Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 99. Maggio 2012. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.
CHRISTIAN SINIBALDI / EYEVINE / CONTRASTO
Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità
Social business Amicizie a peso d’oro. Facebook in Borsa varrà 100 volte i suoi profitti Finanza > Gli scandali dei fornitori cinesi non scalfiscono Apple. La corsa continua Economia solidale > La Tav come un bancomat. E nella montagna spunta l’uranio | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > La partita delle elezioni Usa si gioca sul campo della finanza
| editoriale |
Facebook: una marca per le marche di Vanni Codeluppi
L
L’AUTORE Vanni Codeluppi Nato a Reggio Emilia nel 1958. Insegna Sociologia dei consumi e Comunicazione pubblicitaria alla facoltà di Scienze della comunicazione e dell’economia all’università di Modena e Reggio Emilia. Ha insegnato anche nelle università di Urbino, Palermo e allo Iulm di Milano. Tra le sue numerose pubblicazioni: La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società (Bollati Boringhieri, 2007); Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni (Bollati Boringhieri, 2008); Dalla produzione al consumo. Processi di cambiamento delle società contemporanee (FrancoAngeli, 2010). | 2 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
e ricerche che vengono condotte sul funzionamento delle marche aziendali hanno da tempo messo in evidenza come le imprese che sono in grado di ottenere un maggior successo sul mercato siano quelle che sanno trasformare le loro marche in veri e propri centri di relazioni sociali. La capacità di una marca di generare valore economico dipende infatti oggi soprattutto dalle relazioni che tale marca riesce a creare e gestire nel tempo. Si spiega così perché le marche, anziché cercare di imporsi, tentano di manifestare chiaramente la loro volontà di cooperare con gli individui per aiutarli a costruire la loro identità. Si fanno percepire cioè come degli amici fraterni dei quali ci si può fidare. Se ciò è vero per le marche in generale, a maggior ragione lo è per le marche che sono attive nell’ambito dei social network, che fondano il loro business proprio sulla costruzione delle relazioni sociali. Che cioè non soltanto, come tutte le marche, operano dando vita a delle relazioni, ma aiutano anche le altre marche a costruire le loro relazioni. Facebook, com’è noto, è l’azienda leader tra tutti i social network e il suo elevato valore economico odierno dipende chiaramente dal quasi miliardo di persone che mette in collegamento per le altre marche. Ma questi fenomeni comportano per la società un prezzo molto elevato da pagare e cioè che lo spazio privato tende progressivamente a scomparire. Tutto quello che ogni persona mette su Facebook diventa inevitabilmente pubblico, che lo voglia o no, perché si trasforma rapidamente in una informazione sui gusti di questa persona, che può essere così venduta alle altre imprese, le quali ne hanno un grande bisogno per mirare meglio i loro investimenti pubblicitari. Non a caso è stato calcolato che su Facebook un click di un utente vale all’incirca 1 dollaro e 3 centesimi. Dunque, è evidente che con i social network il processo di mercificazione della vita delle persone compie un ulteriore passo in avanti. D’altronde, ciò non rappresenta che il risultato del fatto che nelle attuali società la competizione tra le imprese si basa sulle idee e sulle conoscenze e dunque sono queste a generare valore economico. La fabbrica tradizionale aveva la necessità di sfruttare la forza lavoro interna, mentre le marche oggi accumulano valore soprattutto al loro esterno, sfruttando il lavoro quotidianamente svolto dai consumatori e dalla società in generale, cioè quel surplus di innovazioni, idee e creatività che gli individui producono con i loro comportamenti e con le loro esperienze quotidiane. Ed è dunque in questa vera e propria “fabbrica sociale” che si svolgono i principali processi produttivi odierni. Il che è reso possibile grazie all’instaurarsi di quel processo di continua mediatizzazione della vita sociale e del consumo che caratterizza le società ipermoderne. Le marche non devono far altro che tentare di operare in qualità di mezzi di comunicazione, cioè come strumenti relazionali, come ambienti autonomi dove i produttori e i consumatori possono stabilire una connessione reciproca. E da questo punto di vista il ruolo svolto dai social network contemporanei sta diventando oggi estremamente prezioso.
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i nostri titoli non sono tossici Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 99. Maggio 2012. € 4,00 Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 98. Aprile 2012. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.
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Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità CHRISTIAN SINIBALDI / EYEVINE / CONTRASTO
Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità OLIVER BOLCH / ANZENBERGER / CONTRASTO
MG PICCIARELLA / ROPI-REA / CONTRASTO
Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità
Economia solare Tecnologie avanzate e prezzi in calo. Il fotovoltaico si fa strada Finanza > Acqua: bene comune. Presente anche negli investimenti dei fondi etici Economia solidale > La pummarola made in Italy rischia l‘estinzione. La Cina si fa avanti | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Elezioni francesi in vista. Hollande gioca l’arma della redistribuzione
Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 97. Marzo 2012. € 4,00
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Super bolla cinese
Social business
Dopo anni di crescita incontrollata rischia un brutto atterraggio Finanza > Le armi (finanziarie) di distruzione di massa contro la Ttf Economia solidale > Il modello cooperativo contro la crisi del capitalismo | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Dopo le sette sorelle del petrolio, nuove società danno forma al mondo
Amicizie a peso d’oro. Facebook in Borsa varrà 100 volte i suoi profitti Finanza > Gli scandali dei fornitori cinesi non scalfiscono Apple. La corsa continua Economia solidale > La Tav come un bancomat. E nella montagna spunta l’uranio | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > La partita delle elezioni Usa si gioca sul campo della finanza
ndeficit-debito-interessi-deficit ndiamo nd amo pe p per e ese esempio p e ili caso o delle c correzioni di bilancio per svincolarsi vn o d dalla a trappola pp delle e spirali p pir deficit i oedebito e t interessi nteress d def deficit c t ep ancora r debito. Una correzione ttroppo pp llenta fap accumulare ca mu savanzi debiti; debiti una a correzione r più rapi rap rapida p rischia di mettere re e in n g ginocchio n nocch no ch o l l'economia e economia econom ritirando rit rando il pporto pp della d a domanda da pubb p pubblica bnac ca oup penali pen penalizzando nalizGoldilocks: n la domanda privata pr vata ttegno ll'aumento aumento od delle e tasse.. Ci vuo v vuole ogpub eabuna ublica soluz soluzione one misurea dp di so sostegno oatlungo eg e gcon op ne eve e periodo per pe p odo o accompagnate cc mp p e da a cred credibili c r e b i misure di correzione ne ne n nel g perio pe per periodo; rio io odo; o odo cioè c oè o misure m mi sure ch c che, h come m l aumento dell de dell'età ei ma età à detti pensionabile, pensionab pe pet nsionabile, nsionab ns n offett onab ei, cu no n non portano restrizioni oni significative signif significat sducono g gnif cattang iv iv veg ssub subito, to, sono o lente ente eq te ib ab anifestare ae nifestare n festare sl'aumento g gli oe gl effetti, fofet d ett effetti f tt le si cumulano uo non nel tempo eera rriducono unormali tangibilmente gibilmente biclmente es eno g gli squili squ sq squilibri nel el lungo ungo ng p periodo.Questa o Q est e crisi, cr s si, , insomma, nsomma, n m ha visto all'opera p a i norma rm r m meccanismi sm del ciclo, o, o l inciampo l'inciampo nciampo p a de del della ala caduta a t ca ill rrimbalzo mba m ba b ae zo zsoluzio de dell della ripresa. Ha chiamato mato m causa c u dn no non o one ttanto la ao p po politica t ca ad nomica quanto q an politica pol caeiare vera. v so soluzioni uz , di Goldilocks richiedono ie edono d iin di d media med m mediare are a ffra ra an il "troppo ttro oppo ppo cald caldo" "troppo troppo pposociale: freddo", ,ad dip conciliare a ssensi e en g gliliLe i interessi interessi, nteress es a affrontare i dissensi sensi sen se iotideologici, ideologic ideo de deo ogic placare contesa sfreddo interessi, ess liare dis dissensi eeconte contese e che diventano p più ù intensi ingtempi e di pp d di cr crisi. s la conte D rfronte Di fron ronte aq queste squesto d lao.p politica po tica tti aphaastentato tza a la trovare i ritmi ttmi eip pa passi as griveli a ef Li troverà? overà? à?a ug ugurio gurio gur g ootra è certamente m z ilsfide questo. uesto . oE"70 la a0 speranza speran an èèche soluzione em trovata a nella non oadeguati. sicostellazione veli eff effimera me e erdella aq qua quanto an un un'altra altra a sper speranza: p pianeta p a 70 V Virginis rgin rg g s b b" un pianeta extrasolare trasolare traso raso a a are e ne la a coste laz one del d apo Vergine; e ergine; erg g ne; e scoperto per pe o n nel 1 1996 fu u battezzato to Goldilocks, perché é non o era né troppo opp op c caldo né troppo pp p ddo e quindi quind potenzialmente e ab abitabile. a ttabile l M Ma le forse osservazioni azioni deltroveremo ssa satellite Hipparcos dimostrarono nddo, seguito che Goldilocks era troppo giorno il giusto mezzo, sia su questocaldo. che suMa qualche un altro pianeta.
nuove società
consumi
economia
finanza
crisi
maggio 2012 mensile www.valori.it anno 12 numero 98 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Paolo Bellentani, Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Giuseppe Di Francesco, Marco Piccolo, Fabio Silva (presidente@valori.it), Sergio Slavazza direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Giuseppe Chiacchio (presidente), Danilo Guberti, Mario Caizzone direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Gerard Guittot, Stephen Morton - The New York Time, Christian Sinibaldi (Contrasto); Giorgio Perrottino, Bobby Yip (Reuters); Tomaso Marcolla abbonamento annuale ˜ 10 numeri Euro 35,00 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 45,00 ˜ enti pubblici, aziende Euro 60,00 ˜ sostenitore abbonamento biennale ˜ 20 numeri Euro 65,00 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 85,00 ˜ enti pubblici, aziende come abbonarsi carta di credito sul sito www.valori.it sezione come abbonarsi Causale: abbonamento/Rinnovo Valori bonifico bancario c/c n° 108836 - Abi 05018 - Cab 01600 - Cin Z Iban: IT29Z 05018 01600 000000108836 della Banca Popolare Etica Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori + Cognome Nome e indirizzo dell’abbonato bollettino postale c/c n° 28027324 Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri.
CHRISTIAN SINIBALDI / EYEVINE / CONTRASTO
| sommario |
Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook
globalvision
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fotonotizie
8
dossier Social business Se Facebook e Wall Street diventano amici Pubblicità, giochi, crediti: è l’economia di Facebook Le relazioni al tempo dei social network L’Eldorado del marketing Universo social. Facebook leader indiscusso
14 16 18 20 22 24
bandabassotti
27
finanzaetica Apple non paga dazio Cooperative. Questione capitale Quando “rating” fa rima con “rete” Sgonfiamo il pallone del foot-business
28 33 35 36
inumeridellaterra economiasolidale
38
Tav, il buco senza fondo Interessi minerari dietro il tunnel? Riso, la crisi alle porte dell’isola felice Il web in rivolta contro la Coop “anti-liberalizzazioni” Buone pratiche. Prestiti alle imprese, i cittadini fanno da garanti Terra Futura, il lavoro al centro
40 44 46 50 52 54
internazionale Usa 2012. Nelle urne fisco, debito e lobbisti Finanza, sarà l’anno dei primi cambiamenti? La scommessa dei nuovi Brics Le isole dell’Eden fiscale
56 58 61 64
altrevoci bancor action!
66
chiusura in stampa: 20 aprile 2012 in posta: 27 aprile 2012
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73 74
| globalvision |
Dalla V alla L
Evitare la depressione
Q
uando la crisi subprime, ossia la tempesta finanziaria scoppiata nel 2007, si trasformò nella Grande Recessione (2008-2009) solo qualche “pazzo” liberista osò diagnosticare una forma a “V” di tale recessione, vale a dire una caduta veloce dell’economia a cui segue un’altrettanto rapida ripresa. Questi irriducibili credenti nell’“elastico di Friedman”, TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT
cioè un rapido recupero da parte dell’economia del trend pre-crisi, erano in realtà veramente pochi. Per lo più le previsioni ipotizzavano un andamento a “U”. Con questa lettera si descrive un calo a cui segue un rallentamento economico non breve, prima di poter osservare una ripresa di una certa consistenza. La lunghezza del “lato basso della U” dipende non tanto dalle autonome e spontanee capacità dei mercati di risollevarsi dalla crisi, quanto dall’efficacia delle politiche economiche messe in atto per contrastarla. L’attuale sistema economico mondiale è, dunque, l’evidente dimostrazione che “la cura” prescelta per rilanciare l’economia internazionale è clamorosamente fallita. Da un lato la ricetta americana, che prevede la priorità della politica monetaria su quella fiscale. Si è così arrivati al paradosso di affrontare una crisi generata da un eccesso di liquidità predisponendo nuove iniezioni di liquidità, che hanno finito per incoraggiare le propensioni speculative dei mercati finanziari. Dall’altro la ricetta europea dell’ “austerità”, che, intervenendo sugli effetti della crisi (cioè i debiti, e in particolare quelli pubblici) e non sulle cause (ossia la deregolamentazione dei mercati finanziari e la mancanza di crescita), ha
di Alberto Berrini
L’economia mondiale rischia non solo di non riprendersi, ma di tornare a crollare prodotto un avvitamento quanto mai pericoloso (perché non se ne vede la fine!) tra instabilità finanziaria e stagnazione dell’economia reale. Così il mondo economico si ritrova oggi senza una locomotiva: al contrario i rischi sempre più seri di rallentamento riguardanti gli Stati Uniti e la Cina rendono sempre più probabile lo spettro di una nuova recessione mondiale (purtroppo già in atto in Europa). Al punto che l’andamento a “W” della crisi (ossia una ricaduta in recessione a cui comunque si presuppone seguirà una ripresa) sembra oggi il male minore rispetto a una possibile lettera “L”, cioè che una grave crisi economica si trasformi in una vera e propria depressione.
Da questo punto di vista l’Italia potrebbe, purtroppo, essere un esempio concreto. L’attuale produzione industriale è ancora inferiore del 22,1% dai valori massimi pre-crisi (aprile 2008). La realtà, che ha decisamente superato le più fosche previsioni, descrive un’economia in rapida contrazione: più si indebolisce e più diventa fragile, creando le condizioni di un ulteriore indebolimento. In definitiva il rischio è quello di un degrado permanente del potenziale produttivo e più in generale economico del Paese. In conclusione l’evento estremo, alcuni direbbero il Cigno Nero, ossia una grave crisi che sfocia in una lunga depressione, non deve essere considerato il risultato eccezionale (cioè straordinario e improbabile) di approssimative politiche economiche, ma piuttosto il loro punto di partenza. Il rallentamento economico, che in alcuni casi si è già trasformato in recessione, è ormai un dato di fatto: una lunga depressione è “un esito possibile” che siamo in grado di evitare. È a partire da questo evento possibile che bisogna interpretare l’attuale crisi e pensare alle praticabili vie di uscita. Solo così una svolta, che riguardi le politiche economiche e i modelli di sviluppo che queste intendono perseguire, diventa urgente quanto indispensabile. | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 | valori | 7 |
| fotonotizie |
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Jeans alla moda in tessuto schiarito e usurato artificialmente, reso più morbido perché sottoposto a un bombardamento di sabbie ad alta pressione. Il procedimento d’invecchiamento artificiale, chiamato sandblasting, è sotto accusa, tanto più se non meccanizzato e se attuato senza fornire protezioni agli addetti o svolto in ambienti non adeguati, tipicamente in Paesi con manodopera a bassissimo costo come il Bangladesh. La sabbiatura manuale è veloce ed economica, ma le polveri inalate possono dare origine a gravi patologie respiratorie e, in caso di esposizione prolungata, condurre a malattie professionali mortali come la silicosi e il tumore polmonare. A chiederne la messa al bando è stata Clean Clothes Campaign – e la sua emanazione italiana Abiti Puliti – a partire dal 2010, per una campagna che ha incassato fino ad oggi una trentina di adesioni formali (ufficiali e ufficiose) da parte di aziende del settore in tutto il mondo, che hanno dichiarato di cessarne l’impiego nelle proprie produzioni entro il 2012. Hanno aderito anche tutti i marchi italiani interpellati (Gucci – che ha lavorazioni solo in Italia – in prima fila), tranne Dolce e Gabbana (che, sottolinea Abiti Puliti, si è rifiutata di fornire informazioni sulle lavorazioni nei suoi stabilimenti). Un impegno da parte delle griffe apprezzato (come anche il divieto alla pratica del sandblasting approvato per legge dalla Turchia o i primi coinvolgimenti dell’Oms sull’argomento), ma da verificare sul campo. E infatti, purtroppo, è arrivata la brutta notizia: i ricercatori della Ong Amrf (American Medical Resources Foundation) si sono recati sul campo, in Bangladesh, e delle sette fabbriche controllate nessuna ha definitivamente abolito la sabbiatura. Tra i committenti di questi stabilimenti ci sono anche H&M, Levi’s, C&A, D&G, Esprit, Lee, Zara e Diesel, i marchi che dichiaravano di avere già abolito l’uso della sabbiatura nelle proprie filiere internazionali. www.abitipuliti.org [C.F.]
[Un operaio, senza adeguate protezioni, in un impianto al di fuori di Dhaka, Bangladesh].
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DAL RAPPORTO “DEADLY DENIM - SANDBLASTING IN THE BANGLADESH GARMENT INDUSTRY”, CLEAN CLOTHES CAMPAIGN 2012
Le bugie delle griffes I jeans schiariti continuano a uccidere
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Maggio 2011: sul numero 89 di Valori usciva un bellissimo servizio firmato da Antonio Mazzeo e illustrato dalle fotografie di Maria Vittoria Trovato. Il reportage era stato realizzato in Sicilia e documentava le condizioni di vita all’interno del campo di Mineo, una ex base militare Usa dove, tra fili spinati e telecamere, venivano rinchiusi i richiedenti asilo curdi, somali, eritrei e tunisini. Quel servizio di cui Valori è stato il promotore, ha messo in movimento altre cose: ha fatto incontrare per la prima volta un gruppo di redattori, film maker e fotografi siciliani, con giovani tunisini scappati dal regime e dalle rivolte. Da questi incontri è nato anche il progetto per un web-documentario, prodotto dal basso: Le printemps en exil, la primavera in esilio. Le storie di molti di quei giovani tunisini sono state filmate in modo soggettivo, senza filtri giornalistici, seguendoli nella loro fuga verso la Francia. Fino a quando, per molti, l’unica soluzione è stata il ritorno in Tunisia. Per raggiungere la Tunisia e continuare quel racconto, incontrando i ragazzi che hanno vissuto la rivoluzione, per capire cosa cambia e se cambia, la forma scelta è il web-documentario, un nuovo prodotto multimediale che può intrecciare e raccogliere i materiali più disparati, da fotografie a pagine di giornali, da documenti a video, con delle possibilità narrative ipermediali ancora in buona parte inesplorate. Una volta pubblicato on line il web-doc sarà visibile da chiunque. A questo progetto si può contribuire fino al 9 giugno come produttori, con quote a partire da 10 euro sottoscrivibili sul sito delle Produzioni Dal Basso, ma anche attraverso la condivisione di materiali che ognuno potrà inviare, inserire o segnalare all’interno di un archivio on line messo a disposizione. Le printemps en exil è un progetto sviluppato in co-produzione da House on Fire e da frameOFF. www.produzionidalbasso.com [PA.BAI.]
[Migranti rinchiusi nel campo di Mineo, ex base militare dell’esercito degli Stati Uniti].
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GIUSEPPINA BRUNO
Le printemps en exil Web-documentario prodotto dal basso
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| fotonotizie |
Energie sostenibili La Francia “carbura” a microalghe
[Una salina francese a Gruissan: bacini al cui interno si possono coltivare microalghe da trasformare in biocarburanti].
| 12 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
GERARD GUITTOT / REA / CONTRASTO
Le microalghe potrebbero presto contribuire a scrivere il futuro energetico del pianeta. Nelle saline di Gruissan, nel sud della Francia, se ne sta sperimentando la coltivazione, con l’obiettivo di utilizzare i vegetali marini come biocarburanti. Si tratta della cosiddetta terza generazione di biofuels, che supera alcuni dei problemi che in passato hanno suscitato numerose critiche anche dal mondo ambientalista. Non vengono infatti occupati terreni agricoli, e per la coltivazione si possono utilizzare bacini idrici esistenti. Inoltre l’alga utilizzata – la Dunaliella Salina, presente nell’ecosistema locale – è in grado di assorbire un centinaio di tonnellate di CO2 all’anno per ciascun ettaro di coltura. A Gruissan si è cominciato con quattro vasche da 250 metri quadrati, nelle quali è stato iniettato un mix di nutrienti per massimizzarne la produzione di olio. Secondo i responsabili del progetto – denominato Salinalgue e gestito da un consorzio di aziende private, organismi di ricerca pubblici e università – rispetto alla prima generazione di biocarburanti (estratti di colza, soia, girasole o palma) il potenziale di produzione di biodiesel delle microalghe è dieci volte maggiore. Si stimano infatti tra i 5 e i 10 mila litri per ettaro coltivato all’anno. Se i risultati saranno soddisfacenti, la sperimentazione sarà ampliata in bacini fino a 100 volte più grandi tra il 2013 e il 2015. Successivamente, si potrà passare a una produzione industriale. [A.BAR.]
| ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 | valori | 13 |
dossier
a cura di Paola Baiocchi, Andrea Di Stefano, Matteo Cavallito e Valentina Neri
Social business 845 milioni di utenti nel mondo, 100 miliardi di amicizie: il tesoro di Facebook sono le relazioni. Per la Borsa ogni amico vale 1 dollaro: 100 miliardi in tutto. Per le imprese è un prezioso strumento di marketing. A basso costo. Se Facebook e Wall Street diventano amici > 16 Pubblicità, giochi, crediti: è l’economia di Facebook > 18 Le relazioni al tempo dei social network > 20 L’Eldorado del marketing > 22 Tutto ha origine dall’epopea Netscape > 24
| dossier | social business |
bero avere luogo nel prossimo anno altre 3-400 Ipo. Qualcuna sarà anche fallimentare, ma molte implicheranno investimenti e nuovi posti di lavoro. Il fatto è che lo stesso business model di Facebook crea nuove professionalità con l’impressione di concentrarsi tra l’altro sui mercati in cui è già forte. In altre parole mi immagino assai più facilmente nuove assunzioni in Usa ed Europa e non, come è accaduto con la Apple, negli impianti a basso costo della Cina».
2004, giugno
Anonimo
10.000.000
< 1 MLN
2004
Friendster
sconosciuta
< 1 MLN
2004, estate
sconosciuta
< 1 MLN
2005, marzo
Viacom
75.000.000
1 - 6 MLN
2005, primavera
MySpace
sconosciuta
1 - 6 MLN
2005, autunno
Viacom
sconosciuta
1 - 6 MLN
2005
NBC
sconosciuta
1 - 6 MLN
2006, gennaio
News Corp
sconosciuta
> 6 MLN
2006
Viacom
1.500.000.000
6 - 12 MLN
2006, giugno
Yahoo
1.000.000.000
6 - 12 MLN
2006
Aol
1.000.000.000
6 - 12 MLN
2006, inverno
Yahoo
1.000.000.000
6 - 12 MLN
2007, inverno
15.000.000.000
58 MLN (dicembre)
2007
Microsoft
15.000.000.000
58 MLN (dicembre)
2012, marzo
Fine contrattazioni pre Ipo
103.000.000.000
845 MLN
GLOSSARIO
INITIAL PUBLIC OFFERING (IPO): la prima offerta di titoli al pubblico realizzata da una società che attende di essere quotata in Borsa. L’operazione mira a collocare presso gli investitori nuovi titoli che saranno in seguito scambiati liberamente sul mercato.
SOCIAL GAMING: in questo caso giochi che prevedono l’interazione tra più soggetti, i giocatori stessi, che agiscono in una piattaforma comune rappresentata dal social network.
PAY&FEES: i pagamenti effettuati sulla piattaforma di Facebook come percentuale sulle transazioni condotte nell’acquisto delle applicazioni con la moneta virtuale d el social network (i Facebook credits).
CAPITALIZZAZIONE AZIONARIA: il valore delle azioni di una compagnia calcolato moltiplicando il numero di queste ultime per il loro valore di mercato.
EVOLUZIONE DEGLI UTENTI FACEBOOK 900
3.500
800
3.711
4.000
700 600
608
3.000
845
FACEBOOK, EVOLUZIONE DEI RICAVI E DEI PROFITTI NETTI 2007-2011
2.500
CAPITAL GAIN: è la plusvalenza realizzata da un investitore quando il prezzo di vendita di un titolo finanziario eccede quello originario pagato in precedenza al momento dell’acquisto. Viene tipicamente tassata.
STARTUP: impresa di nuova costituzione ancora impegnata nella definizione della sua struttura organizzativa e del proprio modello di business. Costituisce per sua natura un investimento potenzialmente redditizio ma anche rischioso.
1.974
500
2.000
500
138 0
2007
2008
2009
200 100
2010
2011
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dic-04
dic-05
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360
145
300
12
1.000
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di Boo.com (la internet company britannica collassata tra il 1999 e il 2000) e della grande illusione che accompagnò l’antesignano “social” Bebo (ceduto ad Aol nel 2008 per 850 milioni di dollari e da questa liquidato nel 2010 per meno di 10 milioni), hanno parlato apertamente di bolla speculativa. Allister Heath, il direttore del quotidiano finanziario londinese City A.M., è stato ancora più esplicito. «Gli esseri umani – ha spiegato qualche mese fa in un editoriale – vogliono spesso illudersi che “questa volta” il mondo sia diverso, che le eterne leggi economiche non valga-
Iscritti a Facebook
FONTE: FACEBOOK, NEWSROOM.FB.COM. DATI AL MESE DI DICEMBRE DI CIASCUN ANNO IN MILIONI
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La compagnia di Mark Zuckerberg debutta in Borsa con un valore totale di 100 miliardi di dollari. Troppi, forse. Ma le potenzialità non mancano e il settore internet sogna il grande salto
I dubbi restano, specialmente di fronte alle cifre. I profitti netti di Facebook sono in crescita, ma ad oggi valgono appena 1/100 del valore che il mercato attribuirebbe alla compagnia. Google, per intenderci, capitalizza circa 200 miliardi, il doppio di Facebook, ma i suoi ricavi totali valgono quasi 10 volte tanto. «Forse c’è un eccesso di entusiasmo», spiega Francesco Perrini, ordinario di Economia e gestione delle imprese dell’università Bocconi di Milano. «Una cosa è parlare di Apple, Microsoft e Google, un’altra è pensare a Linkedin, Groupon o alla stessa Facebook. Se le valutazioni non sono giustificate si rischia di creare una nuova bolla, ma è pur vero, e si tratta di un aspetto fondamentale, che i giganti del web di oggi fanno profitti mentre i protagonisti della bolla ’99-2000 erano tutti in perdita». L’ipotesi, quindi, è che la Borsa possa dare credito a Facebook e gli investitori, accettando di sottoscrivere le azioni a questi prezzi, finiscano in pratica per scontare in anticipo i profitti dei prossimi anni. Ammesso, s’intende, che questi possano crescere a ritmi sostenuti. Nell’attesa, comunque, l’entusiasmo potrebbe giocare un ruolo decisivo. «Dopo Facebook – prosegue Perrini – dovreb-
FONTE: FACEBOOK, SEC 2012. DATI IN MILIONI DI DOLLARI
A fine marzo, quando si sono chiuse le contrattazioni sul mercato privato, la compagnia di Mark Zuckerberg ha segnato un valore totale di 103 miliardi di dollari, circa 10 mila volte tanto rispetto a quello che l’allora studente di Harvard si era visto offrire da un investitore newyorchese nel giugno del 2004. Solo che allora il più famoso social network del mondo contava qualche centinaia di migliaia di iscritti contro gli oltre 845 milioni di oggi e le sue prospettive non erano ancora note. Oggi, al contrario, le sue potenzialità sono al centro dell’attenzione e il dibattito è più che mai aperto. Wall Street è sovraeccitata, gli operatori fremono e un intero settore sogna la moltiplicazione di tanti Charles Forman, capaci di cogliere le immense opportunità offerte. Ma non tutti la pensano allo stesso modo. Ernst Malmsten e Michael Birch, artefici rispettivamente del noto fiasco
Il fattore entusiasmo
Valutazione
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Allarme bolla?
