile per lasciarsi il problema alle spalle. Ma il più delle volte per arrivare a quest’obiettivo si obbliga la propria famiglia a sacrificare più del sopportabile». De Lellis elenca passo dopo passo le fasi da seguire per stilare un bilancio delle entrate e delle uscite e recuperare denaro in modo equilibrato. «Negli Usa si stanno formando team che danno ai giocatori patologici un supporto tanto psicologico quanto economico». Anche in Italia alcune associazioni si stanno attivando in questa direzione: come l’Ama di Trento, che ha studiato dei piani di rientro con le Casse Rurali. Anche se le cose si complicano quando i debiti sono troppo elevati e si finisce in mano agli usurai. I processi testimoniano che ai giocatori vengono proposti tassi del 150% a Milano, del 240% in Puglia e Calabria e del 400% a Firenze. Don Marcello Cozzi, vicepresidente nazionale di Libera, avverte: in ogni regione del Belpaese si trovano giocatori vittime di usura. «In alcuni casi – racconta – gli usurai sono fisicamente presenti nei circoli dove sono allocate le slot, magari perché sono in combutta coi titolari». Per uscirne ci si può affidare alla legge antiusura e alle fondazioni antiusura. «Ma – spiega Cozzi – le persone devono capire di essere malate e di essere vittime di un reato». «Il giocatore – aggiunge De Lellis –. non percepisce di essere un usurato perché vive nel sogno della vincita. Sa che gli interessi sono alti, ma è convinto di poter ripagare tutto quando vincerà».

LIBRI

Lucio De Lellis Troppe vite in gioco Exorma editore

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REUTERS / ZOHRA BENSEMRA

finanzaetica

a Finm

Lavoro, Borsa e Btp: le banche in crisi > 33 Regoliamo la finanza con la Ttf. E non solo > 35 | 28 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |


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| questione di credibilità |

L’impianto Sonatrach di trattamento del gas di Krechba, situato a circa 1.200 km a sud di Algeri

Da Saipem nmeccanica

I recenti scandali che hanno investito le due compagnie italiane evidenziano ancora una volta quanto i sospetti di corruzione, vera o presunta, possano produrre costi enormi. Per le imprese, così come per i loro azionisti

Quando la reputazione si paga in Borsa di Matteo Cavallito

a Borsa è un po’ come il campionato: si va all’attacco, ci si difende, si sbraita e si spera. Ma alla fine, per fortuna o purtroppo, dipende dai punti di vista, contano solo i risultati. Perché quelle che raccontano i mercati, in definitiva, sono solo storie di numeri. Cifre dei successi e cifre delle sconfitte, ascese rapide e crolli verticali. Talmente pronunciati, a volte, da risultare indimenticabili a coloro che vorrebbero solo scordarseli per sempre. La lezione all’inizio di dicembre l’hanno appresa, loro malgrado, gli azionisti di Saipem, azienda della galassia Eni protagonista di una settimana da incubo. Tutto inizia mercoledì 5 dicembre, quando il titolo, quotato in apertura a 34 euro e 39 centesimi, chiude la seduta in forte calo (32,68). Il giorno dopo la situazione precipita con il vortice ribassista che spinge il titolo a un meno 6,7%. In nove ore di scambi i trader hanno movimentato oltre 20 milioni di azioni, per la precisione il 1.255% in più rispetto al giorno precedente. Ormai siamo al panico conclamato, ma il problema, come recita l’adagio di un ce-

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PIAZZA AFFARI E IL DICEMBRE NERO DI SAIPEM 35 Saipem [SPM.MI]

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lebre film, non è tanto la caduta, quanto l’atterraggio. Quando le azioni Saipem toccano il fondo, lunedì 10 dicembre, il loro prezzo unitario è sceso a 29,08 ovvero 5 euro e 19 centesimi in meno rispetto a settegiorni prima (vedi GRAFICO ). Il che, moltiplicato per i 441 milioni di azioni circolanti, significa una cosa sola: nello spazio di una settimana l’azienda ha bruciato qualcosa come 2,3 miliardi di capitalizzazione di mercato.

Il costo della corruzione (vera o presunta) La causa principale della settimana orribile di Saipem si chiama Sonatrach, l’a-

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FONTE: YAHOO FINANCE, HTTP://IT.FINANCE.YAHOO.COM

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In una sola settimana, nel dicembre scorso, Saipem ha bruciato 2,3 miliardi di euro a Piazza Affari. Soprattutto a causa dello scandalo legato all’algerina Sonatrach zienda di Stato del gas algerino (che compensa il 30% della domanda italiana). Il suo presidente, Mohamed Meziane, e altri 15 dirigenti si sono già dimessi e sono ora chiamati a difendersi dall’accusa di corruzione. A finire nel mirino una maxi fornitura da oltre mezzo miliardo di dol-

lari che la Saipem, sospettano gli inquirenti, potrebbe aver ottenuto con l’esborso di tangenti (vedi BOX ). Con l’azienda sotto indagine da parte della Procura di Milano, quattro dirigenti della compagnia hanno abbandonato il CdA il 5 dicembre. Il giorno dopo, come detto, il titolo Saipem già ribassato è letteralmente andato a picco. Intendiamoci, Saipem è ovviamente presunta innocente. La società è tuttora sotto indagine, ma non ha ancora subito neanche un rinvio a giudizio. Questo però per il mercato rischia di essere un aspetto marginale. Perché i danni reputazionali hanno la tendenza a manifestarsi subito e il tracollo in Borsa della controllata di Eni, in questo senso, non rappresenta affatto un caso isolato. Anzi. Prendiamo Finmeccanica, colosso della difesa tuttora controllato per un terzo dal ministero delle Finanze. La società è finita sotto inchiesta nel maggio del 2010 a margine di un’indagine che coinvolgeva Telecom Italia Sparkle e Fastweb. Da allora, come in un effetto domino, le inchieste si sono allargate con ipotesi di reato di riciclaggio e corruzione internazionale e il coinvolgimento di nomi eccellenti del mondo finanziario e politico (vedi BOX ). Nel dicembre del 2011 l’ad dell’azienda, Pier Francesco Guar-

DALLA NIGERIA ALL’ALGERIA, LE DISAVVENTURE DI SAIPEM Nel dicembre 2012 la Saipem, controllata del Gruppo Eni, ha ammesso in una nota ufficiale di essere indagata dalla Procura di Milano per reati avvenuti entro il 2009. Ad alimentare i sospetti dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro ci sarebbe un pagamento compreso tra i 180 e i 200 milioni di dollari in favore della Sonatrach, l’azienda di Stato del gas algerino già travolta da uno scandalo per corruzione. L’ipotesi degli inquirenti è che l’azienda italiana abbia versato una tangente in cambio di due appalti relativi alla costruzione del gasdotto GK3, nel tratto compreso tra Mechtatine a Tamlouka, nell’Algeria nordorientale fino alla costa. Raggiunto da un avviso di garanzia, il Chief Operating Officer della Business Unit Engineering and Construction, Pietro Varone, è stato sospeso cautelativamente dall’incarico. Un altro dirigente e un dipendente della compagnia sarebbero anch’essi indagati. Dimissioni, invece, per l’ad di Saipem Pietro Franco Tali e per il direttore finanziario di Eni (in Saipem all’epoca dei fatti contestati) Alessandro Bernini.

| 30 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

Tre anni fa, la giustizia americana aveva formalmente accusato Snamprogetti, dal 2008 incorporata in Saipem, di aver pagato una maxi tangente per ottenere l’appalto di realizzazione degli impianti di liquefazione del gas presso Bonny Island, nel sud della Nigeria, al pari delle altre aziende del consorzio TSKJ (Technip, JGC e l’americana KBR, una sussidiaria della Halliburton). La controllante Eni ha chiuso i conti con i giudici americani patteggiando una multa da 365 milioni di dollari. Nel novembre del 2010, gli stessi De Pasquale e Spadaro insie me al gup Simone Luerti hanno chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di corruzione internazionale per cinque ex manager della Snamprogetti: Luigi Patron, all’epoca dei fatti presidente della società, Angelo Cardi, Ferruccio Sigon, Alfredo Feliciani e Mauri Lazzari. Nel gennaio 2011, i cinque sono stati rinviati a giudizio davanti alla quarta sezione penale del Tribunale di Milano.


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FONTE: © 2012 TRANSPARENCY INTERNATIONAL. ALL RIGHTS RESERVED

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SCALA DI CORRUZIONE

0-9

guaglini, è stato costretto alle dimissioni (con buonuscita di 5,5 milioni di euro) ed è stato sostituito da Giuseppe Orsi, anch’egli finito poi nel registro degli indagati. Dallo scoppio dello scandalo a oggi il valore unitario delle azioni Finmeccanica si è praticamente dimezzato (vedi GRAFICO ). Ma le disavventure del binomio sospetto corruzione/Borsa non sono ovviamente monopolio di casa nostra. Clamoroso, in questo senso, il caso di Wal-Mart, il gigante Usa della grande distribuzione. Il 22 aprile scorso il New York Times rivela che la compagnia avrebbe tentato di nascondere al pubblico e alle autorità un’inchiesta interna dalla quale sarebbero emerse sospette tangenti per 24 milioni di dollari pagate dalla sua filiale messicana. Il giorno successivo le azioni Wal-Mart scambiate a Wall Street cedono il 4,7%, quelle della sussidiaria messicana addirittura il 12%, dopo aver toccato un minimo di giornata a quota 36 pesos, vale a dire un -16,3% parziale che costituiva la peggior performance degli ultimi 17 anni. In una sola giornata di contrattazioni, rileva il Wall Street Journal, il gigante dei supermercati riesce nell’impresa di azzerare tutti i guadagni azionari del 2012.

10-19

20-29 30-39 40-49

50-59

60-69

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90-100

CORRUZIONE: L’ITALIA È SEMPRE PIÙ OPACA «Corruzione, opacità, scarsi livelli di integrità, uniti a deboli sistemi di controllo e valutazione […] hanno un impatto negativo devastante sull’economia e la credibilità dell’intero sistema Paese». Parola di Transparency International, l’organizzazione non governativa che da anni misura la corruzione nel settore pubblico e politico a livello globale. In una scala da 100 a 0, a ottenere i punteggi più elevati sono stati nel 2012 Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda, i Paesi più virtuosi. Chiudono la classifica Afghanistan, Corea del Nord e Somalia. L’Italia, che perde tre posizioni rispetto al 2011, è solo 72esima. Peggio di noi, nella Ue, soltanto Bulgaria (75esima) e Grecia (94esima).

IL GRADO DI CORRUZIONE NEL MONDO NEL 2012 (IN CIMA ALLA CLASSIFICA I PAESI PIÙ VIRTUOSI) PAESE

PUNTEGGIO

PAESE

PUNTEGGIO

1 DANIMARCA

90

165 CIAD

19

1 FINLANDIA

90

165 HAITI

19

1 NUOVA ZELANDA

90

165 VENEZUELA

19

4 SVEZIA

88

169 IRAQ

18

5 SINGAPORE

87

170 TURKMENISTAN

17

6 SVIZZERA

86

170 UZBEKISTAN

17

7 AUSTRALIA

85

172 MYANMAR

15

8 NORVEGIA

85

173 SUDAN

13

9 CANADA

84

174 AFGHANISTAN

8

10 OLANDA

84

174 COREA DEL NORD

8

72 ITALIA

42

174 SOMALIA

8

FONTE: TRANSPARENCY INTERNATIONAL, 2012 WWW.TRANSPARENCY.IT

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| finanzaetica |

Guai di breve periodo

corruzione o riciclaggio, producono un immediato impatto negativo. «Una crisi comportamentale avrà il maggiore effetto immediato sul prezzo dell’azione – si legge nel rapporto Freshfield – che può contrarsi anche del 50% o più in una singola giornata. Questo tipo di crisi tende a sollevare maggiori domande sulla gover-

FINMECCANICA UNA DISCESA DA URLO 12 Finmeccanica SpA [FNC.MI] 10 8 6

nance e per questo motivo avrà il maggiore impatto sulla reputazione dell’impresa». Freshfield cita i casi di Aon e Willis Group, travolte dagli scandali alcuni anni fa. Ma la sorpresa è dietro l’angolo. Queste crisi, infatti, «sono quelle che si risolvono più in fretta con le compagnie che, in media, recuperano il valore originario delle loro azioni dopo sei mesi». Tra il 2005 e oggi, la compagnia assicurativa britannica Aon plc è stata coinvolta in almeno tre casi giudiziari negli Usa e nel Regno Unito per violazioni delle norme sui conflitti di interesse, carenze di controllo anticorruzione e tangenti. Da allora il suo titolo quotato a New York ha guadagnato quasi il 150%.

4

Costi record 2 0

30 apr 10 03 mag 10 30 giu 10 01 lug 10 02 ago 10 01 set 10 01 ott 10 01 nov 10 01 dic 10 03 gen 11 01 feb 11 01 mar 11 01 apr 11 02 mag 11 01 giu 11 01 lug 11 01 ago 11 01 set 11 03 ott 11 01 nov 11 01 dic 11 02 gen 12 01 feb 12 01 mar 12 02 apr 12 01 mag 12 01 giu 12 02 lug 12 01 ago 12 03 set 12 01 ott 12 01 nov 12 03 dic 12

FONTE: YAHOO FINANCE, HTTP://IT.FINANCE.YAHOO.COM

Ma come si manifesta un trend azionario di fronte a una notizia shock? A dare una risposta è stato lo studio legale britannico Freshfield in una recente indagine campionaria su 78 imprese quotate. Gli scandali di tipo comportamentale, ovvero le notizie relative a sospetti e indagini per

L’EPOPEA INFINITA DI FINMECCANICA Finmeccanica finisce nel mirino dei giudici nel luglio 2010 quando i carabinieri del Ros arrestano il suo consulente, Lorenzo Cola, con l’accusa di riciclaggio nell’ambito dell’acquisizione della società Digint srl da parte di Gennaro Mokbel (51% delle quote) e della stessa Finmeccanica (49%). A novembre le indagini del procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, e del pm, Paolo Ielo, raggiungono anche l’Enav, l’ente nazionale assistenza volo, con l’ipotesi di falso in bilancio: le indagini coinvolgono il presidente dell’Enav, Luigi Martini, l’ad Guido Pugliesi, e la presidente di Selex Marina Grassi. La Selex è la società che si è aggiudicata gli appalti per la fornitura di radar a Enav. Marina Grassi è la moglie del presidente di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini, che, nel luglio 2011, risulterà ufficialmente indagato per frode fiscale e false fatturazioni nell’ambito dell’inchiesta sui presunti fondi neri della sua società. Nel dicembre 2011 Guarguaglini è costretto alle dimissioni e viene sostituito da Giuseppe Orsi. Il 24 aprile 2012 anche Orsi viene indagato dalla procura di Napoli per corruzione internazionale e riciclaggio. L’ex dirigente Lorenzo Borgogni parla ai magistrati di una presunta tangente da 10 milioni versata alla Lega Nord, che avrebbe consentito all’Augusta Westland, una controllata di Finmeccanica, di ottenere una commessa per la vendita di 12 elicotteri all’India. A ottobre le inchieste si estendono all’Indonesia e al Brasile coinvolgendo l’ex direttore commerciale di Finmeccanica Paolo Pozzessere, il deputato Pdl Massimo Nicolucci, l’ex ministro della difesa brasiliano Nelson Jobin e l’ex ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola. Borgogni accusa Scajola, Nicolucci e Jobin di aver preteso una commissione illecita dell’11% su un maxi appalto da 5 miliardi per la fornitura di navi militari al Brasile… (To be continued).

| 32 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

Il problema, però, è che l’altalena della Borsa non basta da sola a rendere l’idea dei costi complessivi della corruzione internazionale. Un tema particolarmente importante per quelle società che operano all’estero nei Paesi a maggiore rischio corruzione, quelli, per intenderci, piazzati particolarmente male nella consueta classifica annuale di Transparency International (vedi BOX ). Negli Usa la crescita dei controlli da parte delle autorità ha prodotto un’impennata delle sanzioni. Impressionanti i dati riportati dalla società legale newyorchese Chadbourne & Parke. Tra il 2004 e il 2010 il dipartimento di Giustizia ha avviato più cause per corruzione internazionale di quante ne avesse condotte nei 26 anni precedenti (il Foreign Corrupt Practices Act risale al 1977). Nel 2007 le società americane coinvolte in casi di corruzione avevano pagato sanzioni pari, in media, a 11 centesimi per ogni dollaro guadagnato. Nel 2010 i costi delle sanzioni sono stati pari a 2,14 volte l’ammontare dei profitti. In sostanza un aumento del 1.800%. Negli ultimi anni, ha notato di recente il Wall Street Journal, il numero delle azioni legali avviate dalla Sec e dal dipartimento di Giustizia si è fortemente ridotto. Non è forse un caso, tuttavia, che proprio negli ultimi anni molte aziende americane abbiano istituito nuovi comitati di controllo interno sostenendo spese significative per prevenire episodi di corruzione. 


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| finanzaetica | crisi bancaria |

Lavoro, Borsa e Btp L’insostenibile leggerezza delle banche italiane di Matteo Cavallito

Gli istituti della Penisola sono in costante difficoltà. Tra crisi finanziaria, inefficienza, costo del lavoro e circolo vizioso del credito ecnicamente si definiscono “sofferenze”. Sono i crediti vantati nei confronti di soggetti “insolventi”, ovvero incapaci di restituirli. Denaro messo in circolazione che rischia di non rientrare più, producendo di conseguenza una perdita nel bilancio. Entro certi limiti non costituirebbero un particolare problema. Ma negli ultimi tempi il fenomeno è diventato sempre più preoccupante. I dati dell’Associazione bancaria italiana (Abi) parlano chiaro: a novembre 2012 (ultima rilevazione disponibile), il totale delle sofferenze lorde patite dagli istituti italiani ha superato i 121 miliardi di euro (104,3 miliardi un anno prima, 75,6 nel 2010: in pratica un +38% in due anni).

T

BASILEA 3, SOLLIEVO PER LE BANCHE A metà gennaio il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria ha introdotto un alleggerimento dei requisiti di bilancio imposti agli istituti. In origine le banche avrebbero dovuto portare il proprio Liquidity cover ratio (Lcr) a quota 100% entro il 2015. Tradotto: accantonare riserve di asset pregiati (ovvero facilmente liquidabili) per un controvalore pari al 100% della liquidità necessaria per sopravvivere in caso di blocco dei prestiti da parte delle altre banche per un mese. Con il passo indietro dei regolatori la quota di Lcr per il 2015 scende al 60% mentre l’obiettivo del 100% viene spostato al 2019. Nell’elenco degli asset pregiati (fino a un massimo del 15% del valore totale del Lcr) potranno essere inseriti, inoltre, anche titoli finanziari rischiosi come mortgage backed securities (all’origine della bolla immobiliare) e obbligazioni di imprese fino a un rating minimo di BBB- (appena un gradino sopra i titoli spazzatura). Queste ultime saranno però contabilizzate al 50% del loro valore nominale.

Un esempio su tutti è rappresentato dal peso del costo del lavoro. La stessa Abi ha evidenziato in un report interno gli elevati costi del personale (pari al 43,7% dei ricavi ordinari, oltre l’8% in più rispetto alla media dell’Eurozona, anche a causa di un addensamento “nei livelli

di inquadramento più elevati”) e parlando di 20 mila lavoratori in eccesso. A creare problemi è la stessa presenza territoriale, troppo estesa. In Italia, ha rilevato una recente analisi di Value Partners, ci sono 555 sportelli ogni milione di abitanti (la media Ue è di 428), che gestiscono

LA CRESCITA DELLE SOFFERENZE IN ITALIA 2010-2012 130.000 Sofferenze [in milioni di euro] 120.000 110.000 100.000 90.000 80.000

ott 12

nov 12

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mag 11

feb 11

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dic 10

gen 11

ott 10

70.000 nov 10

Il fenomeno interessa tutti gli istituti (vedi TABELLA ), come dimostrano i dati sui crediti deteriorati – per i quali si considerano anche le voci dello scaduto, del ristrutturato e degli incagli (vedi GLOSSARIO ) – che pesano sui bilanci delle prime otto banche del Paese per quasi 200 miliardi di euro. Insomma, la recessione avanza e le insolvenze aumentano. Il sistema bancario è dunque vittima della crisi? Formalmente sì, ma l’affermazione è riduttiva. Visto che la debolezza degli istituti, cui le sofferenze contribuiscono, sembra avere in realtà radici più profonde: elementi strutturali che la crisi ha scoperchiato, ma non direttamente generato.

| ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 33 |

FONTE: ABI, MONTHLY OUTLOOK DICEMBRE 2012. DATI IN MLN DI EURO

Un problema generale


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5,0 4,5 4,0 3,5 3,0 2,5 2,0 1,5 1,0 0,5 0,0

Banca Monte dei Paschi di Siena [BMPS.MI]

in media prestiti e depositi per 109 milioni di euro (media Ue 162 milioni). Secondo la stessa VP, bisognerebbe chiudere 7.700 sportelli in eccesso per colmare un terzo del gap produttivo nazionale. Così, negli ultimi tempi, rivela ancora VP, le banche corrono ai ripari: Intesa (meno 2,4% dell’organico), Ubi e Banco Popolare hanno già avviato i licenziamenti; mentre entro il 2015 Mps chiuderà 400 filiali e ridurrà i costi del personale (-300 milioni di euro).