Qualcuno, intanto, può già permettersi di brindare agli effetti immediati del collocamento. In primis gli azionisti di Facebook, dai principali detentori di quote (vedi TABELLA ) ai semplici dipendenti (si parla di un migliaio di nuovi milionari), senza dimenticare le stesse banche che cureranno l’esordio in Borsa dell’azienda (Morgan Stanley, JPMorgan, Goldman Sachs, Bank of America e Barclays in particolare) che, secondo Bloomberg, si divideranno una commissione dell’1,1% sulla prima tranche di azioni (5 miliardi) da dare in pasto al mercato. Infine c’è lo Stato della California: secondo il LA Times, le tasse sul capital gain di Facebook dovrebbero fruttare due miliardi e mezzo di dollari nei prossimi cinque anni, andando così a rimpinguare le casse vuote di una disastrata amministrazione locale che ancora sconta gli effetti della crisi dei mutui. Come a dire, dalla bolla immobiliare alla riscossa del Nasdaq. Anche questo, in fondo, è il sogno americano.
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«I
Sicuri vincitori
no più. Per questo mi preoccupo quando vedo un sito con due anni e mezzo di vita come Groupon valutato tra i 15 e i 25 miliardi di dollari». Il 4 novembre Groupon ha esordito a Wall Street chiudendo le contrattazioni a oltre 26 dollari per azione. Il 10 di aprile il prezzo era sceso ampiamente sotto i 14 dollari. In poco più di cinque mesi, in altre parole, il valore del titolo si è praticamente dimezzato.
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eri sul mio conto in banca c’erano 1.700 dollari. Adesso molti, molti di più». Bowery Hotel, Manhattan, marzo 2012. L’uomo che sorseggia un cocktail scambiando qualche battuta con un reporter del New York Times è Charles Forman, fondatore e azionista della Omgpop, un’ex startup del settore internet. All’inizio dell’anno, i suoi programmatori hanno investito tutti i loro sforzi in una nuova applicazione chiamata Draw Something, una sorta di rivisitazione digitale di un gioco di società dell’era carta&penna, il vecchio Pictionary. Nello spazio di qualche settimana Draw Something ha ricevuto qualcosa come 35 milioni di download, attirando l’attenzione del colosso del social gaming Zynga, che non ci ha pensato due volte ed è corso ad acquistare l’intera Omgpop per 180 milioni di dollari. Almeno 22 di questi sono finiti direttamente sul conto di Forman. Zynga, il talent scout della situazione, non è certo una compagnia da poco. Anzi, nel corso del 2011 la sua attività di social gaming ha fruttato il 12% dei ricavi complessivi di Facebook, il mostro sacro della rete, protagonista, nel maggio di quest’anno, del più importante capitolo della sua storia: l’ingresso in Borsa. Un debutto miliardario che fa sognare un’intera business community.
Offerente
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di Matteo Cavallito
Data
1.000
Se Facebook e Wall Street diventano amici
I TENTATIVI DI ACQUISIZIONE DI FACEBOOK, 2004-2007
FONTI: BUSINESS INSIDER (WWW.BUSINESSINSIDER.COM), DAVID KIRKPATRICK - “THE FACEBOOK EFFECT”, FACEBOOK (NEWSROOM.FB.COM)
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Pubblicità, giochi, crediti: è l’economia di Facebook di Matteo Cavallito
Annunci pubblicitari sempre più capillari e personali. Ma anche un nuovo universo di applicazioni virtuali da acquistare con denaro reale. Così le relazioni sociali diventano una macchina da soldi miliardi di relazioni di amicizia distribuite tra 845 milioni di utenti, che esprimono 2,7 miliardi di “likes and comments” e caricano qualcosa come 250 milioni di immagini al giorno. Sono questi i dati più importanti presentati da Facebook nella relazione formale consegnata alla Sec, la commissione di controllo della Borsa americana. Cifre impressionanti che, ad oggi, promettono di attirare l’attenzione degli investitori assai più di quanto possano fare i non ancora entusiasmanti indicatori tradizionali (ricavi e profitti netti soprattutto).
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Pubblicità su misura Se le cifre dell’asta privata pre-Ipo (Initial public offering, il collocamento iniziale in Borsa) sono davvero attendibili, ecco che il calcolo diviene intuitivo: ogni relazione di “amicizia” costruita con un click vale esattamente 1 dollaro e 3 centesimi. Basterebbe questo dato, forse, per identificare l’immenso capitale “relazionale” che la compagnia è in grado di custodire e “vendere” ai migliori offerenti: le aziende. Sembra il vecchio schema della pubblicità: sfruttare la popolarità di una piattaforma per raggiungere un numero crescente di consumatori. È stato così per la televisione, lo è oggi per il social network della compagnia californiana (ma legalmente registrata nel Delaware, uno dei principali paradisi fiscali del Pianeta) di Zuckerberg e soci. Solo che questa volta è diverso, perché ciò che | 18 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
quella platea di 845 milioni di utenti ha davvero di speciale è la sua voglia insopprimibile di esprimere giudizi, condividere materiale, creare eventi. La bramosia, in altre parole, di spiegare anche agli inserzionisti chi siamo e cosa vogliamo, ovvero quali messaggi inviare e a chi. Ad oggi, la pubblicità su misura di cliente rappresenta di gran lunga la risorsa principale. Nell’ultimo anno, la vendita di spazi pubblicitari ha costituito da sola l’85% dei ricavi di Facebook. Una percentuale schiacciante, eppure in progressiva diminuzione. In attesa del vero salto di qualità.
PROFESSIONE “INFLUENZATORE”? La sua veste informale, basata interamente sulle relazioni, non deve trarre in inganno: la rete ideata da Zuckerberg, ormai, è un piccolo sistema economico a sé. Che, in quanto tale, sta creando anche vere e proprie figure professionali. Per ora, soprattutto in Italia e nelle realtà piccole, c’è ancora tanta confusione. Ma ci sono anche siti e periodici tematici, master universitari ad hoc e curriculum sempre più completi che vengono richiesti per coprire ruoli dei quali, fino a pochi anni fa, non si poteva sospettare l’esistenza. Come il social media manager: un esperto di marketing incaricato di pianificare nei dettagli la presenza sui social media di un’azienda, che va declinata tramite contenuti che spaziano dai tweet di 140 caratteri fino ai video da pubblicare su Youtube. Oppure il community manager, alle sue dipendenze, che passa le giornate (e spesso le notti e i weekend) a stimolare la partecipazione degli utenti e moderare le discussioni. Ad andare a caccia di questi professionisti sono le grandi multinazionali così come i personaggi politici, gli enti pubblici o le star del cinema. E si tratta di ruoli tutt’altro che marginali, se si considera che rappresentano la “voce” che deve interagire costantemente con la persone: sia per scopi puramente promozionali, sia quando bisogna rispondere a critiche e lamentele. Il tutto tenendo presente che – soprattutto in Internet, dove qualsiasi informazione può essere amplificata istantaneamente – i “passi falsi” sono quasi impossibili da cancellare. V.N.
FACEBOOK SPIEGATO A MIA ZIA Di fronte al re dei social network ci si divide fra gli entusiasti della prima ora e gli scettici, gelosi della propria privacy. Ma il sistema che ha fatto la fortuna di Mark Zuckerberg, in fin dei conti, è semplice. Bastano pochi minuti e un indirizzo email per entrare nel social network più diffuso al mondo: fornendo poche informazioni di base (nome, cognome, data e luogo di nascita e una foto) si ha a disposizione un profilo, vale a dire uno spazio virtuale da gestire a proprio piacimento. Innanzitutto scegliendo gli “amici”: dai colleghi di lavoro ai vecchi compagni di scuola, dagli amici di tutti i giorni ai parenti che si sono trasferiti dall’altra parte del Pianeta. Fino anche, in certi casi, a emeriti sconosciuti, aggiunti allo scopo di allungare il proprio elenco di contatti e costruirsi “popolarità” sul web. In ogni caso si tratta di persone con cui si vogliono mantenere (o recuperare) i contatti, condividendo informazioni e contenuti. Se invece a iscriversi sono aziende, associazioni o personaggi celebri per cui il limite dei 5.000 amici risulta troppo basso, ci sono le pagine ufficiali: sono gli utenti a sceglierle con un like (“mi piace”). Musica, cinema, sport, politica, prodotti: dall’elenco dei “mi piace” è possibile ricostruire con uno sguardo il mosaico di interessi e inclinazioni di una persona. La logica di Facebook, infatti, sta tutta nell’esprimere la propria personalità: è per questo che si sceglie di corredare quotidianamente il proprio profilo con frasi, link a siti esterni, foto o video. Fino a poco tempo fa ogni profilo aveva proprio l’aspetto di una “bacheca” da riempire: ogni nuovo contenuto
Social gaming? Lots of money! Già, perché la vera frontiera, oggi, si chiama soprattutto social gaming, quell’universo in continua espansione dei giochi on line che si svolgono (e si condividono) proprio sulla piattaforma Facebook. È il loro stesso sviluppo a trainare l’offerta di nuove applicazioni, veri e propri beni virtuali che possono essere acquistati (con soldi veri) dagli utenti del social network. Il sistema è collaudato: per comprare qualcosa occorre prima acquistare i Facebook credits che, dal luglio scorso, rappresentano la sola moneta corrente della piattaforma (se ne possono acquisire 10 spendendo 1 dollaro). I soldi, veri, della transazione vengono divisi tra chi vende l’applicazione (70%) e Facebook (che ne trattiene il 30%). Nel 2009, il comparto pay and fees rappresentava appena il 2% dei ricavi totali di Zuckerberg e soci. Oggi, come si diceva, la percentuale è aumentata di oltre sette volte. I quattro quinti del volume delle
faceva scorrere via quelli vecchi, rendendo Facebook un mezzo estremamente duttile per gli aggiornamenti, ma facendo passare la “memoria” in secondo piano. In questi giorni sta prendendo corpo un’evoluzione destinata a cambiarne drasticamente il volto. Si tratta della Timeline: il profilo, di fatto, diventa un diario in cui il tempo è scandito da una linea che non parte dalla data d’iscrizione ma dall’anno di nascita, con un chiaro rimando all’idea per cui Facebook debba integrarsi pienamente anche alla vita off line. Oltre ai contenuti tradizionali, nel diario si può infatti annotare qualsiasi esperienza: dalla laurea, al cambio di lavoro, ai viaggi. Accompagnandola con le immancabili foto, i messaggi e i commenti degli amici. E indicando, tramite i tag (una sorta di etichetta da applicare ai protagonisti delle foto), le persone presenti e la localizzazione geografica: la Timeline, fra le altre cose, mostra una mappa dei luoghi che sono stati visitati di mese in mese. Bastano pochi clic per ripercorrere la propria “storia”, andando a curiosare tra i contenuti dei mesi e degli anni precedenti. Ogni utente, in home page, si trova così di fronte a un mosaico di informazioni: e il potenziale di Facebook sta proprio nel fatto che a proporle siano nomi e volti familiari, con i quali si può dialogare. In sintesi, per quanto lo si possa arricchire con sofisticate applicazioni, e per quanto lo si possa sfruttare in termini di business (vedi ARTICOLO ), le radici del fenomeno che sta cambiando il web sono quelle, antichissime, del valore del passaparola e delle relazioni.
Gli investitori non guardano tanto i profitti quanto le amicizie su Facebook. I guadagni reali derivano dalle pubblicità, su misura. E da social gaming e app transazioni si realizza sulle applicazioni gestite da Zynga, il colosso del comparto games. Proprio questa posizione dominante rende la partnership assolutamente essenziale costituendo al tempo stesso, per stessa ammissione di Facebook nel prospetto inviato alla Sec, un evidente elemento di rischio. Un discorso a parte merita invece il segmento dell’online gambling, il gioco d’azzardo online. Negli Usa, come noto, la pratica è ancora vietata, ma se la legislazione dovesse cambiare, i ricavi crescerebbero in modo esponenziale. E Facebook e Zynga, ancora una volta, partirebbero in prima fila.
LIBRI David Kirkpatrick The Facebook Effect: The Inside Story of the Company That Is Connecting the World Simon & Schuster, 2010
Lanier Jaron Tu non sei un gadget Mondadori, 2010
Ben Mezrich Miliardari per caso - L’invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento Sperling & Kupfer, 2010
Giovanni Fiorentino e Mario Pireddu Galassia Facebook. Comunicazione e vita quotidiana ed. Nutrimenti, 2012
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Le relazioni al tempo dei social network di Paola Baiocchi
Facebook è piombata nelle nostre vite solo da otto anni, ma ha già prodotto cambiamenti profondi nelle relazioni personali e pubbliche. Gli aspetti positivi si intrecciano con quelli ambigui a profilazione delle persone secondo le scelte e le disponibilità di consumo, l’uso di tecniche di personalizzazione di massa, lo sfruttamento di competenze e produzioni intellettuali dei singoli che accedono a questi media con il desiderio di esprimersi e di condividere, sono alcune delle ambiguità di Facebook. Affrontiamo alcune di tali questioni con Clelia Pallotta, studiosa di comunicazione e docente di Antropologia culturale presso il Politecnico di Milano.
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Facebook è definita una disruptive innovation, un’innovazione dirompente per i cambiamenti che può portare, forse ancora più di Internet, in positivo o in negativo. Che cosa ne pensa? Quando è apparso internet ho trovato che questo media dei media, che contiene infiniti mondi, sia uno straordinario veicolo di diffusione e vendita delle merci, materiali e immateriali. Con Facebook le potenzialità di profilazione arrivano dove i pubblicitari non erano
Clelia Pallotta, studiosa di comunicazione e docente di Antropologia culturale presso il Politecnico di Milano
mai arrivati: all’uno per uno, a parlare con il singolo consumatore conoscendone il percorso, le tracce, il profilo. Ci sono ormai istituti di ricerca che lavorano a livello globale sulle tracce lasciate in rete, ricostruiscono i profili delle persone in modo continuo e con tecniche sempre più raffinate.
Il mondo ha una nuova superpotenza. Privata di Paola Baiocchi
Facebook accumula capitali che potrebbero permettergli di sfruttare le sue potenzialità diventando la più grande società privata del mondo. I soli ostacoli in vista potrebbero essere le legislazioni sulla privacy. Ma per ora non se ne parla Se Facebook fosse un continente, con i suoi 845 milioni di utenti, sarebbe al terzo posto per popolazione dopo Asia e Africa. Con una “crescita demografica” che la vecchia Europa si sogna; con enormi capitali a disposizione, che verranno aumentati dalla quotazione in Borsa, come una superpotenza mondiale che si sviluppa al galoppo. Nel giro di otto anni la sua diffusione ha oscurato decine di altri social network, fino a farlo diventare quello egemone sul Pianeta. Dopo l’applicazione che permette di telefonare con Skype ai propri
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amici facebookers, lo scorso settembre la società ha lanciato altre connettività con le quali gli utenti possono guardare film e leggere le notizie, senza andare su altri siti. Nei suoi obiettivi dichiarati c’è l’aumento di questa convergenza, cioè che l’accesso a diversi media e servizi passi tutto sulla propria piattaforma: attraverso acquisizioni, alleanze e nuovi prodotti. Come il telefonino con un proprio linguaggio di cui si parla già da molto tempo, visto che molti utenti si collegano a Fb proprio con il cellulare. Consumo di tempo e problemi di monopolio In media uno ogni sette minuti di ricerca in internet sono spesi su Facebook, afferma la società comScore, un gigante della ricerca marketing sulla Rete con sede negli Stati Uniti e filiali in Europa, Sudamerica e Asia. E la tendenza a questo consumo di tempo su Fb sta crescendo, a discapito di altri concorrenti come Google. Le potenzialità di diffusione di questo social network sono immense,
Cosa apportano nella nostra vita i social network, in particolare Facebook, quello egemone in questo momento? Della smaterializzazione delle relazioni si parla molto già dagli anni ’90; adesso vorrei usare come metafora quei movimenti nordafricani che abbiamo chiamato primavera araba e che si sono condensati attraverso i social network. Questa condensazione ha prodotto dei risultati: le piazze piene, la caduta dei governi; poi però è come se si fosse dissolta. E in tutti questi movimenti, dove più dove meno, sta prevalendo l’islamismo, che invece opera all’interno di reti relazionali molto forti e sedimentate, fisicamente e ideologicamente. Quindi è vero che la rete sociale produce cose materiali, ma è anche vero che si tratta di risultati che tendono a dissolversi perché prodotti dalla condensazione di soggetti frantumati che hanno messo in comune desideri e spinte ideali, ma che non hanno avuto lo spazio e il tempo per affinare e condividere elaborazioni e pratiche di lotta. Penso anche a tanti movimenti che sono online, hanno loro circoli ma pensano di avere visibilità perché sono su Internet: non si rendono conto che è anche un’autoghettizzazione, un circuito autoreferenziale.
Dal punto di vista del lavoro? Ci sono molti aspetti positivi: si comunica velocemente, ci si fa vedere, si pubblica, ci si esprime con velocità e capillarità immensa, si costruiscono circuiti di scambio e condivisione. Chiunque può esprimersi superando limiti di timidezza e di collocazione sociale, in un modo che prima era permesso solo a chi aveva mezzi e cultura. È un fenomeno studiato, la celebrity: c’è una diversa gerarchia nei social network che permette a chiunque, nelle proprie comunità virtuali, di trovare uno spazio di microcelebrità, di uscire dall’anonimato, di esprimersi su qualsivoglia argomento ma con una certa protezione. È il luogo dell’esistenza possibile, dove probabilmente qualcuno troverà interessante quello che dici. Questo alimenta però anche un senso di irrealtà che può produrre delusione nel mondo reale. Relazioni e uso del tempo hanno guadagnato in qualità? Sono due tra i punti più critici: la velocità nelle comunicazioni non ha dilatato il tempo libero. Lo spazio temporale liberato viene occupato da nuovo lavoro. Molto del lavoro che si trova in rete è poco pagato, bisogna quindi produrre di più. Ab-
biamo budget limitati di tempo, come si può approfondire tutta questa mole di contatti, informazioni, foto? È un supplizio di Tantalo: le cose da leggere si accumulano e non si riesce a guardare tutto quello che viene offerto. C’è frustrazione, ma anche fretta e superficialità, pure nelle relazioni. Si crea un umore amicale in cui si preferiscono relazioni che non si condensano, perché non c’è tempo. Ci sarebbe anche da dire sull’uso delle parole, una per tutte: amicizia per dire contatto. La commerciabilità delle presenze nelle reti sociali e la “personalizzazione” di massa attraverso i sistemi di profilazione sono aspetti preoccupanti. Ci dovrebbe essere la consapevolezza che si tratta per prima cosa di un business, che sono cambiati i luoghi per fare profitto e che questa tecnologia non è frutto di una conquista sociale ma ci è caduta dall’alto, un po’ come le televisioni negli anni ’50 con cui l’ideologia dominante, la cultura dominante, sono entrate nelle nostre vite e ci hanno spiegato come consumare, come parlare, come fare politica. Hanno selezionato per noi come fare le cose. Perché i poteri esistono e la libertà non te la può dare un media.
come le possibilità di controllo capillare che vi GLI AZIONISTI D’ORO si collegano. Eppure di fronte a simili dati, che Quota Ricavi da IPO Nome Posizione ne fanno un monopolista molto particolare, il dibattito azionaria (in mln $) pubblico sulla proprietà di questo media Theodore Ullyot General counsel 0,10% 86 è praticamente inesistente. Sheryl Sandberg Chief operating officer 0,10% 88 Non sono ancora state sollevate pregiudiziali sulla Mike Schroepfer Vicepres. area engineering 0,11% 100 concentrazione di potere che si sta accumulando David Ebersman Chief financial officer 0,11% 101 in mani private, ma, anzi, dai media continua a levarsi Marc Andreessen Azionista 0,19% 166 un coro unanime di approvazione e si continua T Rowe Price Group Inc. Azionista 0,64% 566 a distribuire l’immagine della sua democraticità. Peter Thiel Azionista 2,50% 2.188 Il settimanale inglese The Economist riporta in coda Digital Sky Technologies Azionista 5,40% 4.725 a un molto dettagliato articolo sulla futura diffusione del Dustin Moskovitz Co-founder 7,60% 6.650 network (The value of friendship) alcuni commenti critici Accel Partners Azionista 11,40% 9.975 che si sono registrati: Timelime, il diario pubblico della Mark Zuckerberg Ceo e presidente 28,40% 24.850 propria vita, è stato reso obbligatorio. Secondo i dati le legislazioni sono balbettanti e molto parziali le rivendicazioni dell’Economist, Facebook è percepito sempre più spesso come dei blogger, che si pongono come obiettivo la tutela dei dati arrogante e la sua immagine non è più solo calda e tenera come personali e la conquista di potere di contrattazione per il controllo un orsacchiotto, ma ne sta emergendo un’altra di freddo acciaio. della propria privacy. Come ha dichiarato alla conferenza annuale Mentre l’avvento della televisione è stato accompagnato da un dibattito che ha messo al centro l’importanza della gestione del movimento per la libertà on line (Open Rigths Group, OrgCon 2012) il canadese Cory Doctorow, fondatore del blog BoingBoing, pubblica di un media così potente, nulla di simile si solleva sulla il quindicesimo blog più visto al mondo. proprietà di questo altro gigante. Anche sui problemi della privacy
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FONTE: BUSINESS INSIDER, WWW.BUSINESSINSIDER.COM, FEBBRAIO 2012. L’ELENCO NON È OVVIAMENTE ESAUSTIVO
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L’Eldorado del marketing
L’influenza degli algoritmi di Paola Baiocchi
di Valentina Neri
Un passatempo, un modo per tenersi in contatto con amici e parenti lontani. Ma Facebook è anche una vera e propria miniera d’oro sulla quale gli esperti di marketing si sono già lanciati da tempo ei 500 più grandi colossi industriali a livello globale – fa sapere la rivista americana Fortune – ormai il 58% ha aperto una propria pagina Facebook. I “fan” della Coca-Cola su Fb superano addirittura i 40 milioni; quasi 29 milioni di persone hanno speso un “mi piace” per Starbucks, 17 milioni per McDonalds e 13 per Walmart. Si tratta di persone che magari non presterebbero attenzione a un cartellone pubblicitario, ma su Facebook hanno espresso interesse per conoscere offerte speciali in anteprima, condividere un video o una foto promozionale, chiedere curiosità o esprimere critiche. E in Italia? Nel 2011, riporta una ricerca promossa dall’Università Iulm di Milano, un’azienda su due aveva aperto uno spazio social. Ad attivarsi negli ultimi mesi sono state soprattutto le realtà più piccole: se nel 2010 solo il 9,8% di esse era sbarcato sui social, nel 2011 tale percentuale è quadruplicata, raggiungendo il 43%. Ma la sola “presenza” è sufficiente? No, secondo i ricercatori dello Iulm, che hanno elaborato un indice (chiamato di SocialMediAbility) per capire quanto questi spazi siano aggiornati ed efficaci. Un indice che, su una scala da 0 a 10, si ferma a una media di 1,16.
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Informazioni che contano Facebook, infatti, ha le proprie regole. Che possono risultare spiazzanti per chi è abituato a promuovere la propria attività sui mezzi classici, come la televisio| 22 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
ne, che permettono solo a un numero ristretto di soggetti di esprimersi, a fronte di pesanti investimenti economici. Sui social network, al contrario, ciascuno si può ritagliare uno spazio, quasi a costo zero e senza avere particolari competenze tecniche. Anche le aziende sono le benvenute, a condizione che si sappiano adeguare: il “mi piace” degli utenti, infatti, se “conquistato”, offre potenzialità incredibili.
Chi apre una pagina ufficiale può diffondere contenuti e sapere nell’immediato quante persone li hanno visti, condivisi, commentati. Un menu intuitivo dà una panoramica delle caratteristiche socio-demografiche dei propri “fan” e del modo in cui sono venuti a conoscenza della pagina. Al di là delle statistiche, inoltre, sono gli utenti a esprimersi con i loro commenti, ai quali si può rispondere personalmente, cosa che “umanizza” anche la più grande delle multinazionali. Anche al di fuori dei confini delle pagine aziendali esistono veri e propri processi di monitoraggio che vanno a scandagliare le conversazioni spontanee che nascono sul web a proposito di un prodotto, per poi trasmetterle prontamente ai responsabili dell’azienda. Che si trovano così di fronte a risultati incomparabilmente più abbondanti rispetto a quelli delle ricerche di mercato, costose e mai attendibili al 100%.
Ottenere informazioni sempre più precise e in tempo reale sulle idee e sui sentimenti della popolazione, così come influenzarle, è ora molto facile: le metodologie utilizzate nascono dall’analisi computazionale del linguaggio e si traducono in algoritmi, di cui anche noi siamo gli addestratori Come vengono vagliate, selezionate e infine estratte le informazioni – personali e non – che vengono immesse nei social network e in tutte le discussioni che passano nell’universo digitale? Attraverso l’analisi computazionale del linguaggio naturale: dalla metà del secolo scorso “l’ambiguità” del mezzo di espressione usato dagli umani è oggetto di studio per essere capito e trasformato dai computer in dati eseguibili in programmi. Le sfumature del discorso, la narrazione e l’affettività sono state analizzate nei laboratori dove linguisti, esperti di comunicazione, neurologi, neuropsichiatri, psicologi, etologi e molti altri scienziati hanno riportato i risultati dei loro studi agli informatici che li hanno tradotti in algoritmi. Dal 2001 in poi lo “scavo” nella miniera delle opinioni (opinion mining) – scrive la rivista Telema2puntozero della Fondazione Ugo Bordone – ha subito una vera e propria esplosione di interesse «quando i metodi di classificazione automatica hanno cominciato ad essere impiegati anche per l’elaborazione del linguaggio naturale e per il reperimento delle informazioni, grazie anche alla comparsa dei primi siti Web di recensioni da utilizzare per addestrare gli algoritmi». Ogni volta, insomma, che abbiamo
Pubblicità 2.0 Su Facebook i banner pubblicitari tradizionali sono banditi. A prendere il loro posto sono i social ads, che non invitano direttamente a comprare un prodotto ma a collegarsi con un “mi piace” alla pagina dell’impresa. Queste inserzioni 2.0 possono essere “mirate” alle persone di una determinata età, sesso, provenienza geografica. Non solo: si può decidere di “parlare” a chi ha manifestato un determinato orientamento politico o religioso, ai tifosi di una squadra di calcio, agli appassionati di cucina come agli spettatori di una serie televisiva. Una miniera di informazioni che sono gli stessi utenti a fornire giorno dopo giorno sul loro profilo. Utenti che entrano a far parte in prima persona degli annunci, che riportano anche il nome e il volto degli amici che hanno espresso il like per la pagina sponsorizzata. I pubblicitari, d’altronde, ne sono consapevoli: il passaparola è l’arma più potente in assoluto. E Facebook fa sì che chiunque possa diventare (spesso a pro-
messo in rete un nostro suggerimento di traduzione, come spesso capita quando usiamo un traduttore automatico (per esempio quello messo a disposizione da Google per leggere un testo in lingua straniera), contribuiamo all’addestramento di un algoritmo. L’analisi della soggettività Le enormi potenzialità commerciali, di controllo e di indagine di questa area di ricerca hanno trovato la loro sublimazione nelle reti sociali, nella lettura e nell’analisi delle mail, delle telefonate, dei blog e dei tweet, i messaggini di Twitter. L’analisi della soggettività dispone ora di strumenti molto meno costosi e più facili da usare: si conoscono almeno un centinaio di prodotti, i più utilizzati dei quali si basano sull’analisi della rete sociale (network analysis) e sul raggruppamento di dati simili (clustering). Le metodologie di analisi si concentrano sullo scoprire gli “influenti” (influencer), i leader comportamentali in grado di indirizzare le scelte di gruppi molto più numerosi. Una volta individuati gli opinion leader, seguendo (o influenzando) le loro opinioni, si possono convincere anche tutti coloro che “seguono” (follower). Con il clustering, invece, si cerca di individuare le similarità tra enormi collezioni di dati, trovando sottocategorie di appartenenza tra, per esempio, gruppi religiosi, militanti politici, consumatori o sportivi. Strumenti di clustering sono utilizzati nei sistemi predittivi che monitorano gruppi o singoli potenzialmente pericolosi con l’intento di prevenire episodi di violenza. Frontex, l’Agenzia europea per la gestione delle frontiere, dichiara di utilizzare un sistema ibrido di estrazione di eventi multilingua, che le permette di segnalare ogni potenziale crisi nel mondo. Gli stessi strumenti servono anche per analizzare gli argomenti più discussi su Twitter: si possono così condensare automaticamente pochi temi, senza dover compiere lunghe ricerche. Sapere quello che pensa la popolazione è sempre più facile. Ma anche l’influenza sulle idee ha molti più mezzi a disposizione. www.telema2puntozero.it/opinionminingtemi/6-minireviewscientifica.html
pria insaputa) testimonial di una marca, fornendo quella “garanzia” personale che fa la differenza. Il sito della ricerca Iulm: www.osservatoriosocialmedia.com
GLOSSARIO CLUSTERING: o analisi dei gruppi, un insieme di tecniche di analisi multivariata dei dati per selezionare e aggregare gli elementi omogenei negli insiemi e sottoinsiemi di dati. INFLUENCER: soggetti che hanno influenza su altre persone e possono indirizzare i cambiamenti o le decisioni. L’influencer marketing è una forma di commercializzazione recente in cui l’attenzione è posta su individui chiave, che possono orientare le scelte di acquisto o di pensiero. SISTEMI PREDITTIVI: strumenti di aggregazione delle informazioni usati per prevedere eventi futuri. Attraverso una serie di applicazioni internet, l’intelligenza collettiva degli internauti è usata per fare previsioni: dal successo di un film al risultato di un’elezione
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Universo social Facebook leader indiscusso di Valentina Neri
La galassia dei social network è vastissima: da quelli tematici a quelli legati ai territori: dai cinesi QQ e Renren al californiano Hi5, dall’americano Orkut al giapponese Mixi acebook è in grado di innestarsi nella vita delle persone, influenzandone linguaggi e comportamenti, ma conviene fare un passo indietro: un meccanismo del genere, che ormai viene dato per scontato, non esiste da sempre. Anzi. Il primo, pionieristico esperimento di social network si chiamava SixDegrees, con un chiaro omaggio alla teoria dei sei gradi di separazione. Era il 1997, ma doveva passare ancora tempo prima che il sistema si affermasse. E, prima di Facebook, il social network per eccellenza è stato un altro: Myspace, lanciato nel 2003 e divenuto celebre soprattutto per il ruolo di “cassa di risonanza” per gli artisti emergenti, in grado di diffondere su scala globale i propri brani prima ancora di aver prodotto un disco.
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Il principio di base è lo stesso adottato in seguito da Zuckerberg: ciascuno ha a disposizione una pagina da aggiornare e connettere con quelle degli amici. Solo in Italia, a metà del 2008, si contavano 4.500 nuovi profili al giorno. Ma la concorrenza di Facebook, molto più intuitivo a livello di grafica e gestione, ha condotto a un altrettanto rapido declino. La News Corporation di Rupert Murdoch, che nel 2005 aveva acquisito la società per 580 milioni di dollari, nel 2011 l’ha svenduta per soli 35 milioni all’agenzia pubblicitaria Specific Media, che si è trovata così a disporre di un bacino enorme di dati personali forniti spontaneamente da milioni di persone. L’egemonia di Facebook, ora come ora, è conclamata. A scalfirla ci ha pro-
Tutto ha origine dall’epopea Netscape di Andrea Di Stefano
Netscape e Facebook hanno un nome in comune: Marc Andreessen. Il fondatore del primo browser internet perde la guerra con Internet Explorer. Vince Microsoft, ma intanto nasce Mozilla. E il concetto di open source Non è ovviamente casuale che un nome ricolleghi Facebook all’epopea di Netscape, il primo browser internet che nel 1994 segnò l’avvio della rivoluzione, e della bolla finanziaria, sotto
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vato Google+, che di recente ha annunciato i 170 milioni di utenti registrati, a dieci mesi dal lancio: ma la strada appare ancora lunga, visto che ogni utente si connette in media soltanto per tre minuti al mese. L’unico social network a tenere il passo è Twitter, il servizio di micro-blogging che spopola con la sua formula apparentemente rigidissima: solo stringhe di testo che non possono superare i 140 caratteri. Attualmente, ogni giorno, ne vengono scritte più di 340 milioni. Gli altri social sopravvivono, in molti casi prosperano, ritagliandosi una nicchia: come Last.fm, a tema musicale, o le biblioteche virtuali di aNobii, o ancora LinkedIn, strategico in termini professionali.
il segno della Rete. Marc Andreessen, che siede nel consiglio d’amministrazione di Facebook, ha molti tratti simili con Zuckerberg. Il leader del gruppo che sviluppò Mosaic (il precursore di Netscape) lasciò la National Center for Supercomputing Applications insieme ad altri quattro studenti dell’University of Illinois e fondò la Mosaic Communications Corporation, che diventò Netscape Communications Corporation, produttrice di Netscape Navigator. Pochi mesi dopo la società Spyglass acquistò la tecnologia e i marchi da Ncsa per produrre il suo web browser. Spyglass Mosaic fu poi venduto alla Microsoft, che lo modificò e lo rinominò come Internet Explorer. I due browser più diffusi al mondo hanno quindi in Mosaic, e nel mondo del software libero, un antenato comune. Netscape Navigator, un tempo web browser di riferimento per i navigatori di internet, vide la sua enorme popolarità declinare progressivamente
Esistono anche realtà legate al territorio. In Cina, ad esempio, spopolano il servizio di instant messaging QQ (che ha di recente superato di 700 milioni di utenti) e Renren, il cui nome, in italiano, suona come “la rete di tutti”. Quest’ultimo, soprattutto per la grafica, è stato definito come una sorta di clone di Facebook. Ma, a differenza del suo omologo statunitense, non è andato incontro alla censura delle autorità perché è nato tenendo in considerazione tutte le restrizioni imposte dal governo sull’uso del web. E, in un certo senso, ha battuto sul tempo Zuckerberg, quotandosi in Borsa nell’aprile del 2011. Intanto, in Spagna c’è Tuenti; in America Latina si preferisce il californiano Hi5, che di anno in anno si è focalizzato progressivamente sul social gaming; l’americano Orkut è popolare soprattutto in India e Brasile, mentre il giapponese Mixi ha oltre 26 milioni di iscritti. Ma il fenomeno degli ultimi mesi ha l’aspetto di una serie di bacheche (pinboard) suddivise per aree di interesse (interest) dove “appendere” virtualmente immagini trovate sul web, corredandole con un breve commento. Può bastare questo, in estrema sintesi, per dare un’idea di cosa sia Pinterest. Se lo scorso agosto gli utenti erano 1,2 milioni, a gennaio si è sfondato il muro degli 11 milioni. E un’idea così semplice – dimostrano le statistiche di Alexa – è al 55° posto fra i siti più visitati al mondo, nella classifica che vede in testa Google, seguito da Facebook e Youtube.
BEACON: LO SCIVOLONE SULLA PRIVACY Un errore. Anzi, uno dei «pochi errori rilevanti» che «hanno fatto passare in secondo piano molto del buon lavoro che abbiamo fatto». Sono queste le parole con cui Mark Zuckerberg ha descritto Facebook Beacon: ovvero la miccia della prima vera crisi che ha coinvolto il numero uno dei social network. Lanciata nel 2007 in partnership con 44 siti – tra cui eBay, SonyPictures, Tripadvisor, New York Times e Blockbuster – Beacon era una componente del sistema pubblicitario di Facebook. I siti esterni, di fatto, inviavano in automatico a Facebook dati relativi alle attività (soprattutto acquisti) degli utenti, che le trovavano pubblicate nella home page degli amici a propria insaputa. Al centro delle polemiche era il fatto che il servizio venisse attivato in automatico: per bloccarlo bisognava destreggiarsi tra le poco intuitive impostazioni di privacy dei siti coinvolti. A sole due settimane dal lancio è iniziata la mobilitazione da parte di MoveOn.org, che nel giro di una decina di giorni ha raccolto circa 50 mila adesioni ed è sfociata in una class action. Si è arrivati a un accordo che prevedeva da parte di Facebook l’istituzione di un fondo da 9,5 milioni di dollari per la tutela della privacy online. Zuckerberg ha preferito un intervento drastico: il servizio è stato definitivamente cancellato nel mese di settembre del 2009. V.N.
UN INVENTORE POCO SOCIAL(IST) “The social network”, il film che si ispira al libro di Ben Mezric, “Miliardari per caso - L’invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento”, ha vinto quattro Golden globe e tre premi Oscar. Chissà se, dopo aver visto il film, qualche facebooker ha deciso di cancellare il suo profilo dal social network. Perché le motivazioni, l’ambiente culturale e gli obiettivi per i quali è nato Fb – secondo la ricostruzione del film – sono veramente miseri: per il suo inventore, Mark Zuckerberg, vendicarsi della ragazza che aveva scaricato, “fabbricarsi” una chiave per entrare negli iniziatici club degli universitari. E forse, ancora, la vendetta nei confronti di due gemelli, studenti di Harvard atletici, ricchi e belli. Uno strumento per affermarsi come “vincente” perché stare dall’altra parte voleva dire essere uno “sfigato”, nel senso letterale della parola, perché sesso e potere viaggiano appaiati nel “campionario delle facce”, nato per vendetta. O forse grazie ai finanziamenti della Cia, come riportato anche da Globalresearch.ca, il sito di Michel Chossudovsky.
ad opera del suo più grande rivale, Microsoft Internet Explorer, costruito sulla tecnologia di Spyglass e, quindi, di Mosaic. Nel 1997, quando Internet Explorer e Netscape Navigator erano entrambi giunti alla versione 4.0, Microsoft scelse di distribuire il proprio browser insieme al sistema operativo Windows 98 (all’epoca il più diffuso al mondo). Questa mossa, molto spregiudicata, si rivelò vincente: cambiare il browser diventava per gli utenti un’operazione costosa e faticosa e così Netscape Communicator, da quasi monopolista del settore, perse rapidamente quote di mercato fino ad essere utilizzato solamente da una piccola percentuale di simpatizzanti. La guerra dei browser si concluse virtualmente nel 2000, ma per Microsoft fu solo l’inizio della battaglia contro l’antitrust Usa e europeo. Nel 1998 Netscape, prima di essere assorbita dal colosso America On Line (Aol), diede vita al progetto Mozilla rilasciando il codice
sorgente di Netscape 4 con licenza open source: il progetto Mozilla si proponeva di creare un browser innovativo, basato sul nuovo motore grafico Gecko (che da questo momento non verrà più abbandonato) e consentiva a tutti – professionisti, dilettanti, hacker e semplici utenti – di contribuire su base volontaria alla sua evoluzione. Lo sviluppo di Mozilla avvenne in seno alla “Mozilla Organization“ – un gruppo di dipendenti della Netscape – fino al 2003, anno in cui Aol decise ritirarsi dal progetto e di smantellare l’organizzazione, ma i coordinatori proseguirono, costituendo la Mozilla Foundation (Fondazione Mozilla) che ha poi dato vita a Firefox. Andreessen non si è ovviamente ritirato a vita privata, continuando invece a lavorare nella Silicon Valley e diventando uno dei mentori di Facebook che considera un vero e proprio erede della filosofia Netscape al punto da spingersi a sostenere che «sarà più grande di Apple».
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Conti pubblici
L’Italia rischia di pagare ancora
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di Matteo Cavallito
secondo il quale il Tesoro italiano rischierebbe di dover mettere nuovamente mano al portafoglio per chiudere altri contratti in essere come già accaduto con Morgan Stanley. La banca Usa cui a inizio anno l’Italia ha versato qualcosa come 3,4 miliardi di dollari. Lo scorso 15 marzo il sottosegretario per l’Istruzione, l’università e la ricerca, Marco Rossi Doria, ha spiegato che Morgan Stanley aveva potuto chiudere la propria posizione sfruttando una clausola nota come alternative termination event (Ate) in grado di scattare quando la controparte, in questo caso l’Italia, subisce un eccessivo declassamento di rating. Questa clausola, ha specificato il sottosegretario, non è presente in nessun altro dei contratti derivati in essere che, al momento, coprono un controvalore di debito pari a 160 miliardi di euro. Il problema, nota però Risk Magazine, è che i cosiddetti Ate non sono gli unici dettagli contrattuali in grado di far scattare la liquidazione delle posizioni. Come a dire che le banche con le quali sono stati sottoscritti i contratti hanno la possibilità di chiudere unilateralmente ulteriori posizioni portandosi a casa miliardi di euro dei contribuenti a partire, sostengono alcune fonti, già dai prossimi mesi.
Ad oggi, come detto, i contratti derivati sul debito italiano valgono 160 miliardi. 100 di questi per i contratti di interest rate swap, 36 per i cross-currency swaps (gli stessi derivati che hanno consentito alla Grecia di truccare i propri conti con la collaborazione di Goldman Sachs, ottenendo così il lasciapassare per la moneta unica) e 20 per le swaptions, titoli che consentono l’ingresso su un contratto già esistente. Gli interest rate swaps sono contratti pensati per tutelare le parti dal rischio di un’eccessiva variazione dei tassi. A grandi linee funzionano così: le due parti (in questo caso l’Italia e la banca) si scambiano periodicamente denaro sotto forma di interessi su un capitale predefinito. Una parte versa tipicamente un tasso fisso, l’altra un tasso variabile calcolato su un altro tasso di riferimento (magari l’Euribor) ma che, da contratto, deve comunque essere compreso tra un massimo e un minimo prestabiliti (i cosiddetti cap and floor). Ovviamente non è così semplice, tanto più che a fare la differenza sono spesso alcuni singoli dettagli contrattuali che ad oggi non sono noti. Quel che è certo però è che ad ogni scadenza c’è chi versa di più e chi versa di meno, ovvero chi perde e chi vince. E di solito, a vincere sono le banche.
TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT
a insomma, quanto rischia l’Italia? Quanti miliardi potrebbero abbandonare le casse pubbliche per andare a rimpinguare quelle delle grandi banche d’affari con le quali si sono sottoscritti contratti derivati a protezione dei tassi di interesse sul debito pubblico? Se lo è chiesto nelle scorse settimane il portale finanziario londinese Risk Magazine,
Le banche d’affari possono esercitare clausole in grado di metterci in ginocchio La cifra ufficiale del controvalore dei derivati sottoscritti dall’Italia negli ultimi due decenni non è disponibile, ma nota è la dimensione della perdita. In tutto questo tempo, rileva Bloomberg, la scommessa effettuata con le banche per proteggere l’immenso debito pubblico dall’impatto delle oscillazioni dei tassi di interesse è costata all’Italia 31 miliardi di dollari. Al cambio attuale fa quasi 24 miliardi di euro, vale a dire la cifra necessaria per pagare gli ammortizzatori sociali post riforma del lavoro nei prossimi 13 anni (di recente, il ministro Fornero ha stimato un fabbisogno di 1,8 miliardi all’anno).
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| corporate responsibility |
finanzaetica BOBBY YIP / REUTERS
Un gruppo di manifestanti di Hong Kong protestano contro le terribili condizioni di lavoro dei lavoratori provenienti da Foxconn e Apple
Apple
La “cattiva stampa” che racconta dei suoi fornitori cinesi non scalfisce granché la buona fama di Apple, né i suoi profitti da record. Altre multinazionali pagano strascichi antichi o non hanno vantaggi anche se oggi virtuose. Perché?
Non paga dazio di Corrado Fontana erché una multinazionale come Apple, da mesi bombardata di notizie di stampa che mettono in piazza gravi problemi di rispetto delle condizioni dei lavoratori impiegati dai suoi fornitori cinesi (vedi BOX ), non mostra flessioni azionarie o di profitto? Perché non è messa in discussione dai consumatori, come accaduto per altre corporations? Non interessa qui entrare nel merito delle violazioni diffuse sui media o dell’efficacia delle contromisure attuate: piuttosto ci si interroga sui meccanismi con cui la responsabilità sociale d’impresa è vissuta. Steve Chazin, ex dirigente Apple e ora consulente di marketing professionista, è convinto, infatti, che «Apple non sia diversa da qualsiasi altra grande azienda multinazionale». E riguardo alla resistenza di Apple alla cattiva fama ricorda: «Apple ha sempre marciato a un ritmo diverso, incarnata dalla sua campagna Think different. Certi contro-messaggi diffusi dal suo
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Questione capitale > 33 La crisi impatta sul credito al sociale > 34 Quando “rating” fa rima con “rete” > 35 Sgonfiamo il pallone del foot-business > 36 | 28 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
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LA MELA COL BUCO
Apple in Borsa, un’ascesa senza fine di Matteo Cavallito
Con 419 miliardi di capitalizzazione, l’azienda di Cupertino è la public company più ricca al mondo. In dodici anni il titolo è salito del 2.447%
insegna Sociologia dei processi culturali e della comunicazione al Politecnico di Milano, ricorda la mela con i colori della bandiera della pace, ma rifiuta di parlare di “ideologia”; piuttosto Apple rappresenterebbe «la cultura del “contro”. Era contro Ibm, il colosso multinazionale che faceva paura a tutti e imponeva standard che Apple ha infranto. La pubblicità mostrava gente grigia seduta davanti a uno schermo e una ragazza colorata che entrava per spaccare lo schermo. Questa era Apple e questa è rimasta la percezione. La cosa curiosa è che adesso le persone sono sempre davanti a uno schermo, ma lo schermo è un iPad o un iPhone». Ma, aggiunge, «per quelli che hanno una sensibilità non tanto etica ma tecnologica, Apple sta diventando l’Ibm di ieri».
Colpirne una, educarne 100?
establishment in qualche modo tendono a farla sembrare come “il perdente” e tutti amano il diseredato della situazione».
Una mela “costruita” per piacere «Il culto della personalità di Steve Jobs è certamente una parte importante del brand Apple», aggiunge sulla stessa linea Tim Hunt, membro dell’associazione britannica di “consumatori critici”, Ethical consumer. Che continua: «Questa personificazione del marchio ha contribuito a | 30 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
distogliere l’attenzione dall’azienda e dagli abusi perpetrati attraverso il suo processo di produzione. Ciò è avvenuto in due modi: in primo luogo presentando i prodotti come umani, in modo che l’eventuale infrazione possa essere perdonata, e, in secondo luogo, attraverso l’adorazione di Jobs. È facile chiudere gli occhi davanti ai crimini commessi in suo nome». Non è tutto qui ovviamente, ma è pur vero che iPhone e affini non appaiono semplici “utensili”. Francesco Siliato, che
Questione di appartenenza alla “famiglia”, quindi, ma va anche detto che Apple sta facendo il possibile per risolvere i problemi nella catena di fornitura in Cina e lo sta ben comunicando. L’azienda si occupa di responsabilità sociale d’impresa con report dettagliati fin dal 2007 e voci interne all’azienda denunciano una doppia distorsione dell’informazione su di essa: un accanimento dovuto al fatto che Apple sia un simbolo (ma grazie al suo peso potrebbe indurre cambiamenti positivi a catena) e l’omissione strumentale di parte delle notizie per rendere le vicende “più interessanti”.
Detto questo l’azienda di Cupertino si avvantaggia di un elemento sostanziale, ricorda ancora Siliato: «Mentre il pallone Nike si può sostituire con un pallone Adidas, iPhone non si può sostituire». Di certo i dirigenti di Nike o Chiquita invidiano la buona fama di Apple. Entrambe le corporations scontano, infatti, sul piano reputazionale alcune contestazioni in tema di Csr, ma forse non beneficiano altrettanto dei comportamenti lodevoli attuati. L’Economist sottolineava di recente come già nel 1992 Nike avesse stabilito un codice di condotta per i fornitori e nel 1996 contribuì a creare l’Apparel Industry Partnership da cui, nel 1999, è nata la Fair Labor Association che ora serve ad Apple per i controlli etici sulla filiera (vedi BOX ). Chiquita, che ha aderito alla campagna del gruppo ambientalista ForestEthics e ha accettato di non impiegare sui propri camion carburante derivato dall’estrazione delle sabbie bituminose canadesi (vedi BOX ) subisce invece il boicottaggio dei suoi prodotti da parte dell’organizzazione canadese EthicalOil.org che The Economist etichetta quale emanazione di lobby industriali.
Il mito di Steve Jobs e la “cultura del contro” che da anni è legata al marchio hanno consentito ad Apple di evitare ciò che è accaduto a gruppi come Nike e Chiquita
Lo scandalo Foxconn non ferma Apple. Lo evidenzia l’immagine dell’azienda, per la quale sembra persistere ormai un vero e proprio culto da parte degli stessi consumatori, lo dimostrano, soprattutto, i dati finanziari che in questi casi, ovviamente, non mentono mai. Dopo che nell’ultimo trimestre del 2011 l’utile netto è volato a 13,06 miliardi (contro i 3,38 del medesimo periodo del 2009), alla fine di gennaio, con una capitalizzazione complessiva di mercato pari a 419 miliardi di dollari, la Apple ha nuovamente scavalcato il gigante petrolifero Exxon Mobil (415 miliardi), diventando così la public company più ricca del Pianeta. Un traguardo che ha riportato alla memoria un altro sorpasso cruciale avvenuto nel maggio 2010, quando l’azienda di Cupertino aveva superato la Microsoft per controvalore azionario (222,12 miliardi a 219,18) trasformandosi nella prima compagnia tecnologica del mondo. Un’ascesa incredibile quella realizzata in borsa dalla Apple, protagonista di un’impennata che ha stracciato ogni primato di settore. Come si ricorda, dopo il picco del gennaio 2000 a quota 4.500 punti, l’indice di riferimento dei titoli tecnologici, il Nasdaq, collassò sotto le macerie della bolla Dotcom bruciando i 2/3 del suo valore nello spazio di un anno. Oggi, dopo un lento recupero, l’indice viaggia intorno ai 3.000 punti, circa il 26% in più rispetto a cinque anni fa. In quest’ultimo quinquennio il valore delle azioni Microsoft è cresciuto del 10%. Nel medesimo periodo la creatura di Steve Jobs ha invece fatto il botto: +602%. Allargando l’orizzonte agli ultimi dodici anni, vale a dire dal record dell’indice ad oggi, si ottengono risultati ancora più clamorosi: Nasdaq -20,6%, Microsoft -43,4%, Apple +2.447%. Ad aprile gli analisti delle società finanziarie Piper Jaffray e Topeka Capital Markets, interpellati da Bloomberg, hanno ipotizzato un ascesa del prezzo del titolo oltre quota 1.000 dollari entro un paio di anni. A quel punto la capitalizzazione complessiva si avvicinerebbe a 1.000 miliardi di dollari. APPLE VOLA PIÙ IN ALTO DI MICROSOFT (DAL 2000 A OGGI) Andamento in Borsa rispetto al 2000
AAPL 36,99
^IXIC 2035,83
MSFT 26,18
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FONTE: YAHOOFINANCE
Le prime brutte notizie riguardo alla catena di fornitura cinese di Apple escono nel 2010, sulla società taiwanese Foxconn Technology e sui suicidi attuati da alcuni suoi lavoratori in Cina. Suicidi di protesta per le pesanti condizioni di lavoro – paghe minime e turni massacranti – o dettati da un disagio più generale, ma registrati almeno a partire dal 2009 da parte di dipendenti dell’azienda che a Shenzhen (350 mila occupati, 13 suicidi nel 2010), Zhengzhou e Chengdu (circa 120 mila occupati ciascuno) produce per Apple, ma anche per Samsung, Nokia, Dell, HP, Motorola, Amazon, Nintendo, Toshiba. Ai suicidi della Foxconn si sono aggiunti nei mesi scorsi altre vittime e feriti tra i lavoratori degli stabilimenti di assemblaggio dell’iPad (tra cui quello di Chengdu), a causa di esplosioni connesse ai procedimenti di lucidatura dell’iPad La copertina e alla polvere d’alluminio (4 morti e 77 feriti nel 2011). del rapporto annuale di Apple Apple e i suoi fornitori hanno adottato alcune contromisure e attività ispettive: famose le reti antisuicidio, accompagnate dall’apertura di canali di consulenza psicologica e da pressioni per un miglioramento delle condizioni dei dipendenti; meno nota la meccanizzazione dei processi di lucidatura. L’attività ispettiva è stata affidata all’internazionale Fair Labor Association i cui riscontri sono in corso dall’inizio del 2012 e già hanno evidenziato numerose violazioni cui stanno seguendo impegni di Apple a far ridurre gli orari di lavoro e far aumentare i salari. Il New York Times ha pubblicato il 25 gennaio scorso una corposa inchiesta sull’argomento e la vicenda resta sotto i riflettori. Apple diffonde un monitoraggio della situazione attraverso l’annuale Report sui progressi nella responsabilità dei fornitori (Supplier Responsibility Progress Report ) e mostra l’impegno diretto dell’attuale amministratore delegato Tim Cook (Steve Jobs, dimessosi da Ceo il 24 agosto, muore il 5 ottobre 2011): coperto da ogni mezzo d’informazione il suo viaggio nelle fabbriche cinesi a fine marzo. L’azienda di Cupertino offre il proprio punto di vista in una ricca sezione del sito web ufficiale in cui, tra le altre cose, ricorda che: «Nel 2011, Apple ha condotto 229 indagini attraverso la propria catena di fornitura – l’80% in più rispetto a quelle fatte nel 2010 – fra queste oltre 100 sono state fatte in stabilimenti dove non erano mai state effettuate in precedenza». www.apple.com/it/supplierresponsibility www.fairlabor.org
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IL CASO CHIQUITA QUANDO LA RESPONSABILITÀ NON PAGA
DA NIKE A NESTLÉ TRENT’ANNI DI BOICOTTAGGI
«È venuta incontro agli ecologisti più radicali, agli attivisti e ai sindacati. Ma, nonostante questo, ha ottenuto una magra ricompensa». È l’amara conclusione tratta dal prestigioso settimanale britannico Economist in un recente articolo dedicato alla Chiquita Brands International, gigante della frutta cui l’impegno etico non sembra aver giovato minimamente. Un fenomeno paradossale per l’azienda di Cincinnati, Ohio, erede di quella United Fruit che, fin dai tempi del famigerato golpe in Guatemala (1954), era diventata il simbolo dell’ingerenza delle multinazionali nella vita politica e sociale dei Paesi del Centro America. «Possiamo fare bene e comportarci bene al tempo stesso», aveva sentenziato il Ceo Fernando Aguirre nell’ultima relazione sulla responsabilità sociale d’impresa pubblicata dall’azienda nel 2008. Nel giugno di quell’anno i titoli Chiquita valevano circa 24 dollari. A quattro anni di distanza il prezzo unitario è sceso a 8 dollari, bruciando così i 2/3 della capitalizzazione azionaria. Negli anni spicca una serie di iniziative lodevoli, ma puntualmente punite sul fronte dei ricavi: dall’esclusione del petrolio canadese ad alto impatto ambientale (proviene dalle sabbie bituminose) fino all’autodenuncia (caso unico tra le compagnie americane) per i finanziamenti versati ai paramilitari colombiani per avere protezione. In cambio l’azienda ha subito un’iniziativa di boicottaggio in Canada e un paio di denuncie sfociate in altrettanti procedimenti in Colombia e negli Usa. M.Cav.