Tempesta finanziaria I tagli in programma presso Mps sono legati alla situazione particolare della banca, protagonista di un declino clamoroso. Tra il giugno 2006 e il giugno 2011 la capitalizzazione è scesa da 11,6 a 3,4 miliardi, con l’esercizio del principale azionista, la Fondazione Mps, passato da un attivo di 265 milioni a un passivo di 128. Ma a pesare è stata soprattutto l’incredibile operazione Antonveneta (acquistata nel novembre 2007 per 9 miliardi da Banco Santander, che un mese prima l’aveva valutata 6,6 mi-

liardi), che ha fatto finire sotto inchiesta l’ex presidente di Mps e oggi numero uno dell’Abi Giuseppe Mussari. Tra luglio 2007 e dicembre 2012 il titolo della banca è passato da 4,7 euro a 23 centesimi (-95%). Nello stesso periodo Bper ha ceduto il 69,87%, Intesa il 74,67%, Ubi l’80,55%. Ancora peggio è andata a Unicredit (-93,12%) e Banco Popolare (-93,5%). Tutti, poi, hanno scontato l’ondata speculativa partita a metà 2011 con la crisi dello spread: principali creditori dello Stato, le banche, in quanto detentori di bond sovrani, hanno legato i propri destini alla svalutazione dei Btp (vedi GLOSSARIO ). Con il deprezzamento del bond è arrivato anche quello del portafoglio. Con l’aumento del rischio sovrano è cresciuto, invece, il rischio percepito. Le banche cercavano liquidità emettendo obbligazioni. Ma gli investitori chiamati a comprare le loro obbligazioni iniziavano a chiedere interessi sempre più elevati. Chiamate dai regolatori a rinforzare i propri conti, le banche hanno chiuso i

IL PESO DEI CREDITI DETERIORATI IN ITALIA Scaduti Ristrutturati

rubinetti del credito favorendo così la recessione che genera a sua volta l’aumento delle sofferenze. Insomma, la classica tempesta perfetta. Nella prima metà del 2012 le paure degli investitori si sono attenuate (il prezzo dei Cds – vedi GLOSSARIO – sui debiti delle banche italiane è calato in media di 300 punti base), ma la vera svolta è arrivata a gennaio quando gli istituti hanno ripreso a correre in Borsa in linea con il trend dei mercati. Basilea, nel frattempo, ha allentato la presa (vedi BOX ) con l’obiettivo di riattivare il credito (-1,9% su base annuale in Italia nel mese di novembre). Una misura espansiva che dovrebbe compensare la recessione e i piani di ristrutturazione dei costi. Basterà? 

GLOSSARIO CREDITI DETERIORATI Prestiti di difficile riscossione che rischiano di essere restituiti solo in parte. Sono dati dalla somma di sofferenze (prestiti a soggetti insolventi), incagli (prestiti solo temporaneamente non recuperabili), ristrutturati (prestiti rinegoziati nei tempi e nelle rate di restituzione) e gli scaduti (da oltre tre mesi). CDS Ovvero Credit default swaps, sono i titoli derivati che assicurano contro il rischio default del debitore. Maggiore è il rischio, maggiore è il loro valore. Un Cds sul debitore A del valore di 1.000 punti base indica che si devono pagare 1.000 euro per assicurare 10.000 euro di credito vantati nei confronti del debitore A. BTP Buoni del Tesoro poliennali, ovvero obbligazioni emesse dallo Stato italiano con scadenze superiori a un anno. L’aumento del rischio sovrano determina un aumento del rendimento dei Btp, vale a dire una diminuzione del suo valore sul mercato secondario (si vendono i titoli a un prezzo inferiore rispetto a quello di acquisto).

PERCENTUALE DEI CREDITI DETERIORATI SUL TOTALE DEI CREDITI LORDI Incagli Sofferenze

Totale deteriorati

2010

2011

2012*

Unicredit

11,6

12,2

13,4

Intesa Sanpaolo

9,4

10,5

12,0

Monte dei Paschi

11,8

14,7

18,0

13,1

14,2

16,1

7,1

8,4

10,6

Unicredit

6.254

7.636

20.883

45.639

80.412

Intesa Sanpaolo

3.207

3.831

13.418

27.087

47.543

Monte dei Paschi

2.887

1.777

7.247

16.366

28.277

Banco Popolare

1.123

2.812

5.192

6.682

15.809

Banco Popolare

UBI

986

975

3.499

4.883

10.343

UBI

BPER

702

448

3.097

3.978

8.224

BPER

11,1

12,9

16,0

BPM

146

962

1.134

1.634

3.876

BPM

7,6

8,5

10,7

Carige

526

151

900

1.626

3.202

Carige

8,3

9,1

11,2

| 34 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

FONTE: VALUE PARTNERS, NOVEMBRE 2012. DATI IN MLN DI EURO. *PRIMI 9 MESI DELL’ANNO

AZIONI MPS (GIUGNO 2007 - DICEMBRE 2012)

02 lug 07 03 set 07 01 nov 07 01 gen 08 03 mar 08 01 mag 08 01 lug 08 01 set 08 03 nov 08 01 gen 09 02 mar 09 01 mag 09 01 lug 09 01 set 09 02 nov 09 04 gen 10 01 mar 10 03 mag 10 01 lug 10 01 set 10 01 nov 10 03 gen 11 01 mar 11 02 mag 11 01 lug 11 01 set 11 01 nov 11 02 gen 12 01 mar 12 01 mag 12 02 lug 12 03 set 12 01 nov 12 31 dic 12

FONTE: YAHOO FINANCE, HTTP://IT.FINANCE.YAHOO.COM/

| finanzaetica |


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| finanzaetica | tassa sulle transazioni |

Regoliamo la finanza con un’imposta efficace ... e non solo di Leonardo Becchetti*

La tassa sulle transazioni approvata in italia presenta una serie di evidenti lacune: non si applica ad esempio ai fondi pensione e ai market makers. Né alle operazioni concluse in giornata, il che “salva” di fatto l’high frequency trading l più grande gioco di prestigio mediatico della storia ha fatto passare la crisi finanziaria per una crisi di debito pubblico. Sono in pochi oggi ad avere la lucidità di Luciano Gallino e Joseph Stiglitz per capirlo e denunciarlo. Non si tratta soltanto di pignoleria storica perché è dall’analisi delle cause della crisi che si derivano le soluzioni. Mentre tutti si affannano a pensare a come ridurre il perimetro di uno Stato i cui conti sono stati dissestati anche dalla catastrofe bancaria, pochi si occupano del problema primario, quello della finanza ipertrofica che ha scatenato una crisi gravissima e che potrebbe provocarne altre di pari entità se non corriamo ai ripari. Il problema dei giorni nostri – l’esigenza di riportare il genio nella lampada (la finanza al servizio dell’economia reale) – è stato avvertito dalle principali commissioni indipendenti internazionali (si pensi al rapporto Vickers nel Regno Unito o al rapporto Liikanen per l’Ue). E, in questo ambito, la proposta di Tommaso Padoa Schioppa, prima di morire, era proprio quella di far ripartire l’Europa finanziandola con due tasse sulle esternalità negative (gli effetti sociali negativi) di due attività come la produzione di CO2 e le transazioni finanziarie. Come sappiamo, con il significativo contributo della campagna 005 (www.ze rozerocinque.it) e di una rete internazionale di organizzazioni della società civile, nell’agosto 2012 viene avviata la procedura di cooperazione rafforzata che do-

I

Bisogna ripartire dall’idea di Tommaso Padoa Schioppa, che propose due tasse sulle esternalità negative di due attività come le transazioni finanziarie e la produzione di biossido di carbonio vrebbe portare in un futuro prossimo all’approvazione di una tassa a livello europeo. Nel frattempo si muovono in anticipo la Francia (1 agosto 2012) e l’Italia (con una legge che entrerà in vigore il primo di marzo).

Tutta un’altra cosa La storia della Tobin tax italiana è travagliata, perché la proposta iniziale del governo subisce forti pressioni e arriva a destinazione profondamente diversa. In partenza il governo prevedeva di ricavare circa un miliardo, inserendo nella legge di stabilità un’aliquota dello 0,05% su azioni e su derivati (prevedendo un 20% di gettito dalle azioni e un 80% dai derivati, anche dopo aver scontato una riduzione dell’80% del volume delle transazioni su questi ultimi). Dopo le pressioni, molto forti, delle grandi banche, ma anche dei piccoli tra| ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 35 |


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| finanzaetica |

der, la proposta vira e si avvicina al modello francese. L’aliquota sulle azioni viene quadruplicata (0,2%), fissando l’esenzione per le imprese con meno di 500 milioni di capitalizzazione, per ridurre eventuali problemi di liquidità sulle stesse. Vengono esentate anche le transazioni dei fondi pensione, dei market makers (gli intermediari che danno liquidità al mercato, stabilendo lo spread tra denaro e lettera) e le operazioni che si aprono e si chiudono nella stessa giornata. Inoltre la tassa sui derivati è diventata fissa e viene di fatto significativamente ridotta. Viene infine giustamente introdotta una tassa sugli ordini postati e non eseguiti (in gergo layering), che rappresentano una distorsione particolarmente grave del funzionamento degli scambi.

non è tassato. Ciò avviene proprio mentre un nuovo quaderno di ricerca Consob ammonisce circa i pericoli sistemici che questo tipo di operazioni può generare sui mercati. Poco lungimirante sembra inoltre la decisione di esentare i fondi pensione, quando autorità di vigilanza italiane ed europee denunciano conflitti d’interesse di gestori che adottano strategie aggressive basate su un numero troppo elevato di transazioni. Sui derivati sarebbe stato inoltre opportuno mantenere un’aliquota proporzionale, anche se più bassa di quella della proposta originaria, esentando solamente i derivati usati per operazioni di copertura assicurativa (e sicuramente molto meno transati di quelli speculativi).

Gli interventi per “annacquare” la tassa

Non solo Tobin Tax

Il limite più vistoso della proposta approvata è l’esenzione delle transazioni che si aprono e chiudono in giornata. Erroneamente i giornali continuano a parlare di tassa anche sull’high frequency trading, ma, di fatto, grazie a questa esenzione, il trading ad alta frequenza

Quanto accaduto e i problemi sul tappeto suggeriscono una riflessione e un approfondimento della strategia. La società civile, attraverso la campagna 005, e le istituzioni dovrebbero siglare una nuova alleanza che metta nel mirino 4-5 riforme decisive della finanza che includano la separazione tra banche commer-

ciali e banche d’affari, la semplificazione delle regole sulla leva bancaria e la regolamentazione del sistema finanziario ombra con la lotta ad evasione ed elusione. Concentrarsi solo sulla Tobin Tax rischia di essere controproducente e di portare soltanto vittorie simboliche senza intervenire in profondità sulle patologie dei mercati. Come più volte ammonito dagli esperti, siamo preda di giganti bancari “troppo grandi per fallire” e “troppo complessi per essere salvati” che assumono rischi straordinari con le operazioni di trading in proprio ricattando poi gli Stati nazionali e pretendendo il salvataggio grazie agli “scudi umani” dei depositanti di cui “custodiscono” i risparmi nella loro sezione di banca commerciale. Purtroppo però è difficile passare dall’allarme ai fatti quando gli Stati si confrontano con banche che hanno attivi più grandi del Pil nazionale. Ecco perché l’approfondimento e il rinnovo della strategia nella direzione indicata appare oggi quantomai urgente.  * Insegna alla facoltà di Economia all’università di Roma Tor Vergata


28-37_finetica_santoro_V106 23/01/13 08.11 Pagina 37

| valorifiscali |

Strategie economiche

L’Europa decide L’Italia obbedisce? a campagna elettorale che è agli inizi si gioca sostanzialmente intorno al ruolo dell’Europa, e in particolare delle direttive fin qui adottate dall’Ue per le politiche di bilancio e per la gestione della crisi. Schematizzando, possiamo rintracciare due atteggiamenti di fondo, che si articolano al loro interno e che attraversano i diversi schieramenti, sebbene la prevalenza dell’uno o dell’al-

L

di Alessandro Santoro

tro nelle proposte politiche sia abbastanza netta. Il primo atteggiamento è quello di accettazione acritica delle politiche di bilancio europee. Ne costituisce un punto fermo l’idea che il rapporto debito/Pil italiano debba essere ridotto rapidamente nel corso dei prossimi decenni e, di conseguenza, che vada tagliata in misura sostanziale e strutturale la spesa pubblica. Secondo alcuni questa manovra può essere temperata dal mantenimento di una pressione fiscale apparente su livelli elevati, mentre secondo altri la spesa va diminuita in misura sufficiente a realizzare sia l’abbattimento del debito sia la riduzione della pressione fiscale. Si tratta di articolazioni di un pensiero, che è comunque comune e che implica pesanti contrazioni della spesa pubblica per sanità, istruzione e servizi di welfare offerti localmente, a loro volta realizzate attraverso la riduzione delle prestazioni ed esternalizzazioni/privatizzazioni. Non è, infatti, pensabile che la realizzazione di avanzi primari nell’ordine di 45-50 miliardi annui possa essere generata esclusivamente con l’eliminazione degli sprechi e delle inefficienze, che pure ci sono e sono a tutti evidenti. Il punto forte di questa linea politica, che è il cuore della cosiddetta agenda Mon-

minimamente preoccuparsi di analizzarne seriamente le conseguenze sul piano economico e, ancor più gravemente, su quello politico-sociale. Ad essa si contrappone la linea che possiamo definire europeista critica, che anela a un cambiamento delle politiche europee, che dovrebbe costituire il primo obiettivo di un governo che non mette minimamente in discussione il futuro europeo del nostro Paese. Ma in che direzione deve andare questo cambiamento, per quel che riguarda le politiche fiscali? In primo luogo, è necessario che venga rivisto il fiscal compact, prevedendo, non delle regole meccaniche di rientro dal debito uguali per tutti i Paesi, ma dei percorsi di sostenibilità per ogni Stato che abbia un rapporto debito/Pil superiore alla soglia del 60%. Inoltre va portata avanti la proposta francese di un livello minimo di imposizione effettiva sui profitti societari delle multinazionali, eventualmente realizzata con una cooperazione rafforzata, se non è possibile raggiungere l’unanimità dei consensi. Infine bisogna rivedere il regime di tassazione Iva, che è provvisorio da ormai trent’anni e che è caratterizzato da inefficienze amministrative e flagellato da enormi frodi ed evasioni. 

Bisognerebbe rivedere l’Iva, modificare il fiscal compact e tassare le multinazionali ti, è la sua chiarezza, mentre il punto debole, particolarmente grave per chi si preoccupa della tenuta della coesione sociale nel nostro Paese, è la mancanza di strategie in grado di gestire le ricadute sociali di queste manovre. Inoltre, questo tipo di politiche restrittive ha, come ormai ammette anche il Fondo monetario internazionale, impatti negativi sulla crescita economica sia nel breve sia nel medio periodo, il che riduce ulteriormente la loro efficacia. Da queste fondate obiezioni trova ragione il secondo atteggiamento, critico verso le politiche europee fin qui seguite. Tuttavia esso conduce a due linee di pensiero alquanto diverse. Vi è la tendenza populistico-demagogica che prefigura, in modo più o meno esplicito, un’uscita dell’Italia dall’Europa senza

| ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 37 |


38-39_mappa_V106 23/01/13 08.13 Pagina 38

100.700

| pianetagioco |

15.400

13.300

17.600

Quanto ci costa giocare d’azzardo

GERMANIA

@ 20,8%

@ 7,4%

CANADA

11.700

12.800

GRAN BRETAGNA

@ 5%

FRANCIA

SPAGNA

@ 11,8%

@ 5%

di Andrea Barolini ed Elisabetta Tramonto STATI UNITI

@ 4% uardando la pila di fiches sopra gli Usa si comprende quanto il fenomeno sia allarmante: oltre 100 miliardi di dollari, sono le perdite al gioco subite nel 2011. In Italia, in proporzione, non siamo da meno con più di 34 miliardi persi in un anno. Montagne di denaro gettato via davanti a slot machine, videopoker, scommesse sportive, gratta e vinci. In tutto il mondo si perdono quasi 400 miliardi di dollari. L’on line raggiunge percentuali altissime: il 3,85% nel nostro Paese, per arrivare al 32% di Hong Kong, o al 20% in Uk. Gli ultimi dati di Agipronews rivelano che i casinò on line italiani a dicembre hanno raccolto 660 milioni di euro. Secondo un’analisi dell’inglese Ficom Leisure, il giro d’affari delle sale da gioco on line non autorizzate che raccolgono denaro dall’Italia vale ogni anno 9,2 miliardi di euro. 

G

| 38 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

Perdite al gioco totali da tutti i settori (legali): casinò, slot machine, scommesse, gratta e vinci, on line, ecc. [in milioni di dollari, 2011] FONTE: THE ECONOMIST SU DATI H2 GAMBLING CAPITAL

@ (di cui) Perdite al gioco on line

[in percentuale sul totale delle perdite, 2011]


38-39_mappa_V106 23/01/13 08.13 Pagina 39

SVEZIA

2.800

15.700

34.000

24.400

35.200

@ 23,2%

CINA 3.300

@ 8,9%

@ 7%

MACAO

HONG KONG

@ 0,85%

@ 32,2%

GIAPPONE

@ 12%

SINGAPORE

@ 3,3% 16.800

GRECIA

6.500

ITALIA

@ 3,85%

AUSTRALIA

@ 8,2%

| ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 39 |

FONTE: THE ECONOMIST SU DATI H2 GAMBLING CAPITAL; PWC - ILLUSTRAZIONE BASE CARTINA: DAVIDE VIGANÒ

3.200

| scommesse perse |


40-53_ecosol_V106 23/01/13 08.31 Pagina 40

HANS MADEJ / LAIF / CONTRASTO

economiasolidale

dis

Made in Italy a rischio: gli occhiali > 46 Gli inquinatori finiranno all’Inferno > 50 Stipendi e tenore di vita. L’Ue diseguale > 51 Economia sociale, pilastro d’Europa > 52 | 40 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |


40-53_ecosol_V106 23/01/13 08.31 Pagina 41

| negozi o supermercato |

La strada principale di Vernazza, uno dei borghi delle Cinque Terre, in Liguria. Un susseguirsi di piccoli negozietti e ristorantini

La (piccola) istribuzione

Studi americani mostrano una forte connessione tra i modelli di rete commerciale e il benessere socioeconomico dei territori. Indagini e indicatori confermano che i negozi di vicinato migliorano l’inclusione sociale

della ricchezza di Corrado Fontana economia solidale passa per il negozio sotto casa. Cominciano ad accorgersene negli Stati Uniti, ma anche in Italia. Complice il rischio di desertificazione commerciale di molti piccoli comuni, le indagini sull’argomento si moltiplicano, come i tentativi di invertire la tendenza. E anche dove si associa l’alta concentrazione di grandi superfici commerciali a un’idea di rete di distribuzione moderna – Stati Uniti e Gran Bretagna – inizia a diffondersi la consapevolezza che mille negozi di prossimità con un dipendente possono avere ricadute locali positive proporzionalmente superiori a un outlet con mille dipendenti.

L’

I freddi numeri... A certificarlo è, tra le altre, un’indagine svolta sull’area urbana di Portland: Going Local Quantifying the Economic Impacts of Buying from Locally Owned Businesses | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 41 |


40-53_ecosol_V106 23/01/13 08.31 Pagina 42

in Portland, Maine, pubblicata a dicembre 2011 dall’americano Maine Center for Economic Policy (Mecep). L’analisi stima che per ogni 100 dollari spesi in negozi di quartiere si genera una ricaduta economica aggiuntiva per il territorio di circa 58 dollari, contro i 34 per ogni 100 dollari spesi in una catena commerciale nazionale. In altre parole, il denaro investito nelle attività a base locale genera un 76% di ritorno in più per l’economia del territorio. Tanto più significativo se si pensa che una catena commerciale come Dollar Tree rimette i profitti interamente alla sede madre in Virginia, vendendo merci solo per il 40% prodotte negli Stati Uniti e per la quasi totalità fuori dal Maine. Si potrebbe obbiettare “è la globalizzazione, bellezza!”, ma un problema resta: cosa succederebbe se Dollar Tree chiudes-

SITOGRAFIA www.civiceconomics.com, Civic Economics osservatoriocommercio.sviluppoeconomico.gov.it, Osservatorio nazionale del commercio www.ilsr.org, Institute for Local Self-Reliance www.indisunioncamere.it, INDIS di Unioncamere www.mecep.org, Maine Center for Economic Policy

I SUPERMERCATI IN ITALIA ESISTENTI ALL’INIZIO DEGLI ANNI 2000-2010 Valori assoluti Anni

Numero supermercati

Superficie di vendita (mq)

Addetti

Supermercati

Superficie di vendita

Addetti

2000

6.206

5.329.557

112.019

5,3

2,0

3,1

2001

6.413

5.439.695

114.380

3,3

2,1

2,1

2002

6.804

5.736.355

121.344

6,1

5,5

6,1

2003

6.892

5.838.922

124.248

1,3

1,8

2,4

2004

7.209

6.216.904

135.557

4,6

6,5

9,1

2005

7.821

6.698.590

142.985

8,5

7,7

5,5

2006

8.181

7.070.200

149.862

4,6

5,5

4,8

2007

8.569

7.446.235

156.223

4,7

5,3

4,2

2008

8.814

7.746.637

157.898

2,9

4,0

1,1

2009

9.133

8.056.194

164.411

3,6

4,0

4,1

2010

9.481

8.399.498

170.579

3,8

4,3

3,8

se? Citando uno studio del 2007, il Mecep afferma che, spostando il 10% della spesa dei consumatori dalle catene nazionali alle imprese di proprietà locale di Portland si avrebbe una ricaduta aggiuntiva di 127 milioni di dollari di attività economiche, con 874 nuovi posti di lavoro e generando oltre 35 milioni di dollari di salari. Una conferma si trova nell’Indie Impact Study Series: National Summary Report (ottobre 2012) realizzato dall’American Book-

Tra Gas e marketing territoriale di Corrado Fontana

Diciamolo subito, non c’è un’alleanza strategica tra negozi di prossimità e il mondo dei Gruppi di acquisto solidale. Ma cominciano a nascere ragionamenti intorno a questo tema, puntando sui terreni comuni dell’impatto sociale positivo e del radicamento territoriale, offrendo occasioni di sviluppo congiunto delle economie locali e solidali

| 42 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

Variazioni percentuali

sellers Association insieme all’istituto di ricerca Civic Economics su dieci città sparse negli Usa. Il confronto tra esercizi locali e catene nazionali (Barnes & Noble, Home Depot, Office Max, Target per il commercio al dettaglio; Darden, McDonald’s, PF Chang’s nella ristorazione) mostra notevoli disparità negli utili che “ricircolano” sul territorio dove i negozi hanno sede: 52,3% contro 15,8% di ricaduta economica a favore dei piccoli negozi.

VALORE AGGIUNTO Sono diverse le proposte di marketing territoriale delle Camere di Commercio italiane (Avellino, Grosseto, Lodi, Savona), ma a Gorla Maggiore (Varese), terra di conquista per i mega-centri commerciali, è appena partito Valore in Comune, un progetto con lo scopo dichiarato di orientare localmente i comportamenti di spesa dei residenti. Lo strumento è una “carta fedeltà” a punti che mette in connessione i negozi di vicinato del paese, dando diritto a sconti, offerte e servizi aggiuntivi. Un successo, se in un comune di cinquemila abitanti e duemila famiglie sono già 300 le carte emesse, ma che potrebbe avere respiro anche maggiore: «Valore in Comune – secondo il sindaco Fabrizio Caprioli – potrebbe essere un laboratorio per qualcosa di molto più importante. Siamo disponibili, ad esempio, a far sì che i punti maturati con le carte possano essere utilizzati per fruire dei servizi comunali (mensa scolastica, assistenza domiciliare, ecc.) ed è auspicabile che anche gli altri comuni del distretto di Solbiate Olona partecipino al progetto». gorla.valoreincomune.it

FONTE: RAPPORTO “CARATTERISTICHE STRUTTURALI E DINAMICHE DEL SETTORE COMMERCIALE NEL QUADRO DELL’ECONOMIA NAZIONALE” (INDIS - ISTITUTO NAZIONALE DISTRIBUZIONE E SERVIZI, LUGLIO 2011)

| economiasolidale |


40-53_ecosol_V106 23/01/13 08.31 Pagina 43

-0,3

2008/07

2009/08

-2,5

Giovani

Donne

Stranieri

... e la vita delle persone Ritorni certamente utili in un periodo di tagli ai servizi municipali di base. Tanto più se investire sui negozi di vicinato può costituire un ammortizzatore sociale indiretto. Il rapporto sul commercio in Italia pubblicato a settembre 2011 dall’Istituto Nazionale Distribuzione e Servizi (Indis) di Unioncamere sostiene che il commercio abbia assunto «una funzione tipica delle Amministrazioni pubbliche nelle aree più

Anziani

-3,5

svantaggiate del Paese: assorbire una quota dell’offerta di lavoro insoddisfatta». Nella piccola distribuzione l’incidenza delle imprese femminili tende, infatti, ad aumentare e ciò ha un effetto particolarmente positivo nelle regioni del Mezzogiorno (con un tasso di femminilizzazione delle imprese commerciali del 28,2% contro il 25,9% del Centro-Nord), dove c’è maggiore concentrazione di piccole strutture di vendita al dettaglio. Stessa benefica conse-

2010/09

guenza di inclusione sociale si ha per i giovani, che spesso puntano sul commercio per sfuggire alla disoccupazione, e per gli immigrati: i commercianti di nazionalità straniera sono triplicati nell’ultimo decennio, dai 53.310 del 2000 ai 143.977 del 2010 (10,7% del totale nel 2010). E la difesa dei negozi di vicinato può avere benefici anche per la salute. Lo scrivevano alcuni ricercatori dell’Università di Cambridge nel 2011: «Le contee con un

NUOVA DISTRIBUZIONE (AUTO)ORGANIZZATA

CONSUMATORI E PRODUTTORI UNITEVI!

VOLONTARIATO DAI GRANDI NUMERI

A pianificarla è la Cooperativa del Sole di Corbetta (Milano), cooperativa di solidarietà sociale nata trent’anni fa e impegnata nell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Dopo un inaspettato successo, circa due anni fa, nella vendita di cesti natalizi contenenti i prodotti del territorio, i soci hanno cominciato a battere le campagne circostanti entrando in contatto con 100/150 produttori agricoli, e ora – grazie al finanziamento della Fondazione Cariplo – stanno per lanciare una piattaforma di distribuzione che dovrebbe raggiungere i negozi e i ristoratori locali. La cooperativa sviluppa progetti di educazione ambientale nelle scuole, fa manutenzione del verde pubblico per i comuni limitrofi e gestisce un proprio spaccio che rifornisce i Gruppi di acquisto solidale. www.cooperativadelsole.it

Espatriamo fino a Bellinzona, in Svizzera, per incontrare la cooperativa ConProBio (15 dipendenti part-time e quasi 3 milioni di fatturato nel 2011). Con un Cda suddiviso al 50% tra consumatori e produttori del biologico, ConProBio resta formalmente lontana dall’idea dei Gruppi d’acquisto solidale, ma da 10 anni raggruppa per territorio quasi un migliaio di famiglie che individuano dei referenti e scelgono di volta in volta i luoghi dove avviene la distribuzione delle derrate. E dei Gas assume alcune prassi: ha un magazzino in affitto con cella frigorifera e cella a temperatura costante dove ogni mattina vengono confezionate le cassette per gli aderenti, distribuisce le merci con due furgoni che, lungo il percorso di ritorno, caricano dai produttori quelle per le consegne successive. www.conprobio.ch

Da segnalare la struttura che serve 31 Gas di Varese, la cooperativa Aequos, basata su un modello molto volontaristico che punta a ridurre al minimo le intermediazioni. Aequos ha un centro dove arrivano i tir di consegna delle merci e una serie di hub locali di smistamento e decine di produttori certificati con cui vengono programmate le semine. Ciò che appare notevole sono le sue cifre: 58 varietà di frutta e verdura trattate; 190 tonnellate bio acquistate ogni anno; circa 600 volontari coinvolti e più di mille famiglie che usufruiscono del servizio, con un 40% di risparmio stimato sul prezzo degli analoghi prodotti biologici offerti dalla grande distribuzione. www.aequos.eu

BUONO COME IL PANE Spiga & madia (su Valori ne abbiamo parlato molte volte), ci racconta Sergio Venezia del Des della Brianza, «occupa 4 panettieri (tra cui un diciottenne), mette in attività un mulino e sostiene una cooperativa sociale che fa lavorare le persone disabili, realizzando un prodotto di altissima qualità, biologico e locale, di bassissimo impatto ambientale e a un costo inferiore a quello del pane di tipo base comprato in qualsiasi negozio». Vantaggi economici e sociali (attività didattiche indirizzate alle scuole, per cui i bambini possono conoscere la filiera completa del pane) e ambientali: finché i suoi terreni non saranno cancellati dalla costruzione della tangenziale (Teem, vedi Valori di settembre 2012) ci sono 8 ettari di terra preservata dal cemento in Brianza, la zona d’Italia col tasso di edificazione più alto (54%). des.desbri.org/spigamadia/progettospiga-e-madia

| ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 43 |

FONTE: RAPPORTO “CARATTERISTICHE STRUTTURALI E DINAMICHE DEL SETTORE COMMERCIALE NEL QUADRO DELL’ECONOMIA NAZIONALE” (INDIS - ISTITUTO NAZIONALE DISTRIBUZIONE E SERVIZI, LUGLIO 2011)

0,7

Totale

-1,3

-1,5

-2,5

44,5%

-0,4

-0,5

48,1%

Piccola distribuzione

0,5

20%

0%

Grande distribuzione

0,1

72,3%

55,7%

74,5%

79,2% 53,1%

40%

2,5

1,5

80%

60%

[Valori %]

Centri commerciali

0,5

Attività commerciali di quartiere

-1,8

100%

VARIAZIONI PERCENTUALI DELLE SPESE IN ITALIA PER COMPARTO DI COMMERCIALIZZAZIONE NEGLI ANNI 2008-2010

1,6

CAPACITÀ DEGLI ESERCIZI COMMERCIALI IN ITALIA DI MIGLIORARE LE CONDIZIONI DI VITA QUOTIDIANA (PERCEZIONI EMERSE DAL SONDAGGIO)

76,8%

FONTE: RAPPORTO “CARATTERISTICHE STRUTTURALI E DINAMICHE DEL SETTORE COMMERCIALE NEL QUADRO DELL’ECONOMIA NAZIONALE” (INDIS - ISTITUTO NAZIONALE DISTRIBUZIONE E SERVIZI, LUGLIO 2011)

| economiasolidale |


40-53_ecosol_V106 23/01/13 08.31 Pagina 44

FONTE: RAPPORTO INDIE IMPACT STUDY SERIES: NATIONAL SUMMARY REPORT REALIZZATO DA AMERICAN BOOKSELLERS ASSOCIATION E CIVIC ECONOMICS SU 10 COMUNITÀ LOCALI COMPRENDENTI GRANDI E PICCOLE CITTÀ, DA UNA COSTA ALL’ALTRA DEGLI STATI UNITI (ANDERSONVILLE, ILLINOIS; LAS VEGAS, NEW MEXICO; LOUISVILLE, KENTUCKY; MILWAUKEE, WISCONSIN; OGDEN, UTAH; PLEASANTON, CALIFORNIA; RALEIGH, NORTH CAROLINA; SALT LAKE CITY, UTAH; SIX CORNERS, CHICAGO, ILLINOIS)

| economiasolidale |

CATENE VS DETTAGLIANTI INDIPENDENTI (IN ITALIA) [Elaborazione che comprende sia attività di commercio che della ristorazione] CATENE COMMERCIALI NAZIONALI

15,8%

COMMERCIANTI INDIPENDENTI Profitti e salari

52,3%

28,6% Acquisti per necessità interne

5,1% Donazioni caritative

2,6%

Acquisti per rivendita

16%

vivace settore di piccole imprese hanno tassi più bassi di mortalità e una più bassa prevalenza di obesità e diabete». La crescita delle piccole imprese locali promuoverebbe un atteggiamento proattivo dei cittadini e il successo di politiche pubbliche, favorendo la diffusione di infrastrutture sanitarie, e un controllo sociale dei comportamenti negativi per la salute. 

UN DESERTO DI NEGOZI «Non c’è dubbio che dove sopravvivono i negozi di vicinato la qualità della vita sia migliore: l’Italia è una serie di piccoli paesi e campanili che, in assenza di questo tipo di esercizi, rimarrebbero sforniti. E un paese senza negozi dal punto di vista economico va verso la dismissione». Lo afferma Claudio Salvucci, amministratore e socio di Simurg Ricerche, società di Livorno specializzata in pianificazioni territoriali per gli enti locali. E, mentre sottolinea che proprio per evitare la “dismissione” di intere comunità, l’equilibrio della rete commerciale è fondamentale, Salvucci ricorda il caso dell’insediamento del centro commerciale di Barberino del Mugello, che ha portato a una maggior diffusione di esercizi di somministrazione (bar, ristoranti, ecc.) nei dintorni, a fronte di una riduzione di quelli di abbigliamento, calzature. Insomma gli outlet modificano i territori e, dopo anni di allentamento delle maglie che ne frenavano la diffusione, oggi le amministrazioni corrono ai ripari con varie strategie di marketing territoriale, come ad esempio la pianificazione dei cosiddetti “centri commerciali naturali”: una piazza o una via dove i negozi locali possono costituire, tutti insieme, una sorta di “centro commerciale diffuso”, interconnessi tramite associazioni o società, beneficiando di qualche forma di riqualificazione urbana dedicata. Una soluzione intermedia che però non sempre salva il salvabile, se secondo Simurg Ricerche circa l’80% di queste esperienze non funziona. Del resto, secondo Indis di Unioncamere, i rischi di desertificazione commerciale dei centri storici e delle prime periferie italiane sono ormai sensibili. Nel biennio 20082009 sono state 112.726 le cessazioni di ditte individuali nel commercio al dettaglio (sebbene molte chiusure possano essere state in realtà riconversioni o cambi di gestione). Di contro da almeno un decennio si assiste alla crescita dei numeri della grande distribuzione organizzata (Gdo): i supermercati sono aumentati dai 6.200 del 2000 ai quasi 9.500 del 2010. E la Gdo assorbe proporzionalmente una grandissima parte delle spese delle famiglie: nel 2010 non rappresentava nemmeno il 3% dell’intera rete distributiva, ma in termini di superfici di vendita valeva già il 26%, incamerando quasi 117 milioni e 300 mila euro di vendite, tra alimentari e non, contro i 160 milioni e 500 mila euro di tutta la piccola distribuzione. E, denuncia l’Indis, «da una stima del differenziale di produttività esistente nel 2010 tra gli esercizi della grande distribuzione e i piccoli negozi considerati emergerebbe che la Gdo presenta un valore medio pari da due a tre volte quello della piccola distribuzione».

10 BUONE RAGIONI PER “COMPRARE LOCALE” (SECONDO L’INSTITUTE FOR LOCAL SELF-RELIANCE) 1. In un mondo sempre più omogeneo, le comunità che conservano le loro specificità imprenditoriali hanno un vantaggio economico. 2. Le imprese a proprietà locale contribuiscono a costruire comunità forti sostenendo centri urbani vivaci, rinsaldando una rete di relazioni economiche e sociali tra i vicini e promuovendo gli interessi del territorio. 3. La presenza di imprese a proprietà locale garantisce che le decisioni importanti per il territorio siano elaborate da persone che vivono nella comunità e, perciò, che subiscono gli effetti di tali decisioni. 4. Le imprese a proprietà locale riciclano una quota assai maggiore delle loro entrate nell’economia locale, arricchendo l’intera comunità. 5. Le imprese a proprietà locale creano più posti di lavoro a livello locale e, in alcuni settori, forniscono migliori salari e benefici rispetto alle catene commerciali di rilievo extraterritoriale.

| 44 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

6. L’imprenditorialità (locale) alimenta l’innovazione economica (americana) e la prosperità, e funge da strumento chiave per promuovere nella classe media le famiglie che vivono con basso reddito. 7. I negozi tipici nei centri storici richiedono infrastrutture relativamente limitate e permettono un uso più efficiente dei servizi pubblici rispetto a negozi delle grandi catene e ai centri commerciali. 8. I negozi tipici contribuiscono a mantenere vivaci i centri e concentrate le aree pedonali delle città, che, a loro volta, sono essenziali per ridurre il consumo di suolo da urbanizzazione, l’uso dell’automobile, la perdita di habitat naturale e l’inquinamento delle acque e dell’aria. 9. Un mercato di decine di migliaia di piccole imprese garantisce l’innovazione e prezzi bassi, favorendo la concorrenza. 10. Una moltitudine di piccole imprese, ciascuna capace di proporre una selezione dei prodotti base, elaborata secondo i propri interessi e le esigenze dei clienti del territorio, non in prospettiva di vendita su scala nazionale, garantisce una gamma molto più ampia di scelta di prodotti.


40-53_ecosol_V106 23/01/13 08.31 Pagina 45

| lettereavalori |

Finanza etica, Gas, economia civile

Per costruire insieme Riceviamo e volentieri pubblichiamo un altro contributo arrivato alla redazione di Valori riguardo all’articolo “Banca Etica e i Gas non così vicini” presente sul numero di novembre 2012. Dopo Patrizio Monticelli (dicembre 2012, pag. 71) è la volta di Ugo Biggeri, presidente di Banca Popolare Etica

di Ugo Biggeri (presidente di Banca Popolare Etica)

C

prattutto la finanza ci sembra una controparte a cui chiedere qualcosa e non un mezzo assieme a cui costruire qualcosa. I meccanismi in realtà sono semplici per la finanza etica cooperativa (BancaEtica, le Mag, ecc.): la proprietà cooperativa dei soci azionisti, il capitale sociale come leva per poter erogare dei finanziamenti, la raccolta di risparmio per poterli fare, la scelta dei finanziamenti con la dovuta attenzione a fattibilità economica, garanzie, durata. È un percorso in cui si può essere protagonisti in modo relativamente più semplice rispetto ad altre imprese, partecipando direttamente alla produzione! Infatti il nostro capitale sociale è il mezzo di produzione, il nostro risparmio, la materia prima che un’istituzione di finanza etica trasforma in acceleratore di economia civile, la struttura operativa, la professionalità necessaria. E sono i soci che ne determinano in modo democratico le scelte fondamentali. È un terreno sul quale forse si può fare di più da entrambe le parti per fare rete in modo più efficace. I prodotti specifici che servono all’economia civile e ai Gas arriveranno più facilmente. 

ompreremmo un alimento incartato sulla cui etichetta c’è il prezzo, ma su cui non sono indicati provenienza, ingredienti, scadenza? E se non ci fosse indicata neanche la presenza o meno di eventuali additivi e conservanti? E se sapessimo sicuramente che non è stato prodotto con alcuni criteri per noi importanti come quello dell’agricoltura biologica, o del modello di impresa responsabile? Il consumo critico nasce da domande semplici come queste, a cui si aggiunge una “domanda” che cerca di orientare l’“offerta” di prodotti. Un percorso complesso, ma che fa dei cittadini non dei consumatori, bensì degli operatori di economia civile. Dei cittadini che, per piacere e per convinzione, cercano di coniugare le scelte economiche quotidiane con un percorso economico coerente e attivo nell’innescare il cambiamento dell’economia non-responsabile o irresponsabile che va per la maggiore. Un percorso in atto in tutto il mondo e in Italia portato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo che Gas e Banca Etica sostengono da alcuni anni. L’agricoltura biologica, il commercio equo, la finanza etica, il turismo responsabile, i Gruppi di acquisto solidale, molte imprese sociali nascono da questa semplice scelta di

La finanza etica è considerata una controparte a cui chiedere qualcosa più che un mezzo assieme a cui costruire qualcosa attenzione alle conseguenze dei nostri comportamenti che hanno risvolti economici. Nella mia esperienza si fa un po’ di fatica a considerare la finanza un “prodotto” di cui è importante chiedere l’etichetta. Guardiamo giustamente i prezzi (i tassi) e il tempo di cottura (l’efficienza), ma non altre informazioni fondamentali: da dove vengono i soldi, cosa ci viene finanziato, qual è la struttura proprietaria e come ci si relaziona alle reti dell’economia civile. La finanza ci sembra tutta uguale e spesso si confondono le potenzialità di banche piccole e grandi. Non comprendiamo i suoi meccanismi e quindi non scegliamo in modo attento. So-

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| economiasolidale | made in italy a rischio/puntata 1 |

La valle degli occhiali in lotta contro il deserto (industriale) di Emanuele Isonio

Nel Bellunese, lo storico distretto italiano risente della crisi e della concorrenza internazionale. In dieci anni hanno chiuso 400 aziende e si sono persi tremila posti di lavoro. Ma i fatturati crescono, soprattutto per i grandi gruppi ella mia azienda lavoravano 200 persone. Ora sono 8-9. Doverli licenziare per me è stato un colpo al cuore, una cosa che mi ha lacerato dentro e ha segnato anche la mia famiglia. Un giorno mio figlio tornò in lacrime perché a scuola era stato insultato da un suo compagno di classe, figlio di un mio operaio. Gli aveva detto: “Tuo padre è cattivo perché ha tolto il lavoro al mio”. Per mesi non ce la facevo nemmeno ad andare nella piazza del paese a comprare il giornale. Non riuscivo a sostenere gli sguardi dei miei concittadini». Fa una strana impressione risalire l’Alemagna Bis, la statale bellunese che dal Lago di Cadore porta al Parco delle

«N

Tre Cime. A fare da contraltare a un panorama idilliaco, fra boschi, borghi e picchi, c’è una lun ga sequenza di outlet. Identico il prodotto: gli occhiali. L’effetto è quello di una valle in svendita. Eppure, narra la leggenda, proprio a Calalzo di Cadore un ambulante, girando mezza Europa, s’inventò il commercio degli occhiali. Da lì nacque lo storico distretto. Dopo decenni di dominio incontrastato oggi la realtà appare diversa. Soprattutto per le centinaia di piccoli produttori che costellavano questi luoghi. Per il big mondiale del settore, il colosso Luxottica di Leonardo del Vecchio, gli affari vanno a gonfie vele. Ma attorno lo scenario è cambiato. Forse irreparabilmente.

IL MADE IN ITALY NON FOOD SOTTO LA LENTE DI VALORI Dopo 20 puntate – per tutto il 2011 e il 2012 – dedicate a luci e ombre dei cibi made in Italy, inizia con questo numero una nuova serie. Quest’anno parleremo ancora di produzioni italiane, ma non food. Chi volesse suggerire i temi delle puntate, può farlo scrivendo a redazione@valori.it.