Un bambino pakistano seduto a terra a cucire un pallone. È l’immagine-simbolo delle accuse che hanno travolto Nike: sfruttamento di minori, salari inferiori ai minimi legali, orari massacranti in condizioni malsane. Col boicottaggio sono arrivati i mea culpa: dall’innalzamento dell’età minima dei dipendenti alla pubblicazione dei subappaltatori. Ma, se nel 1990 le entrate lorde erano di 2,2 miliardi di dollari, nel 1996, nel pieno dello scandalo, salivano a 6,4. Sfioravano i 9 miliardi nel 2000, anno della “ritirata” dalla Cambogia. Per arrivare a 18,6 nel 2008, mentre un’inchiesta svelava le terribili condizioni di lavoro in Malesia. In apparenza quindi la relazione tra boicottaggi, cambi di rotta e risultati economici sembra inesistente. Ma fare una stima economica dell’effetto degli appelli contro le multinazionali è estremamente difficile. Troppe le variabili in gioco: e molte proteste proseguono per anni. È iniziata nel 1977 la contestazione alle martellanti campagne di Nestlé per promuovere il latte in polvere nei Paesi in via di sviluppo. I danni sono stati soprattutto d’immagine e Stati ed enti internazionali hanno incrementato l’impegno sul tema della malnutrizione infantile. A far finire Shell nell’occhio del ciclone è il pesante impatto ambientale delle estrazioni nel Niger. Più volte è stato lanciato l’allarme: l’ultimo in ordine di tempo è il rapporto sulla Nigeria del Programma dell’Onu per l’ambiente (Unep) pubblicato nell’agosto 2011. Ma le conseguenze concrete, per il gigante petrolifero, stentano ad arrivare. V.N.
Questione capitale di Corrado Fontana
Accesso al credito e flessibilità finanziaria cercasi. Mentre il rapporto tra coop, sistema bancario e investitori va meglio sintonizzato, il modello d’impresa cooperativa non favorisce la capitalizzazione. E non è neppure facile intercettare i capitali messi a disposizione dalle autorità comunitarie roblema: trovare le risorse finanziarie per proseguire e, possibilmente, sviluppare la propria attività in un momento di crisi. Vale per le piccole e medie imprese (capitalistiche) italiane come per le cooperative. Non a caso Luigi Marino, presidente dell’Alleanza italiana delle cooperative, durante la conferenza internazionale Promoting the understanding of cooperatives for a better world (15-16 marzo scorso a Venezia) lamentava la difficoltà di accesso al credito e sottolineava che la difficoltà è acuita dall’attesa dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni, che da noi arrivano a toccare i 300 giorni. Un’enormità se paragonati ai 40 tedeschi, ai 70 francesi e persino ai 150 di Grecia e Portogallo. Ma non è tutto. Secondo uno studio del neonato Osservatorio Ubi Banca su Finanza e Terzo Settore, realizzato in collaborazione con Aiccon (Associazione Italiana per la promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit) e focalizzato sulle cooperative sociali italiane, le previsioni di nuove entrate derivanti da rapporti con il settore pubblico per il 2012 sono in netto calo.
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Rapporto obbligato Dall’indagine di Ubi Banca e Aiccon emerge un rapporto piuttosto limitato tra cooperative sociali e banche: i servizi bancari e finanziari di cui si avvalgono maggiormente i soggetti intervistati sono risulta-
ti quelli relativi all’operatività quotidiana (bonifici, pagamento stipendi, utilizzo di ricevute bancarie e Rid), mentre negli ultimi 12 mesi solo il 28,2% ha utilizzato un finanziamento per la gestione delle attività e il 25,6% per sostenere investimenti destinati allo sviluppo. Insomma, se è vero che il 38,8% delle cooperative si dichiara soddisfatta delle relazioni con gli istituti bancari, tali relazioni si mantengono piuttosto di basso profilo. Forse anche a causa di un “sospetto” di fondo che resiste tra questi due mondi: «Le banche guardano le cooperative come soggetti che ri-
Ai problemi con gli istituti di credito si aggiungono i gravi ritardi nei pagamenti da parte degli enti pubblici
UN PENSIERO DIVERSO Promuovi la tua azienda sui
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schiano di essere troppo deboli sugli strumenti di governance», dichiara Claudio Bossi, presidente della cooperativa e impresa sociale milanese La Cordata. «Se parlano con il presidente di una cooperativa o creano un legame di fiducia con il suo gruppo dirigente ipotizzano che dopo cinque anni probabilmente non sarà più in carica. Il sospetto nasce sull’affidabilità della continuità di gestione. Tuttavia le banche valutano come elemento di forza e di fiducia nella restituzione di un prestito il fatto che l’etica della cooperazione pervada la dimensione imprenditoriale», conclude il presidente de La Cordata, che sta sperimentando nuove forme imprenditoriali (partecipazione in srl) proprio per accedere al credito necessario a entrare in settori inediti (sanità leggera). E il rapporto banche-cooperative potrebbe subire una brusca frenata per colpa delle regole europee di Basilea 3 e dell’Eba (l’autorità bancaria europea), che rischiano di far chiudere alle banche (soprattutto a quelle più piccole) i rubinetti del credito, in particolare verso il settore non profit, cooperative in primis (vedi Valori 97, di marzo 2012).
Un aiuto (difficile) dall’Europa Ma i soldi non si trovano solo nelle banche e non arrivano solo sotto forma di prestiti. Molti sperano, infatti, di poter accedere alle risorse di “fondi etici” privati che si stanno diffondendo in Europa pronti a investire nelle imprese sociali. E, ancora di più, puntano alle nuove linee di finanziamento prospettate dalla Commissione europea col lancio, a ottobre scorso, della Social business initiative (vedi Valori 94, novembre 2011, e 96, feb| ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 | valori | 33 |
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GLOSSARIO Le cooperative sociali definite dalla Legge 381/91 rientrano facilmente nella categoria delle imprese sociali identificate dalla Legge 118/05. Non vale il viceversa. Le cooperative sociali per diventare imprese sociali devono solo dimostrare che la loro “finalità sociale” non è prioritariamente mutualistica, cioè rivolta prevalentemente ai propri soci, ma di fatto hanno già tutte le altre caratteristiche previste dalla Legge 118/05 per rientrare nel novero delle imprese sociali. Le altre forme di impresa sociale che non siano anche cooperative sociali (associazioni, srl, fondazioni, consorzi) non hanno accesso ai benefici della Legge 381/91, cioè detassazione e defiscalizzazione (dipende dalle regioni) e deroga alla legge sugli appalti (le amministrazioni pubbliche possono dare direttamente lavoro alle coop sociali senza bandi e gare fino a 200 mila euro).
braio 2012), l’iniziativa di Bruxelles per aiutare le imprese sociali, che, per la legge italiana, comprende gran parte delle cooperative sociali (e non solo). A novembre la Commissione ha annunciato un investimento di 100 milioni di euro per il 2012, gestito dal Fondo europeo per gli investimenti e destinato a finanziare i fondi nazionali che a loro volta effettueranno investimenti in capitale (quindi una partecipazione diretta) nelle imprese sociali. Peccato che, a sentire Davide Dal Maso della società di consulenza Avanzi-Idee, ricerche e progetti per la sostenibilità, non sarà semplice per le nostre cooperative intercettare tali risorse: «L’Unione europea,
parlando di social business, si riferisce a organizzazioni potenzialmente for profit, anzi auspicabilmente for profit, magari con obiettivi di profitto moderato, ma economicamente efficienti. Attività imprenditoriali che, teoricamente, potrebbero anche distribuire utili o che creino un plusvalore. Il che non è compatibile con la norma italiana». Non solo. Se è vero che la Ue sta pensando a strumenti d’investimento con capitale di rischio – e non tanto al credito – per rafforzare le imprese sociali, va detto che per un socio di capitale come un fondo privato è molto difficile partecipare direttamente a una nostra cooperativa, che è una so-
La crisi impatta sul credito al sociale di Andrea Di Stefano
Fondazioni bancarie in difficoltà e credito al sociale in picchiata: il non profit non ha molte risorse alternative. Qualche spiraglio dall’innovazione dei fondi d’investimento etici, ma non va perso il treno È più che mai importante comprendere quale sia l’impatto di questa pesantissima crisi economica nel rapporto tra il sistema creditizio e il mondo del non profit. Le prospettive sono pessime. Il trend delle erogazioni dalle fondazioni di origine bancaria sarà certamente molto difficile: le cadute (già nel 2010) del valore
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cietà di persone, se non attraverso meccanismi complicati o poco funzionali, con difficoltà di uscita oltre che d’ingresso. Questo contribuisce a far sì che, conclude Dal Maso, «le cooperative non siano l’ideale per un investitore, ancorché un investitore sociale».
Quando “rating” fa rima con “rete” di Corrado Fontana
Le cooperative reggono la crisi ma non attraggono investimenti; mutualità e partecipazione si traducono spesso in solidità societaria, ma non in valutazione economica: manca un rating specifico per le cooperative Il termine inglese rating è piombato nel nostro lessico familiare in questi anni di crisi. Associato a lettere o aggettivi indica un giudizio che sintetizza lo stato di salute economico-finanziaria degli Stati o delle imprese, perlopiù definito ad uso di banche e investitori. Ma siamo sicuri che la valutazione finanziaria e patrimoniale pensata per un’impresa capitalistica possa applicarsi senza correzioni anche a una cooperativa, che impresa è ma non profit? Marco Zucchini, amministratore delegato di Cgm Finance, il braccio finanziario – ed erogativo – del Consorzio di cooperative Gino Mattarelli, individua subito una differenza di cui tener conto nel cosiddetto
SITI INTERNET www.avanzi.org, Avanzi-Idee, ricerche e progetti per la sostenibilità www.sicamp.org, Social innovation camp http://ec.europa.eu/internal_market/social_busin ess/index_en.htm, pagina della Commissione europea sulla Social Business Iniziative http://www.oxfamitalia.org, Oxfam Italia
delle partecipazioni bancarie detenute dalle fondazioni incidono infatti moltissimo, e quanto più una fondazione bancaria è riconducibile a un solo istituto di credito tanto più la situazione diventa complicata, e può essere finanziariamente negativa. L’esempio per tutti è la Fondazione MPS del Monte dei Paschi di Siena, oggetto di una sorta di salvataggio da parte del sistema, resosi necessario per le perdite prodotte dal crollo del valore del titolo e dall’insieme di problematiche connesse alla gestione e alle prospettive industriali dell’istituto stesso. Il risultato è che una delle principali fondazioni bancarie italiane si ritrova paralizzata e senza disponibilità di risorse se non per erogazioni simboliche, con ricadute pesantissime sul mondo no profit. Ma è l’intero sistema che sta mostrando flessioni notevoli nelle disponibilità erogative. Fondazione Cariplo ha deciso un taglio del 14% del proprio budget erogativo attraverso una riduzione del 6,6% dei costi operativi (il leggero incremento delle cifre destinate ai servizi alla persona è solo un segnale positivo verso la situazione prodotta dalla crisi).
Complessivamente, nel 2012, potremmo assistere a una riduzione ben superiore al 12% della capacità erogativa delle fondazioni bancarie. Credito socially oriented Ma qual è la situazione del sistema del credito che privilegia i finanziamenti socialmente responsabili e orientati (banche etiche, cooperative e popolari, Mag o la stessa Banca Prossima)? I dati del 2011 sono estremamente positivi ma c’è una spada di Damocle che pesa, cioè la questione di Basilea III: i parametri connessi alle capitalizzazioni degli elementi di rischio potrebbero mettere in crisi particolarmente queste realtà a causa di una richiesta del mercato molto onerosa – e discutibile per alcuni aspetti –. Per le banche di credito cooperativo, le popolari e tutto il mondo delle Mag c’è un rischio reale di paralisi, se non ci sarà un’azione europea molto forte per imporre una valutazione positiva dei parametri di responsabilità sociale messi in campo da questi soggetti.
“andamentale”, cioè la storia dei rapporti della cooperativa con altri soggetti: se «aderisce a una rete, se ha con essa un rapporto consolidato ed efficiente è un elemento in più per valutare l’accesso al credito, ne rafforza il rating. È un dato che evidenza come il sistema della cooperazione storicamente abbia un tasso di default estremamente più basso rispetto al profit, un tasso che per le cooperative in rete tra loro può essere anche del 70-80% inferiore». Voi avete creato un “vostro” rating specifico per le cooperative? Sì, è simile a quello dei titoli. Attribuiamo alle cooperative un rating sulla patrimoniale, uno sul conto economico, uno sulle liquidità e uno sull’andamentale, dalla tripla A alla tripla D. Lo adottiamo ad uso nostro in primo luogo, per determinare la volontà o meno di erogare risorse. Poi ad uso interno, da mettere a disposizione delle cooperative aderenti al consorzio. E, infine, lo utilizziamo negli scambi con le banche, che assorbono il nostro rating e lo rivedono con i propri parametri, producendo valutazioni che – abbiamo riscontrato – non si discostano molto dalle nostre, salvo che per l’andamentale. Esiste una relazione tra il modello organizzativo delle cooperative e la loro capacità di resistenza finanziaria? Sì, l’impostazione a rete dei consorzi permette loro di prestarsi denaro e capitalizzarsi reciprocamente. Il mutualismo, tra singole cooperative e in casi estremi tra consorzi, permette interventi di sostegno e solidarietà. In Liguria ho seguito un intervento di risanamento e ristrutturazione addirittura tra due consorzi: un consorzio molto più grosso in solidarietà di uno più piccolo, che in caso di default avrebbe creato circa centocinquanta disoccupati.
Le vie d’uscita Tuttavia iniziative e spunti molto interessanti partono dal mondo anglosassone: in Inghilterra e in alcune realtà del nord Europa stanno imponendosi progetti per la nascita di fondi di venture capital (capitali di rischio privati per finanziare l’attività di settori in sviluppo, ndr) dedicati al sociale. Da qualche tempo Oxfam, nota Ong internazionale, ha attivato in Inghilterra un progetto specifico con queste finalità. Questo è un elemento importante da considerare anche per il nostro sistema Paese, ma bisogna fare rapidamente o si rischia di assistere all’ennesima innovazione resa operativa solo quando gli effetti disgreganti della crisi saranno già compiuti. E ciò rischia di pesare molto di più perché la valutazione del Pil non misura la disgregazione sociale ma i costi ad essa connessi sì. Questi fondi di venture possono finanziare le imprese (e quindi le cooperative) sociali ma soprattutto, diversamente dalle banche, possono mettere a disposizione competenze (finanziarie, gestionali, tecnologiche…).
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SERIE A-LLARME Un recente rapporto presentato a Roma da Abi, Figc, Arel e PricewaterhouseCoopers evidenzia come, anche per il calcio nostrano, la situazione non sia affatto rosea. L’indebitamento totale nella Serie A è pari a 2,6 miliardi di euro (per la stagione 2010-2011), in aumento del 14% rispetto a un anno prima. Le perdite nette sono invece pari a 428 milioni, anch’esse in netto aumento (+23%).
Sgonfiamo il pallone del foot-business
Alti ricavi, ma alte spese
di Andrea Barolini
I risultati operativi delle 665 società di calcio europee di prima divisione continuano a peggiorare: il “buco” è cresciuto del 36% in un anno. Il rischio è sempre più quello di un’esplosione imminente, nonostante i buoni propositi dell’Uefa l calcio europeo rischia di siglare il più grande autogol della sua storia. Finanziariamente, infatti, siamo al 90° minuto. E non è detto che siano concessi i tempi supplementari. Messi, Ronaldo & Co. probabilmente non se ne stanno neppure accorgendo, ma l’amato carrozzone patinato potrebbe presto pagare la sua bulimia. Il solito allarmismo? Quando è esplosa la bolla-subprime negli Stati Uniti, che ha poi trascinato con sé il sistema bancario e, a ruota, l’intera economia mondiale, non si può dire che si trattò di un fulmine a ciel sereno. I segnali di un sistema gonfiato all’inverosimile, che non poteva essere in grado di reggere, erano tanti e chiari: numerosi economisti avevano lanciato da tempo l’allarme. Ma gli interessi in gioco erano troppi e non furono ascoltati. E se non
I
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E spesso a non essere pagate sono anche le tasse. In Spagna sono state presentate perfino interrogazioni parlamentari sul tema e il governo ha specificato che le società di Liga, Primera e Segunda Division hanno debiti con lo Stato per la cifra astronomica di 752 milioni di euro. Il tutto mentre le manovre lacrime e sangue pesano sempre più sulle spalle della popolazione. Ma vuoi mettere dover rinunciare a un Barça-Real Madrid stellare? Panem (quando c’è) et circenses, dunque: ricetta millenaria, ma sempre attuale.
basta neppure la storia recente a convincere i tifosi del “tanto poi figurati se non aggiustano tutto”, vale la pena dare uno sguardo ai dati finanziari più recenti registrati nel mondo del pallone.
Un “rosso” da 1,6 miliardi di euro Nel 2010, secondo i dati della Uefa, i 665 club professionisti europei che giocano nelle prime divisioni (le varie Serie A), hanno raggiunto perdite complessive pari a 1,6 miliardi di euro. Si tratta del 36% in più rispetto all’anno precedente
In “rosso” figura ormai il 56% delle società di calcio (il 75% tra le “grandi”). E, intanto, i fondi propri sono diminuiti di 600 milioni di euro
(vedi Valori di dicembre 2010/gennaio 2011): in rosso, ormai, figura il 56% delle squadre. Cifra che risulta ancora peggiore (si arriva al 75%) per le “big”, ovvero quelle realtà i cui ricavi annuali sono stati superiori ai 50 milioni di euro. E il 2010 non è di certo derubricabile come un annus horribilis provocato solo dalla crisi: se si considerano gli ultimi cinque anni il “rosso” totalizzato dal mondo del pallone è pari a 4 miliardi di euro. Un buco ripianato solo parzialmente dagli azionisti dei club, che hanno iniettato capitali per 3,4 miliardi: i fondi propri delle società sono perciò diminuiti complessivamente di 600 milioni di euro. Al punto che, sempre nel 2010, il volume dell’esposizione debitoria è stato superiore al valore dichiarato degli asset in oltre un terzo dei casi.
A confermare il quadro di una bolla in continua espansione ci sono poi i dati relativi ai ricavi. Un’analisi del mensile economico francese Alternatives Economiques sottolinea come il netto degradamento dei conti delle società non sia stato dettato in alcun modo da un calo dei ricavi. Al contrario, questi ultimi sono cresciuti anche negli anni della crisi e lo hanno fatto anche più velocemente del Prodotto interno lordo: sono passati dai 12 miliardi di euro del 2009 ai 12,8 miliardi del 2010, salendo perciò del 6,5%. Una crescita – garantita soprattutto dall’aumento delle entrate derivanti dai diritti tv, salite del 12% dal 2006 al 2010 – solo di poco inferiore alla media degli ultimi cinque anni (+9%). Il rosso è stato causato piuttosto dall’esplosione delle spese, passate dai 9,2 miliardi del 2006 ai 14,4 del 2010. Così, se le squadre che spendevano oltre il 100% del loro giro d’affari erano pari a 55 nel 2008, sono diventate 73 nel 2008 e 78 nel 2010. Il tutto soprattutto per pagare i trasferimenti e gli stipendi di calciatori,
dirigenti e altri dipendenti, il cui peso sui bilanci è aumentato in media del 14% all’anno dal 2006 in poi, per raggiungere la cifra di 8,2 miliardi di euro.
Calcio & alta finanza Come si è arrivati a questa situazione? Si può dire che a causare la crescita del foot-business sia stata in buona parte la scelta di percorrere una via mutuata dal mondo della finanza. Fatta di rincorsa sfrenata ai risultati nel breve termine, di aumento sconsiderato della “leva”, di ricorso massiccio agli artifici contabili (in particolare i giochi delle plusvalenze, diventati, soprattutto qualche anno fa, famosi quasi quanto i calciatori). Quasi tutte le grandi squadre, ad esempio, hanno intrapreso una corsa all’accaparramento dei giocatori. Costi quel che costi. Nell’ultima stagione, la
2011-2012, si è toccato il record di acquisti: 10 in media per ciascuna squadra. E per ciascun trasferimento occorre non solo pagare il cartellino del calciatore sotto contratto con un altro club, ma anche indennizzare quest’ultimo e pagare (lautamente) gli agenti degli stessi giocatori. I prezzi complessivi, dunque, crescono a dismisura e i dirigenti scelgono la formula più scontata e rischiosa: il “pagherò”. Nel 2010 in tale voce erano accumulati 2,3 miliardi di euro. Qualcosa come il 18% del giro d’affari dei club. Un simile andamento, da un punto di vista economico, è evidentemente insostenibile. Anche la Uefa se ne è accorta e ha affidato la nuova regolamentazione al cosiddetto “fair play finanziario” (vedi box). Difficile dire se basterà a sgonfiare un po’ il pallone del foot-business, evitandone il “botto”.
DAL 2013 VIA AL “FAIR-PLAY FINANZIARIO” IL 44% DEI CLUB NON È IN REGOLA Per tentare di mettere fine alla spirale finanziaria in cui si è infilato ormai da anni il calcio europeo, l’associazione delle federazioni, Uefa, ha deciso di imporre nuove regole per le squadre. Il presidente Michel Platini è convinto, infatti, che, per rendere più sostenibili i conti dei club, sia sufficiente impedire di spendere più di quanto si sia guadagnato. A tale norma è stata affiancata anche una serie di discipline che spaziano dalla capacità di finanziare il proprio funzionamento all’assenza di “rosso” nei bilanci e di debiti nei confronti dei giocatori (come nel caso di stipendi non pagati). L’Uefa, ad esempio, non tollererà un deficit su tre anni superiore ai 5 milioni di euro. Ma a ciò si arriverà gradualmente: l’organismo europeo imporrà, infatti, un tetto massimo di 45 milioni di euro per il 2013-2014 e di 30 milioni sui tre anni successivi. Ciò, tuttavia, a condizione che gli azionisti accettino di finanziare lo stesso disavanzo attraverso un aumento delle loro partecipazioni. Ancora, sarà obbligatoria per ciascun club la presentazione di un piano dettagliato di ritorno all’equilibrio finanziario nei casi in cui la massa salariale superi il 70% del bilancio o se la stessa sia maggiore rispetto al giro d’affari. Il tutto sarà verificato da un panel interno alla Uefa a partire dal 2013 (sugli esercizi 2011 e 2012). Va però detto che non sarà possibile comminare alcuna sanzione prima del 2014. A quel punto alle società meno virtuose potrebbero essere imposte punizioni particolarmente dolorose: dal divieto di poter operare sul calciomercato all’esclusione dalle competizioni sportive internazionali. Il pacchetto di “fair-play finanziario” è stato giudicato «una bellissima vittoria per la Uefa» dallo stesso Platini, in occasione dell’apertura del 36° congresso a Istanbul. Ci sarà da verificarne ovviamente l’efficacia. Intanto, però, basandosi sui nuovi criteri europei, il 44% delle società di calcio del Vecchio Continente sarebbe stato bocciato nel triennio 2008-2010. Anche per questo numerose squadre – piuttosto che rimettere a posto i propri conti – potrebbero pensare a ricorrere alla giustizia europea, qualora dovessero essere sanzionate. Lamentando, ad esempio, un attentato alla libera concorrenza. A.B.
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FONTE: SOCIALBAKERS.COM (PER FACEBOOK E LINKEDIN) - THE BLOG HERALD (PER TWITTER) - ILLUSTRAZIONE: DAVIDE VIGANÒ
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43.514.840 45.868.120 946.300 13.352.622 19.500.000 13.000.000
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SPAGNA FRANCIA
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THAILANDIA
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107.700.000
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PAKISTAN EGITTO
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REGNO UNITO F
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1.575.957 58.526.154
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on la sua crescita vertiginosa, la rete ideata da Mark Zuckerberg arriverà a “cannibalizzare” la concorrenza? Sembra che il destino sia questo. Almeno stando ai dati di vincos.it, il blog gestito dal social media strategist italiano Vincenzo Cosenza, ormai affermatosi come un punto di riferiSUDAFRICA TAIWAN mento a livello internazionale per chi si occupa del mondo del Web 2.0. La mappa THAILANDIA TURCHIA globale dei social network, solo nel mese di giugno del 2009, mostrava un panorama variegato: 19 i social che erano riusciti a mantenere il primato in un territorio, REGNO UNITO SPAGNA dal polacco Nasza Klasa all’ungherese iWiW, dal californiano Hi5 all’arabo Maktoob. Ma la marcia di Facebook prosegue a tappe serrate: fino ad arrivare allo scenario del mese di dicembre dello scorso anno, in cui deteneva la leadership addirittura in 127 Paesi sui 136 analizzati.