Ricavi in crescita, aziende in calo Il racconto con cui abbiamo voluto aprire questa prima puntata sul made in Italy non food ci è stato fatto da Giorgio Ciotti, titolare della Colorvision di Domegge di Cadore, ex presidente di Sipao, l’associazione interna ad Assindustria Belluno che riunisce le industrie produttrici di articoli per l’occhialeria, quando per caso siamo capitati nel suo outlet. Testimone oculare della realtà che ha

Per fortuna che l’estero c’è di Emanuele Isonio

Le esportazioni trainano le produzioni dell’occhialeria italiana. In crescita il peso dei nuovi ricchi. Nella top 10: Hong Kong, Corea del Sud, Emirati Arabi e Turchia Con un mercato interno che annaspa da anni, guardare all’estero diventa una questione di vita o di morte per l’occhialeria italiana. I numeri in questo caso sono fortunatamente positivi: Il valore dell’export è passato negli ultimi tre anni da 1,1 a 1,4 miliardi di euro a fronte di un import, anch’esso in crescita, ma con dati ben inferiori (dai 282 milioni del 2010 ai 347 milioni dell’anno scorso). A far ben sperare per il futuro è il dato che emerge

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dai principali Paesi di esportazione. Ai mercati “tradizionali”, infatti, si stanno stabilmente affiancando i nuovi ricchi del Pianeta. Stati Uniti, Francia e Spagna sono ancora i primi tre Paesi importatori di occhiali italiani (con un 41% del peso totale), ma nei primi dieci ci sono anche Hong Kong, Corea del Sud, Emirati Arabi e Turchia. E anche la Cina fa capolino (undicesima, rappresenta il 2% delle esportazioni italiane). «Prima che una minaccia, la Cina deve essere vista come un’opportunità», osserva Cirillo Marcolin, presidente Anfao. «È un mercato in grand issima espansione, in cui le esportazioni crescono a doppia cifra (+81%), mentre alcune tradizionali mete del nostro export risultano colpite dalla decelerazione della domanda. Dobbiamo quindi conquistare i buyer delle nuove aree di sviluppo,


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colpito molte delle aziende che lavoravano come terzisti per i grandi marchi dell’occhiale italiano. Da Luxottica a Safilo, da De Rigo a Marcolin e Marchon. I dati ufficiali mostrano in effetti un andamento curioso (vedi GRAFICO ). Da un lato il fatturato totale del settore nell’ultimo decennio è cresciuto del 42% (da 1,8 a 2,6 miliardi di euro). Dall’altro il numero di occupati e aziende, che invece è in calo pressoché costante: rispettivamente -16% e -33% (un po’ meglio le realtà industriali, il cui calo è “solo” del 21%).

DATI NAZIONALI Anno

Fatturato in milioni di euro (valore della produzione)

Occupati*

Aziende

di cui industriali

2011

2.650

16.120

903

172

2010

2.448

16.150

927

175

2009

2.251

16.600

950

178

2008

2.634

17.500

1.005

185

2007

2.774

18.500

1.050

195

2006

2.501

18.000

1.098

199

2005

2.126

16.900

1.130

200

2004

1.908

16.980

1.180

201

2003

1.881

17.800

1.270

215

2002

1.859

19.200

1.350

220

FONTE: ELABORAZIONE ANFAO SU DATI ISTAT E GLOBAL TRADE

| economiasolidale |

Africa

2%

2%

2008

2009

8,2% 10,9% 5,7% 0,4%

19,8% -1,4%

8,7% 18,0% -7,3% -6,2%

2007

-0,4% -5,7%

5,9%

2006 Importazioni

-14,5% -16,3%

-5,0% -3,3%

11,6% 25,6%

4,5%

11,4% 14,0%

2005

hanno spalle sufficientemente larghe. «Le piccole e medie aziende sono piene di idee ma hanno bisogno di un sostegno finanziario sempre più difficile da ricevere

permettendo loro di toccare con mano l’eccellenza qualitativa dei nostri prodotti». Asia Discorso ineccepibile, 18% ma difficile da realizzare Europa 50% per i piccoli produttori. America Puntare sull’export potrebbe 28% quindi spingere a un’ulteriore concentrazione del settore in poche mani. «Ma questo non è necessariamente vero», ribatte Lorraine Berton, presidente Sipao. «Sia in Italia sia all’estero si cercano sempre più prodotti di nicchia e stanno anche aprendo negozi ad essi dedicati. E in genere sono tra i meglio frequentati».

Oceania

2004 Esportazioni

4,8%

2003

7,7%

1,4%

1,2% -3,5%

2002

Produzione

34,7%

0

5,2% 3,5%

500

-9,0% 4,4%

1,2% 2,4%

1500 1000

1,4%

2500 2000

17,6% 18,5%

3000

10,9%

UN DECENNIO DI OCCHIALI ITALIANI: PRODUZIONE, IMPORT, EXPORT E MERCATO INTERNO [Valori in milioni di euro]

10,5% 4,1%

«In generale – ammette Cirillo Marcolin, presidente di Anfao, associazione che raggruppa i principali produttori di articoli ottici – si è ridotto il numero delle aziende del comparto ed è aumentata la concentrazione del mercato, ma il grado di competizione rimane sempre molto alto. Non saprei dire che cosa succederà nel 2013, ma è certo che il futuro sarà nel segno della concentrazione, della condivisione dei costi, dello sfruttamento delle sinergie». Una tendenza inevitabile se a questi numeri affianchiamo quelli dell’export, unico cavallo a trainare le aziende italiane (vedi BOX ). Perché le economie di scala e la penetrazione nei mercati dei nuovi ricchi difficilmente possono essere realizzate da piccole realtà. E persino un fattore teoricamente meno complesso come l’accesso al credito, è impossibile se non si

2010

2011

Mercato interno

dalle banche», denuncia Marcolin. A questo si aggiunge la preoccupazione della concorrenza low cost proveniente dall’Estremo Oriente, che costringe le aziende

OCCHIALERIA: IMPORT/EXPORT [dati in milioni di euro] 2010

2011

2012

import

export

import

export

import

export

Lenti (vetro e altri materiali)

80,6

29,7

89,9

30,1

87,5

32,5

Montature + occhiali da sole

282,8

1129,3

313,2

1303

347,2

1375,5

Totale

363,4

1159

403,1

1333,1

434,7

1408

FONTE: ELABORAZIONI ANFAO SU DATI COEWEB ISTAT E GLOBAL TRADE ATLAS

| ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 47 |

FONTE: ELABORAZIONE ANFAO SU DATI ISTAT E GLOBAL TRADE

Il futuro è per i grandi


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| economiasolidale |

italiane a rivedere la propria strategia: «Le nostre realtà devono orientarsi verso i clienti che capiscono l’importanza di puntare sulla qualità e non sulla quantità», osserva Lorraine Berton, presidente di Sipao. «Soprattutto nel caso degli occhiali, che sono oggetti di moda, ma anche strumenti di correzione della vista, l’eccellenza è un fattore imprescindibile e sempre più richiesto. Questa fetta di mercato, in Patria e all’estero, riconosce il nostro primato. Sta a noi riuscire a intercettarla, puntando su formazione, innovazione, avanguardia. Combattere i concorrenti esteri sulla fascia dei prezzi bassi non ha senso né futuro». 

Per i piccoli è “caccia alla nicchia” di Emanuele Isonio

LUXOTTICA, IL “PADRONE” DELLA FILIERA TRA LUCI E OMBRE È un’arma a doppio taglio avere un sostanziale monopolista all’interno di una filiera industriale. Soprattutto se si chiama Leonardo Del Vecchio ed è a capo di un colosso da 7 miliardi di euro in crescita (+17% i ricavi del 3° trimestre 2012 rispetto allo stesso periodo dell’anno prima). A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, Luxottica ha fatto indubbiamente il successo dell’occhialeria italiana. Fondata nel ’61, con appena 14 dipendenti, oggi ne conta ottomila (la metà di tutta la filiera). È proprietaria di dodici marchi (tra cui Rayban, Oakley, Vogue e Persol) e licenziataria di altri 23 (tra i quali da quest’anno torna Armani, strappato alla Safilo, con un danno del 20% del fatturato di quest’ultima e mille licenziamenti evitati solo grazie a un contratto di solidarietà). Quotata in Borsa sia a Piazza Affari sia a Wall Street, è però ancora un’impresa a carattere familiare, capace di costruire un welfare interno che integra quello statale: mutua aziendale, libri di testo per i figli dei dipendenti, borse di studio per quelli più meritevoli, una spesa di 110 euro con i principali generi alimentari. A voler essere pessimisti, però, non si possono non evidenziare zone d’ombra. Come la “bizzarra” scelta di intestare il 67% della società a una srl lussemburghese, la Delfin Srl, che qualche anno fa è entrata nel mirino degli agenti del Fisco insieme alla Leofin Holding Gmbh, accusata di essere una società di comodo nata con l’intento di sfruttare il regime di tasse più favorevole. Un’indagine sfociata in una contestazione di 500 milioni di arretrati e chiusa con un accordo da 300 milioni. C’è poi una preoccupazione tutta industriale. Concentrare il settore produttivo in un’unica realtà porta con sé il rischio di rimanere in balìa delle scelte di una sola azienda. «Crescono le quote degli stabilimenti cinesi. Ci metterebbero un attimo a trasferire le produzioni da qui a Dong Guan», denunciava mesi fa Valentina De Rold, rappresentante Rsu Luxottica di Agordo in un’intervista al Manifesto. «Se i big decidono di andarsene nessuno li può fermare», ammette Osvaldo Boglietti, segretario nazionale Femca Cisl. «C’è un motivo per cui rimangono ancora qua: l’occhiale è diventato un pezzo del nostro abbigliamento e un elemento del made in Italy che vince nel mondo. Gruppi come Luxottica non possono rinunciarvi». Fino a quando? Em.Is.

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Strette tra lo strapotere dei grandi gruppi e la concorrenza low cost estera, le Pmi dell’occhiale italiano devono diversificare le loro produzioni. Inventandosi un modo per stare a galla all’insegna dell’originalità arole d’ordine: innovare, inventarsi una nicchia di mercato, abbandonare l’idea di continuare a fare i terzisti a vita. Sembrano essere linee guida imprescindibili per le piccole e medie imprese dell’occhialeria italiana. Per loro, la vita diventa sempre più difficile. Stretti in una doppia morsa: da un lato la concorrenza estera di fascia bassa a prezzi inarrivabili (resi possibili riducendo la qualità, ma anche sfruttando l’assenza di leggi a tutela dei lavoratori). E, dall’altro, le strategie dei big del settore che tendono a occupare tutte le fasi della filiera, dalla produzione alla distribuzione fino alla commercializzazione (è di fine novembre l’annuncio dell’acquisto da parte di Luxottica del 36% della Salmoiraghi e Viganò, catena con 500 negozi in tutta Italia, pari al 7% del mercato nazionale). Le conseguenze per i piccoli produttori sono presto dette: «Spesso ai negozi di ottica viene imposto di vendere l’intera gamma di occhiali di un grande gruppo, se vogliono continuare a poter avere i modelli di punta. E così gli spazi per gli altri produttori si restringono sempre di più. Anche perché spesso siamo gli ultimi a essere pagati dai rivenditori, perché abbiamo meno potere contrattuale», racconta Giorgio Ciotti di ColorVision.

P

Il ritorno all’artigianalità In una situazione simile il futuro sembra roseo solo per chi riesce a ricavarsi un settore non (ancora?) occupato dai grandi marchi. Tornando all’artigianalità. Oppure specializzandosi in produzioni di alta gamma. «Quando ho dovuto licenziare quasi tutti i miei dipendenti – racconta Ciotti – sono tornato a fare l’occhialaio artigianale. Ho cercato di proporre modelli originali e innovativi, che potessero attirare l’attenzione del pubblico interessato ad avere un occhiale di provenienza certa, di buona qualità, ma a prezzi accessibili». A questa scelta ha poi associato una manciata di punti vendita tra l’Emilia, Vicenza, la costiera romagnola, Cortina e Innsbruck. «È il solo modo che mi garantisce di avere una penetrazione nel mercato. Produco i miei occhiali, i modelli che più mi incuriosiscono e posso pure venderli direttamente».


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| economiasolidale |

Il futuro nel titanio Altri hanno invece battuto terreni quasi vergini. Come la Pramaor di Taibon Agordino, nata negli anni ’70 come terzista di Luxottica e poi divenuta negli anni ’90 produttrice di montature in titanio. Avanguardia pura, per l’occhialeria italiana e con pochi paragoni nel mondo. «Abbiamo acquisito il know-how in Giappone e da lì compriamo ancora le materie prime», spiega Nicola Del Din. «Ma poi realizziamo tutto in provincia di Belluno». Quello che viene fuori è un occhiale di grande pregio per una clientela di fascia alta, ideale per incontrare l’interesse dei clienti esteri. Tanto da essere stato presentato come eccellenza davanti ai Capi di Stato e di governo al G8 de L’Aquila nel 2009. 

URGONO OPERAI SPECIALIZZATI: A BELLUNO UN CORSO PER PERITI DELL’OCCHIALE Senza operai specializzati una filiera industriale non ha nessuna probabilità di continuare a prosperare. E gli imprenditori (almeno quelli più illuminati) lo sanno bene. Per questo, dall’anno scolastico 2012/2013, a Belluno (dove si concentra l’80% della produzione di occhiali italiana), all’interno dell’Istituto tecnico industriale Girolamo Segato è stato creato un indirizzo di Tecnologia dell’occhiale, per formare un perito specifico per le industrie del settore. Una specializzazione del tutto nuova in Italia, fortemente voluta da Confindustria Belluno Dolomiti. Ma il percorso per crearla non è stato affatto semplice: basti pensare che è iniziato a fine 2009 e per arrivare alla (felice) conclusione sono serviti un decreto del presidente della Repubblica, una convocazione al ministero dell’Istruzione, la creazione di un gruppo di lavoro, vari decreti ministeriali, un confronto con le parti sociali. «Purtroppo questi sono i tempi della burocrazia. Ma finalmente – spiega Lorraine Berton, presidente di Sipao – potremo formare sul nostro territorio periti di alto livello che aiuteranno a mantenere la qualità aziendale vicina all’eccellenza. In questi casi l’interazione tra scuola e lavoro è essenziale per unire le conoscenze teoriche alla vita pratica in azienda».

Sindrome cinese: costi irrisori e salute a rischio di Emanuele Isonio

Dall’Oriente non arrivano solo occhiali a prezzi stracciati. A causa loro si moltiplicano i casi di danni agli occhi e dermatiti. Fino all’infertilità maschile Se non bastassero il danno che si arreca ai prodotti italiani e l’indiretto sostegno a politiche del lavoro da Medioevo, c’è anche un fattore sanitario da tenere a mente prima di acquistare a pochi euro occhiali provenienti dall’Estremo Oriente. L’allarme arriva dalle Forze dell’ordine impegnate in sequestri sistematici di occhiali cinesi: le analisi effettuate hanno riscontrato che le lenti usate non filtrano i raggi UV, distorcono le immagini e possono causare danni alla retina, oltre a vertigini e cefalee. Il contatto della pelle con le montature può rilasciare nichel e provocare dermatiti allergiche. Reazioni pericolose. Ma nulla a confronto con quanto scoperto dai finanzieri di Venezia: durante un controllo hanno sequestrato 600mila paia di occhiali importati illegalmente. Le analisi di laboratorio hanno rivelato che i coloranti delle montature contenevano estrogeni che a contatto con la pelle umana provocano infertilità maschile. A guadagnarci sono solo gli importatori che acquistano dalla Cina i singoli pezzi a un valore medio di dieci centesimi a paio e li riescono a rivendere (spesso in nero) a un prezzo 80-150 volte superiore (ovvero tra gli 8 e i 15 euro). Tra prodotti a basso costo e imitazioni delle griffe italiane il giro d’affari è impressionante: «Nel nostro settore la contraffazione ci fa perdere ogni anno circa il 15% del fatturato», spiega Cirillo Marcolin, presidente di Anfao.

Per contrastare il fenomeno la sola attività repressiva ovviamente non può bastare. Le associazioni di categoria spingono per una rigorosa tracciatura della provenienza dei prodotti. Ma il problema di controllare il rispetto di tale norma rimarrebbe comunque. L’ultimo argine spetta agli acquirenti. «È importante – consiglia Marcolin – che si diffonda tra i consumatori una nuova cultura dell'acquisto che è poi cultura del buonsenso da usare nella scelta dei prodotti. Stiamo assistendo a una razionalizzazione dei consumi, ma il prezzo non può essere l'unico metro di valutazione: bisogna diffidare dei prezzi troppo bassi, ma anche delle etichette incomplete o in altre lingue. Nel caso degli occhiali la prima cosa da controllare è che siano muniti della marcatura CE apposta in maniera visibile, leggibile, indelebile e inconfondibile».

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| economiasolidale | i fedeli e l’ambiente |

Gli inquinatori finiranno all’Inferno di Emanuele Isonio

Introdurre un vero e proprio “peccato contro il Creato”: lo propone una ricerca sull’impronta ecologica delle famiglie cattoliche. Che rivela: usiamo quattro volte più risorse di quante gli ecosistemi italiani riescano a produrre

DISTRIBUZIONE IMPRONTA ECOLOGICA MEDIA PARI A 4,6 GHA/PRO CAPITE Servizi Rifiuti

se i peccati contro il Creato entrassero fra le cause di dannazione eterna? Gli agnostici probabilmente rideranno di questa proposta. Gli inquinatori incalliti difficilmente si convertiranno (ce li vedete i vertici dell’Ilva o i responsabili dei disastri di Fukushima o del Golfo del Messico tremare di paura?), ma ben diversa potrebbe essere la reazione dei tanti fedeli normali. L’aspetto interessante della vicenda è che l’idea di uno specifico peccato contro le risorse naturali è contenuta in una ricerca scientifica – “La Terra è casa tua” – finanziata dalla fondazione Cariplo e realizzata dall’associazione Greenaccord. Obiettivo: fotografare l’impronta ecologica di quasi trecento nuclei familiari, selezionati attraverso le diocesi di Milano, Napoli, Brescia e Bergamo. Un calcolo cruciale, per conoscere l’impatto di ciascuno di noi sull’ambiente circostante, visto che già oggi consumiamo il 30% in più delle risorse naturali del Pianeta e le stime prevedono che, con l’attuale modello di sviluppo, da qui al 2050 la produzione di cibo dovrà aumentare del 70%.

E

Una dieta antiecologica L’impegno delle famiglie per invertire il trend e costruire un rapporto più virtuoso con la Natura è quindi essenziale. Ma pochi sanno quale sia la propria impronta ecologica. I risultati della ricerca Greenaccord sono in questo senso negativi: ciascuna famiglia esaminata consuma quattro volte più risorse di quanto l’Italia sia in | 50 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

grado di produrre. Ancor più interessante è la ripartizione dei vari consumi: non sono i trasporti a incidere sull’impatto ambientale delle famiglie (sono penultimi tra le sette voci prese in esame). La parte del leone, con il 47% dell’impatto, è invece riservata agli alimenti: il consumo eccessivo di proteine animali richiede, infatti, un consumo enorme di materie prime alimentari e di risorse idriche. Sul podio, a pari merito, anche gli acquisti di beni di consumo e la produzione di rifiuti. L’analisi è per molti versi impietosa. Ma ha dimostrato anche un altro aspetto: una volta individuati i settori in cui l’impatto ambientale è maggiore, le famiglie si sono spesso rese disponibili a modificare gli stili di vita più pericolosi per la Natura. E nelle rilevazioni fatte a mesi di distanza, le famiglie avevano orientato i loro consumi verso una maggiore sobrietà ecologica.

Gli “anatemi” aiutano «Questo progetto – spiega l’economista Andrea Masullo, responsabile della ricerca – dimostra che si può avere un rapporto più sano e non più utilitaristico tra uomo e Natura». Che tra i cattolici può essere incentivato se dai vertici della Chiesa arrivano i giusti messaggi: «Abbiamo potuto verificare – prosegue Masullo – che quando le gerarchie ecclesiastiche lanciano appelli di sobrietà, i fedeli rispondono in maniera sorprendente». Da qui la proposta, contenuta nelle conclusioni della ricerca: «L’attenzione che i fedeli hanno verso i

8%

11% Trasporti

7% Alimenti Energia

47%

7% Casa

9% Beni di consumo

11%

messaggi morali della Chiesa e la poca attenzione che hanno, se non stimolati, verso i temi ecologici, ci fanno ritenere opportuno che si valuti l’ipotesi di formulare la fattispecie di peccato contro il Creato». La proposta è senz’altro dirompente. Ma in fondo già anticipata negli interventi di pontefici e cardinali. Nel 1991, nella Centesimus Annus, Giovanni Paolo II accusava l’uomo di «tiranneggiare piuttosto che governare la Natura, provocandone così la ribellione». Nel 2009, Benedetto XVI giudicava «ormai indispensabile adottare nuovi stili di vita nei quali le scelte di consumi, risparmi e investimenti siano determinati dalla ricerca del vero, del bello, del buono». L’anno successivo, Francesco Coccopalmerio, capo del Consiglio per i testi legislativi (l’ufficio che ha il compito di proporre e interpretare le leggi della Chiesa), ammoniva: «Non si può pensare di risolvere il problema dell’ambiente senza un profondo cambiamento culturale e una capillare educazione che crei una nuova coscienza ecologica». Undici mesi fa, Ratzinger lo ha promosso cardinale. 


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| economiasolidale | ricchi e poveri |

Stipendi e tenore di vita L’Ue delle disuguaglianze di Andrea Barolini

l vizio di fondo dell’Unione europea è quello di essersi costituita prima di tutto come comunità economica e monetaria, senza riuscire a raggiungere, al contempo, lo stesso grado di integrazione politica. Tra le numerose conseguenze di questa incompiutezza c’è anche la mancanza di politiche comuni efficaci, finalizzate ad armonizzare stipendi e tenore di vita nei Paesi membri. Così, in particolare tra il Sud e l’Est del Vecchio Continente, da un lato, e le nazioni centrali e settentrionali, dall’altro, le differenze risultano in alcuni casi gigantesche. Un recente studio dell’Osservatorio sulle disuguaglianze (organismo francese indipendente, composto da economisti, filosofi, sociologi e giuristi) ha fotografato la situazione attuale, svelando alcune “sorprese”. Se, da un lato, non stupisce che la Spagna risulti più povera della Svezia, dall’altro è inaspettato che i cittadini iberici più ricchi vivano quasi con le stesse risorse degli scandinavi più agiati. Il livello medio di reddito percepito dagli svedesi è, infatti, superiore di ben il 36% rispetto a quello segnalato in Spagna. Una forbice che, per il 10% di cittadini più poveri dei due Paesi, è ancora più ampia: i redditi risultano pari a 839 e 451 euro. Al contrario il divario si restringe di netto se si prende in considerazione il 10% di popolazione più

I

ricca: in Svezia, essa dispone solo del 9% in più rispetto agli spagnoli più agiati. E se si considera la ristretta minoranza dell’1% di ultra-ricchi, il rapporto arriva perfino a invertirsi: gli spagnoli percepiscono un 5% in più degli svedesi. E lo stesso confronto tra i greci e gli scandinavi parla di un 20% in più a favore dei “paperoni” ellenici!

Paradossi sociali Ciò che emerge, dunque, è il paradosso sociale per il quale in alcuni dei Paesi europei più in difficoltà, non soltanto le persone comprese nelle fasce di reddito medio-basse percepiscono stipendi con i quali è difficile sopravvivere, ma sono perfino costrette a convivere con sacche di opulenza inaccettabili, anche e soprattutto in periodi di dura crisi come quella attuale. Dal rapporto emerge che il reddito medio mensile nell’Ue è pari a 1.230 euro, con l’Austria che vanta il dato più alto (1.590 euro). Cifra ben 5,4 volte

più alta rispetto alla Romania (che si ferma a 295 euro). Tra i Paesi meglio posizionati ci sono poi la Francia (1.487 euro) e la Germania (1.477), mentre la Bulgaria (con 500 euro) contende a Bucarest il ruolo di fanalino di coda. Ma la parte più penosa di questa classifica riguarda i più poveri: il 10% di chi se la passa peggio in Romania percepisce soli 120 euro al mese. Contro i 900 euro della stessa “categoria” in Austria, e gli 812 euro in Francia. Ancor più preoccupante è il fatto che gli autori dello studio hanno armonizzato i dati, tenendo conto del costo della vita di ciascun Paese (affittare una casa a Bucarest è molto meno caro rispetto a Vienna). Sono stati poi presi in considerazione anche elementi relativi alla sanità, all’alimentazione, all’istruzione o ai trasporti: il risultato è che il 10% dei romeni più ricchi vive con l’equivalente di ciò che percepisce il 10% degli italiani più poveri. Purtroppo emerge un’Europa delle disuguaglianze. 

REDDITO MEDIO PER CATEGORIA IN ALCUNI PAESI UE [in euro, a parità di potere d’acquisto] 10% di cittadini più poveri

10% di cittadini più ricchi

Media

1% di cittadini più ricchi

Romania

120

295

604

1.168

Bulgaria

204

490

974

1.872

Ungheria

314

557

929

1.637

Grecia

483

1.050

2.048

4.618

Spagna

451

1.110

2.256

3.981

Italia

599

1.267

2.438

4.578

Regno Unito

713

1.422

2.886

6.622

Germania

759

1.477

2.731

5.312

Francia

812

1.487

2.815

6.234

Svezia

839

1.513

2.425

3.857

Austria

887

1.590

2.834

5.597

Media Ue

626

1.229

2.329

4.678

| ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 51 |

FONTE: EUROSTAT

Da un recente rapporto sulle retribuzioni in Europa emergono enormi disuguaglianze. E in alcuni Paesi il divario tra ricchi e poveri è impressionante


40-53_ecosol_V106 23/01/13 08.31 Pagina 52

| economiasolidale | pianeta cooperative |

Economia sociale, pilastro d’Europa di Corrado Fontana

Il rapporto 2012 sulla diffusione dell’economia sociale in Europa ne rappresenta l’assoluto rilievo per la tenuta dell’Ue a 27. Alternativa al modello capitalistico, rischia l’inquinamento nei suoi principi fondativi ad opera delle lobby del low profit economia sociale in Europa «fornisce un impiego retribuito ad oltre 14,5 milioni di persone, ossia circa il 6,5 % della popolazione attiva dell’Ue a 27». Basta questo dato per rendere l’idea dell’importanza del settore e dell’interesse che deve suscitare il rapporto The social economy in the European Union, pubblicato dal Comitato economico e sociale europeo (Cese) nel 2012 e realizzato

L’

dal Ciriec (Centro internazionale di ricerca e di informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa), con un ampio contributo di ricercatori italiani. Molte cooperative, ma anche mutue, imprese sociali, associazioni, soggetti del Terzo settore, appartengono, secondo diversi inquadramenti Paese per Paese, all’alveo dell’economia sociale europea, la cui crescita complessiva per numero

di occupati ha segnato un +26,79% tra 2002/2003 e 2009/2010. Un bacino di attività imprenditoriali che, se si considerano le sole coop, nel 2009 valeva oltre 207 mila soggetti ben radicati in tutti i settori (particolarmente in agricoltura, nell’intermediazione finanziaria, nel commercio al dettaglio, nell’edilizia abitativa e, sotto forma di cooperative di lavoratori, nei settori industriale, edile e dei servizi), capaci di dare lavoro direttamente a 4,7 milioni di persone e offrire servizi a 108 milioni di soci. Le mutue sanitarie e di previdenza sociale, nello stesso periodo, fornivano assistenza e copertura assicurativa a oltre 120 milioni di persone,

Varietà europea e scricchiolii di casa nostra di Corrado Fontana

L’economia sociale non mostra le stesse caratteristiche in tutta Europa. E in Italia una ricerca su un campione di cooperative offre segnali di profonda crisi, tra resistenze occupazionali e un crollo di redditività, a picco nel 2010 Tipologie imprenditoriali e forme giuridiche differenti concretizzano il concetto ampio di economia sociale nei 27 Stati europei, ma con alcune caratteristiche comuni da zona a zona. C’è ad esempio un’area mediterranea (Italia, Francia, Spagna) con grande diffusione di esperienze, perlopiù nate a partire dalle reti di tipo cooperativo: per la Francia il fulcro sono circa 600 società cooperative di interesse collettivo, assai progredite nella gestione dei beni comuni; in Italia si è puntato sulle cooperative sociali dei servizi socio-assistenziali, e ducativi e di inserimento lavorativo delle persone svantaggiate. In Germania si sono invece moltiplicate le esperienze di tipo associativo, alcune di tipo

| 52 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

imprenditoriale, spesso legate all’area cattolica e luterana. Un modello associativo che, applicato alle attività di promozione sociale e di inserimento lavorativo, risulta comune nel Nord Europa. E se i Paesi europei dell’Est mostrano una sorta di r igetto proprio per la forma cooperativa («probabilmente – sottolinea Giuseppe Guerini di Federsolidarietà – dovuto al fatto che i vecchi regimi socialisti la impiegavano per attuare pratiche di controllo attraverso le imprese pubbliche»), tuttavia rappresentano un’area di grande fermento, spesso con un intero sistema di welfare da costruire. Qui sta facendo presa la cultura di scuola americana, con mode lli contraddistinti dall’impegno in prima

SITOGRAFIA www.eesc.europa.eu, pagina web del Comitato economico e sociale europeo (CESE) www.ciriec.ulg.ac.be, pagina web del CIRIEC (Centro internazionale di ricerca e di informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa) http://ec.europa.eu/commission_2010-2014/barnier/index_en.htm, pagina web del commissario europeo per il Mercato interno e i Servizi Michel Barnier


40-53_ecosol_V106 23/01/13 08.31 Pagina 53

EVOLUZIONE DELL’OCCUPAZIONE RETRIBUITA NELL’ECONOMIA SOCIALE IN EUROPA 2002/2003

2009/2010

TOTALE UE-15

10,233,952

12,806,379

Variazione % +25,14%

TOTALE UE-27

11,142,883

14,128,134

+26,79%

FONTE: RAPPORTO THE SOCIAL ECONOMY IN THE EUROPEAN UNION

mentre le mutue assicuratrici detengono una quota di mercato del 24%. Le associazioni, invece, davano lavoro nel 2010 a 8,6 milioni di persone, rappresentando oltre il 4 % del Pil dell’Europa a 27 e contando circa la metà della popolazione europea tra i propri soci.

scambiato l’idea del libero mercato con la libera circolazione dei capitali, e l’idea di imprenditoria con quella della loro accumulazione». Economia sociale come modello etico e sostenibile, insomma, e la cui valorizzazione – sostenuta dal commissario Ue per il

Sociale vs Capitale Grandi numeri, perciò, benché limitati rispetto all’economia di mercato di stampo capitalistico. D’altra parte – secondo Giuseppe Guerini, presidente di Federsolidarietà Confcooperative e consigliere del Cese a Bruxelles – quello dell’economia sociale resta «un settore molto sottovalutato. Fino a qualche tempo fa dava anzi un certo “fastidio” alla cultura dominante dell’impresa finanziarizzata, e a un’economia per cui si sfruttano i soldi per generare denaro dal denaro, che è poi ciò che ha determinato l’attuale situazione di crisi. L’errore – prosegue Guerini – è stato aver

UN PENSIERO DIVERSO

persona del ricco benefattore (il capitalista previdente e paternalista) o della grande azienda, che si esercitano in donazioni e raccolte fondi a scopo caritativo piuttosto che nel coinvolgimento diretto dei destinatari, affinché si attivino per una propria crescita sociale ed economica. Crepe italiane Intanto in Italia si mostrano prospettive complicate dalla crisi economica. A denunciare una vera picchiata di fatturato è uno studio del Centro di Ricerche sulla Cooperazione e il Nonprofit dell’Università Cattolica di Milano presentato a ottobre 2012 e relativo a un campione stabile di cooperative sociali (circa 70 mila addetti complessivi) appartenenti a Confcooperative, seguite dal 2005 al 2010. Gian Paolo Barbetta, professore di Economia dei sistemi di welfare, spiega che «il fatturato delle cooperative che abbiamo analizzato negli ultimi sei anni passa da 1.400 milioni di euro a 1.900 milioni di euro per tornare a 1.450. Il 2010 è decisamente un anno critico: si potrebbe quasi pensare che ci sia una sorta di scambio, che la tenuta occupazionale manifestata (crescita da 54 a 73 mila addetti tra 2005 e 2010, ndr) vada a scapito diretto della redditività, peraltro in calo già dal 2007. Il 50% delle cooperative prese

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Mercato interno e i Servizi, Michel Barnier, attraverso la Social Business Initiative (vedi Valori 94, novembre 2011) – richiede sia la diffusione di modelli d’impresa alternativi a quello capitalistico, sia la resistenza ai rischi d’inquinamento dei suoi principi fondativi: «Una delle minacce più insistenti attualmente in atto – conclude infatti Guerini – si richiama al concetto di low profit (cioè “basso profitto”), che nasconde il tentativo delle grandi lobbies della finanza di investire in settori come quello della sanità e dei beni pubblici, continuando a fare profitti (seppure “moderatamente”, ndr) ma rifacendosi il look con una certa verniciatura di etica». Quella del low profit è una linea di pensiero di matrice anglosassone abbastanza sostenuta anche in Italia, tanto da portare a un recente blitz in Senato per piazzare un emendamento alla legge di Stabilità che consentisse la suddivisione degli utili tra i finanziatori delle imprese sociali. Un tentativo fallito, compiuto forse anche in buona fede, che, introducendo la remunerazione dei capitali investiti, avrebbe incrinato il principio cardine che impone di reinvestire totalmente gli utili nello sviluppo dell’impresa. 

in esame non guadagna neanche 2.000 euro l’anno, da un certo momento in poi, e particolarmente dal 2010. E quando il fatturato non cresce più, la redditività precipita». È questa una rappresentazione efficace di quella che viene chiamata resilienza, cioè la capacità del Terzo settore di piegarsi senza spezzarsi. Finora. Dal momento che, secondo il professor Barbetta, il punto di rottura si sta avvicinando pericolosamente (ma potrebbe essere stato superato in molti casi, visto che i dati Istat sul settore sono fermi al 2005, e non ce ne sono altri organizzati che coprono il periodo 2010-2012). Tempi difficili certificati, quindi, in particolare per le cooperative sociali italiane, assai dipendenti dal peso della domanda pubblica. Forse meno per il nostro Terzo settore, che in Europa «è uno di quelli che ha più forte componente di domanda privata». E tempi di crisi anche per le imprese capitalistiche, ma di cui probabilmente l’economia sociale non potrà avvantaggiarsi, dato che «i momenti di difficoltà – conclude Barbetta – tendono a favorire i soggetti più aggressivi, più disponibili a rimettere in gioco la struttura produttiva della propria impresa, magari sacrificando lavoratori e mercati per conservare margine di profitto positivo».

| ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 53 |


54-63_internazionaleV106 23/01/13 08.32 Pagina 54

REUTERS / ENRIQUE MARCARIAN

internazionale

Il crack di Kabul Bank > 60 Il Camerun e i funerali > 61 | 54 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |


54-63_internazionaleV106 23/01/13 08.32 Pagina 55

| stati in bilico |

Esibizione di arei acrobatici al rientro della Libertad nel porto della località balneare di Mar del Plata, il 9 gennaio 2013. La nave scuola era stata messa sotto sequestro a Tema in Ghana, nell’ottobre scorso, dal fondo speculativo Nml che vuole ottenere dall’Argentina il rimborso del 100% del valore nominale dei tango bond

Argentina

La causa intentata dal fondo avvoltoio Nml riapre la ferita della deuda e del default di undici anni fa. Ma a finire sotto lente, in realtà, è l’intero decennio dei Kirchner

processo al debito di Matteo Cavallito li argentini, dice un vecchio adagio, discendono dalle navi. Per molti è un motivo d’orgoglio, per qualcuno un luogo comune vecchio e fastidioso, un po’ come il tango, l’asado e i gauchos della Pampa. Qualcuno l’ha definito persino un detto razzista per la sua implicita tendenza a collocare gli europei al centro della storia a discapito dei pueblos originarios, quelli, per intenderci, che italiani e spagnoli insistono a chiamare indios, rimarcando un imbarazzante errore geografico vecchio di 500 anni. Eppure una cosa è certa: pochissime altre nazioni, nel corso della loro storia, hanno saputo trovare proprio nelle navi un così intenso filo conduttore. Dall’imbarcazione svedese che, entrando per prima nel porto della Boca, battezzò i colori sociali della squadra dei “genovesi”, o Xeneizes come dicono da quelle parti, fino al General Belgrano, l’incrociatore affondato al largo delle isole Falkland, divenuto simbolo della disfatta nazionale nel conflitto

G

| ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 55 |


54-63_internazionaleV106 23/01/13 08.32 Pagina 56

| internazionale |

MA CHI SONO I VERI AVVOLTOI? L’Argentina ha completato il suo primo canje de deuda (concambio) nel 2005, approvando nell’occasione una legge che escludeva qualsiasi nuovo negoziato con i creditori che non avevano accettato la ristrutturazione del debito. Nel 2009 la legge è stata sospesa per attuare il secondo concambio, quello che si sarebbe svolto un anno più tardi. Con il secondo canje il Paese si sarebbe trovato a coinvolgere altri 9,5 miliardi di dollari di titoli in default, portando la parte del debito ristrutturato a quota 93% del totale. Registi dell’operazione la società di consulenza Arcadia, che per i suoi servizi si è accaparrata un onorario di 5 milioni di dollari, e una serie di grandi banche come Barclays Capital, Citigroup, Deutsche Bank, UBS, Merrill Lynch, Pierce, Fenner & Smith. Tutte responsabili, secondo Eduardo Olmos, di un massiccio rastrellamento di titoli in default a prezzo scontato, ai quali il concambio avrebbe in seguito restituito un insperato valore, garantendo ai suoi possessori nuovi profitti. Di fatto la stessa strategia dei fondi avvoltoi. M. Cav.

che segnò, se non altro, la pietra tombale della dittatura. Ma quelle delle navi non sono solo storie di calcio o di battaglie. Sono storie più complesse, antiche quanto la nazione che ne è protagonista. Nel 1822 l’amministrazione di Buenos Aires avviò la costruzione della sua opera pubblica più importante: il porto, ovviamente. Per farlo chiese un prestito da un milione di sterline alla Baring Brothers, una banca londinese. Gli inglesi acconsentirono, chiedendo un tasso di interesse annuale del 6%. Era nato ufficialmente il debito estero argentino.

Gli avvoltoi della Libertad Nell’ottobre del 2012 la nave scuola Libertad, momentaneamente di stanza nel

porto di Tema, in Ghana, si è scoperta improvvisamente sotto sequestro con la concreta ipotesi di pignoramento. Una corte locale ha, infatti, dato ragione ai gestori di Nml, un fondo avvoltoio di proprietà della Elliot Capital Management, società finanziaria registrata nelle Isole Cayman. Dopo che undici anni fa Buenos Aires aveva dichiarato default su 100 miliardi di dollari di obbligazioni sovrane, i creditori erano stati chiamati nel 2005 e nel 2010 ad accettare il cosiddetto concambio. Tradotto: lo Stato che ha dichiarato bancarotta, si riprende le obbligazioni divenute ormai carta straccia e le sostituisce con nuovi titoli con un controvalore più basso, consentendo al creditore di limitare le perdite. Chi accetta incassa il 30% del valore nominale

IL DEBITO ARGENTINO DALL’IMPENNATA AL DEFAULT [dati in milioni di dollari] 180.000 160.000 140.000 120.000 100.000 80.000 60.000 40.000 20.000

FONTI: JAIME PONIACHIK. COMO EMPEZÓ LA DEUDA EXTERNA. LA NACIÓN 6 MAGGIO 2001 CITATO IN MAURICIO FOLLARI GORRA. EL ENDEUDAMIENTO EXTERNO PÚBLICO ARGENTINO: NATURALEZA Y FUNCIONES. CONSEJO LATINOAMERICANO DE CIENCIAS SOCIALES, 2008. (HTTP://BIBLIOTECA.CLACSO.EDU.AR/AR/LIBROS/BECAS/2008/DEUDA/FOLLARI.PDF)

| 56 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

2002/03

2000

1998

1996

1994

1992

1990

1988

1986

1984

1982

1980

1978

1976

1974

1972

1970

1968

1966

0

iniziale, chi rifiuta perde tutto. Il 93% dei creditori ha scelto la prima ipotesi, il 7%, soprattutto fondi d’investimento altamente speculativi, ha optato invece per una terza via: portare in tribunale l’Argentina per ottenere il 100% del valore nominale. Da allora i fondi come Nml, che avevano precedentemente rastrellato i tango bond a prezzi stracciati (da cui il soprannome “avvoltoi”) dai creditori ormai nel panico, hanno inseguito l’Argentina nei tribunali reclamando il congelamento degli assets all’estero. Libertad compresa. Lo scorso novembre il giudice Thomas Griesa, della Corte distrettuale di Manhattan, ha dato ragione a Nml, ordinando all’Argentina di pagare il dovuto. Nell’attesa i pagamenti degli interessi ai creditori del concambio, gestiti dalle banche Usa come la New York Mellon, sono stati preventivamente bloccati, facendo venire un discreto mal di testa agli avvoltoi della prima ora, ovvero alle grandi banche che avevano sponsorizzato il discusso concambio del 2010 (vedi BOX ). Buenos Aires ha vinto un primo ricorso, ma dovrà attendere fino al 27 febbraio per rovesciare in via definitiva la sentenza. In caso contrario si ritroverebbe giocoforza a essere insolvente nei confronti del 93% dei suoi creditori e quindi, almeno in teoria, in pieno default.

La maledizione del debito Il fantasma del collasso finanziario – che nel 2001 aveva spazzato via la vecchia classe politica, aprendo la strada alla presidenza di Néstor Kirchner, scomparso nel 2010, e in seguito a quella di sua moglie Cristina Fernández – bussa nuovamente alla porta, insieme all’infinita epopea del debito, esploso a partire dagli anni ’70 (vedi TABELLA e GRAFICO ) di fronte all’illusione dei bassi tassi di interesse. Negli anni della dittatura militare (19761983), sotto la guida del ministro delle Finanze, José Martínez De Hoz, il debito nazionale è cresciuto del 364%. Al crollo del regime l’ex assistente del ministero dell’Interno dell’ultimo governo democratico, Alejandro Olmos, ha intentato una causa contro Martínez De Hoz sostenendo l’illegittimità di un debito con-


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Per il Cepal la povertà in Argentina sarebbe scesa dal 34% del 2002 al 5,7 del 2011 tratto tra mille irregolarità da un esecutivo, per altro, parimenti illegittimo. Nel luglio del 2000 il giudice Jorge Ballesteros ha dato ragione a Olmos, scomparso pochi mesi prima dopo 18 anni di battaglie. Meno di due anni dopo il Paese avrebbe dichiarato bancarotta.