C
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58.526.154
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CINA
31.315.860
8.367.732 23.800.000 14.288.320
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STATI UNITI
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TAIWAN
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8.000.000
107.700.000
di Valentina Neri
TI UNITI
A
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1.575.957 58.526.154
Egemonia Facebook 8.367.732 107.700.000 33.939.440 23.800.000 2.136.766 154.760.400 11.000.000
15.923.200 31.315.860 2.631.818 984.960 8.000.000
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Brasile 44.184.160 6.864.270 33.300.000 Germ | network planetario | Canada 17.260.160 5.118.842 7.000.000 Giap Cina 1.938.614 Indi Colombia 16.408.040 845 milioni Indo Egitto 10.732.360 GLI ISCRITTI A NEL MONDO Itali Filippine 27.934.000 937.886 8.000.000 Male EUROPA Francia 24.068.600 3.224.580 231.338.120 Mes Germania 23.214.800 1.504.582 Olan Giappone 29.900.000 Paki India 45.868.120 1.3352.622 13.000.000 Reg Indonesia 43.514.840 946.300 19.500.000 Spa GERMANIA Italia 21.721.940 2.819.476 Stat Argentina Malesia 12.457.560 ASIA Sud Australia Argentina 217.718.420 Messico 33.939.440 2.136.766 18.334.88011.000.000 1.728 Taiw Belgio 2.799 Australia Olanda 3.134.628 10.888.820 Tha Brasile1.038 Belgio Pakistan 998.402 TURCHIA Canada Turc Brasile RegnoOLANDA Unito 30.157.300 8.367.732 44.184.16023.800.000 6.864 Cina Usa Canada Spagna 15.923.200 2.631.818 17.260.160 8.000.000 5.118 Colombia Cina 1.938 ITALIAStati Uniti CINA5.8526.154 154.760.400 Egitto Colombia Sudafrica 1.575.957 16.408.040 Filippine Egitto 10.732.360 TURCHIA Taiwan 11.949.380 THAILANDIA Francia 937 Filippine 27.934.000 Thailandia 14.288.320 GIAPPONE Germania Francia 3.224 INDONESIA Turchia 31.315.860 984.960 24.068.600 Giappone Germania 23.214.800 1.504 GERMANIA INDIA ITALIA STATI UNITI SUDAFRICA GIAPPONE TAIWAN THAILANDIA TURCHIA Usa 10.7700.000 Argentina INDONESIA India Giappone Australia Indonesia India 45.868.120 1.3352 Belgio EGITTO FILIPPINE TAIWAN Italia 946 Indonesia 43.514.840 Brasile Malesia2.819 Italia 21.721.940 Canada AFRICA 40.520.580 Cina PAKISTAN Messico Malesia 12.457.560 Colombia Olanda2.136 Messico 33.939.440 Egitto MALESIA Pakistan Olanda 3.134 Filippine Regno Unito OCEANIA Pakistan 998 Francia 13.613.720 Spagna8.367 Germania Regno Unito 30.157.300 Giappone Stati Uniti Spagna 15.923.200 2.631 INDIA India Sudafrica 154.760.400 5.8526 THAILANDIA TURCHIA Stati Uniti Indonesia Taiwan 1.575 Sudafrica SUDAFRICA Italia Thailandia Taiwan 11.949.380 Malesia Facebook Turchia Messico Thailandia 14.288.320 Linkedin Olanda Usa Turchia AUSTRALIA 31.315.860 984 Twitter Pakistan Usa
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economiasolidale GIORGIO PERROTTINO / REUTERS
Il cantiere della Maddalena, da dove dovrebbe partire il tunnell esplorativo, viene presidiato dalla forza pubblica
Tav,
La protesta contro la linea ferroviaria ad Alta velocità, che dovrebbe attraversare la Val di Susa, non rappresenta l’egoistica rivendicazione di una comunità che non vuole essere disturbata. Ma un richiamo a riconsiderare un’opera che aumenterà senza limiti il debito pubblico
il buco senza fondo di Paola Baiocchi e Alberto Nigro pera strategica” che ci porta dentro l’Europa e verso il futuro o che al contrario ci colloca inesorabilmente ai “margini” del mondo sviluppato se non viene attuata: è quanto affermano i sostenitori del progetto. Opera inutile e dannosa che ci indebiterà inghiottendo denaro pubblico per almeno 20 anni: è, invece, quanto sostengono gli abitanti della Valsusa e moltissimi italiani, compresi 360 tra accademici, tecnici e intellettuali che hanno firmato a febbraio un appello che invita il Primo ministro, Mario Monti, a ripensare la linea ferroviaria Torino-Lione. Sul Treno ad alta velocità (Tav) che dovrebbe attraversare la Valsusa, la contrapposizione tra le parti è totale e ha assunto le caratteristiche di uno scontro non spiegabile con la sindrome del nimby, non nel mio cortile di casa. C’è molto di più infatti: c’è un cumulo di bugie e false notizie grandi come quel massiccio dell’Ambin che dovrebbe essere attraversato per 57 km dalla galleria di base. Veri e propri “depistaggi” dell’opinione pubblica dai quali si capisce che è in gioco la democrazia e che ruotano attorno a un punto
“O
Interessi minerari dietro il tunnel? > 44 Riso, la crisi alle porte dell’isola felice > 46 Il web in rivolta contro la Coop “anti-liberalizzazioni” > 50 Crediti per le aziende. I cittadini fanno da garanti > 52 | 40 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
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centrale: grazie al meccanismo economico con cui viene finanziata la Tav è un inesauribile bancomat per i privati che eseguono i lavori, perché garantiti da fondi pubblici (vedi INTERVISTA a Ivan Cicconi). Gli stessi fondi pubblici poi, che si dice non esistano per pagare le pensioni di chi ha firmato un “esodo” concordato con la propria azienda, ma non può accedere all’assegno previdenziale per via della riforma Fornero, che ha allungato il periodo lavorativo.
Scavare con un cucchiaino 1.300 euro a centimetro potrebbe essere il costo finale della Tav. Ma potrebbe costare anche 5.000 euro al cm o più, se si incontrassero imprevisti scavando e se, per completare i circa 265 km dell’opera, si spendessero più di 35 miliardi, la cifra attualmente ipotizzata da chi si oppone alla Tav. Cifra ben diversa dagli 8,2 miliardi di euro, da dividere con la Francia, che il Governo dichiara nel documento pubblicato a marzo Tav Torino-Lione, domande e risposte (www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/TAV/domande_ risposte.pdf). In questo giro di miliardi chi eseguirà i lavori ha tutto l’interesse a trovare intoppi che ne prolunghino la durata, perché saranno comunque coperti dal danaro dei contribuenti, che dovranno pagare senza poter esercitare alcun controllo,
Per il tunnel esplorativo della Maddalena si scava nella stessa zona dove l’Agip nelle sue ricerche ha individuato molti affioramenti di uranio
anche se si decidesse di scavare con un cucchiaino d’argento. In questo contesto, sostiene la professoressa Paola Villani (vedi INTERVISTA ), è autorizzata qualunque operazione – anche di eterodirezione delle opinioni – che renda più complicati i lavori, che potrebbero anche diventare l’occasione per “altri affari” come la ricerca o l’estrazione di minerali.
Chiomonte, il mistero del tunnel geognostico Il 30 giugno 2011 è stato inaugurato il cantiere della Maddalena, a Chiomonte.
Furto continuato ad Alta velocità di Paola Baiocchi
La bugia dei privati che finanziano le grandi opere e il “contraente generale” che fa lievitare i costi Nel 1997 Ivan Cicconi, ingegnere ed esperto di appalti pubblici, ha scritto Storia del futuro di Tangentopoli. L’ultimo capitolo di quel libro si intitolava Alta velocità: ovvero la storia del futuro di Tangentopoli. Vi si delineavano i contorni del “sacco” del denaro pubblico che ancora oggi non siamo riusciti a scardinare, a 15 anni di distanza da quello scritto e a 21 dalla presentazione al pubblico
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Da qui prenderà via il tunnel geognostico, che serve per verificare a cosa si va incontro scavando nella montagna. L’area è stata dichiarata di “interesse strategico nazionale” e la sua difesa da parte della forza pubblica, secondo La Repubblica e Il Fatto, costa 90 mila euro al giorno. Nel 2013 partirà la costruzione del tunnel base di 57 km per collegare l’Italia alla Francia, annuncia Ltf (Lyon Turin Ferroviaire), la società per azioni di diritto francese creata nel 2001, a capitale pubblico, di cui sono azionisti al 50% Rete ferroviaria italiana (Rfi) e Réseau ferré de France (Rff). Peccato che in Francia abbiano impiegato 5 anni per costruire 9 km di discenderie, i tunnel geognostici e di servizio, finora gli unici lavori compiuti dai cugini d’Oltralpe.
dell’Alta velocità (Av) fatta da Lorenzo Necci, con i presidenti di Iri ed Eni e l’amministratore delegato di Fiat, il 7 agosto 1991. Sul perché ci manchi lo strumento politico in grado di difenderci dal “furto continuato” che l’Av rappresenta, parleremo in un altro momento. Con Ivan Cicconi, tra i primi firmatari dell’appello dei 360 al premier Mario Monti e attualmente in giro per l’Italia a presentare Il libro nero dell’Alta velocità, il futuro di Tangentopoli diventato realtà, vogliamo parlare dei meccanismi economici dietro queste grandi opere. Perché i lavori per l’Alta velocità in Italia durano e costano molte volte di più che nel resto del mondo? «La ragione è nelle numerose bugie che hanno accompagnato la realizzazione di questa grande opera. La prima bugia è stata quella del finanziamento privato. Il project financing con il quale l’Av è stata finanziata in Italia prevedeva che il 60% fosse messo dai privati: in realtà i prestiti verso le banche sono stati attivati
Assieme al tunnel geognostico, da Chiomonte partono anche alcune macroscopiche incongruenze del progetto: l’obiettivo dell’esplorazione è conoscere il territorio in cui sarà scavato il tunnel di base. Ma la Valutazione d’impatto ambientale (Via) fa acqua da tutte le parti e, per strane coincidenze, il cunicolo passerà nella montagna da cui l’Enel progettava di estrarre uranio a fine anni ’80 (vedi BOX ). Ma nella Via non se ne parla. Il percorso previsto è poi piuttosto curioso. Esaminando la cartografia associata alla Via del cunicolo, reperibile sul sito della regione Piemonte, sorgono due dubbi. Il primo è: come mai solo metà del cunicolo si trova sul tracciato del tunnel di base (4 km di scavi su 7,5 totali servono per raggiungere l’area d’interesse). Il secondo è: perché non si è partiti da Venaus, il Comune sull’altro lato della montagna che è situato proprio lungo il tracciato del tunnel di base. Fa notare Mario Cavargna, ingegnere ambientale, presidente dell’Associazione Pro Natura e autore del documento Altre 150 brevi ragioni tecniche contro il Tav in Val di Susa: «Venaus era già stato scelto come partenza del tunnel geognostico, per ragioni tecniche ed economiche: Chiomonte è 200 metri più alto di Venaus e, infatti, i primi 500 metri del tunnel della Maddalena non po-
CRONOLOGIA 1991: viene siglato l’accordo tra Francia e Italia per la costruzione di un nuovo tunnel che attraversi il Moncenisio 1993: vertice di Roma, si decide di avviare il progetto e di costituire Alpetunnel per gli studi di fattibilità 1994: riconoscimento della realizzazione della Torino-Lione come progetto prioritario europeo 1996: istituzione della Commissione intergovernativa italo-francese per coordinare il progetto 2001: accordo intergovernativo italo-francese per la realizzazione della nuova tratta ferroviaria, nasce Ltf Sas (Lyon Turin ferroviaire) società per azioni, di diritto francese, i cui azionisti al 50% sono Rete ferroviaria Italiana (Rfi) e Réseau ferré de France (Rff) 2003: approvazione del progetto preliminare della Torino-Lione da parte del Comitato interministeriale per la programmazione economica in Italia (Cipe) 2004: conferma dell’asse Lione-Lubiana tra i 30 progetti di interesse comune per lo sviluppo della rete europea dei trasporti, da realizzarsi entro il 2020 2005: si intensificano gli scontri fra manifestanti e forze dell’ordine, raggiungendo l’apice a Venaus, previsto punto di partenza del tunnel di base e del cunicolo esplorativo 2006: dopo le forti opposizioni locali espresse in Valsusa, avvio della concertazione in Italia tramite l’Osservatorio tecnico che coinvolge gli Enti locali coordinati dal Commissario del governo, Mario Virano 2008: approvazione del rapporto di studi dell’Osservatorio tecnico che include le proposte di orientamento per il futuro tracciato in Valsusa, e comporta il definitivo cambio di tracciato da Sinistra Dora a Destra Dora; viene variata l’uscita del tunnel, prevista a Venaus, prima a Chiomonte e poi a Susa 2011: avvio del cantiere del cunicolo esplorativo della Maddalena nel comune di Chiomonte 30 gennaio 2012: Accordo italo francese a Roma. Il testo resta segreto: i parlamentari affermano che è l’accordo che sblocca la situazione e da il via ai lavori. I No Tav riescono ad averne copia e svelano una bugia, citano testualmente: “non ha per oggetto di permettere l’avvio dei lavori definitivi della parte comune” 2 marzo 2012: Monti annuncia che “l’opera è necessaria”
SITOGRAFIA Osservazioni al documento del Governo “TAV Torino Lione - domande e risposte” http://www.cmvss.it/item.asp?i=873&stile=0 Per leggere l’appello dei 360 firmatari al presidente del Consiglio http://www.notav.eu/modules.php?name=ePetitions&op=more_info&ePetitionId=1 Altre 150 brevi ragioni tecniche contro il Tav in Val di Susa www.pro-natura.it/torino/pdf/150ragionitav.pdf
da Tav SpA, società a capitale misto costituita appositamente dalle Ferrovie, e garantiti totalmente dallo Stato. I privati non hanno mai messo capitali. Il sistema del general contractor, istituzionalizzato con la Legge obiettivo del 2001, è un altro responsabile della lievitazione dei costi. Perché il committente – cioè lo Stato italiano – trasferisce tutti i suoi poteri di pianificazione, progettazione, realizzazione e controllo dei lavori, al contraente generale che, essendo completamente pagato dal committente, ha tutto l’interesse a far durare molto l’opera e a far aumentare i costi. Inoltre, dovendo controllare se stesso, il general contractor troverà che qualsiasi lavoro va bene. Soprattutto se costa molto». È l’Europa che ci chiede l’Alta velocità? «Assolutamente no: l’Unione europea chiede unificazione degli scartamenti, integrazione delle tecnologie, eliminazione di ostacoli alle frontiere. L’Italia è l’unica a voler fare l’Av, anche il Portogallo
LIBRI
ha cancellato dai propri programmi il progetto Av Lisbona-Madrid, che fa parte del famoso corridoio 5. In Francia non c’è ancora niente, il progetto è in fase di dibattito pubblico (Débat public)».
E in Italia? «Siamo governati da degli apprendisti Ivan Cicconi stregoni che non sanno di che cosa Il libro nero dell’Alta velocità parlano e che rifiutano ogni confronto Koiné nuove edizioni, 2011 tecnico: il vice di Passera ha dichiarato che se non si fa l’Av sulla Torino-Lione salta il progetto prioritario 6 Lione-Budapest, mentre in Slovenia e in Ungheria di Av non c’è alcuna traccia. Monti dice che l’Alta velocità è una necessità e che presenteranno l’analisi costi/benefici. Ma come si può affermarlo senza prima averne analizzato i costi e i benefici?».
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FONTE: NOSTRA ELABORAZIONE SU DATI LTF, NO TAV
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Nel corso del tempo il progetto della Tav ha subito variazioni in seguito alle pressioni esterne e i costi sono lievitati in modo spaventoso, ma non è cambiato il sistema di assegnazione delle opere. Fino al 2006 il progetto della Tav prevede che il tunnel di base parta da Venaus. I Comuni che si giocavano la partenza del cunicolo esplorativo erano Venaus e Chiomonte, dove c’è il sito archeologico La Maddalena. Viene scelto Venaus essendo più vicino in termini di distanza e altitudine. Nel 2005 la costruzione di questo cunicolo esplorativo – 96 milioni di euro previsti – è assegnata con gara d’appalto, in seconda battuta, alla Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna (Cmc). La prima gara d’appalto, invece, era stata invalidata dalle inchieste giudiziarie. Nell’agosto 2006 Mario Virano viene nominato Commissario straordinario dell’Osservatorio Tav. Il progetto muta: si ipotizza che il tunnel base possa uscire a Chiomonte, viene dunque spostato anche il tunnel geognostico. Infine Chiomonte risulta troppo in alto per essere l’uscita del megatraforo: aumenterebbe la pendenza della tratta e quindi viene scartato. La decisione ultima è che il tunnel di base sbuchi a Susa, ma il tunnel geognostico rimane a Chiomonte. Cambia, però, il costo del cunicolo geognostico, a fronte delle complicazioni evidenziate nelle procedure dei lavori in Francia, che sale a 143 milioni di euro lordi (spesa approvata dal Cipe). Non si fa una nuova gara d’appalto perché il tunnel a Chiomonte viene considerato “una variante della galleria di Venaus” e quindi i lavori restano alla Cmc. | 44 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
È noto che il processo di formazione delle rocce in Val di Susa (e in tutte le Alpi occidentali) è tipico di aree con giacimenti di materiali preziosi. Dall’oro al tantalio, una delle “terre rare” di cui l’industria ad alta tecnologia ha fame
PREZZO DELL’URANIO E DEL PETROLIO A CONFRONTO 1600 1400 1200 1000 800 600 400 200 0
Uranio U3O8
a professoressa Paola Villani, docente della sezione Infrastrutture del Diiar-Politecnico di Milano, ha dichiarato in un’intervista alla trasmissione Radioattiva di Poliradio (la web-radio dell’Ateneo) che dietro la costruzione della Torino-Lione potrebbe esserci l’interesse ad individuare minerali rari. Le abbiamo chiesto maggiori dettagli.
L
Ci sono interessi nascosti dietro la costruzione della Torino-Lione? «L’uranio ha importanti ricadute ambientali negative, ma anche ricadute economi-
Indicatore del prezzo (gen 2002=100)
che positive. Fa riflettere che la joint-venture francese che ha dato l’avvio ai lavori è partecipata da varie compagnie fra cui Alsthom (importante gruppo ferroviario). Guarda caso, proprio Alsthom, dal 2004, è una società partecipata da Areva, colosso francese del nucleare». Vuole dire che dietro la Tav Torino-Lione si può celare l’interesse economico legato all’estrazione di minerali? «Il potenziale business è rilevante: scavo dove probabilmente c’è qualcosa che mi conviene vendere e mi faccio pagare per
Quindi presume che stiano cercando uranio? «Se fossi una persona che cerca minerali, cercherei uranio e non solo, anche qualsiasi minerale prezioso per l’industria: fra i tanti viene in mente il tantalio, che spesso accompagna la presenza di uranio; le serpentiniti tipiche della zona e tanti altri. Ma è una valle ricchissima, quindi non escludo che si possano trovare altri materiali». Professoressa, lei è favorevole alla Tav. Come mai? «Da trasportista dico che fare il treno ha senso, fare il tunnel no. Se si è scelto di andare in galleria è solo perché conviene. Se io fossi uno statista, invece, direi che conviene fare il tunnel. Va fatto con una società italiana, assolutamente trasparente e tutto quello che si guadagna dallo smaltimento degli scavi deve avere ricadute per l’intera Italia. In più alla fine dello scavo, ci resta, e sottolineo, ci resta, il tunnel per la ferrovia. Per questo sono d’accordo. Da ambientalista direi che è un’opera assolutamente senza senso, c’è già il collegamento. La linea ferroviaria che esiste potrebbe essere migliorata, sistemando dei punti in cui vi sono dei raggi di curvatura tali per cui il treno non può andare oltre una certa velocità. Se fossi un cittadino della Val di Susa direi: scavate pure, ma ripartiamo gli utili».
UN’AREA MOLTO RICCA DI MINERALI Abbiamo sottoposto le affermazioni della professoressa Paola Villani a Marilena Moroni, che insegna al dipartimento di Geologia dell’Università Statale di Milano. La docente evidenzia la differenza netta tra lo scavare un tunnel o una miniera – «non sarebbe sostenibile un cambio di obiettivo a opera iniziata» – e smentisce la possibilità che si stia mascherando l’estrazione di minerali preziosi con la costruzione di un tunnel. In Val di Susa si possono trovare minerali
di vario tipo: «Le rocce presenti nell’area possono potenzialmente contenere, oltre all’uranio e a filoni auriferi, anche moltissimi altri minerali: stagno, tungsteno, molibdeno, rame, bismuto, piombo, zinco, argento, antimonio, arsenico, niobio (una delle “terre rare” utilizzata nell’industria ad alta tecnologia, ndr), cromo, nichel, ferro, rame, elementi del gruppo del platino e tanti ancora. Ma ci vogliono studi appositi per essere sicuri della presenza di quelle risorse», continua
la professoressa. «Le compagnie minerarie spesso dedicano alla ricerca di un giacimento, in una certa area, studi e analisi che possono durare anche più di un anno». L’esplorazione di minerali da estrarre è un processo incerto e costoso. Tanto che dagli anni ’80 la ricerca italiana in merito è in stallo. Sarebbe un ottimo investimento se un cunicolo scavato con l’obiettivo di studiare il tracciato del tunnel di base aggiungesse anche queste preziose informazioni. A.N.
TUNNEL ESPLORATIVO DELLA MADDALENA: C’È URANIO NELLA MONTAGNA Negli anni ’70 l’Agip ha effettuato diverse ricerche per individuare eventuali giacimenti di uranio in Valsusa. I risultati delle analisi rivelarono la presenza di 28 affioramenti, ma annunciarono: «nessuno d’interesse tale da giustificare l’inizio di una coltivazione». Eppure nel 1982 l’allora direttore generale degli Affari ambientali dell’Enel, Marcello Pagliari, dichiarava, intervistato da Mario Cavargna, ingegnere ambientale e presidente dell’Associazione Pro Natura: «Dopo che sarà approvato il programma nucleare (Enel 1985) si metterà in cantiere lo sfruttamento delle riserve nazionali. Le potenzialità della Valle di Susa sono note, la miniera che prevediamo di aprire sarà a Chiomonte e si può calcolare che cominceremo le pratiche entro tre anni dall’approvazione del programma». Dalle parole dell’allora funzionario di Enel sembra, quindi, che di uranio in quantitativi adatti per una miniera ce ne fosse, ma si aspettava che si sviluppasse un programma adeguato per metterla in opera. Poi l’incidente di Chernobyl e i referendum del 1987, che hanno bloccato il nucleare in Italia, hanno anche fermato i progetti estrattivi. Che però rialzano la testa, seguendo le fluttuazioni del prezzo dell’uranio: per esempio nel 2007, quando il prezzo del minerale è aumentato del 250%, l’Osservatorio tecnico ha elaborato il tracciato alternativo con partenza a Chiomonte - La Maddalena. Le due miniere abbandonate, secondo Mario Cavargna, sono: «a circa 1.000-1.100 metri di quota, non abbastanza in alto per escludere che all’interno della montagna le vene uranifere arrivino 3-400 metri più in basso e possano essere incrociate dagli scavi del tunnel geognostico». «Qualsiasi tracciato scavato in Val di Susa comporta l’attraversamento di rocce potenzialmente reattive in alcuni tratti», dichiara Marco Gattiglio, docente del corso di Scienze geologiche dell’Università di Torino, che però assicura che sul tracciato del tunnel di base «non si trovano rocce amiantifere, come non vi sono minerali utili estraibili». Sull’uranio Gattiglio afferma inoltre: «Abbiamo studiato la posizione geografica delle concentrazioni uranifere, io escludo che il tunnel di base vada a intersecare queste concentrazioni». Diversa è la posizione di Massimo Zucchetti, laureato in fisica nucleare, docente dell’Università di Torino nonché firmatario del documento presentato recentemente dalla Comunità Montana della Valsusa in risposta alle 14 domande e risposte del Governo. Per Zucchetti l’uranio è una certezza di cui si deve tenere conto nello smaltimento del materiale estratto e per le conseguenze sulla salute dei lavoratori, degli abitanti delle valli e per l’ambiente: «Sono state fatte delle analisi che non hanno rilevato presenza di uranio; ma, se si paragonano dei prelievi sporadici ed effettuati in superficie con una galleria a due canne lunga 57 chilometri, in quella zona lì bisognerebbe avere davvero fortuna a non incrociare dell’uranio». A.N. HTTP://EN.WIKIPEDIA.ORG
Cambiano il progetto e i costi, ma non gli esecutori
di Alberto Nigro
FONTE: EIA/INDEX MUNDI - COPYLEFT ECOALFABETA 2011
tranno essere scavati dalle talpe meccaniche, ma manualmente, per l’eccessiva discesa».
fare i lavori, perché sto facendo un incredibile tunnel ferroviario».
Interessi minerari dietro il tunnel?
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Nel 2005 la Cmc di Ravenna si aggiudica lo scavo del tunnel di Venaus. Per quello di Chiomonte non si fa la gara
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Produzione risone [tonnellate]
Quattro province lungo il Po provvedono al 50% di tutta la produzione europea. Ma il prezzo pagato dall’industria ai risicoltori è spesso insufficiente. In vent’anni dimezzato il numero delle unità produttive. L’unica strada per salvarsi è aumentare i raccolti. Ma il rischio sovrapproduzione è in agguato oncorrenza internazionale, rapporti sempre più complessi tra i vari anelli della filiera, margini di guadagno erosi da costi di produzione in crescita, diminuzione degli aiuti Pac (Politica agricola comune), pressioni degli speculatori per convertire le colture alla produzione di cereali da destinare a impianti di biogas, una legislazione nazionale lacunosa che non tutela le varietà tipiche. Anche il riso italiano, considerato tutt’oggi dagli stessi addetti ai lavori “un’isola felice”, rischia di cadere sotto le logiche perverse del mercato moderno. Nessun intento catastrofista. Solo l’esigenza di non chiudere gli occhi davanti a quei nodi che potrebbero mettere in crisi un gioiello produttivo che ha fatto la ricchezza dei territori in cui storicamente è stato coltivato.
C
Le province del Po leader in Europa La filiera italiana del riso è in realtà un settore produttivo concentrato attorno a quattro province: Vercelli, Novara, Pavia, Milano. Da sole, con i loro 209 mila ettari di coltivazioni, assicurano quasi l’88% della produzione nazionale (vedi GRAFICO ) e poco meno della metà del riso prodotto in tutta l’Unione europea (l’Italia è il primo produttore con il 52% del totale seguita, da lontano, dalla Spagna con il 30%). | 46 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
Scarso potere contrattuale per i risicoltori I due fenomeni non sono direttamente correlati. Ma non c’è dubbio che, davanti al forte peso dei quattro marchi nella fase di trasformazione, si riduca il potere contrattuale dei risicoltori, che, anche per la scarsità di organismi di tipo coo-
238.400 1.643.360
10.100 (4,2%) 69.180 (4,2%)
7.800 (3,3%) 54.730 (3,3%)
Milano
IMPORTAZIONI AL GALOPPO
Emilia Altre Totale Romagna regioni
Superficie [ettari]
L’obiettivo dichiarato è “restituire dignità piena e potere contrattuale ai produttori di riso”. È stata annunciata a metà marzo a Novara, su impulso di Coldiretti, la nascita della “Filiera Italiana Riso Sca Spa”. In una realtà frammentata come quella dei risicoltori, è un passo in avanti positivo. Dovrebbe permettere ai produttori di avere più potere per contrattare i prezzi a valle e a monte, rivendicando un prezzo che tenga conto anche del costo “giusto” alla produzione. Della nuova filiera potranno avvantaggiarsi anche il centinaio di aziende di trasformazione del riso di carattere artigianale che oggi lavorano solo il 30% del prodotto disponibile e invece potrebbero avere flussi continuativi. Ma – assicurano i promotori – i vantaggi maggiori saranno per i cittadini, che beneficeranno di una maggiore tracciabilità del prodotto dal campo al piatto.
Sul lato opposto della filiera, l’industria di trasformazione è da tempo in mano a quattro “big” che si spartiscono oltre il 50% del mercato: Riso Scotti, Colussi (Riso Flora), Euricom (Curtiriso) e Riso Gallo. L’altra metà è invece parcellizzata fra un centinaio di riserie, molte delle quali di tipo artigianale.