La guerra delle cifre Ma quanto vale oggi il debito argentino? 140 miliardi, dicevano alla fine del 2011 le cifre ufficiali dell’Instituto Nacional de Estadística y Censos (Indec). «200 miliardi di dollari» contro i «171 del 2005», sostiene invece Alejandro Olmos Gaona, figlio d’arte, che da oltre dieci anni continua senza sosta la battaglia del padre (vedi INTERVISTA alla pag. seguente). Il problema, spiega, «è che il governo nazionale paga i propri debiti facendo altri debiti, vale a dire pagando i creditori con i fondi dell’Anses (l’istituto di previdenza sociale, ndr) e offrendo a quest’ultimo obbligazioni non trasferibili a dieci anni che, prima o poi, dovranno essere pagate. Così l’indebitamento esterno diminuisce, ma quello interno aumenta con tutte le conseguenze del caso». Le cifre, insomma, non coincidono. E non è un caso isolato. Di recente la GranMakro, organizzazione pro governativa, ha lodato in un documento pubblico i successi economici del decennio kirchnerista (cinque milioni di posti di lavoro, riduzione del debito, crescita economica a ritmi cinesi). Gli economisti del Banco Ciudad, di orientamento conservatore, hanno giudicato le cifre inattendibili quanto lo stesso Indec, ormai delegittimato tanto dal prestigioso (e liberale) The Economist, che da circa un anno si rifiuta di riprenderne i dati, quanto dagli osservatori di orientamento progressista (come lo stesso Olmos). La scorsa estate l’Indec ha comunicato un tasso di inflazione annuale vicino al 10%. Secondo gli analisti indipendenti il valore reale sarebbe prossimo al 25%. I successi della gestione Kirchner, comunque, non sono mancati. I criminali

ARGENTINA: I PADRI FONDATORI DEL DEBITO Anno

Debito Presidenza

1966

3.276 Onganía (governo militare)

1967

3.240

1968

3.395

1969

3.970

1970

4.765 Levingston (governo militare)

1971

4.800 Lanusse (governo militare)

1972

4.800

1973

4.890 Lastiri/Campora/Perón

1974

5.000 Martìnez de Perón

1975

7.800

1976

9.700 Videla (governo militare)

1977

11.700

1978

13.600

1979

19.000

1980

27.200

Crescita del debito

+46%

+62%

+364%

1981

35.700 Viola/Lacoste/Galtieri (governo militare)

1982

43.600

1983

45.100 Bignone (governo militare)

1984

46.200 Alfonsín

1985

49.300

1986

52.500

1987

58.500

1988

58.700

1989

65.300 Menem

1990

62.200

1991

61.334

1992

62.586

1993

72.209

1994

85.656

1995

98.547

1996

109.756

1997

124.832

1998

140.884

1999

146.219

2000

147.667 De La Rúa

2001

153.000

2002/03

163.000 Duhalde

della dittatura sono stati finalmente processati dopo decenni di impunità e la politica sociale ha dato i suoi frutti. Nel suo ultimo rapporto il Cepal, un’organizzazione dell’Onu con sede a Santiago, in Cile, ha riscontrato in Argentina una riduzione del tasso di povertà: dal 34% del 2002 al 5,7 del 2011. Dati che, sebbene non siano confrontabili con quelli ufficiali che Buenos Aires calcola con parametri differenti, co-

+44%

123%

+5% +6.53% me ci hanno spiegato i ricercatori, costituiscono la miglior performance del Continente. A dicembre, intanto, il Tribunale supremo ghanese ha ordinato la liberazione della fregata Libertad i cui costi di sequestro potrebbero aver inciso non poco sul bilancio finanziario del porto di Tema. Le autorità locali, nel dubbio, hanno chiesto al fondo Nml un risarcimento di 7,6 milioni di dollari.  | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 57 |

FONTE: FUNDACIÓN ESPERANZA - WWW.FUNDACIONESPERANZA.ORG.AR

| internazionale |


54-63_internazionaleV106 23/01/13 08.32 Pagina 58

| internazionale |

Olmos: «L’Argentina? Nessun miracolo, parlano le cifre» di Matteo Cavallito

Parla Alejandro Olmos Gaona, storico oppositore della “deuda odiosa”. Il governo, spiega, si indebita e, soprattutto, fornisce cifre false perazioni di indebitamento arbitrarie compiute da un governo illegittimo (la giunta militare, 1976-83), tassi di interesse da usura, statalizzazione del debito privato contratto da grandi aziende e banche private nazionali. Sono questi gli elementi principali che hanno indotto il giudice Jorge Ballesteros a dichiarare illegittimo il debito estero argentino. Da quella sentenza, datata 13 luglio 2000, sono passati più di 12 anni. Alejandro Olmos Gaona continua da allora la battaglia avviata da suo padre alla fine della dittatura. Docente di storia e assistente del deputato di Proyecto Sur, Fernando Solanas (regista esule durante il regime militare e autore di Diario del saccheggio, documentario sulla crisi del 2001-02), Olmos è stato in passato consulente del presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, l’uomo che nel 2008 sospese i pagamenti degli interessi sul debito del suo Paese, dichiarandolo “immorale”. Il circolo vizioso del debito argentino, spiega in questa intervista a Valori, prosegue tuttora, a volte in modo sorprendente. Un esempio? La banca centrale immette pesos nel sistema e ne ritira un ammontare equivalente emettendo obbligazioni (cioè indebitandosi). Tecnicamente si parla di “sterilizzazione della liquidità”, la stessa strategia antinflazionistica della Bce. Solo che Eurotower si indebita all’1% per fronteggiare un’inflazione che raggiunge al massimo i 3 punti percentuali, mentre l’Argentina paga interessi a doppia cifra con l’indice dei prezzi che cresce

O

| 58 | valori | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 |

Alejandro Olmos Gaona, storico e attivista argentino

«L’errore di Roubini consiste nel non riconoscere gli aspetti legali della questione e nel giocare in favore dei grandi creditori finanziari...» probabilmente del 25% all’anno. Anche se il governo, come noto, fornisce cifre ben diverse. Dr. Olmos, il prossimo 27 febbraio un tribunale potrebbe emettere una sentenza definitiva in favore dei fondi che hanno rifiutato il concambio. Cosa rischia l’Argentina? Un nuovo fracaso ? Credo che si stiano aprendo diverse possibilità. L’ipotesi migliore per l’Argentina è l’attuazione di un nuovo concambio con i fondi chiamati a sostituire i loro titoli con le stesse modalità già viste in passato. Un’altra possibilità è la pretesa di un pagamento pieno senza sconti, ma con un’estensione delle scadenze. In ogni caso non credo che l’ultima decisione del giudice Griesa possa essere confermata.

Come giudica la sentenza Griesa dal punto di vista legale? Alcuni osservatori, a cominciare da Nouriel Roubini, l’hanno definita un precedente pericoloso capace di impedire qualsiasi concambio in futuro… L’errore di Roubini e degli altri economisti consiste nel non riconoscere gli aspetti legali della questione, e nel giocare, in definitiva, in favore dei grandi creditori finanziari, ovvero di coloro che sono intervenuti nei concambi del 2005 e del 2010. Grandi banche come Barclays o Citibank, le stesse che sono state coinvolte nelle ristrutturazioni del debito, non possono permettere che piccoli speculatori come Nml (il fondo distressed del caso Ghana/La Libertad, ndr) danneggino quelle operazioni. Da qui nasce l’intervento della Banca centrale che è controllata a sua volta dai grandi gruppi finanziari. Se analizziamo la questione legale, poi, notiamo che Nml, in realtà, chiede solo che il governo argentino paghi quanto si era impegnato a fare il giorno stesso in cui aveva emesso le sue obbligazioni e per questo può non accettare una ristrutturazione unilaterale del debito. A proposito di aspetti legali, c’è sempre la famosa sentenza Ballesteros. Che conseguenze ha avuto sulla politica del vostro governo? Nessuna. Il Congresso non l’ha nemmeno presa in considerazione, l’ha ignorata completamente. Un anno fa è stata presentata un’istanza per l’estensione della sentenza con conseguente dichiarazione di nullità delle operazioni illegali. Il pubblico ministero sostiene la richiesta, ora toccherà al giudice esprimersi in me-


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Alcuni fotogrammi del documentario di Fernando Solanas “Diario del saccheggio” (Memoria del Saqueo, 2004)

rito. Intanto, però, sono ancora bloccate nei tribunali tutte le cause relative al debito, comprese quelle che ho avviato personalmente nel 2001 e nel 2006 per sollecitare un’indagine sulle ristrutturazioni debitorie laddove esistono prove schiaccianti di truffa e complicità da parte degli organismi multilaterali. Parliamo proprio del governo. Quando sono iniziate le critiche ai dati ufficiali dell’Indec? La manipolazione delle cifre fornite dall’Indec è iniziata nel 2007. Siccome nel 2005 aveva emesso obbligazioni indicizzate all’inflazione, il governo ha dovuto manipolare i dati per evitare che il debito crescesse. Senza questa strategia avremmo a che fare con cifre molto diverse da quelle che vengono utilizzate oggi. Le critiche sono emerse subito dal momen to in cui si è capito il vero obiettivo di un governo che ha fatto quello che in passato nessuno aveva osato fare. Qualcuno però ha anche parlato in questi anni di miracolo economico argentino… Non esiste nessun miracolo. Tanto per cominciare dopo il default del 2001 abbiamo smesso di pagare il debito e con il denaro risparmiato abbiamo incentivato la crescita. Poi l’impennata delle ma-

IN RETE Causa N° 14.467, “Olmos, Alejandro S/dcia” - Expte N° 7.723/98 Il testo della sentenza Ballesteros, 13 luglio 2000. www.laeditorialvirtual.com.ar/Pages/Ballesteros_ JuicioSobreDeudaExterna/Ballesteros_001.htm

terie prime, il prezzo della soia in particolare, ha determinato ricavi inediti. Tuttavia sono mancati gli investimenti e si è speso altro denaro. A quel punto il governo ha dovuto indebitarsi in modo esponenziale, ragione per cui il debito continua a crescere. L’anno scorso il debito pubblico è aumentato di 14.663 milioni di dollari e nel primo semestre di quest’anno di altri 3,7 miliardi. L’ammontare sarebbe stato ancora più elevato se non fosse per la detrazione dei 2,3 miliardi pagati nel 2012 per i Boden (le obbligazioni vendute sul mercato interno a partire dal 2002 per compensare i correntisti dalla svalutazione dei pesos dopo la fine della convertibilità, ndr). La Gran MaKro ha pubblicato un rapporto per difendere i successi economici del governo, gli economisti del Banco Ciudad hanno parlato di dati falsi. Chi ha ragione? La Gran MaKro segue con precisione la manipolazione dei dati e utilizza gli indici falsi forniti dall’Indec. Per fare un esempio: quando si parla delle riserve della Banca centrale si dice che queste ammontano a 45 miliardi di dollari ma la realtà è molto diversa perché bisogna sottrarre i 6 miliardi di encajes (i depositi che la Banca centrale non può utilizzare per i prestiti, ndr), 5 miliardi di prestiti provenienti da altre banche e un altro debito enorme che si aggira

sui 23 miliardi. E da dove viene quest’ultimo? Dal fatto che la Banca centrale compra dollari immettendo pesos e in seguito sterilizza la sua emissione collocando obbligazioni chiamate Nobac e Lebac per un totale, come le dicevo, di 23 miliardi. Una delle ultime obbligazioni emesse è stata offerta a un tasso del 16,85%. E parlando in termini generali invece come giudica il decennio kirchnerista? Non c’è dubbio che nel corso della prima amministrazione siano state realizzate riforme imprescindibili come la politica sui diritti umani, la sostituzione di una Corte Suprema fatta di giudici troppo ossequiosi, lo sviluppo di sussidi per i più poveri, una politica latinoamericana più vicina all’obiettivo di unificare il Continente e la statalizzazione del sistema pensionistico. In seguito, però, la presidenza ha attuato politiche autoritarie per ottenere il controllo assoluto di ogni settore, il che ha prodotto un chiaro deterioramento delle istituzioni. A questo si somma lo sviluppo di una retorica che celebra i successi del governo dopo il matrimonio tra l’Argentina e i Kirchner, una storia sostenuta dal colossale appoggio dei media, fedeli al governo come mai prima d’ora, che si scontra però con le cifre e i dati di fatto che la smentiscono continuamente.  | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 59 |


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La truffa che ha messo in ginocchio l’Afghanistan di Valentina Neri

Un rapporto dello scorso novembre ha fatto luce sul gigantesco crack di Kabul Bank che sta minacciando il bilancio della nazione. 861 milioni sono spariti e difficilmente riusciranno a essere recuperati oveva sancire il rilancio economico dell’Afghanistan libero dai talebani, ma per ora è una colossale frode. Si tratta di Kabul Bank: una storia sulla quale ha fatto luce lo scorso novembre un rapporto commissionato dal ministero afghano delle Finanze a un comitato indipendente afghano e internazionale. Kabul Bank, fondata nel 2004, è arrivata a gestire il 34% degli asset bancari del Paese, con depositi per 1,05 miliardi di dollari e più di un milione di clienti. Vi affidavano depositi e stipendi le Ong straniere, l’ambasciata e l’esercito Usa, oltre ai militari e insegnanti afghani. Come si è giunti a un crack che minaccia il bilancio della nazione? Stando al rapporto i depositi dei risparmiatori, vale a dire l’unica fonte di entrate, erano prestati a fondo perduto a personaggi altolocati che li usavano per condurre operazioni fallimentari, in primis investimenti immobiliari a Dubai. I prestiti di norma erano a nome di intermediari e non erano documentati, così che era impossibile verificare se venissero restituiti. Il denaro usciva dai confini tramite Pamir Airways, la compagnia aerea di proprietà di alcuni azionisti della banca. Altri fondi finivano in bonus “ingiustificabili”, stipendi per dipendenti inesistenti, contributi politici, l’acquisto di 250 auto e moto. A stilare rendiconti falsificati società create per “reggere il gioco”. Si stima che la frode abbia comportato una perdita pari a 935 milioni di dollari, circa il 5% del Pil. A beneficiarne è sta-

to un ristretto gruppo: 861 milioni sono finiti nelle tasche di dodici persone e di sette aziende legate a loro. Fra gli azionisti e i creditori dell’istituto figuravano anche Mahmood Karzai e Haseed Fahim, fratelli rispettivamente del presidente e del vicepresidente afghano. Nei loro confronti non è stata aperta alcuna azione legale ed entrambi hanno negato tutto.

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Il processo alla Kabul Bank Inascoltati per anni gli allarmi: nel 2007 l’Interpol afghana non era intervenuta pur essendo stata informata che l’allora presidente di Kabul Bank, Sherkhan Farnood, fosse ricercato in Russia per presunte attività bancarie illegali. Nell’ottobre del 2009 il direttorato nazionale per la sicurezza riportava alla Banca centra-

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Dodici persone e sette aziende i beneficiari della frode. Tra gli azionisti e i creditori di Kabul Bank anche il fratello di Karzai

le afghana alcune voci preoccupanti. A far finire la vicenda sotto i riflettori è stato un articolo del Washington Post a febbraio del 2010, che ha messo nero su bianco le attività illecite. La Banca centrale afghana e il Fmi hanno quindi concordato una revisione delle attività dell’istituto ma hanno faticato per mesi per assicurarsi il via libera del presidente Karzai. Dopo le dimissioni del presidente e del Ceo, a settembre si è arrivati al panico dei correntisti, accorsi agli sportelli. A quel punto il governo afghano ha dovuto garantire tutti i depositi e porre Kabul Bank sotto il controllo della Banca centrale. «Il tracollo ha innescato una crisi finanziaria che imporrà significativi costi al Paese in termini fiscali» afferma il rapporto. A causa dello scandalo, infatti, il Fmi ha per ora sospeso gli aiuti internazionali. E recuperare i fondi trafugati non sarà facile. A fine agosto 2012 si era arrivati solo a 128,3 milioni di dollari. Le autorità afgha ne non hanno ancora intrapreso la procedura necessaria per recuperare i fondi trasferiti all’estero. Non sono mancate le ingerenze politiche: il presidente Karzai ad aprile ha concesso lo sgravio dagli interessi e dalle conseguenze legali per chi avrebbe restituito il capitale dei prestiti. Un intervento, criticato duramente nella relazione, di cui ha beneficiato anche il fratello. A sostenere i costi dunque sarà il bilancio del governo, a scapito degli investimenti in scuola, sanità e infrastrutture. 


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Il Camerun e l’economia dei funerali di Dimitri Palombo e Valentina Picco*

È un evento che può arrivare a costare un milione di franchi, ma quanto speso oggi può “rientrare” (il più tardi possibile) per il proprio funerale. Storia della fiorente attività economica dell’ultimo viaggio a settimana prossima non vengo al lavoro. Devo andare al villaggio per seppellire mia madre». «Mi dispiace Esthel! Ma come… non ci avevi detto niente!». «Eh sì… è arrivato il momento di seppellirla». «Ma perché, quando è morta?». «Un anno fa!». «…». A Yaoundé, capitale del Camerun, e dintorni non è raro partecipare attoniti a una conversazione di questo genere. Un funerale è un evento sociale della massima importanza, organizzarlo e sostenerne i costi non è cosa che si possa improvvisare. Partecipano centinaia di invitati, senza contare chi si imbuca e si presenta senza conoscere il defunto o la famiglia, attratto dall’evento in sé e, forse, dalla possibilità di un pasto gratis. È un’operazione costosa, un’occasione di festa e un’industria che alimenta l’economia di sussistenza di tutta la comunità.

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Un investimento nel futuro Un funerale in Camerun rappresenta un’occasione di vita nella morte. E il defunto diviene un collante per l’intera famiglia/comunità. Le magliette stampate, i vestiti tutti uguali, le foto e qualsiasi cosa che possa ricordarlo sono il termometro dell’unità della famiglia e, quindi, della comunità: quanto ciascuno è disposto a spendere per la morte di un paren-

GLI INGREDIENTI PER UN FUNERALE “PERFETTO” • Sedie di plastica bianche per gli invitati: noleggio di almeno 300 pezzi. • Gazebo per ripararsi dal sole o, nella stagione delle piogge, noleggio di almeno 3 tendoni per proteggersi da improvvisi temporali. • Permesso del Comune per far chiudere al traffico una parte di strada (almeno per chi abita in città e non ha a disposizione spazi privati abbastanza grandi). • Impianto stereo gigantesco con Dj compreso • Stampa delle foto del defunto in formato mezzo busto da affiggere nel luogo della cerimonia. • Striscione da appendere in alto sulla strada per ricordare data e ora della celebrazione. • Stampa di centinaia di volantini pieghevoli che raccontano nei dettagli le opere del defunto e contengono una programmazione precisa di come si svolgerà la cerimonia, dall’ora di arrivo degli invitati, al momento del discorso di apertura fino all’atteso momento del banchetto. • Acquisto di pagne tutti uguali (i tessuti colorati tradizionali, con cui la famiglia e gli amici del defunto si fanno confezionare abiti e camicie su misura da portare il giorno della celebrazione). • Eventuali magliette bianche con la stampa della foto del defunto. • Grandi quantità di cibo per sfamare tutti gli invitati che si mettono in coda per il buffet (pesce, carne, banane da friggere o lessare, manioca in tutte le forme possibili in cui la si possa cucinare, salsa di arachidi per condire le pietanze, frutta a volontà). • Ingenti quantità di casse di bibite e alcolici per dissetare gli invitati e celebrare come si deve la memoria del defunto. • Ricerca da parte degli invitati dei mezzi economici per affrontare il viaggio per recarsi al funerale (magari parte della famiglia vive in un’altra regione del Paese e qualcuno perfino in Europa). • In ultimo, ma non certo per importanza, acquisto della bara, dell’abito per il defunto e del monumento funebre che sarà eretto nel terreno davanti casa.

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te – o amico, cugino di ottavo grado, lontano parente dello zio della madre del cugino – rappresenta l’investimento per il futuro, per il proprio funerale. Chi ha più soldi dà più soldi (o almeno dovrebbe) e chi non li ha è disposto, o quanto meno costretto, a indebitarsi. Perché in Camerun quanto mai vale il detto “oggi è toccato a lui, domani…”!

Il costo dell’operazione può anche arrivare al milione di franchi (1.500 euro). Una cifra impensabile per una famiglia camerunese media. Da qui la necessità di attendere, per avere il tempo di fare il giro di parenti e conoscenti per raccogliere fondi. Quasi nessuno, infatti, ha denaro contante: occorre un lento lavoro di negoziazione per riscuotere vecchi crediti

CARTOLINE DAL CAMERUN Un’immagine classica da venerdì nel traffico disordinato della capitale è un taxi giallo malandato, in coda, con il portabagagli mezzo aperto a causa della bara che spunta da dietro perché troppo lunga. Oppure viaggiare in un car, i pulmini da 14 posti della Toyota che in Camerun effettuano il servizio bus da una città all’altra, che la bara la trasportano sul tetto e, in segno di rispetto per il morto e per avvisare gli altri passeggeri che non c’è molto spazio per i loro bagagli, mettono dei fiori di plastica a decorazione del cruscotto. Generalmente i funerali si celebrano nel fine settimana, è normale quindi che il giorno prima la famiglia vada all’obitorio a recuperare il proprio caro, saldi il debito con la struttura che ha fornito il frigorifero che ne ha permesso la conservazione anche per anni, e, finalmente, si avvii verso il villaggio d’origine per la tanto attesa sepoltura.