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Altre Lombardia Pavia provincie
NASCE LA FILIERA ITALIANA DEL RISO
Riso Scotti, Colussi, Euricom e Riso Gallo: i quattro “big” controllano la metà della industria di trasformazione Una produzione piuttosto stabile, che da tempo si è attestata in una forbice compresa tra poco più di 1,4 milioni di tonnellate e poco meno di 1,7 milioni, con un valore superiore ai 550 milioni di euro. Una notizia tutto sommato positiva, considerando che anche i consumi, negli ultimi sei anni, hanno oscillato tra 1,4 e 1,5 milioni di tonnellate. Con consumi e produzione stabili, gli aspetti da tenere in considerazione sono quindi altri: l’andamento del numero di aziende produttrici e la concentrazione del mercato di trasformazione nelle mani di pochi gruppi industriali. Sul fronte dei produttori, a partire dagli anni ’90 si è assistito a un crollo. O meglio: “a una profonda ristrutturazione aziendale”, come la definisce un documento di lavoro dell’Ente Risi. Dalle ottomila unità produttive del 1990 si è scesi alle 5.250 del 2000. E l’anno scorso il numero era ulteriormente sceso: 4.700 unità. Dimezzate in vent’anni. La superficie media delle aziende è passata dai 26 ettari del ‘90 ai 41 del 2000 fino agli oltre 51 del 2011. Un fenomeno di concentrazione molto rilevante.
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34.900
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di Emanuele Isonio
VERCELLI, NOVARA, PAVIA, MILANO LE CAPITALI DEI CHICCHI ITALIANI
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Riso, la crisi alle porte dell’isola felice
DATI PAC 2009
| economiasolidale | made in italy a rischio/puntata 14 |
10.000 9.000 8.000 7.000 6.000 5.000 4.000 3.000 2.000 1.000 0
DALL’INIZIO DELLA CAMPAGNA LE IMPORTAZIONI IN ITALIA SONO RISULTATE PARI A 25.000 TONNELLATE BASE LAVORATO. RISPETTO ALL’ANNO PRECEDENTE TENDENZA ALL’AUMENTO +29%
India
2011-12
Pakistan Thailandia Sri Lanka Brasile Argentina Uruguay Cambogia
Altri
2010-11
perativo, raramente riescono a spuntare prezzi sufficienti a coprire i costi di produzione e le ore di lavoro spese. Tra l’altro, in caso di muro contro muro, l’industria – che a sua volta si giustifica con i prezzi troppo bassi pagati dalla Gdo – può sempre rivolgersi all’estero (le importazioni 2012 sono cresciute del 29% rispetto al 2011, con India e Pakistan a guidare la classifica, vedi GRAFICO ). A ridurre l’effetto potenzialmente dirompente di tale dinamica ci sono le scelte di consumo degli Italiani. Il 60% del riso mangiato nel nostro Paese è della sottospecie Japonica, della quale fanno parte i famosi Carnaroli e Arborio, varietà consumate praticamente solo in Italia. Il che rende più complesso importarle dall’estero. Lo stesso non si può dire invece dei risi della sottospecie Indica, (25% dei consumi nazionali) per il quale la concorrenza estera è ben più consistente. «Il prezzo medio pagato a tonnellata si aggira attorno ai 250-260 euro.
Inferiore di almeno 40-60 euro a quello necessario per una remunerazione decente», spiegano i tecnici di Confagricoltura. «Il calo della domanda da parte dell’industria risiera ha innescato una reazione a catena. Se i prezzi del risone (il riso grezzo avviato alla trasformazione, ndr) sono troppo bassi, i nostri produttori non riescono a far fronte ai continui aumenti dei prezzi di coltivazione, dal gasolio ai concimi: a questo punto per le semine primaverili gli agricoltori potrebbero orientarsi su colture più redditizie come il mais e la soia».
Politica agricola comune “Una riforma scritta con i piedi” A peggiorare la situazione, la modifica dei premi Pac, quella Politica agricola comune che ha rappresentato la salvezza per molti settori: da quest’anno il premio agli agricoltori è del tutto indipendente dal tipo di prodotto coltivato. Un tot a ettaro e stop. «È una riforma scritta con i
CLINI: IL CARNAROLI È OGM. I RISICOLTORI INSORGONO Alle sigle dei produttori agricoli e dei risicoltori non sono proprio andate giù le parole pronunciate sul Corriere della Sera dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini. Sia per la sostanziale apertura in favore degli Ogm. Sia per aver accostato alcune specialità agricole italiane agli interventi genetici: «Senza l’ingegneria genetica oggi non avremmo alcuni fra i nostri prodotti più tipici. Il grano duro, il riso Carnaroli, il pomodoro San Marzano, il basilico ligure, la vite Nero D’Avola, la cipolla rossa di Tropea, il broccolo romanesco. Sono stati ottenuti grazie agli incroci e con la mutagenesi sui semi», ha dichiarato il ministro. Immediata la protesta dei produttori: «A differenza di quello che dichiara il ministro “tecnico”, l’ingegneria genetica e la transgenesi nulla hanno
a che fare con i prodotti citati, che subiranno un danno economico dalle dichiarazioni superficiali. Bisogna conoscere la differenza tra gli incroci e gli ibridi rispetto all’ingegneria genetica», replica Mauro Tonello, presidente di Coldiretti Emilia Romagna. E sul riso Carnaroli, in particolare, il Consorzio di tutela delle varietà tipiche del riso italiano spiega: «È una varietà selezionata nel 1945 dall’incrocio tra Vialone e il Lencino. La responsabilità della conservazione in purezza è dell’Ente Risi, che non ha preso posizioni. Come mai? Un’altra stranezza: perché un ente pubblico vigilato dal ministero delle Politiche agricole, sovvenzionato dal lavoro degli agricoltori con una percentuale sulle produzioni, non fa sentire la propria voce?».
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piedi, soprattutto se non verranno introdotti correttivi per gli anni prossimi», si lascia sfuggire un addetto ai lavori. «C’è il rischio che i produttori si orientino verso colture a maggiore reddito, inseguendo la chimera dei prodotti più remunerativi e lasciandone scoperti altri, per i quali dovremmo poi rifornirci dall’estero». Va poi considerato che il costo di coltivazione del riso è più elevato di altri cereali: produrre una tonnellata di mais costa circa 200 euro, contro i 300 euro del riso di varietà Indica e i 450-500 della varietà Japonica.
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Il pericolo “monsantizzazione” Da qui la tendenza alla concentrazione delle aziende: sopravvive solo chi ha una certa “massa critica” e se si aumenta la produttività. «60-70 quintali per ettaro con una resa del 65-70% dopo il processo di raffinazione»: sarebbe questa la cifra limite che permetterebbe di avere sufficienti margini di guadagno, secondo gli analisti di Confagricoltura. Inevitabile, in questo scenario, la tendenza a preferire le varietà più produttive, a danno di quelle tradizionali (vedi ARTICOLO ). E porte aperte alla ricerca genetica. Non per in-
trodurre Ogm ma per ottenere varietà ibride che portano la produzione fino a 100 tonnellate di risone per ettaro. In apparenza, la strada sembra auspicabile. Ma due rischi sono dietro l’angolo: lo spauracchio della sovrapproduzione, che finirebbe per vanificare sforzi e guadagni. E il timore che il settore-riso finisca per essere dipendente dalle industrie che brevettano le varietà ibride. Il caso del mais, con il monopolio di Syngenta, Monsanto e Pioneer, è un esempio perfetto. E il fenomeno di “monsantizzazione” potrebbe non essere relegato a un solo cereale.
con una resa del 55%. Se, al posto del Carnaroli, si semina il Carnise, simile per forma e dimensioni, la produzione sale a 60 quintali e la resa al 60%. Per chi coltiva, la convenienza è evidente. Per le aziende di trasformazione i vantaggi sono doppi: possono spuntare prezzi più bassi e rivendere il riso con il nome del più pregiato originale. Quanto sia diffuso il fenomeno è presto detto: secondo i dati ufficiali dell’Ente Risi in Italia si producono circa 11 mila tonnellate di riso Arborio. Ma, se si guarda al dato del consumo, ne risultano vendute quasi 40 mila tonnellate. Sotto il nome “Arborio” sono quindi commercializzate 30 mila tonnellate di altri risi.
La nuova legge porterà vantaggi?
I chicchi storici uccisi per legge?
Qualche novità – ma non si sa di quale segno – potrebbe arrivare da un disegno di legge (il n. 1909). Approvato nel novembre 2009 dalla Camera, giace da un paio d’anni in commissione Agricoltura al Senato, dove i sostenitori della necessità di forme di tutela per le varietà tipiche si scontrano con quanti vogliono introdurre “criteri di uniformità e parametri certi”. Di certo, un favore ai grandi marchi industriali che vogliono avere le mani libere. «Dob-
di Emanuele Isonio
Eccellenze italiane a rischio. La normativa attuale rende possibile vendere come “originali” varietà di riso meno pregiate, ma più produttive. L’importante è avere risi “biometricamente simili”: contano solo lunghezza e larghezza
C
il presidente del consorzio, Piero Vercellone. «Anzi, permette di vendere come “Carnaroli” o “Arborio” altri risi simili per forma ma non per qualità organolettiche». L’importante, secondo la normativa italiana è che i chicchi siano biometricamente simili. Contano solo lunghezza e larghezza. «Ma così non si valorizzano le nostre eccellenze» prosegue Vercellone. Dal fenomeno si salvano solo i risi che hanno ottenuto i riconoscimenti Ue
CONOSCETE LE VARIETÀ TRADIZIONALI? ITALIANI DISTRATTI (SOPRATTUTTO AL CENTRO-SUD) Totale rispondenti [%]
Nord ovest [%]
Molto
12,1
21,2
14,2
7,7
5,8
Abbastanza
25,8
37,7
30,1
16,9
18,5
Così così
17,6
13,5
13,3
25,1
19,3
Un favore ai grandi gruppi La denuncia arriva dal Consorzio di tutela delle varietà tipiche di riso italiano: «Arborio, Carnaroli, Baldo, Roma, Balilla, Sant’Andrea sono varietà storiche della nostra cultura culinaria (vedi SCHEDE ), ma la legge italiana non le protegge», spiega | 48 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
VIALONE NANO È il capostipite dei risi da risotto. Nasce nel 1937 dall’incrocio tra il Vialone e il Nano. Appartiene ai risi semifini, quindi presenta un corpo piccolo e tondeggiante, molto ricco di amilosio. È molto apprezzato per il chicco morbido e leggero. È ideale per le preparazioni di grande cucina, in alternativa al Carnaroli. Ha una particolare capacità di legarsi a zucche, lumache e selvaggina.
(il Dop Baraggia e gli Igp Vialone Nano veronese e Riso del Delta del Po). Ovviamente da questo stato di cose qualcuno trae vantaggi (e nemmeno troppo marginali). Per capire chi è, basta incrociare due dati: la produzione per ettaro di ciascuna varietà e la resa (la percentuale di riso ottenuta dopo la raffinazione del risone). Facciamo l’esempio del Carnaroli: la varietà “originale” consente di ottenere meno di 50 quintali di risone per ettaro,
Nord est [%]
Centro [%]
Ringraziando il cielo (o meglio il Po e le sue zone paludose), i campi italiani coltivati a riso, oltre alla concorrenza estera, non devono guardarsi le spalle anche dal rischio cementificazione che invece sta minando il futuro di molte altre produzioni agricole. Impossibile costruire palazzi dove i terreni sono invasi dall’acqua. C’è però un altro nemico dal quale guardarsi: sono le pressioni per sostituire il riso con le colture di altri cereali che possano essere destinati all’uso come biogas. Un fenomeno in crescita: «Ci sono sempre più società che gestiscono impianti di biogas a caccia di terreni» ammette un ricercatore di Confagricoltura. Viste le dinamiche di mercato, il compito di convincere i coltivatori non è proibitivo: per affittare un ettaro di terra con contratto ventennale, possono arrivare a offrire 1200 euro al mese. Un’offerta ghiotta per gli agricoltori, visti i magri guadagni ottenibili in altro modo. Ma, senza arrivare all’ipotesi estrema di cedere il proprio terreno e vivere di rendita, anche decidere di passare dalle colture a scopo alimentare (le cosiddette “food”) a quelle per scopi non alimentari (le “non food”) offre vantaggi nient’affatto trascurabili. A parità di cereale coltivato, i costi per le colture non food sono infatti molto più bassi. Prendiamo il caso del mais: coltivarlo per scopi alimentari costa 1500 euro ad ettaro contro i 1000 necessari se il cereale è destinato a diventare biomassa. E ai risparmi nei costi si sommano i maggiori ricavi: i 2200 euro del mais “food” salgono a 3500/4000 del mais “non food”. biamo lasciare la possibilità a chi coltiva Carnaroli di continuare a farlo. E dobbiamo mettere in condizione il consumatore di poter scegliere liberamente», commen-
ta Domenico Pautasso, direttore della Coldiretti di Vercelli. «Se in futuro nessuno richiederà più Carnaroli, allora andremo verso i risi similari».
SETTE NOMI DA TENERE A MENTE
Sud + isole [%]
Poco
21,7
17,3
21,8
22,9
24,7
Niente
22,6
10,3
19,8
27,4
31,7
Non indicato
0,1
-
0,6
-
-
FONTE: ENTE NAZIONALE RISI NDAGINE SUL CONSUMO DI RISO IN ITALIA
he cosa accadrebbe se le leggi italiane permettessero di vendere come parmigiano qualsiasi formaggio purché simile all’originale per forma e dimensioni? O di etichettare come Brunello di Montalcino qualsiasi vino realizzato con acini d’uva rossa purché di grandezza analoga a quella del celebre rosso toscano, indipendentemente dal luogo di produzione e dal loro sapore? Quello che, in altri settori enogastronomici, parrebbe assurdo anche ai profani è invece possibile nel caso del riso.
QUEL NEMICO SILENZIOSO CHIAMATO “BIOGAS”
ARBORIO Nato nell’omonima cittadina vercellese nel 1946, per derivazione della varietà Vialone, per decenni è stato considerato il riso italiano per eccellenza. Tra i risi nazionali è quello con i chicchi più grandi. Il suo elevato contenuto di amido lo rende perfetto per i risotti. La grandezza dei suoi chicchi – la maggiore tra i risi italiani – conserva il nucleo interno, ricco di amido, sempre al dente.
ROMA Molto simile al Baldo, il riso Roma è un altro superfino dai chicchi grossi e semiaffusolati, che assorbono perfettamente qualsiasi condimento, pur rimanendo compatti e ben divisi. Per questo si può utilizzare bollito come contorno in sostituzione del pane. Ma si è affermato nella ristorazione soprattutto per la realizzazione di timballi ed anche per risotti mantecati, tipici della tradizione padana.
CARNAROLI Considerato il “re dei risi” da chef e appassionati, insieme al Vialone Nano questo riso superfino è tra le eccellenze della produzione italiana,. Nasce nel 1945 dall’incrocio tra il Vialone e il Lencino. Il suo amido, molto ricco di amilosio, rende i chicchi alquanto consistenti. Ideale per i risotti più raffinati, ma anche per le insalate di riso e tutte le preparazioni dell’alta gastronomia.
BALILLA È noto anche come riso originario: deriva infatti per selezione dalla prima varietà di riso coltivata in Italia, rimasta l’unica fino a un secolo fa. È un riso dai chicchi piccoli e tondeggianti, con un alto potere di assorbimento e di crescita in cottura. La varietà più adatta per minestre e zuppe, ma è assai utilizzato anche nelle crocchette, negli arancini e nei supplì.
BALDO Derivato dall’Arborio, il riso Baldo è una qualità di superfino di diffusione recente (soprattutto in Lombardia) e ancora non molto conosciuta. Si sta imponendo sul mercato grazie alla sua versatilità. I chicchi sono lunghi e grossi con struttura cristallina e compatta e un’ottima capacità di assorbimento. Il suo impiego ideale varia dai risotti, ai timballi, alle insalate fredde, ai risi al forno.
S. ANDREA Deriva per selezione dalla varietà Rizotto. Appartiene al gruppo dei risi fini ed è caratterizzato da chicchi a struttura compatta. Grazie a questa caratteristica è eccellente bollito e consumato come contorno al posto del pane. È comunque molto versatile: prodotto in particolare nel Vercellese, è soprattutto impiegato per i risotti tradizionali e le minestre di riso.
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Il web in rivolta contro la Coop “anti-liberalizzazioni” di Emanuele Isonio
Obbligo di contratti scritti e pagamenti entro 30 giorni. Coop critica la nuova norma. Sul web il mondo dell’economia solidale protesta e lancia un appello. La replica dell’azienda: l’unico vero regalo è all’industria alimentare arlare di scontro frontale forse è eccessivo. Ma di certo al mondo dell’economia solidale non è andata giù la posizione critica di Coop contro l’articolo 62 del decreto liberalizzazioni approvato dal Parlamento a fine marzo. Basta leggere qualcuno dei commenti apparsi su internet. Analisi rabbiose e grida di dolore: «La Coop non sono io! Perché io mi comporterei molto più eticamente verso soci, dipendenti e mercato in generale». «Cosa sta diventando la nostra Coop?». «Coerenza e trasparenza. È quello che mi aspetto da Coop». «Da socio vorrei che Coop chiarisse quanto prima la sua posizione».
P
La Gdo all’attacco dell’articolo 62 Cerchiamo di ricapitolare la vicenda: la norma della discordia ha imposto i contratti scritti per la cessione di prodotti alimentari. E ha stabilito che il pagamento dei beni deperibili dovrà avvenire entro trenta giorni. Poche righe per un cambio epocale. Salutato con grande entusiasmo dai coltivatori che da tempo denunciano tempi biblici per il saldo delle fatture. Visto, al contrario, come il fumo negli occhi da parte dei grandi gruppi della Gdo. «L’articolo 62 ci andrà a sottrarre tre miliardi di euro l’anno», attacca il direttore generale Conad Francesco Pugliese. «Così com’è scritta la norma rende molto difficile la negoziazione tra le parti. E viola l’indirizzo della Ue in tema di pagamenti», aggiunge Giovanni Cobolli Gigli, presidente | 50 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
di Federdistribuzione. Al coro di critiche si unisce anche Coop che, per bocca del presidente del consiglio di gestione, Vincenzo Tassinari, giudica il decreto «una bomba, che contrasta con l’articolo 41 della Costituzione. Non è che un regalo alle grandi multinazionali e non ha niente dello spirito liberale. È solo un’ingessatura del mercato».
L’appello del mondo gasista Parole – quelle dei vertici Coop – che hanno subito suscitato parecchia irritazione fra i consumatori critici. Pochi giorni di tam tam sul web e quella rabbia ha preso la forma di un appello (consultabile e sottoscrivibile al sito www.firmiamo.it). Nella lettera aperta, i promotori ricordano le radici dalle quali nasce Coop (le società di mutuo soccorso di fine ’800), denunciano il momento difficile dei piccoli produttori «attualmente in condizione di debolezza e dipendenza nei confronti della grande distribuzione che, forte del suo peso, può im-
porre il prezzo, pagando poco e tardi». Sottolineano che in altri Stati europei già esistono «i medesimi obblighi nei pagamenti che il decreto introduce in Italia». E pongono una serie di domande al principale marchio della distribuzione italiana (vedi BOX ). Cinque quesiti per un concetto: come si può dire di essere diversi rispetto al resto della Gdo e non sostenere una norma che aiuta i produttori agricoli?
“Un favore all’agroindustria” La replica dei vertici di Coop all’appello arriva a stretto giro. Ancora una volta, una lettera aperta. Più che una difesa, un rilancio. Per confermare la bontà della propria posizione e fugare i dubbi d’incoerenza. L’articolo 62, secondo l’analisi di Coop, «non sarebbe un aiuto al mondo agricolo italiano, quanto un favore alle grandi industrie alimentari». Il nodo starebbe nel non prevedere alcuna distinzione tra i coltivatori e i big dell’agroindustria. «Noi di Coop – si legge nella lettera – non crediamo che le stesse regole debbano valere per legge per i piccoli come per le multinazionali che non hanno certo bisogno di essere tutelate. Con queste deve valere, in un’economia
LE CINQUE DOMANDE DELL’APPELLO 1. Perché Coop, che si definisce corretta e riceve attestazioni di prestigio nell’ambito dell’eticità, è critica nei confronti del provvedimento del governo, uniformando la propria posizione con il resto della grande distribuzione che non si comporta in modo corretto? 2. Perché Coop, che si dichiara difensore dei piccoli produttori, si scaglia contro un provvedimento che per una volta protegge i deboli contro i forti? 3. Se Coop si comporta correttamente, perché teme un provvedimento che non fa nient’altro che obbligare tutti ad allinearsi a ciò che lei dice di fare già? 4. Possiamo conoscere con quali tempi Coop paga i suoi fornitori, in particolare quelli locali? 5. Possiamo conoscere chi “del mondo agricolo ha convenuto sulle considerazioni” di Coop? (la dicitura compare in un articolo del bollettino Consumatori di marzo scorso, ndr).
ASSEMBLEA GAS 2012: IL TAVOLO RES CONSULTA I TERRITORI L’assemblea annuale dei Gruppi d’acquisto e dei Distretti dell’economia solidale (23-24 giugno a Golena del Furlo, Pesaro-Urbino) sarà l’occasione per verificare l’efficacia di un esperimento. Per la prima volta alla tradizionale riunione del multiforme mondo di Gas e Des si arriverà con un testo preparatorio. Una sorta di bozza per il documento finale che sarà poi approvato al termine dell’assemblea marchigiana. La decisione è stata presa qualche settimana fa, nell’incontro preparatorio dell’evento di giugno. Un esperimento nell’esperimento è poi il metodo di costruzione della bozza di lavoro da portare all’assemblea: i membri del tavolo Res hanno creato una versione preliminare che è poi stata inviata agli animatori dei distretti, che a loro volta l’hanno sottoposta ai Gas del proprio territorio. «L’obiettivo – spiega Andrea Saroldi di Rete Gas – è quello di ottenere commenti e proposte di modifica, per arrivare a giugno con un quadro dei temi cari al movimento gasista». E per avere risposte di mercato, il principio dell’accordo libero tra le parti». Quindi: nessun problema ad accettare il saldo delle fatture a 30 giorni quando si ha a che fare con i soggetti più deboli («noi paghiamo già a 30 giorni e facciamo contratti scritti»). Il problema è che, dietro il paravento della tutela dei piccoli, si consoliderebbe la posizione di chi è già molto forte. A sostegno di tale tesi, Coop indica un dato: «La norma spo-
alle tre domande che rappresenteranno il fulcro della riunione 2012: in questa fase di transizione come vuole muoversi l’universo gasista? Com’è possibile rapportarsi efficacemente con le amministrazioni pubbliche? Com’è possibile lavorare a percorsi culturali comuni? «Speriamo che l’idea di redigere un testo preparatorio possa essere uno strumento che permetta al Tavolo Res di arricchirsi dei contributi dei territori», osserva Massimiliano Pagano, uno degli organizzatori dell’esperimento. «E confidiamo che ci faccia scoprire se è vero che esistono temi comuni che aggregano il nostro movimento». Entro fine maggio sono attese le risposte. Gli organizzatori dovrebbero, infatti, ricevere i contributi dai vari distretti (contano di averne almeno una ventina). A quel punto sarà stilato un primo documento di sintesi che servirà come guida per i lavori di fine giugno. E si potrà capire se l’esperimento ha avuto successo. Em. Is.
sta a favore dei produttori e a detrimento dei distributori una ingentissima massa finanziaria (sei miliardi di liquidità), con evidenti impatti sul conto economico, ma soprattutto sugli equilibri finanziari e patrimoniali delle imprese commerciali». Un’analisi suffragata da due rapporti: quello di Mediobanca sui dati delle principali società italiane divise per settore e l’Annual detailed enterpreise stati-
stics on trade di Eurostat. Le due analisi indicano nello 0,8% annuo la redditività media della Gdo, contro il 3-4% della grande industria alimentare. «La nostra proposta, che non è stata accolta, indirizzava la tutela verso i produttori agricoli e le PMI, ovvero verso quei soggetti che correttamente devono essere tutelati e con i quali Coop vanta una lunga stagione di confronti». Basterà per ricomporre la frattura?
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Prestiti alle imprese I cittadini fanno da garanti
Poliart festeggia trent’anni di ferro
di Valentina Neri
di Elisabetta Tramonto
Una cooperativa sociale, nata per dare un lavoro ad ex tossicodipendenti. Oggi è un’impresa, con lo stesso spirito
L’idea del Volano per il lavoro: un gruppo di persone ha deciso di costituire un fondo di garanzia per realtà economiche non bancabili i fronte alla crisi, sentivamo il bisogno di mettere in discussione le nostre abitudini e di porre a noi stessi una domanda: come si può costruire una forma di convivenza più giusta?». Carlo Saibene racconta così la nascita del progetto Fondo Volano per il Lavoro. Un modo diverso di “fare beneficenza”: invece di aiutare un ospedale, una Ong o un’associazione ambientalista, un gruppo di persone (singoli cittadini, senza alcuna forma associativa) ha deciso di sostenere il lavoro, in Italia, destinando la quota che avevano dedicato alla beneficenza a un fondo di garanzia per permettere di ottenere un credito a realtà economiche che il sistema bancario non avrebbe ritenuto idonee. Ma andiamo con ordine. Carlo è uno dei membri della Comunità di Sant’Angelo, una realtà ecclesiale milanese che fa riferimento ai francescani e ha alle spalle quarant’anni di storia. Insieme a una quindicina di amici ha deciso di “rischiare”. Il verbo può sembrare un po’ forte, ma è proprio quello scelto dal fondatore, Roberto Orlandi, per descrivere il suo approccio: «Ho fiducia nelle tue capacità e quindi rischio su di te». L’idea è semplice: si sceglie una realtà che si vuole sostenere, la si segnala in banca e si fornisce all’istituto di credito il denaro per costituire un fondo di garanzia, destinato proprio a quel progetto specifico. Un fon-
«D
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do a cui la banca potrà attingere nel caso in cui non vengano restituite le rate del prestito, senza il quale probabilmente il credito non sarebbe stato concesso per mancanza di adeguate garanzie. L’istituto di credito in questione è Banca Etica, che ha accettato di partecipare a questo insolito meccanismo di finanziamento (è usuale che un genitore presti garanzia personale a un figlio che vuole accendere un mutuo; non che un gruppo di persone garantisca per un’azienda). Ogni singolo aderente al Fondo Volano può “adottare” un progetto e mettere una quota dei propri risparmi come garanzia. Non una “convenzione” sistematica con la banca, ma gesti totalmente volontari.
«Siamo solo un insieme di persone – specifica Orlandi – che ha deciso di impegnarsi a livello individuale». Un impegno che ha dato i suoi frutti: «In questi ultimi tre anni siamo già arrivati ad appoggiare nove realtà, che hanno potuto assumere un’ottantina di persone», spiega Orlandi. Si tratta, fra le altre, della milanese Poliart (vedi BOX ) e di Vento di Terra (vedi BOX ), che dal capoluogo lombardo arriva a operare fino in Palestina. Oppure della cooperativa sociale Libera-mente di Partinico, in provincia di Palermo, che nel 2009 ha avviato la produzione di limoncello con gli agrumi coltivati sui terreni confiscati alla famiglia mafiosa dei Geraci.