LA STORIA Il territorio dell’attuale Camerun è abitato fin dal Neolitico. La sua costa viene esplorata dai mercanti portoghesi di schiavi a fine ’400: sono loro a chiamare il fiume Wouri “Rio dos Camarões” (Fiume dei gamberi) da cui è derivato il nome Camerun. A questa terra nel secolo XVII gli schiavisti sottrarranno esseri umani, avorio e gomma. Già protettorato tedesco, il territorio dell’attuale Camerun fu spartito nel 1920 tra Francia e Regno Unito, prima come mandato della Società delle nazioni, e dopo la seconda guerra mondiale sotto l’amministrazione fiduciaria dell’Onu. L’indipendenza viene proclamata il 1° gennaio del 1960. La Repubblica del Camerun si è costituita il 1° ottobre 1961 attraverso la riunificazione della parte francese con l’area meridionale della parte britannica, mentre l’area settentrionale del Camerun britannico si è fusa con la Nigeria. Nel 1972 ha modificato il suo assetto federale, dandosi un assetto unitario. Anche dopo l’apertura al multipartitismo nel 1990, l’ex Partito unico Unc (ora Rdpc, Rassemblement démocratique du peuple camerounais) domina ancora la vita politica. La corruzione e la diseguaglianza sono grandi: nonostante le potenzialità agricole e le risorse petrolifere, il 48% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la mortalità infantile è elevatissima. Nell’Ovest anglofono sono attivi movimenti secessionisti; nella penisola di Bakassi gruppi di ribelli effettuano rapimenti e attacchi armati. Pa. Bai.

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IL PAESE IN CIFRE Nome: Repubblica del Camerun Forma di governo: Repubblica Capitale: Yaoundé Unità monetaria: franco Cfa Presidente: Paul Biya, eletto la prima volta nel 1982, rieletto nel 1997 e nel 2004 Abitanti: 20.129.878 (stima luglio 2012) Mortalità infantile: 95 morti/1.000 nati (2009) Speranza di vita: (anni) 51,1 maschi; 52,3 femmine Gruppi etnici: Fang 20%; Bamileke 18%; Duala 15%; Fulbe 10%; Hausa 1,2%; altri 35,8 Religione: cattolici 27%; animisti/credenza tradizionali 22%, musulmani 20%; protestanti 20%; altri 10,2 Pil: 22.478 mln Usa $ (2010) Pil/ab: 1.101 Usa $ (2010) Indice di sviluppo umano: 0,460 (131° posto)

o creare nuovi debiti che possano avvicinare la cifra raccolta al budget previsto. In un Paese come il Camerun, la cui popolazione è maestra nell’arte della sopravvivenza, una simile occasione di business non poteva certo rimanere inesplorata: nel tempo, infatti, è nata e si è sviluppata una moltitudine di piccole e medie attività locali specializzate nella somministrazione dei servizi necessari alla buona riuscita di un funerale. C’è chi noleggia le sedie bianche per gli ospiti, chi affitta i gazebo, chi si offre come Dj per animare la giornata o per cucinare e allestire il grande buffet per il rinfresco.

Questione di cultura… e non solo I funerali, come i matrimoni e i riti di transizione, si caratterizzano proprio per la loro dimensione partecipativa. E leggendo l’articolato contesto sociale camerunese è possibile provare a capire il meccanismo che anima questo fenomeno. Abbiamo passato un anno a Yaoundé e assistito a molti funerali per capire che cosa “dietro le quinte” muova l’ingranaggio di questa enorme macchina economica e sociale. Abbiamo trovato un binomio di plausibili risposte: un accesso diverso alle risorse e a quei diritti (come quello alla sanità) che in Italia e in Europa diamo per scontati e la diversa composizione di una famiglia camerunese rispetto alle nostre. Non avere la sicurezza di uscire da un ospedale “più sani” di quando si è entrati è una prima risposta al perché spesso le persone siano più propense a investire nel funerale che nella cura. Spesso la qualità degli ospedali è pessima e, siccome non esiste un Servizio sanitario nazionale, vale il principio per cui chi ha i soldi si cura e chi non può permetterselo ricorre a stregoni, guaritori, medicina alternativa, soluzioni più accessibili e culturalmente familiari. Inoltre avere a disposizioni i mezzi economici per curarsi non è garanzia di guarigione, a causa di un servizio sanitario capillare, ma troppo spesso incapace di formulare diagnosi specifiche. A questo aggiungiamo che la famiglia tipo camerunese è molto numerosa rispetto a quella europea. I figli sono tanti,


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così i nipoti e i parenti di ogni ordine e grado. L’aspettativa di vita non è altissima e probabilmente le famiglie numerose sono la risposta, messa in atto per reagire alla brevità dell’esistenza. Ne consegue che un evento stressogeno come “IL” lutto, spesso debba essere affrontato come “UN” lutto, per far fronte alla dolorosa abitudine della perdita (visti i numerosi lutti familiari nella vita di ciascun camerunese). Per questo spesso il funerale oltre che ricordo e compianto della persona cara è un collante sociale: celebrazione dell’esistenza di una comunità numerosa che c’è, esiste, si sostiene e si misura anche attraverso la sua generosità all’offerta, al contributo strettamente materiale, a quanto ognuno sia disposto a investire economicamente per la morte di un familiare e per la serenità dei vivi.

UN ANNO INTENSO Abbiamo trascorso un anno in Camerun insieme al Cumse, una Fondazione Onlus di Cinisello Balsamo (Mi) che dal 2001 opera nel Paese sostenendo progetti sanitari e socioeducativi. Ci siamo impegnati personalmente e professionalmente, collaborando come psicologo ed esperta socio-educativa con alcune case di accoglienza per bambini e ragazzi abbandonati, nei villaggi del Sud. La natura del nostro lavoro e l’esperienza decennale dell’organizzazione con la quale lavoriamo ci hanno permesso di affacciarci a una realtà così apparentemente diversa, ma allo stesso tempo intensa e interessante, che qui proviamo a raccontare.

E allora le tombe in Camerun diventano un’immagine familiare. In brousse (letteralmente la boscaglia, comunemente la campagna), davanti a ogni casetta di fango o di muratura ci sono i monumenti eretti in memoria dei cari. Qualcuno più grande della casa stessa, qualcuno ricoperto con piastrelle bianche da cucina, qualcuno invece più modesto e discreto. Tracciano in modo indelebile la storia di una famiglia e, nel tempo, di-

ventano parte dell’arredamento, prestandosi all’occasione come stendini per i panni, o come scrivanie per i compiti dei bambini. 

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Dimitri Palombo è uno psicologo e Valentina Picco è laureata in Diritti umani ed etica della cooperazione internazionale. Nell’ultimo anno hanno vissuto in Camerun, lavorando per un progetto di cooperazione internazionale con i bambini.

LA COMUNITÀ DI MARZA-PANE Abbandonato il traffico caotico della capitale camerunese e la lussureggiante foresta tropicale del Sud, ci spostiamo a Marza, piccolo centro abitato alle porte della cittadina di Ngaundéré, nel centro del Paese. Ad accogliere il viaggiatore dopo una notte di treno un paesaggio completamente trasformato: palme e piantagioni di ananas hanno lasciato il posto a pini e massi vulcanici delicatamente appoggiati sui clivi delle montagne. È la regione montuosa dell’Adamaoua, la porta del Camerun musulmano. A Marza, nel cratere di un ex vulcano immerso nel verde, è nato circa dieci anni fa il Centro di accoglienza per orfani “Yves Plumier”, dal nome del vescovo che, negli anni Ottanta, si era fatto portavoce del dialogo interreligioso tra la maggioranza musulmana e la minoranza cristiana della zona. Il centro è nato dall’impegno di una suora congolese, Nicole, che con i suoi cinque bambini era in cerca di un nuovo inizio. Una suora, una madre, una guida, un’imprenditrice e una manager che ha saputo trasformare una “semplice” casa di accoglienza in una piccola e produttiva repubblica democratica fondata sul lavoro, sul rispetto reciproco, sull’amore per il prossimo, sul rispetto per l’ambiente e l’attenzione ai più fragili. Un microcosmo con una marcia in più grazie alla sua costante relazione con la comunità che lo circonda. A Marza non c’è solo un’azienda agricola che alleva migliaia di polli, tacchini, conigli, maiali, capre, pecore, una nuova razza di mucca incrociata con la mucca europea per aumentare la produzione di latte; ettari di terreno coltivato a mais, manioca, moringa, frutteti; un dispensario e una maternità in costruzione; una scuola materna, una primaria in cui

il tasso di riuscita scolare è stato del 100% nel 2012, una scuola professionale di due anni in agricoltura e allevamento; un centro di accoglienza per orfani, un centro di accoglienza per bambini e ragazzi disabili, un centro di fisioterapia il cui giovane responsabile sembra uscito da una puntata di Mac Gyver per la facilità con cui inventa attrezzi per la riabilitazione utilizzando materiali di fortuna; una piccola fabbrica per la produzione delle ostie per le parrocchie della regione. A Marza c’è una visione, un sincretismo tra la tradizione camerunese e le opportunità che il mondo moderno può offrire. Tutti hanno a cuore il Centro perché il Centro è di tutti. Le responsabilità sono condivise, così come i prodotti e i guadagni: ciascuno dà e riceve, perché cresciuto immerso in un ambiente nutrito dal rispetto reciproco e dall’educazione alla partecipazione. Suor Nicole è una donna con un cuore e un’anima che non si fermano mai, una testimone eccellente di cosa significhi un lavoro ben fatto, grazie alle sue conoscenze poliedriche, al suo savoir faire e a un’intelligenza emotiva che la rende punto di riferimento per un’ intera comunità.

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Istruzioni per non rendersi infelici

Fare un falò con tutta la vanità uscito sul numero 823 di Donna, il femminile di Repubblica, un curioso articolo dal titolo “Il prezzo della vanità”, cioè quanto spendono all’anno per tenersi in forma sette attrici molto conosciute come Susan Sarandon, Drew Barrymore, Kate Hudson, Jane Fonda, Kirsten Dunst, Gwyneth Paltrow e Demi Moore. Sette ritratti di donne bellissime e ammirate,

È

non vistosamente “rifatte”, ma ognuna con la descrizione dei trattamenti a cui si sottoporrebbe e le svariate decine di migliaia di dollari che le costerebbero ogni dodici mesi. L’articolo è curioso perché la tendenza normale nei femminili è lasciar intendere che queste bellezze curatissime siano frutto di madre natura. Ma la prima impressione è che i conti, per quanto esorbitanti, siano calcolati al ribasso, perché se la consulente per l’immagine di Kate Hudson chiede 20 mila dollari al giorno, la cifra finale di 53.000 dollari sembra impossibile. Lo stesso vale per gli altri totali: se una seduta da un parrucchiere hollywoodiano in vista di un’apparizione di “rappresentanza” costa almeno 5.000 dollari a Kirsten Dunst, e la stylist chiede 10 mila dollari per ogni suo intervento, si fa presto a splafonare dai 53 mila dollari di cui parla l’autore dell’articolo. E così per Jane Fonda: se vuole apparire ben truccata deve staccare un assegno da 5.000 dollari per una sola seduta da una specie di Michelangelo delle dive, ma a fine anno il conto per l’ex Barbarella sarebbe di 91 mila dollari, compreso l’abbonamento per l’abbronzatura che da solo costa 13 mila dollari. Nell’insieme l’articolo è veramente irreale, i dati sono raffazzonati e sicura-

Una tinta per i capelli da 5.000 dollari, per una nuance di colore eburneo? mente non va preso sul serio dal punto di vista dei contenuti economici perché potrebbero spendere molto di meno o molto di più. Sappiamo che una fetta consistente del tempo e del danaro di un’attrice/attore vanno in spese per il mantenimento della propria immagine. Ma le descrizioni in questo caso sono favolistiche e lo scopo di articoli di questo genere è spingere donne e uomini a spendere cifre sempre maggiori per inseguire un aspetto fisico dove i segni del tempo si vedano sempre meno, ricorrendo alla chirurgia estetica o a trattamenti chimici che dietro hanno costose ricerche, che potrebbero andare più proficuamente in altre direzioni. Potrebbe, però, un articolo del genere avere anche un effetto pedagogico? Potrebbe p ortare i più giovani, nativi di un mondo dell’immagine più che del fare, a pensare che questi modelli di bellezza sono una pericolosa il-

di Paola Baiocchi

lusione? Potrebbe far riflettere che in Italia con duemila disoccupati in più al mese nel corso del 2012 è finito il mondo delle favole? Che sono cose molto diverse la qualità della vita (che è un diritto) e il lusso (che è un furto, se è per pochi), e che questa rincorsa alla vanità, mentre la miseria viene fatta aumentare da una classe che enormemente si arricchisce dal nostro impoverimento, è equivalente alle parrucche che i nobili nel ’700 usavano per nascondere i pidocchi? Nel dialogo aperto con i lettori, nella versione on line del giornale, il contenuto di critica sociale debolmente riemerge: per descrivere la tinta dei capelli della Sarandon costata 5.000 dollari, l’articolista scrive «una strepitosa nuance eburnea». E una lettrice, che deve averle lette veramente le favole, dove il colore della pelle delle principesse è sempre eburneo – cioè di avorio – lo fa notare, e aggiunge che se hanno tradotto così l’inglese auburn (cioè rosso rame) è ora di tornare a pagare i traduttori professionisti.  | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 65 |


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altrevoci I PROIETTILI IRANIANI INVADONO L’AFRICA Sebbene ai margini della cronaca giornalistica, i conflitti armati continuano a insanguinare il continente africano. Ma a contribuire ai massacri, ultimamente, non sono le celebri “pallottole di Washington”, come cantavano i Clash, né le care e vecchie munizioni di Mosca o Pechino. A scombinare il mercato con nuove e massicce offerte di proiettili per ogni esigenza, infatti, ci sarebbe un nuovo e ambizioso newcomer : il regime di Teheran. La denuncia arriva dall’organizzazione privata britannica Conflict Armament Research (Car), autrice del rapporto The Distribution of Iranian Ammunition in Africa, frutto di sei anni di ricerche. «L’Iran possiede un’industria militare molto sviluppata, ma non ha mai esportato armi in quantità tale da rivaleggiare con i pesi massimi del mercato mondiale come Usa, Russia, Cina e vari Paesi europei. Ma le sue scelte in fatto di export sono state significative», ha scritto di recente il New York Times. «Pur attirando meno l’attenzione rispetto alle armi strategiche o a quegli ordigni come le mine antiuomo e le cluster bombs, che hanno suscitato la condanna internazionale, i proiettili di piccolo calibro sono un ingrediente essenziale per la violenza organizzata e sono coinvolti ogni anno e in ogni guerra, provocando un numero incalcolabile di morti e di crimini». [M.CAV.]

ATTACCHI INFORMATICI: MENO ACQUA E PIÙ ENERGIA NEL 2012

LAVORI FORZATI LA CINA ANNUNCIA UNO STOP

CATTURA E STOCCAGGIO DELLA CO2 IN SUDAFRICA

Delle 198 aggressioni informatiche malevole, monitorate l’anno scorso negli Usa, la maggior parte si è concentrata su attività e soggetti legati al settore energetico: lo rileva un rapporto realizzato dallo United States Computer Emergency Readiness Team (Us-Cert), ovvero il braccio operativo di controllo della sicurezza cibernetica che fa capo al governo federale americano. A esser stati presi di mira dagli hackers sono stati, infatti, specialmente i sistemi dei gestori di reti elettriche e di aziende che lavorano sulle condutture per il gas naturale: da soli hanno subito il 41% degli attacchi (dai 31 del 2011 a 82 l’anno scorso). A grande distanza seguono pochi altri bersagli sopra il 10% (servizi per l’acqua, 15%; soggetti che operano su internet, 11%; cibo e agricoltura, 10%) e molti altri con quote assai minori (enti governativi, chimica e manifatture strategiche, 4%; settore nucleare e trasporti, 3%; sanità e comunicazioni, 2%). Un cambio di prospettiva per i cyber pirati, che nel 2011 avevano invece “premiato” le infrastrutture idriche, dedicandovi il medesimo 41% delle proprie attenzioni. Molte più aziende, del resto, stanno affidando a connessioni telematiche le loro reti di business e di controllo industriali, moltiplicando così i punti d’accesso per le aggressioni informatiche. [C.F.]

L’annuncio è arrivato ai primi di gennaio da parte di Meng Jianzhu, capo del Comitato politico e giuridico del potente Partito Comunista Cinese, organo che supervisiona le autorità competenti e il sistema giudiziario: dalla fine del 2013 il governo «smetterà di usare» il famigerato sistema Re-Education Through Labor (Rtl), cioè la rieducazione attraverso il lavoro (forzato). La decisione, che porterebbe a uno stop e non a una completa abolizione dell’Rtl, sarebbe maturata per la sua crescente impopolarità, almeno secondo l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch, che ha rilanciato la notizia in Occidente. Ma, per diventare operativa, dovrà essere approvata dal comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, ovvero l’organo legislativo cinese. L’Rtl, in vigore dal 1950, consente una detenzione amministrativa anche a lungo termine controllata direttamente dalla polizia, e perciò non sottoposta alla giustizia penale amministrata dai tribunali. Secondo le statistiche ufficiali, ricorda Human Rights Watch, circa 160 mila cinesi sono attualmente tenuti prigionieri senza processo in 350 strutture, dove vengono obbligati a lavorare. Negli ultimi anni il governo ha ipotizzato una sostituzione dell’Rtl con un sistema di detenzione diverso, ma che manterrebbe sostanzialmente intatte le caratteristiche principali del meccanismo esistente. [C.F.]

Con un sistema energetico fortemente dipendente dal carbone, che soddisfa il 72% del fabbisogno di energia primaria e oltre l’84% della domanda di energia elettrica, il Sudafrica ha avviato una riconversione attraverso un mix di eolico offshore, solare fotovoltaico, idroelettrico e centrali a biogas. Ma, per raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti (-34% entro il 2020 e -42% nel 2025), il Sudafrica considera strategiche anche le tecnologie Ccs di cattura e stoccaggio della CO2, tanto da aver già pronto un atlante dei siti di stoccaggio e aver iniziato la sperimentazione dell’iniezione nel sottosuolo. Le sudafricane Ecometrix e Eskom, utility statali, si sono ora consorziate a FP7 Octavius, progetto che conta di sperimentare «concetti integrati di produzione di energia attraverso la cattura e la compressione dell’anidride carbonica, in vista del suo stoccaggio geologico». Con l’intento di dimostrare che le tecnologie Ccs uniscono sicurezza, fattibilità economica e rispetto dell’ambiente. Coordinato dall’Ilfpen, organismo pubblico francese di ricerca nel campo delle rinnovabili, il progetto riunisce 16 rappresentanti del mondo della ricerca e dell’industria: oltre alle due sudafricane già nominate, ci sono 13 partner che appartengono a 8 Paesi della Ue e uno alla Federazione Russa. [PA.BAI.]

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| LASTNEWS |

WALL STREET UN ANNO DI PRONOSTICI SBAGLIATI Nel corso del 2012 i mercati finanziari hanno conosciuto una significativa ripresa che, pur non incidendo per il momento sull’economia reale, ha comunque contribuito a rasserenare gli investitori. Ma il grande rally della Borsa e del mercato obbligazionario ha comunque colto di sorpresa i big di Wall Street, incapaci, nella maggioranza dei casi, di cogliere in anticipo la svolta in atto sulle piazze finanziarie. Lo sottolinea l’agenzia Bloomberg, passando in rassegna i grandi errori dei profeti di sventura, impegnati per troppo tempo a prevedere un collasso sistemico che, in definitiva, non è mai arrivato. John Paulson, passato alla storia per essere stato tra i pochi a prevedere il default della Lehman guadagnando miliardi con i derivati, è riuscito l’anno scorso nell’impresa di sbagliare due mega scommesse: il calo degli indici Usa e l’aggravarsi della crisi finanziaria europea. Ma il numero uno della Paulson & Co. è comunque in buona compagnia: Morgan Stanley, ricorda Bloomberg, aveva previsto un -7% sull’indice S&P500, mentre Credit Suisse si era espressa con un’ipotesi ancor più pessimistica. L’anno passato, ha ricordato a gennaio il capo economista di Deutsche Bank, David Folkerts-Landau, l’indice della Borsa di Francoforte, il Dax, ha guadagnato il 28%; la Borsa di Atene il 33%. [M.CAV.]

CAMBIAMO LA FINANZA PER CAMBIARE L’ITALIA!

GB, FISCO: L’ERRORE CLAMOROSO DEI RESPONSABILI DEGLI IFRS

L’introduzione di misure utili per scoraggiare la speculazione e favorire, al contrario, una finanza trasparente al servizio della collettività rappresenta, soprattutto alla vigilia delle elezioni, un obiettivo profondamente sentito dai cittadini. Ma cosa ne pensano Angelino Alfano, Mario Monti e Pierluigi Bersani? Qual è l’opinione di Antonio Ingroia, Beppe Grillo e Nichi Vendola? Insomma, che posizione intendono assumere in merito i leader politici che si candidano alla guida del Paese? Per rispondere a questi interrogativi Banca Etica lancia la Campagna di sensibilizzazione “Cambiamo la finanza per cambiare l’Italia”, chiedendo ai suoi soci, clienti, simpatizzanti e a tutti i cittadini consapevoli una firma attraverso la piattaforma www.change.org per porre alle forze politiche cinque domande cruciali su Tobin Tax, paradisi fiscali, azionariato popolare, etica&finanza, ruolo di banche etiche e cooperative in risposta alla crisi. «Crediamo – ha spiegato il presidente Ugo Biggeri – che questa crisi sia stata generata in larga parte dalle distorsioni di una finanza sempre più lontana dai cittadini e dalle imprese. Come tutti siamo chiamati a scegliere chi ci governerà, ma per farlo vogliamo sapere cosa i leader politici intendono fare sui temi della finanza: perché da qui dobbiamo ripartire per dare futuro al welfare, all’imprenditoria e all’occupazione in Italia». Firma e fai firmare: http://www.change.org/it/petizioni/ cambiamo-la-finanza-per-cambiare-l-italia [M.CAV.]

Lo Iasb (International Accounting Standard Board) è un organismo internazionale incaricato di emanare gli Ifrs (International Financial Reporting Standards). Si tratta di tutti quei principi, adottati in buona parte del mondo, che stabiliscono le regole contabili alle quali devono attenersi la maggior parte delle imprese per, ad esempio, scrivere un bilancio. In Italia, è proprio a tale corpus normativo che devono fare obbligatoriamente riferimento, dal 2005, le società quotate in Borsa, quelle con strumenti finanziari diffusi, le banche, gli intermediari finanziari e le compagnie di assicurazione. È per questo che fa davvero sorridere la notizia, riportata di recente dal settimanale economico francese Alternatives Economiques, secondo la quale l’organismo ha dovuto mettere da parte quasi 600 mila euro per rettificare la propria posizione fiscale nei confronti della Gran Bretagna. Ebbene sì: i super-tecnici avevano sbagliato la dichiarazione alle autorità inglesi! Se neanche coloro che scrivono le regole sono capaci di rispettarle... [A.BAR.]

BANCA DELLA TERRA VARATA LA LEGGE IN TOSCANA Sono oltre centomila gli ettari di terreno agricolo e forestale di proprietà demaniale in Toscana, in larga parte non coltivati. Rappresentano un costo per la Regione: in termini di mancati introiti e in quanto con l’abbandono della coltivazione aumentano i rischi idrogeologici. Così, alla fine del 2012, il Consiglio regionale ha varato all’unanimità la legge “Banca della terra - Terre regionali toscane”. Obiettivo: inventariare tutti i terreni agroforestali sia regionali che di altre amministrazioni pubbliche o private, per arrivare a una gestione sotto un’unica regia condotta dal nuovo ente “Terre regionali”, che incorporerà anche l’Azienda agricola regionale dell’Alberese, una delle più grandi tenute italiane, nel cuore della Maremma. La Banca della terra è stata salutata con entusiasmo dalla Confederazione italiana agricoltori regionale, che ha definito il testo “molto innovativo”, soprattutto perché consentirà ai giovani agricoltori di avviare nuove imprese o di allargare quelle già esistenti, grazie ad affitti di lunga durata. Mentre ha sollevato la ferma opposizione dell’Ente parco San Rossore, che ha chiesto e ottenuto delle modifiche per mantenere il suo ruolo di gestione della grande area verde tra Pisa e Livorno. L’ente Terre regionali ha anche fatto arricciare il naso agli ambientalisti più attenti, perché prevede espressamente che il patrimonio pubblico possa essere venduto. [PA.BAI.] | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 67 |


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| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

LA COOPERAZIONE SOCIALE ANIMA LA VALLE DEL BELICE Nel cuore della valle del Belice, in Sicilia, ci sono alcuni terreni dalla storia molto particolare, perché sono stati confiscati alla criminalità organizzata e perché adesso a lavorarci sono i ragazzi della cooperativa Liberarmonia. La cooperativa, che ha sette soci, impiega due persone disabili e la scorsa estate ha dato occupazione per qualche mese anche a due ex detenuti. «Ma – spiega la responsabile Rosalia Nuccio – le porte sono aperte anche all’immigrato oppure al padre di famiglia che ha perso il lavoro». L’attività di Liberarmonia è iniziata nel 2010 e per ora si incentra sulla produzione di pochi prodotti di qualità, il Nero d’Avola e la pasta artigianale; nei prossimi mesi si partirà con l’olio. Il lavoro è garantito per tutto l’anno: a seconda della stagione ci si può occupare della raccolta dell’uva come del magazzino. «Siamo molto vicini a Libera – racconta Rosalia Nuccio – e abbiamo il bollino di Addiopizzo e del consumo critico. Il nostro operato è fortemente incentrato sul territorio: vogliamo capirne le problematiche e dare un contributo pratico per il suo sviluppo». www.liberarmonia.com

ECOLOGINA LA MODA DEL RICICLO

ZAJEDNO, DONNE ITALIANE E ROM INSIEME PER IL LAVORO

BRESCIA, L’HOUSING SOCIALE ATTENTO ALL’AMBIENTE

«Nella moda ci sono troppi sprechi», esordisce sicura Giada Gaia Cicala, 28 anni. Da questa considerazione tre anni fa nasce – un po’ per gioco – il suo progetto, Ecologina, che, piano piano, è diventato un lavoro. Giada fa la spola fra Milano, dove è nata, e le Marche, dove si è laureata in Design e discipline della moda per poi aprire un piccolo laboratorio. Le sue creazioni sono realizzate a partire unicamente da materiali di recupero: piccoli metraggi che avanzano dalle grandi aziende che lavorano nell’alta moda, ma anche vestiti regalati da conoscenti e amici che hanno bisogno di svuotare gli armadi. Il risultato sono dei lavori patchwork : gonne, gilet, pantaloni. «Sta crescendo la sensibilità per il piacere di vestirsi con un capo artigianale invece di comprare, allo stesso prezzo, quattro magliette usa e getta in una catena della grande distribuzione, con le conseguenze devastanti che conosciamo in termini ambientali», racconta Giada. «Lo noto anche alle fiere come So Critical So Fashion, a cui partecipo dalla prima edizione: il pubblico aumenta costantemente e si è diffusa la consapevolezza per cui la moda sostenibile sia bella esteticamente ed eticamente». www.ecologina.it

Zajedno, in lingua bosniaca, significa “insieme”. È questo il nome scelto, dapprima, da un’associazione di volontariato e, poi, da una cooperativa nata a gennaio del 2012 come suo “braccio operativo”. Le protagoniste sono alcune donne rom, guidate da Cristina Rosselli Del Turco, una pediatra (ora in pensione) che le ha conosciute nei campi nomadi dove ha lavorato. Lo scenario è il laboratorio nel quartiere romano di San Lorenzo in cui, dopo una formazione guidata da designer ed esperti di cucito creativo, le lavoratrici producono artigianalmente accessori per l’abbigliamento e per la casa, borse ecologiche per la spesa e i Fabric books , libri in stoffa per bambini non vedenti. Un prodotto, quest’ultimo, talmente particolare da essersi già guadagnato ordinazioni per tutto il prossimo anno, soprattutto dal nord Europa. «Sui rom ci sono ancora troppi stereotipi – racconta Cristina Rosselli Del Turco – ma chi viene a trovarci resta meravigliato dalla professionalità delle donne rom e del loro lavoro», che utilizza materiali da riuso come bottoni e cerniere ma anche stoffe particolari e raffinate. «La scelta di lavorare con le donne – continua – è stata spontanea perché crediamo nella loro forza e nelle loro capacità». E il progetto continua: a marzo inizierà anche un periodo di formazione per cinque rifugiate. www.zajedno.it

Settantadue appartamenti, suddivisi in quattro palazzine, da destinare all’housing sociale. Ma con un fattore che li contraddistingue: sono costruiti interamente in legno, con un occhio di riguardo per i consumi energetici. Si può descrivere così, in estrema sintesi, il progetto portato avanti dall’impresa edile Rubner Objecktbau per Aler Brescia (l’azienda lombarda per l’edilizia residenziale). L’obiettivo è quello di dimostrare le potenzialità dell’edilizia in legno dal punto di vista del risparmio energetico: gli edifici sono infatti in classe A, anche grazie all’installazione di un impianto fotovoltaico da 12 kWp su ogni palazzina e alla ventilazione meccanica controllata. Il progetto procede a tappe serrate: l’appalto è stato vinto nel mese di dicembre del 2011 e i lavori, intrapresi a partire dal 28 maggio 2012, a fine anno erano quasi ultimati. E i costi risultano contenuti – fattore importante visto che gli edifici verranno assegnati a canone calmierato a famiglie in difficoltà – considerato che il totale è pari a 5,5 milioni di euro, vale a dire mille euro a metro quadro. www.rubner.com

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| FUTURE | a cura di Francesco Carcano | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

FINANZA 2.0 DA HOLVI A OPEN BANK Quando la logica del web 2.0 prova a reinventare il mondo bancario possono nascere nuovi progetti che sfidano le abitudini, ma rispettano le regole. Open Bank Project è stato creato dalla start-up berlinese Tesobe e vuole permettere la condivisione pubblica delle movimentazioni dei conti bancari, per esempio quelle di onlus che chiedono finanziamenti agli utenti. Gli ideatori cercano una banca coraggiosa per testare su vasta scala il sistema. Holvi, creato in Finlandia, è invece un servizio on line di gestione finanziaria che mutua da Paypal alcune caratteristiche, aggiungendo la possibilità di condividere accessi e informazioni bancarie personali o societarie tra più utenti. Il progetto è appoggiato all’istituto Nordea Bank e quest’anno verrà esteso alla Gran Bretagna. Il modello proposto prevede essenzialmente l’assenza di costi di gestione dell’account e la possibilità di ricevere e inviare pagamenti e si rivolge essenzialmente alle associazioni culturali non profit, alle band musicali e piccoli operatori culturali. Inaugurata con il motto replace your bank , la start-up è stata creata da un team di sole sei persone.

LA GUERRA TRA ISRAELE E ANONYMOUS

EPPELA IL CROWDFUNDING ITALIANO

RIUTILIZZARE L’ESISTENTE SENZA ALTRO CEMENTO

Rivendicare un’esecuzione o aprire una guerra con un tweet di 140 caratteri non è modernità, ma travestire la barbarie irridendo il valore della tecnologia per il progresso umano. Il comando delle forze armate di Israele ha usato questo nuovo sistema per rivendicare l’omicidio di un leader dell’ala armata di Hamas e, di lì a breve, per annunciare l’avvio di una operazione militare in risposta ai razzi arrivati dalla Palestina dopo l’omicidio (il cui video è stato postato da parte israeliana su You Tube e in seguito rimosso). Mentre le città sono in fiamme e la diplomazia internazionale decide il da farsi, Anonymous gioca la piccola carta della volontà extraparlamentare segnalando alla comunità internazionale il rischio che le notizie dei blogger palestinesi possano essere bloccate da un attacco alla rete internet che serve la striscia di Gaza. A fronte di questo concreto rischio l’organizzazione di net-attivisti ha inviato alla popolazione palestinese un file di sicurezza con indicazioni per sfuggire alla censura israeliana e regole su come poter utilizzare la Rete anche se venissero colpiti i server internet di Gaza.

Eppela è un sistema italiano di crowdfunding . Permette di presentare progetti e idee on line e di raccogliere valutazioni, adesioni e finanziamenti. Il sistema in sé è piuttosto semplice e i siti di crowdfunding hanno avuto una notevole crescita negli ultimi anni perché permettono, nel caso di piccoli progetti e fasi di start-up, di bypassare il classico meccanismo della ricerca di un finanziatore (o distributore o produttore), figura spesso sfuggente, poco attenta ai dettagli veramente innovativi che potrebbero rendere particolare e vincente una nuova iniziativa. Quindi meglio provare a fare da soli, contando sul potenziale della Rete e sul meccanismo di condivisione tipico dell’era 2.0. Su Eppela il progetto viene illustrato e ha un tempo entro cui raccogliere adesioni. Se il risultato non viene raggiunto nel tempo stabilito le donazioni restano virtuali e non vengono né stanziate, né addebitate al donatore.

(Im)Possible Living è una App per iPhone che permette di mappare e condividere l’ubicazione di edifici in stato di abbandono. Non solo ecomostri abbandonati nelle periferie o sulla spiaggia. Nell’elenco si trovano anche castelli, monasteri e luoghi d’arte che il tempo e l’incuria hanno relegato a un destino crudele. Si partecipa alla mappatura, previa iscrizione, inviando e commentando una fotografia geolocalizzata. Le segnalazioni sono arrivate da numerosi Paesi nel mondo, inclusa l’Italia dove la App è stata ideata. Il tema è di attualità e anche il Comune di Milano, dopo l’attivismo del collettivo Macao, ha lanciato una iniziativa per la raccolta di dati, propedeutica a un bando per il loro riutilizzo. Sulla stessa linea si muove ora anche il Wwf che ha lanciato un’iniziativa per creare una mappa di edifici abbandonati in Italia che possano essere riconvertiti. L’obiettivo è dimostrare che senza innalzare le cubature già esistenti sul territorio si possono creare strutture e infrastrutture utili al progresso delle comunità.

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Basilea 3 e Dodd-Frank

Meglio troppo prudenti che non prudenti affatto nno nuovo regole nuove, anzi no. Questo il risultato del passo indietro imposto dalle banche alle autorità di vigilanza con l’ennesima revisione dell’accordo sui requisiti di capitale per gli istituti di credito che, ormai da quasi un quarto di secolo, vengono stabiliti presso la Banca dei regolamenti internazionali, un ente fondato negli anni Trenta per la verifica del rispetto delle condizioni economi-

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che imposte agli Imperi centrali dalla Triplice Intesa dopo la Grande Guerra e al quale aderiscono oggi le banche centrali di tutto il mondo. La seconda e più famosa versione dell’accordo cosiddetto di Basilea 2, redatta dopo quasi un decennio di consultazioni ed estenuanti rinvii, prevedeva l’uso estensivo di modelli econometrici e stime di probabilità precise alla virgola per la quantificazione del capitale minimo (l’8%) che le banche devono detenere a fronte dei rischi impliciti nei propri bilanci. Entrò in vigore tra il 2006 e il 2007 e, per ironia della sorte, la storia ha voluto che di lì a pochi mesi si scatenasse la più grave crisi finanziaria che il sistema bancario mondiale ricordi: solo negli Stati Uniti – nonostante i dieci più grandi gruppi finanziari avessero allora un coefficiente di patrimonializzazione superiore all’11% – sono stati centinaia i fallimenti bancari, a partire da colossi come Bearn Sterns e Lehman Brothers. Durante gli ultimi anni quindi si è pensato di elaborare criteri più stringenti, di fatto più credibili, per misurare la capacità delle banche di assorbire shock “impulsivi” provocati da stress finanziari ed economici inattesi, basati su definizioni più tangibili sia per il capitale che per i criteri di ponderazione del ri-

Le banche hanno ottenuto un ammorbidimento dei nuovi criteri globali e negli Usa una proroga della riforma schio: secondo questi nuovi parametri, peraltro da molti considerati ancora troppo poco prudenti, l’indice medio di patrimonializzazione di quelle stesse dieci banche avrebbe raggiunto a stento il 3%, ovvero solo 3 centesimi di ogni dollaro investito in prestiti e mutui, piuttosto che in attività di trading, era garantito da strumenti di capitale adeguatamente “liquidi” a protezione dei risparmiatori, dei depositanti e in ultimo anche dei taxpayers. Alcune stime aggiornate relative ad altri giganti bancari europei parlano di numeri ancora peggiori, il che spiega la disponibilità al salvataggio a tutti i costi (delle banche) dei Paesi periferici dell’Eurozona da parte di Francia e Germania.

dal cuore della City Luca Martino

Fatti i conti con queste nuove regole (Basilea 3), che dovevano entrare in vigore a partire dal 2015, le banche hanno però chiesto e ottenuto, a fronte di una paventata (leggi “minacciata”) ulteriore stretta del credito per famiglie e imprese, un rilassamento dei criteri più vincolanti e una dilazione sostanziale delle scadenze previste. Con un’analoga operazione di lobbying, in queste stesse settimane, le grandi banche d’affari americane hanno ottenuto inoltre una proroga di almeno due anni e una completa ridefinizione degli strumenti da sottoporre a nuovo regime previsti dalle parti della riforma Dodd-Frank relative al mercato enorme dei derivati (quasi 700 mila miliardi di dollari), anche qui causa la necessità (leggi “scusa”) di sostenere il mercato dei mutui e la ricomposizione del capitale alla luce proprio di Basilea 3. In sostanza, sebbene sembri incredibile, a distanza di più di sei anni dall’inizio della crisi, le regole dei mercati della finanza sono ancora sostanzialmente le stesse e, guardando al prossimo futuro, non vi è certezza alcuna che le banche saranno più capitalizzate domani di quanto non lo fossero nel 2007. E questa è davvero un’imperdonabile occasione mancata.  todebate@gmail.com | ANNO 13 N. 106 | FEBBRAIO 2013 | valori | 73 |


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Donne e uomini, imprese che si indignano, protestano, resistono alla crisi

Nel cuore della Spagna

Eravamo la classe media Ora occupiamo le case

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di Mauro Meggiolaro

Burbuja del ladrillo Fatti La burbuja del ladrillo o bolla del mattone che ha trascinato nell’inferno tutta la Spagna ha generato un buco di oltre 160 miliardi di euro di mutui non pagati nei bilanci delle banche spagnole. Numeri Circa 687 mila gli appartamenti sfitti in tutto il Paese. In alcune regioni della Spagna – come l’Andalusia – i prezzi delle case sono saliti fino al 150% tra il 2000 e il 2008. Poi il tracollo. Oggi circa il 10% dei prestiti bancari non viene più pagato. Un record storico. Quello che era “il paese più virtuoso della Ue” è stato messo in ginocchio dal boom immobiliare. I debiti privati costituiscono il 98% dell’economia nazionale. Interventi Nel giugno del 2012 l’Eurogruppo ha accordato alla Spagna un finanziamento di 100 miliardi di euro per sostenere le proprie banche. L’Esm, il meccanismo di stabilità europeo, ha sostenuto le banche spagnole con un primo prestito di circa 37 miliardi di euro: 17,96 miliardi andranno a ricapitalizzare Bankia; 9,08 miliardi a Catalunya Banc; 5,425 a Ncg Nova Galicia Banco; 4,5 miliardi di euro sono destinati al Banco di Valencia che sarà venduto e integrato in Caixa-Bank.

Per inviare commenti e proposte: http://zoes.it/meggiomauro twitter: @meggio_m Facebook: https://www.facebook.com/pages/Mauro-Meggiolaro/ 115383048506446

FONTE: IL SOLE 24 ORE

aldemoro è una città dormitorio a sud di Madrid. Sessantamila e passa abitanti, palazzoni misti a case basse e un centro storico che ricorda antichi splendori. Nel 1970 ne aveva poco più di seimila ed era un ridente paesino di campagna, dedito alla coltivazione di frumento e granoturco. Col ritorno della democrazia è arrivata l’industria ed è scoppiata l’urbanizzazione. E fino al 2010 il cemento ha occupato ogni angolo. Ora, come in molte altre parti della Spagna, sono rimasti solo casermoni vuoti che nemmeno l’agente immobiliare più creativo riesce a piazzare. Nel quartiere Ronda de las Comunidades gli appartamenti sono in svendita, ma nessuno li compra. Dal civico 35 al civico 89 erano in vendita più di settanta casette a schiera. Solo tre hanno trovato un proprietario, le altre sono state abbandonate dall’agenzia immobiliare. A occuparle oggi, illegalmente, sono arrivate decine di persone senza casa. «Non vogliamo rubare la casa di nessuno, ma non abbiamo dove vivere e queste case sono vuote: è una pazzia», spiega una signora al quotidiano El Paìs. Fino a due anni fa ha lavorato come impiegata mentre il marito faceva l’idraulico. Poi è arrivata la disoccupazione con l’impossibilità di pagare affitti o mutui. «Vogliamo che la gente capisca che non siamo dei balordi, non siamo la feccia della società. Eravamo la classe media di questo paese e ora dobbiamo camminare con la testa in giù per la vergogna». Come tanti altri inquilini abusivi che occupano il quartiere anche Maria – chiamiamola così – ha chiesto all’agenzia immobiliare di pagare un affitto simbolico. Solo che la Castellana Immobiliaria, che un tempo aveva sede proprio a Valdemoro, ora si è dissolta nel nulla. I telefoni sono stati disattivati e Orbis Habitat, impresa dello stesso gruppo, è in fase di liquidazione giudiziale. La Ronda doveva diventare un quartiere modello con casette vendute a 300 mila euro dotate di giardino, attico e due garage. Ma il sogno immobiliare è diventato un incubo. La convivenza tra gli abusivi nel quartiere occupato procede però in modo pacifico e senza problemi particolari. Alcuni residenti hanno incollato un foglio di quaderno con il loro nome sulla cassetta della posta, altri hanno fatto l’albero di Natale. Molti di loro sono regolarmente allacciati alla rete elettrica e pagano le bollette. «L’ultima cosa che voglio fare è rubare», spiega Carlos Antonio Leite. «Cerco solo una vita normale». 


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