VENTO DI TERRA DA MILANO ALLA PALESTINA Quello di Kalandia, nei pressi di Ramallah, è un campo profughi dalle dimensioni di una vera e propria città: ventimila abitanti quotidianamente alle prese con un contesto di privazioni e precarietà. A garantire una nuova prospettiva ai giovani ha pensato la Onlus Vento di Terra di Settimo Milanese che nel 2009 ha fondato Peace Steps, una cooperativa no profit che produce sandali in cuoio naturale e, a partire da quest’anno, anche borse e accessori, commercializzati in Italia tramite la cooperativa Nazca e il circuito del commercio equo e solidale. «La situazione del campo è gravissima – spiega il presidente di Vento di Terra, Massimo Rossi – perché ci sono problemi di tensione continua. La cooperativa ha retto in questi anni e ha diversificato significativamente la produzione». Tanto che l’anno scorso ha deciso di scommettere di nuovo sulla Palestina con la cooperativa Silver Tent, che ha sede in una zona poverissima della Valle del Giordano tra Gerusalemme e Gerico e ha promosso il recupero della tradizione di artigianato locale, per dare a sei donne dell’etnia beduina Jahalin la possibilità di guadagnarsi da vivere occupandosi della produzione di gioielli. Per finanziare questi progetti servivano 25 mila euro, ottenuti tramite un fido concesso da Banca Etica su garanzia del Fondo Volano. Ma, spiega Massimo Rossi, «con la comunità di Sant’Angelo c’è una relazione consolidata da anni, che vive di incontri, iniziative congiunte, viaggi in loco. È la nostra formula: diamo ai partner e ai donor la possibilità di avere una relazione diretta coi nostri progetti e coi beneficiari».
Rumore di lamiere tagliate, di viti avvitate, di un nastro trasportatore. Da un lato, ben allineati, dei monoliti di alluminio, grigi per ora. Diventeranno gialli e finiranno in giro per Milano: agli angoli delle strade, fuori dai supermercati e dalle parrocchie. Sono i cassonetti per gli abiti usati con cui la Caritas raccoglie vestiti per gli indigenti o da vendere per raccogliere fondi per l’associazione. Ce ne sono migliaia a Milano. A realizzarli è una cooperativa sociale, con una storia lunga trent’anni. Cade quest’anno, infatti, il trentesimo compleanno di Poliart, una cooperativa di tipo B creata nel 1982, per dare un lavoro ad ex tossicodipendenti, in una delle zone più difficili del capoluogo lombardo, il Giambellino. 129 i soci fondatori, quasi tutti legati alla parrocchia del quartiere, san Curato d’Ars. «All’epoca non esisteva l’idea di collegare le comunità di recupero dei tossicodipendenti a un progetto di integrazione», spiega il presidente, Renato Bozzetti. «Noi abbiamo voluto creare l’anello di congiunzione tra prima e dopo il recupero». All’inizio i lavoratori della cooperativa si occupavano di piccoli lavori in casa: imbiancature, interventi di muratura e di idraulica. «La prima commessa è stata l’imbiancatura delle case di tutti i soci», racconta Renato Bozzetti. In trent’anni molte cose sono cambiate: i soci sono scesi a 22, di cui 10 lavoratori, e la cooperativa non si occupa più di imbiancare muri. Oggi è una carpenteria metallica, con la sede produttiva in un grande capannone a Settimo Milanese. Nata sulla spinta del volontariato, oggi Poliart è un’impresa a tutti gli effetti, moderna ed efficiente, ma il suo obiettivo è rimasto lo stesso: il reinserimento di soggetti a rischio di emarginazione. Due i principali business: i cassonetti per la raccolta degli indumenti usati e le griglie metalliche per i camini.
«Quando è scoppiato l’allarme sicurezza dei cassonetti per la raccolta degli abiti usati, dopo che si erano verificati dei decessi di persone cadute mentre rovistavano, abbiamo progettato un modello che rispettasse tutti gli standard di sicurezza», racconta il presidente. Così Poliart ha ricevuto commesse per i cassonetti, a Milano e non solo (anche in Veneto, a Genova e a Napoli), mentre un’altra cooperativa sociale, Vestisolidale, si occupava del lato commerciale. Aria di crisi La crisi si è fatta sentire, per tutti, Poliart compresa. La differenza per le cooperative – lo abbiamo scritto più volte sulle pagine di Valori – è la modalità con cui reagiscono nei momenti difficili. «Nel 2010 c’è stato un vero e proprio crollo, il fatturato si è dimezzato, abbiamo registrato una perdita di 50 mila euro», racconta Renato Bozzetti. «Per non lasciare a casa nessuno le abbiamo tentate tutte: tagliare del 10% gli stipendi, rinunciare alle tredicesime, la cassa integrazione al 50% per tutti per più di un anno. Per fare tutto questo è necessario che la base dei soci sia d’accordo. Da noi lo era». E poi c’è la passione dei soci, soprattutto i fondatori, che non hanno mai smesso di credere nella “loro” cooperativa. Una mano in questi anni difficili è arrivata anche dal fondo Volano, che ha fornito la garanzia per due prestiti concessi da Banca Etica: uno da 25 mila euro nel 2008 e un altro analogo nel 2011. «È stato un grosso aiuto – commenta Bozzetti – invece di firmare fideiussioni, abbiamo avuto una garanzia da parte del fondo». Nel 2011 il lavoro è ripartito un e c’è stato il pareggio con 500 mila euro di fatturato. E per quest’anno? Gli amministratori della Poliart hanno previsto entrate per 650 mila euro. Purtroppo però i primi mesi non sembrano così rassicuranti. Incrociamo le dita. www.poliart.org
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Terra Futura Il lavoro al centro di Irene Palmisano e Simone Siliani
Torna a Firenze, dal 25 al 27 maggio la mostra-convegno sulle buone pratiche di sostenibilità. Tra i temi di quest’anno: l’erosione dei diritti dei lavoratori, causata dall’inarrestabile finanziarizzazione dell’economia avorare stanca”, scriveva Cesare Pavese, tuttavia, aggiungiamo noi, non lavorare uccide. Questo è sicuramente l’enigma della Sfinge della nostra contemporaneità: da un lato il lavoro. Fiaccato, svuotato della sua funzione sociale, ricollocato nel tessuto produttivo come fattore variabile, di flessibilità. Dall’altro, la necessità di aver-
“L
LA LEGALITÀ ALLA LUCE DEL SOLE Riflettori puntati sulla legalità il 26 maggio alle 15.30 alla Fortezza da Basso, a Firenze. Terra Futura ospiterà il convegno “La legalità alla luce del sole”, promosso da Score (Stop Crimes on Renewables and Environment) col patrocinio di Filca Cisl. I partner del progetto lavorano per indagare sulle infiltrazioni criminali nella filiera del legno, delle energie rinnovabili e nello smaltimento dei rifiuti: un giro d’affari che, solo in Italia, vale venti miliardi di euro ogni anno. Il progetto Score vuole assistere coloro (imprese, pubbliche amministrazioni e società civile) che si impegnano nel contrasto alla criminalità organizzata e che dovrebbero essere i primi interlocutori dell’ampliamento del quadro legislativo di riferimento, che attualmente risulta troppo poco omogeneo tra livello europeo e livello territoriale. Discuteranno sul tema, tra gli altri, il magistrato Michele Prestipino, la giornalista economica Nunzia Penelope e Domenico Pesenti di Filca Cisl. A moderare il dibattito sarà Mauro Meggiolaro, giornalista di Valori e de Il Fatto Quotidiano. V.N.
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ne, pena l’esclusione economica e sociale, resa ancora più drammatica dalla debole risposta del sistema di welfare. Sono solo alcuni dei presupposti da cui prende le mosse la riflessione sul lavoro che avrà luogo a Terra Futura, la mostra-convegno internazionale sulle buone pratiche di sostenibilità, ospitata dal 25 al 27 maggio nella Fortezza da Basso di Firenze.
Valore economico e valore sociale Il tradizionale appuntamento fiorentino servirà per indagare il profondo fenomeno di erosione dei diritti, messo in luce dalla crisi, che definiamo come “perdita di valore del lavoro”, intendendo non solo il “valore economico”, bensì anche la sua funzione sociale e culturale, quale perno di una strategia di coesione e di espansione dei diritti (individuali e collettivi) che determinano la qualità delle relazioni sociali e della democrazia. Il percorso intrapreso di smantellamento del lavoro, nell’accezione moderna dei diritti conquistati in uno stato di welfare, sta inequivocabilmente mettendo a rischio un’esperienza europea e soprattutto italiana che faceva del lavoro uno dei maggiori fattori di realizzazione di sé, dell’individuo e di costruzione di quel peculiare legame che collega tra loro le persone e tutto il vivente in una prospettiva di sostenibilità. La crisi nella quale siamo immersi ormai da anni agisce con logorio su questo cardine della società umana.
La finanziarizzazione dell’economia, l’impresa che diventa essa stessa un settore della finanza, relegando in secondo piano la sua funzione sociale e quella produttiva. L’esternalizzazione della produzione su scala mondiale, con grandi imprese che hanno cessato di produrre al proprio interno i loro manufatti, distribuendoli in una miriade di piccoli e medi fornitori e produttori nelle più distanti parti del globo, mettendo in conflitto fornitori con fornitori, lavoratori con lavoratori, territori con territori, istituzioni con istituzioni, contribuendo così a spezzare le catene di solidarietà, elementi prodigiosi di coesione sociale. Solo cercando di capire queste dinamiche è possibile riprendere un percorso di uscita dalla crisi che restituisca senso al lavoro, dignità ai lavoratori e sostenibilità alla produzione e al mercato. A Terra Futura discuteremo questi temi con il contributo di studiosi ed esperti che sono il punto di riferimento di un pensiero “altro” sui temi dello sviluppo rispettoso, da Susan George e Vandana Shiva, da Marco Revelli a Walter Ganapini, da Enrico Giovannini a Cecilia Brighi. Sono solo alcuni dei nomi che interverranno nei tre convegni dedicati al lavoro, declinato rispetto a tre valori imprescindibili per un cambiamento positivo: ambiente (venerdì 25, “Riconversione ecologica dell’economia”), equità (sabato 26, “Legalità, equità e lavoro”), benessere (domenica 27, “Benessere e lavoro”).
| presidenziali Usa |
STEPHEN MORTON / THE NEW YORK TIME / CONTRASTO
internazionale
Riuscirà Obama a conquistare per la seconda volta la fiducia degli elettori statunitensi? La partita è ancora molto aperta e il risultato non scontato
Usa 2012
Lo scontro tra Barack Obama e il candidato repubblicano si giocherà in buona parte su temi economici. Al centro della battaglia la riforma della finanza approvata nel 2010: Wall Street, intanto, si è già schierata apertamente con Romney
Nelle urne fisco, debito e lobbisti di Andrea Barolini
imenticate ambiente, guerre, energia, sicurezza. Le prime battute della campagna elettorale per le prossime presidenziali degli Stati Uniti hanno tracciato un solco (mono)tematico. Come era facile immaginare, l’economia è e sarà il centro nevralgico dello scontro tra Obama e il candidato repubblicano che gli contenderà la poltrona. E, in particolare, al centro del dibattito ci sarà l’intreccio perverso tra finanza speculativa, banche, real-estate e deregulation che ha fatto crollare l’intero sistema (non solo negli States). Ma da quali basi si parte? Piccolo passo indietro pro-memoria: nel 2010 l’amministrazione di Washington si è impegnata – con successo, per lo meno dal punto di vista parlamentare – nel difficile compito di far approvare dal Congresso una riforma, la Dodd-Frank, che avrebbe dovuto segnare l’inizio del nuovo corso. Tradotto: addio alla finanza senza regole sponsorizzata da Alan Greenspan e avallata a lungo anche da larghi ambienti democratici (leggi amministrazione Clinton); via alla “stretta” sulla vigilanza e profonda riforma dei sistemi finanziari, a cominciare da quelli più apertamente speculativi.
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Cannonate dai lobbisti Fin qui le intenzioni. I cambiamenti, in realtà, sono stati mal digeriti da una buona parte del mondo politico. E soprattutto da Wall Street, che ha scatenato un’offensiva senza precedenti, ottenendo anche i primi, non indifferenti, risultati (vedi BOX ). I lobbisti hanno così cominciato un lavoro certosino di “smantellamento” della riforma. Sfruttando – indovinate un po’? – proprio la prospettiva delle elezioni presidenziali di quest’anno. Barack Obama dovrà, infatti, tentare un lavoro da vero e proprio equilibrista: convincere gli americani a concedergli un secondo mandato nonostante una congiuntura economica ancora lontana dall’ingranare una decisa ripresa e con un tasso di disoccupazione che risulta sì in leggero recupero, ma che è ancora prossimo ai massimi storici. Di “fucilate” contro la riforma DoddFrank, così come contro il progetto di regola Volcker (Volcker rule), per separare le attività delle banche d’affari da quelle retail, ne sono già partite molte. Ma ora i lobbisti possono passare alle armi pesanti: quelle legate ai finanziamenti
I sei principali finanziatori della campagna di Mitt Romney, il candidato repubblicano, nel 2011 sono manager e gruppi legati al Gotha della finanza: Bank of America, JPMorgan Chase, Citigroup, Goldman Sachs... Il nodo delle tasse…
elettorali. Wall Street, in questo senso, non ha perso tempo, voltando le spalle alla Casa Bianca e schierandosi decisamente dalla parte del candidato conservatore che più facilmente contenderà la Stanza Ovale ad Obama: Mitt Romney. I nomi che figurano negli elenchi ufficiali della Federal Election Commission – organismo incaricato di vigilare sulla macchina elettorale – sono eloquenti: i
sei principali finanziatori della campagna del politico repubblicano sono risultati nel 2011 manager e gruppi legati al Gotha della finanza: JPMorgan Chase, Morgan Stanley, Credit Suisse, Citigroup, Bank of America e Goldman Sachs. Prendiamo quest’ultima (un esempio per tutti): i finanziamenti concessi a Romney sono stati pari a 496 mila dollari contro i soli 63 mila andati ad Obama.
Ciò nonostante il presidente sembrerebbe deciso a puntare ugualmente – e fortemente – sulla bontà della riforma finanziaria. Secondo ciò che trapela dal suo entourage, il Dodd-Frank act e la Volcker rule potrebbero costituire uno dei cavalli di battaglia per la prossima campagna elettorale. E se la “freccia” è la guerra contro la finanza-casinò, “l’arco” dovrà essere forzatamente la questione fiscale. Niente, infatti, terrorizza di più Obama che l’essere etichettato come “l’uomo delle tasse”. In tal senso, le accuse mossegli negli ultimi anni di adottare un approccio economico “socialisteggiante” (come nel caso del braccio di ferro parlamentare sul budget del
DODD-FRANK, VITTORIE E “SLALOM” DELLA LOBBY BANCARIA Dopo aver speso qualcosa come 473 milioni di dollari per le attività di lobby nel 2011, l’industria finanziaria si prepara a uno sforzo analogo per l’anno in corso. Alla porta della Commodity futures trading commission, ad esempio, hanno bussato 110 compagnie solo nel primo trimestre dello scorso anno; la Securities industry and financial markets association ha poi inviato a vario titolo 68 commenti alla riforma Dodd-Frank, mentre l’American bankers association ne ha scritti 52. Un vero e proprio braccio di ferro con l’amministrazione Obama. Che, d’altra parte, ha già dato in buona parte i suoi frutti. Il 29 giugno scorso, ad esempio, la Fed ha alzato a 21 centesimi le commissioni pagate per ciascuna transazione dai commercianti americani, mentre la riforma indicava un massimo di 12 centesimi. Per le banche si è trattato di una vittoria da 16 miliardi di dollari. Ma l’obiettivo di Wall Street è stato (ed è) soprattutto quello di ritardare l’applicazione di numerose nuove regole. O altrimenti di aggirarle: è il caso di Deutsche Bank, che potrebbe rinunciare allo statuto di holding bancaria negli Stati Uniti proprio per evitare di doversi ricapitalizzare secondo quanto imposto dal Dodd-Frank act. La stessa strada la potrebbe seguire anche l’inglese Barclays. Una scappatoia troppo facile, come confermato anche da Daniel Tarullo, dirigente della Fed, che parlando al Senato americano ha ammonito: «È necessario rispondere». Tra le dilazioni temporali, poi, potrebbe entrare anche la Basilea 3. Lo stesso Tarullo ha glissato sulla possibile adozione negli Usa delle nuove norme di capitalizzazione entro i termini stabiliti (ovvero entro la fine di aprile). Allo stesso modo, ha ammesso che difficilmente la Volcker rule sarà pubblicata alla scadenza prevista del prossimo 21 luglio. D’altra parte, lo stesso Paul Volcker ha dichiarato di aspettarsi «forti resistenze da parte degli istituti coinvolti». A.B.
La norma è in vigore dallo scorso ottobre, e i primi risultati dovrebbero arrivare entro il 30 aprile: scadenza entro la quale verranno resi noti i dati relativi alle operazioni dei trader.
Finanza, sarà l’anno dei primi cambiamenti? di Andrea Barolini
Contro i provvedimenti contenuti nel Dodd-Frank act da due anni si sta scatenando il fuoco di fila dei soliti noti: grandi banche, fondi e compagnie di assicurazioni che cercano di conservare lo status quo Potrebbe essere il 2012 l’anno della svolta per il sistema finanziario degli Stati Uniti. Molte delle novità introdotte per riformare Wall Street dovrebbero entrare, infatti, in vigore – o manifestare i primi effetti – nel corso di quest’anno. In particolare si attendono i risultati di una serie di normative imposte dalla Securities and exchange commission (Sec) e dalla Federal reserve (Fed), a “corredo” del Dodd-Frank act approvato (faticosamente) nel luglio del 2010 dal Congresso Usa. Provvedimenti contro i quali da due anni si sta scatenando il fuoco di fila dei soliti noti: grandi banche, fondi e compagnie d’assicurazione, che tentano – a colpi di proclami, bracci di ferro e milioni di dollari – di conservare il più possibile lo status quo.
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I rapporti chiesti dalla Sec La Sec ha emanato un regolamento che impone agli hedge funds, alle società di private equity e ad altri soggetti (ma solo quelli che presentano asset di valore rispettivamente superiore a 1,5, 2 e 1 miliardo di dollari, che in ogni caso dovrebbero rappresentare circa l’80% del sistema) di sottomettere rapporti specifici sul loro “potenziale rischio sistemico”. Ovvero sulla loro capacità eventuale di causare un tracollo generalizzato, in caso di default. I dati contenuti in tali documenti – che comprenderanno anche le esposizioni divise per asset, per concentrazione geografica e per turnover – saranno poi girati al Financial systemic oversight council (Fsoc), organismo creato dalla stessa legge Dodd-Frank per monitorare i rischi presenti nel sistema finanziario. Occorrerà aspettare l’estate, però, perché arrivino i primi rapporti. La vigilanza sui “grandi trader” Sempre la Sec, lo scorso 26 luglio, ha approvato un regolamento che impone ai “grandi trader” di registrarsi presso lo stesso organismo di vigilanza, al fine di ottenere un codice identificativo.
In tal modo si potranno conservare i dati relativi alle compravendite effettuate, scovando più facilmente eventuali abusi. Per “grandi trader” si intendono quelli che movimentano almeno 2 milioni di azioni al giorno o 20 milioni al mese, oppure che eseguono compravendite per un valore complessivo non inferiore a 20 milioni di dollari al giorno o 200 milioni al mese.
I piani di smantellamento dei “big” Altre novità riguardano invece i grandi istituti. In particolare banche e compagnie talmente grandi da essere considerate “di importanza sistemica”. In questo caso è stata la banca centrale, la Fed, a rendere operativa un’altra novità introdotta dal Dodd-Frank act. Si tratta dei cosiddetti living wills, ovvero pianificazioni strategiche annuali finalizzate a indicare la strada che occorre percorrere per smantellare ciascun istituto too big to fail in caso di fallimento. Proprio per questa ragione, buona parte del lavoro è costituita dalla descrizione puntuale delle strutture organizzative (quando crollò Lehman ci vollero mesi e mesi solo per ricostruirne tutti i business). In questo modo si dovrebbe facilitare anche il lavoro della Federal deposit insurance corporation, organismo che si occupa di offrire una garanzia sui depositi fino a 250 mila dollari custoditi presso le banche fallite. Il via della Federal reserve alla norma è arrivato a ottobre del 2011: i “living wills” più attesi, ovvero quelli relativi alle società che detengono asset dal volume superiore ai 250 miliardi di dollari, dovranno essere comunicati entro il prossimo 1 luglio 2012. Alle banche più piccole, invece, sarà invece concesso più tempo.
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…e quello del bilancio D’altra parte, però, il 9 gennaio di quest’anno il buco nel bilancio statale americano è arrivato a 15.230 miliardi di dollari. Un’enormità. Per questo sono partite le richieste – non solo repubblicane – di tagli draconiani, a cominciare dalla contestatissima riforma della sanità (vedi ARTICOLO ). Inevitabile conseguenza la prospettiva di una campagna elettorale a base di “revisioni dei conti”, dall’una e dall’altra parte. «Manca la copertura finanziaria, non si può fare», sarà il leit motiv dello scontro elettorale, c’è da scommetterci. I candidati avranno vita dura nell’indicare con quali capitali intendo-
no finanziare i loro progetti. E la massima cautela possibile dovrà essere usata proprio sull’argomento tasse. Obama ha dichiarato, più o meno apertamente, di voler far suo l’appello lanciato nell’agosto del 2011 dal multimiliardario Warren Buffett, che dalle colonne del New York Times chiese apertamente di «tassare i più ricchi». Autodenunciando la propria, risibile, aliquota media fiscale: il 17%, contro il 36% dei suoi stessi dipendenti. «Ciascun americano paghi la sua giusta parte», aveva tuonato il presidente sulla scia della “confessione” del finanziere (era settembre, e nelle strade si faceva largo il movimento “Occupy Wall Street” al grido: «Noi siamo il 99%!»). Ecco allora la ricetta abbozzata dalla Casa Bianca: imposizione fiscale progressivamente più ampia per i redditi più alti, aumento delle entrate anche
grazie alla lotta all’evasione, ripresa economica e, ovviamente, mantenimento della riforma sanitaria. Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia, ha però ricordato che, per riformare il sistema fiscale, occorrerà prima superare le vaste concessioni di cui beneficiano le rendite da capitale dalla fine degli anni Novanta, quando in cambio di un programma per la sicurezza sociale dei bambini, l’allora presidente Clinton concesse al Congresso (repubblicano, come oggi) un pacchetto di maxi-sconti sui capital gains. Proprio per lavorare a un progetto di riforma tributaria in senso più equo ed efficiente è stato istituito da Obama un panel bi-partisan. Nei prossimi mesi dovrebbero essere fornite le prime indicazioni. Sempre che l’organismo non finisca anch’esso nel frullatore elettorale a stelle e strisce.
LA BATTAGLIA SULLA RIFORMA SANITARIA DI OBAMA La riforma del sistema sanitario americano, cavallo di battaglia di Barack Obama nel 2008, si potrebbe trasformare in un boomerang per il presidente-candidato democratico. Ribattezzata con scherno “Obamacare” dai repubblicani, la legge con la quale l’amministrazione di Washington intendeva fornire una copertura sanitaria anche ai 32 milioni di americani che sono ad oggi sprovvisti di un’assicurazione privata è attualmente, di fatto, congelata. A deciderne le sorti sarà la Corte suprema, che dovrà giudicare in merito al ricorso presentato dalla stessa Casa Bianca contro una sentenza della corte d’appello della Georgia (prima in ordine di tempo, seguita poi da altri 26 Stati). I giudici hanno, infatti, giudicato incostituzionale l’obbligo imposto dalla norma a tutti i cittadini statunitensi di dotarsi di una polizza entro il 2014 (pena l’applicazione di sanzioni). Il governo ha presentato appello: occorrerà dunque attendere un nuovo pronunciamento, al massimo grado di giudizio, per conoscere il destino della riforma. Nel frattempo, è indubbio che il tema costituirà uno degli elementi di scontro con il candidato conservatore che si opporrà ad Obama. Secondo i repubblicani, infatti, il costo della “Obamacare” sarebbe altissimo: fino a 940 miliardi di dollari in dieci anni. Capitali che il Paese, alle prese con il tentativo di minimizzare l’esposizione debitoria, avrebbe difficoltà a trovare. Per Mitt Romney (così come per qualsiasi altro candidato alla presidenza Usa) sarà utilissimo insistere sul tema, visto che secondo alcuni sondaggi solo il 19% degli americani ha giudicato positiva la riforma sanitaria. Il tutto è poi inevitabilmente condito da questioni puramente ideologiche:
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Obama ha già dovuto fare marcia indietro su alcuni punti, a cominciare dalla separazione netta che ha dovuto imporre tra i capitali pubblici e i premi pagati per i rimborsi relativi alle interruzioni di gravidanza. Una vittoria in particolare per l’ala più conservatrice del partito repubblicano: il Tea Party di Sarah Palin che potrebbe giocare un ruolo decisivo per le scelte del candidato conservatore. A.B.
La scommessa dei nuovi Brics di Corrado Fontana
Da Paesi emergenti a prossimi pilastri dell’economia, capaci di condizionare la geopolitica internazionale: con Alessandro Volpi parliamo dell’ipotesi della testata americana The Atlantic su quali saranno i Brics di domani rasile, Russia, India, Cina e Sudafrica: nel gergo dell’economia politica di tutto il mondo più semplicemente Brics, acronimo coniato nel 2001 dalle iniziali dei Paesi. Oggi che la forza dirompente di queste economie appare consolidata, si sono aperte le “scommesse” per individuare i “Brics” del futuro. Ci prova il quotidiano on line di Washington The Atlantic, che ha proposto recentemente 5 nomination – Turchia, Indonesia, Kazakistan, Repubblica Democratica del Congo e Messico – più una con un “forse” accanto: la Nigeria. Abbiamo sottoposto la tesi della testata americana al vaglio di Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea e di Geografia politica ed economica all’Università di Pisa, per capire se davvero l’acronimo Brics diventerà Tikcm (o Ntikcm o Mintck o…).
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Professor Volpi, stanno emergendo nuovi Brics? «In linea di massima vedo due differenze rispetto ai Brics: la prima è che mi sembrano mediamente economie più piccole. Stiamo parlando di Paesi che hanno un Pil grosso modo al di sotto dei mille miliardi di dollari, piccoli nelle dimensioni economiche, quindi anche nell’impatto che possono avere sulle grandi dinamiche globali, soprattutto pensando a Cina, India e Brasile. Il secondo dato è che mi sembrano, a una prima analisi, molto condizionati da rapporti preferenziali rispetto alla politica estera e al-
la politica commerciale di Usa e Cina; mi sembra abbiano una dinamica economica più da Paesi satellite. Sono inoltre Paesi molto legati alle esportazioni e con valute relativamente fragili, veicolo per la competitività, ma, al tempo stesso e in parte, a rischio inflazione. Questi elementi suscitano qualche dubbio. È chiaro che ci sono anche punti positivi, per esempio rispetto alla disponibilità di materie prime. O come nel caso del Messico, dove oggi il costo della manodopera è a livelli cinesi, avendo in più il vantaggio dei costi di trasporto, verso gli Usa, relativamente bassi». Che ruolo giocano le politiche militari delle grandi potenze e la condizione “satellitare” cui si riferiva? «I rapporti militari con gli Usa sono un elemento rilevante: sia dal punto di vista generale della geopolitica e della presenza militare, sia dal punto di vista dei rapporti in termini di commesse militari. Sono Paesi che, avendo una funzione di stabilizzazione di determinati scenari
Dal momento che la forza delle economie di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica appare consolidata, si sono aperte le “scommesse” per individuare quali saranno le nuove entrate
assegnatagli da un decennio o forse più dalla politica estera americana, ricevono da questo legame un volano anche per le relazioni economiche. Non solo. Alcuni di questi Paesi hanno all’interno tensioni di natura religiosa, elemento che può provocare rallentamento e che determina la preoccupazione statunitense di inserirli in una scacchiera di contenimento di questi fenomeni: altro volano economico, seppure di autonoHTTP://THEPIPELINE.PBN.RU
2011), insieme al risentimento delle fasce più ricche – e spesso influenti – della popolazione, possono costituire dei calci di rigore politici per il partito repubblicano.
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L’ORO NERO DI KASHAGAN Nelle pagine internet di Eni sul progetto si legge: «Nell’ambito del North Caspian Sea Psa, in cui Eni partecipa con il 16,81%, nel luglio 2000 è avvenuta una delle scoperte più importanti degli ultimi trent’anni. Si tratta del giacimento gigante di Kashagan, situato 80 km a sud-est di Atyrau (Kazakistan), nel Mar Caspio settentrionale. Appartengono a quest’area anche i campi di Kashagan South West, Kalamkas, Aktote e Kairan […] Il piano di sviluppo prevede la messa in produzione, in fasi successive, di riserve pari a 7-9 miliardi di barili, incrementabili fino a 13 miliardi mediante la reiniezione parziale del gas».
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INDICI DI CORRUZIONE PUBBLICA
I PAESI EMERGENTI SECONDO THE ATLANTIC NIGERIA (forse) La Nigeria dovrebbe essere in cima a questa lista. Paese popoloso e il più ricco di petrolio dell’area dopo la Libia, potrebbe presto segnare un tasso di crescita economica a due cifre. Ma il governo nigeriano, afflitto dalla corruzione e dalle rivendicazioni di indipendenza dei ribelli del Nord, gestisce le sue risorse male. Inoltre povertà assoluta, diseguaglianze e inflazione sono in crescita.
TURCHIA Tre delle sue città sono tra le dieci che mostrano il tasso di sviluppo più rapido, secondo il Brokings institute. Istituzioni democratiche forti e cultura imprenditoriale stanno guidando il boom della finanza e delle costruzioni. E le città potrebbero diventare centri di produzione per l’esportazione verso l’Europa. Colpisce il tasso di crescita all’11% nel 2011: il Paese si sta posizionando come leader del mondo musulmano per il Medio Oriente e l’Asia Centrale.
KAZAKISTAN A lungo percepito come satellite post-sovietico, sta facendo meglio di quanto l’immagine del film Borat vorrebbe far credere. Ricco di risorse e stretto a sandwich tra la Cina e la Russia, è ben posizionato per trarre profitto da una prossima ascesa dell’Asia. Paese scarsamente popolato ma stabile e ricco di fonti di energia interessanti. Il governo sta investendo in infrastrutture e nei settori non solo energetici.
PUNTEGGIO GRANDE PULIZIA
9 - 10 8 - 8.9 7 - 7.9 6 - 6.9 5 - 5.9 4 - 4.9 3 - 3.9
GRANDE CORRUZIONE
2 - 2.9 1 - 1.9 0 - 0.9 No dat
LINK UTILI
MESSICO Dodicesima economia al mondo, sta crescendo con ritmo costante da un decennio. Tre dollari su quattro delle sue esportazioni provengono dagli Stati Uniti, il che distingue il Messico dai Paesi in via di sviluppo come la Turchia, che si basano sulla zona euro in difficoltà. La bilancia commerciale miscela manufatti e risorse naturali, rendendo il Paese resistente alle fluttuazioni dei prezzi delle materie prime. Città del Messico è una delle città economicamente più vivaci del mondo.
mia decisamente limitata. Alcuni di questi Paesi, infine, hanno un tasso di violenza interna ancora molto alto» (RdC, Messico e Kazakistan figurano nei primi 100 al mondo per morti violente ogni 100 mila abitanti secondo The Global Burden of Armed Violence: Lethal Encounters su dati 2004-2009, ndr). Manca qualche nome alla lista di The Atlantic? «È difficile dirlo. Molti dei Paesi citati sono esportatori molto legati alle commodities (materie prime, ndr). In questi casi le loro prospettive dipendono perciò dal| 62 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO Corruzione e guerra hanno fatto del Congo un sinonimo di disastro, ma sono in atto progressi significativi verso la realizzazione del suo enorme potenziale economico. Il commercio di minerali congolesi alimenta l’urbanizzazione, una piccola borghesia, lo sviluppo delle infrastrutture, e una nascente industria delle telecomunicazioni. Se il Paese conserverà la stabilità politica, la crescita continuerà. Lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto rende la sua agricoltura competitiva.
la finanziarizzazione dei prezzi; da quale sarà il treno che hanno scelto, se è quello di beni il cui prezzo sale oppure no, e ciò dipende a sua volta dall’andamento complessivo dei mercati come dalla crisi dei debiti sovrani. Anche il fattore demografico è rilevante: il Kazakistan, ad esempio, è una realtà piccola, ma con una colossale opportunità rappresentata dal bacino petrolifero di Kashagan, che lo rende un Paese che può crescere e oggetto d’interesse da più parti, Italia compresa (Eni, ndr). Non pochi parlano di Paesi che avranno un futuro significativamente felice
La tabella The Corruption Perceptions Index 2011 elaborata da Transparency International valuta secondo una scala di valori compresi tra 10 e 1 (dove 10 è il miglior risultato) quanto il settore pubblico di ciascun Paese sia percepito come corrotto. Posizione in classifica INDONESIA Quarto Paese al mondo per popolazione (238 milioni di abitanti), con un’economia in crescita dal 1997. A differenza della Cina, che dipende fortemente dalle esportazioni, l’Indonesia vende soprattutto sul mercato interno, il che significa che può sopportare meglio le crisi statunitensi ed europee. Il debito è basso, gli investimenti diretti esteri elevati, le istituzioni democratiche giovani ma solide, una volta arginati i focolai di terrorismo.
proprio perché sono dei micro-Stati, come l’Estonia o le Mauritius (Morgan Stanley li ha inseriti nella sua lista). Ma anche un Paese come l’Argentina potrebbe avere nei prossimi anni una fortuna economica significativa: grazie alla recente ristrutturazione non ha sulle spalle un pesante debito sovrano. Il grande interrogativo è capire, nella sostanza, quali di questi Stati avranno la capacità di diventare, oltre che esportatori, anche Paesi con un valido mercato interno. Da questo punto di vista la Turchia ha alcuni elementi di fragilità (le importazioni crescono molto di più delle esporta-
1
Paese
Valore indice corruzione pubblica
www.theatlantic.com/special-report/next-globaleconomies, The Atlantic http://alessandrovolpi.wordpress.com, Il blog di Alessandro Volpi
Nuova Zelanda
9,5
61
Turchia
4,2
GLOSSARIO
69
Italia
3,9
BRICS: l’acronimo indica Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. È stato coniato nel 2001 da Jim O’Neill, curatore di una relazione della banca d’investimenti Goldman Sachs intitolata Building Better Global Economic BRICs e ribadito nel 2003 con Dreaming with BRICs: The Path to 2050. Secondo O’Neill il Pil di questi Paesi nel 2050 sarebbe stato paragonabile a quello dei Paesi del G6 (Stati Uniti d’America, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia e Italia).
100
Messico e Indonesia
120
Kazakistan
2,7
143
Nigeria
2,4
168
Repubblica Democratica del Congo
2
182
Somalia
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zioni), ma si configura con una fascia di consumatori significativa e ha ristrutturato il sistema bancario. Interessante, con tutti i limiti del caso, è poi la Corea del Sud, che mostra una straordinaria competitività del sistema produttivo con un problema di moneta, lo Won, a rischio inflazione. Ma sta diventando il Giappone del futuro». Corruzione e mala amministrazione sono veri ostacoli allo sviluppo? «Tema molto spinoso. Spesso l’economia risente solo parzialmente dei grandi fenomeni di corruzione. In alcuni casi que-
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sto elemento pesa e si traduce in una sostanziale inefficienza della macchina amministrativa con innumerevoli balzelli (vedi TABELLA Corruption perception Index). In altri casi il sistema della corruzione finisce per essere consustanziale al modello. Laddove, infatti, grandi compagnie di Stato e aziende pubbliche gestiscono vasti traffici (ad esempio in Indonesia), da un lato si è esposti al rischio della corruzione e del suo costo aggiuntivo, ma dall’altro questo fenomeno di polarizzazione individua per l’investitore estero una sorta di interlocutore ben definito. Paradossalmente, purtroppo,
dal punto di vista delle dinamiche economiche questo diventa funzionale perché l’investitore estero parla con un soggetto unico, molto spesso legato al gruppo di potere al vertice di quel Paese e ha una sorta di certezza delle relazioni, sebbene siano distorte, drogate dalla corruzione. Sono Paesi non democratici, ma con regimi politici stabili, fattore che in qualche modo fa da contraltare alla corruzione». E i mercati apprezzano talvolta più la stabilità della mancanza di corruzione… «Temo di sì». | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 | valori | 63 |
| internazionale | osservatorio medio oriente/Bahrain |
| internazionale |
Le isole dell’Eden Fiscale
PICCOLO TRA GIGANTI Abitato fin dalla preistoria, l’arcipelago è stato sede di importanti imperi commerciali, che si avvalevano della loro posizione centrale sulle rotte tra la Mesopotamia e la valle dell’Indo. Assiri, babilonesi e greci si sono succeduti sulle isole; dopo aver sperimentato il cristianesimo, lo zoroastrismo e il manicheismo, nel VII secolo la maggior parte degli abitanti delle isole accettò l’invito personale del profeta Maometto a convertirsi all’Islam. All’inizio del XVI secolo il Bahrain fu conquistato dai portoghesi, che utilizzarono le isole come porto per il commercio delle perle e come base militare. In seguito le isole entrarono a far parte dell’impero persiano, fino all’arrivo del clan Al-Khalifa, la famiglia che ancora oggi guida il Bahrain. Tra il 1830 e il 1840 il Bahrain firmò il primo di una serie di trattati con la Gran Bretagna, di protezione navale dagli attacchi dei turchi ottomani in cambio del libero accesso al Golfo. Il petrolio venne scoperto nel 1902: i lavori di estrazione e lavorazione su vasta scala ebbero inizio negli anni ’30, proprio nel momento in cui il mercato mondiale delle perle cominciava a perdere importanza. Nel 1935 i britannici stabilirono la principale base navale della regione nel Bahrain e, nel 1946, anche l’autorità militare britannica principale nel Medio Oriente si trasferì sull’isola. Dopo l’indipendenza dal Regno Unito, il 14 agosto del 1971, la base della Royal navy nel sobborgo di Juffair passa agli Stati Uniti che vi installano la sede del Comando centrale delle forze navali e della V flotta. La base ospita attualmente 4.800 soldati in servizio con le loro famiglie, oltre a circa 1.300 contractor; inoltre decine di migliaia di marinai sono distribuiti nella regione, a bordo delle navi della flotta (tra cui due portaerei, l’Enterprise e la Carl Vinson). Hamad bin Isa Al-Khalifa, succeduto al padre nel 1999, ha spinto alcune riforme economiche e politiche e trasformato l’emirato in regno, in parte per migliorare le relazioni con la comunità sciita. Nel 2001 le donne hanno votato per la prima volta al referendum costituzionale. Il programma di “dialogo nazionale” con l’opposizione inaugurato da Hamad non ha dato grossi risultati e le rivolte sono continuate, anche a fronte di arresti e licenziamenti di massa degli attivisti sciiti che chiedono una nuova Costituzione e giustizia nei trattamenti di lavoro. Da marzo fino a giugno dello scorso anno, con il sostegno economico e militare del Consiglio della cooperazione del Golfo, re Hamad ha dichiarato lo stato di emergenza che autorizza i militari a prendere tutte le misure per “proteggere la sicurezza del paese e dei suoi cittadini”. La polizia ha utilizzato spesso lacrimogeni letali e proiettili di gomma per disperdere i manifestanti e ha fatto vittime anche tra febbraio e marzo 2012. Il Consiglio ha deciso uno stanziamento decennale di 20 miliardi di dollari nei confronti di Oman e Bahrain a sostegno della loro lotta contro le proteste arabe.
di Paola Baiocchi
Il piccolo regno insulare, meno ricco di riserve petrolifere degli altri Paesi del Golfo Persico, investe nei marchi del lusso e attira capitali esteri
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L’arcipelago del tesoro Il Bahrain è un arcipelago costituito da 33 isole nel Golfo Persico con una super| 64 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
ficie pari quasi a quella di Singapore. L’isola principale è a metà strada circa tra l’Arabia Saudita (a Ovest) e il Qatar (a Est). L’Iran si trova 200 km a Nord-Est dall’altra parte del Golfo. Le isole sono in parte fertili e coltivate e ancora più lo erano anticamente, tanto che si ipotizza qui vi fosse il biblico Giardino dell’Eden. L’arcipelago è ancora un paradiso, ma con “delizie” di genere fiscale: il Bahrain è infatti il crocevia della finanza araba e di quella tradizionale, che qui si incontrano in un contesto che il Wall street journal e l’Index 2011 dell’Heritage foundation, il think tank conservatore di Washington, hanno definito «l’economia più libera del Medioriente e del Nord Africa, e la 44ma del mondo». Soprattutto per via dell’accordo di libero commercio che il Bahrain, primo tra gli Stati del Golfo, ha sottoscritto nel 2005 con gli Usa per ridurre gli “ostacoli commerciali” tra i due Paesi (US-Bahrain Free trade agreement). Di diverso parere il nostro governo, che ha inserito il Bahrain nella black list dei paradisi fiscali fin dal 1999.
Gucci e Tiffany: le nuove perle Il regno del Bahrain non vanta gli enormi giacimenti petroliferi degli altri Paesi del Golfo Persico, anche se le entrate del settore degli idrocarburi rappresentano il 60 per cento del bilancio: vengono estratti 40 mila barili di greggio al giorno e le riserve dovrebbero durare tra i 10 e i 15 anni. Mentre quelle del gas dovrebbero durare altri 50 anni. La Bahrain petroleum company,
IL GRATTACIELO CON LE PALE Il settore dell’immobiliare di lusso nei Paesi del Golfo è la gioia degli architetti di tutto il mondo, che qui possono cimentarsi in progetti innovativi e iperbolici. Come il Bahrain World trade center che caratterizza il profilo di Manama: un grattacielo ispirato alle torri del vento della tradizione araba, in cui sono state inserite tre turbine eoliche a collegamento tra le due “vele” che formano l’albergo e il lussuoso centro commerciale alla sua base. Le pale sfruttano la brezza onshore e garantiscono la produzione del 12/13% dell’energia che serve all’edificio alto 240 metri, realizzato con tutti gli accorgimenti costruttivi per ottenere il massimo dell’efficienza energetica e del risparmio idrico.
costituita nel 1935, è stata la prima industria di raffinazione dell’area. La raffineria ha una capacità di circa 250 mila barili al giorno e riceve dall’Arabia Saudita il greggio da raffinare via oleodotto.
Le attuali perle più famose del Bahrain non sono quelle pescate nel Golfo, ma una serie di veicoli di investimento che stanno facendo acquisti molto diversificati in tutto il mondo e, come negli emirati vicini, stanno riversando ingenti capitali su costruzioni avveniristiche, soprattutto nella capitale (vedi BOX ). Tra queste società Investcorp è la più conosciuta nel mondo: è una banca d’investimento quotata alla Borsa di Bahrain specializzata in private equity, hedge fund e venture capital che opera su tre centri – Bahrain, Londra e New York – con una “sua capacità unica di posizionamento” nel Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), l’organizzazione economica tra i sei Stati arabi (oltre al Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti). Ma molta della sua notorietà Investcorp la deve al fatto che ha acquistato fin dagli anni Ottanta importanti marchi del lusso come Gucci, Tiffany e Saks.
IL PAESE IN CIFRE Ordinamento politico: monarchia costituzionale Capitale: Manama Superficie: 760 kmq Indipendenza: 15 agosto 1971 dal Regno Unito Popolazione: 1.248.348, di cui bahraini 62,4%, stranieri 37,6%* Lingue: arabo, inglese, farsi, urdu Religione: musulmani 81,2% di cui 70% circa sciiti; cristiani 9%; altri 9,8 Moneta: dinaro del Bahrain Alfabetizzazione**: 86,5% (maschi 88,6%; femmine 83,6%) Mortalità infantile: 10,2 morti/1.000 nati Speranza di vita alla nascita: 78,29 anni Disoccupazione: 15% (stima 2005) Popolazione sotto la soglia di povertà: nd Attività: raffinazione e lavorazione del petrolio; fusione dell’alluminio; lavorazione del ferro; fertilizzanti; banche islamiche e offshore; assicurazioni; riparazioni navali; turismo Pil: 30.8 miliardi $ (stima 2011) Pil pro capite: 27.300 $ (stima 2011) Debito estero: 15,2 miliardi $ Spese militari: 4,5% del Pil (2006) * censimento 2001 ** popolazione di 15 o più anni in grado di leggere e scrivere
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FONTE: CIA WORLD FACTBOOK, 2012
ino alla fine di aprile i più informati sulla situazione socio-politica del Bahrain, l’unico regno insulare del Golfo Persico, non sono stati gli osservatori dei media, ma i tifosi della Formula 1, in attesa di sapere se la seconda gara del Mondiale di automobilismo si sarebbe svolta sul circuito di Sakhkir, oppure sarebbe stata spostata in un altro Paese per motivi di sicurezza. Già l’edizione del 2011 del Gp del Bahrain, infatti, non si era potuta disputare per il clima di instabilità politica dovuto agli scontri tra la maggioranza sciita (70% circa) che rivendica maggiori riconoscimenti e i sunniti, che occupano i principali ruoli di potere. Il team della McLaren è stato per tutto il tempo favorevole allo svolgimento della competizione nel circuito nel deserto alle porte della capitale, Manama. Ma il suo appoggio non stupisce perché la scuderia automobilistica è per il 50% di proprietà di un fondo di investimenti locale, il Bahrain Mumtalakat holding, che è stato creato nel 2006 nell’ottica di diversificare l’economia dagli idrocarburi, che il Paese segue dalla seconda metà degli anni ’40. Il Mumtalakat ha partecipazioni in 35 imprese commerciali tra le quali Bahrain telecommunications Co, Gulf international bank e controlla l’Aluminium Bahrain, una delle più grandi fonderie di alluminio del mondo.
| LASTNEWS |
altrevoci INDIA, NOVARTIS CI RIPROVA NUOVA CAUSA ANTI-GENERICI
LA PROTESTA DI FILETTINO IL COMUNE BATTE MONETA A distanza di sei anni, Novartis ci riprova e riporta in tribunale le industrie farmaceutiche indiane. L’obiettivo rimane quello della prima volta: impedire la produzione e la vendita delle versioni generiche del farmaco anti-cancro Glivec, che, a parità di efficacia, costano fino a dieci volte in meno dell’originale. La prima volta, i giudici indiani diedero torto alla multinazionale svizzera ma l’appiglio legale individuato dai suoi avvocati questa volta potrebbe essere sufficiente per costringere la Corte suprema indiana a ribaltare la sentenza. «Novartis è più che mai decisa a continuare la battaglia legale – spiega Rohit Malpani, portavoce di Oxfam – ed è determinata a stabilire un precedente. Se vincesse la nuova causa, rivendicazioni dello stesso tipo, pendenti in altri tribunali, potrebbero essere accolte». Un successo economico enorme per l’azienda. Un danno incalcolabile per milioni di malati di cancro e di Hiv/Aids che possono permettersi le cure solo usando la versione generica dei farmaci (arriva dall’India il 90% delle medicine anticancro e anti-Aids usate nel mondo). [EM.IS.]
HTTP://IPSNEWS.NET
Tutto iniziò quando il governo l’anno scorso decise di accorpare i Comuni più piccoli per tagliare enti inutili. Prospettiva inaccettabile per il Paese dei mille campanili e dei diecimila campanilismi. Da lì partì la rivolta del comune laziale di Filettino, 600 anime a 50 chilometri da Frosinone, capeggiata dal sindaco Luca Sellari: l’idea (irrealizzabile) di uno splendido isolamento sotto forma di un Principato, la proposta (rifiutata) di nominare Emanuele di Savoia proprio principe, una soluzione (che ha fatto il giro del mondo) per risolvere i problemi economici dei suoi abitanti. E così Sellari ha iniziato a batter moneta e a distribuirla al suo popolo: il Fiorito – con tanto di effige del sindaco su un lato – ha un rapporto di due a uno con l’Euro ed è utilizzabile in molti negozi del paese. Un modo per raddoppiare il potere d’acquisto e stimolare gli acquisti nei circuiti commerciali locali, sulla scia dei tanti esperimenti di moneta complementare. Il successo della prima tiratura (10 mila banconote) ha spinto a emetterne altre 20 mila. I cittadini sembrano soddisfatti dell’idea. I commercianti pure di più. A livello locale l’iniziativa può portare una boccata d’ossigeno all’economia del territorio. Se si mutuasse a livello nazionale, si chiamerebbe, più semplicemente, inflazione galoppante. [EM.IS.]
USA, LE CITTÀ ANCORA VITTIME DELLA CRISI IMMOBILIARE A oltre cinque anni dallo scoppio della bolla immobiliare, quali sono le città d’Oltreoceano in cui i prezzi delle case continuano a scendere? Finora – spiega il periodico Kiplinger – si trattava di centri in California, Nevada, Arizona e Florida, dove le valutazioni erano lievitate durante il boom per poi sgonfiarsi velocemente insieme alla bolla. Ma in molti di questi casi, negli anni, si è assistito dapprima a una stabilizzazione e poi a una ripresa. Attualmente la situazione è critica in zone in cui è stata la recessione, in un secondo momento, a innescare il crollo delle vendite. Ad esempio Atlanta, dove i prezzi il 31 settembre 2011 avevano perso il 14% in un anno e il 46,8% rispetto al secondo trimestre del 2006, momento del boom Usa. Atlanta è stata teatro di una pesante speculazione edilizia e di un enorme ricorso ai mutui subprime : come risultato, ora è pignorata una casa su 89, a fronte di una media generale di una su 213. A Flint, la città natale di General Motors, i prezzi sono calati addirittura del 67,1% rispetto al 2006. Reno, nota soprattutto per il gioco d’azzardo, è nona negli Usa come tasso di pignoramenti (un’abitazione su 67): i prezzi sono scesi del 59% dal 2006 e del 13,1% in un anno. Rispetto al 2006, le valutazioni immobiliari hanno perso il 43,4% a Roanoke, in Virginia, il 41,4% a Trenton, in New Jersey, e il 51,4% a Birmingham, in Alabama. [EM. IS.]
HEDGE FUNDS L’UE FRONTEGGIA LE LOBBIES Della direttiva Alternative Investment Fund Managers si parla ormai da anni. Si tratta di un’iniziativa della Commissione europea che stabilisce nuove regole, in termini di gestione e trasparenza, che gli hedge funds dovranno rispettare se vogliono essere autorizzati a operare all’interno dell’Europa a 27. La bozza del testo è stata votata lo scorso anno: ma la strada sembra ancora lunga. E, quando all’inizio di aprile ha iniziato a circolare un’integrazione di un centinaio di pagine volta a implementare la direttiva, i rappresentanti dei fondi speculativi non hanno perso l’occasione per farsi sentire. Si tratterebbe, a detta loro, di norme «estremamente problematiche», che si allontanano nettamente dalle linee guida fornite dalla European Securities and Markets Authority. Il commissario europeo al Mercato interno, Michel Barnier, ha assicurato di non aver intenzione di «farsi intimorire»: «Nonostante la pressione da parte di chi cerca di riaprire vecchie questioni – ha dichiarato –, non abbandoneremo i nostri sforzi per assicurarci che tutti gli attori del sistema finanziario, che siano banche o hedge funds o altri istituti, siano regolamentati in modo appropriato».
MALAWI: LA FEMMINISTA PRESIDENTE QUASI PER CASO Joyce Banda è la prima donna presidente dell’Africa sub-equatoriale, e la seconda del Continente: la prima donna presidente è stata nel 2005 Ellen Johnson Sirleaf, che ha vinto le elezioni in Liberia (e nel 2011 ha ricevuto anche il Nobel per la pace). A differenza della sua collega liberiana, Joyce Banda è arrivata alla presidenza un po’ per caso: succedendo al 78enne presidente Bingu wa Mutharika, deceduto per un infarto ad aprile. Joyce Banda ha 61 anni ed è una combattiva femminista che ha iniziato in Kenya la sua attività. A 25 anni ha lasciato il marito che la maltrattava dopo averlo denunciato. In Malawi ha cominciato come segretaria, poi ha avviato una produzione di abiti e creato l’Associazione nazionale delle donne imprenditrici, che ha raccolto 30 mila donne. In Parlamento come deputata dal 1999 e considerata “amica” dei cinesi, è stata ministro degli Esteri dal 2006 al 2009 e vicepresidente fino al decesso del presidente. Mutharika, dopo averla scelta, l’aveva cacciata dal partito togliendole anche l’auto di rappresentanza, senza però riuscire a strapparle la carica. La cerchia di Mutharika ha cercato fino all’ultimo di impedire la sua nomina, come prevede la Costituzione, ma il piano è fallito per le pressioni degli Stati Uniti e dell’Europa che hanno chiesto il rispetto della Carta costituzionale.
LA SCOSSA DEL MICROCREDITO
BENI COMUNI A ROMA NASCE COMUNE-INFO
QUANTO BASTA PER LA SOSTENIBILITÀ
A tre anni dal terremoto le macerie restano, l’impegno istituzionale per la ricostruzione de L’Aquila latita, ma il successo di Microcredito per l’Abruzzo supera le aspettative. Fanno notizia gli oltre tre milioni e 830 mila euro di crediti erogati da gennaio 2011 al 31 marzo 2012 nell’ambito dell’iniziativa, coordinata da Etimos Foundation in partnership con Consorzio Etimos, Abi-Associazione bancaria italiana, Federazione delle Bcc di Abruzzo e Molise, Associazione Qualità e Servizi, Caritas diocesana de L’Aquila. Un intervento dal forte impatto sociale (l’80% dei prestiti è andato a microimprese, il 39% delle quali in fase di start-up), che si è tradotto in un totale di 191 finanziamenti suddivisi fra imprese (114), cooperative (9) e famiglie (68). E poiché il microcredito si è rivelato strumento utile per soggetti altrimenti “poco o affatto bancabili” (famiglie in difficoltà, artigiani e commercianti della popolazione colpita dal devastante sisma del 6 aprile del 2009), Marco Santori, presidente di Etimos Foundation, ha reso noto che l’esperienza abruzzese sarà presa a modello per altri progetti destinati ad altri territori italiani. A tale scopo è nato “MxIT-Microcredito per l’Italia”, impresa sociale che lancerà nelle prossime settimane la campagna per la costituzione del proprio fondo che diverrà operativa nel corso dell’anno.
La strada da percorrere non è delle più agevoli ma il progetto è ambizioso: riuscire a fare informazione indipendente, senza investimenti economici certi alle spalle, sul tema dei beni comuni, argomento spesso trascurato dai media generalisti e ancor più spesso sotto attacco grazie all’attività di lobby ben più potenti e danarose. Tanto più se il territorio di riferimento è quello della Capitale d’Italia. A tentare l’iniziativa è Comune-info (http://comune-info.net), sito promosso da un gruppo di giornalisti, ricercatori, artisti, formatori e operatori sociali ma aperto ai contributi dei cittadini. Un nuovo portale alter-economico nato con l’obiettivo di ripensare il modello di organizzazione di una città difficile come Roma e del territorio circostante. «Siamo convinti – spiega Gianluca Carmosino, tra i promotori di Comune-Info – che il variegato universo dei movimenti possa dare un contributo importante per la nostra città. Ma sentiamo il bisogno di nuovi linguaggi, nuove pratiche, nuove contaminazioni. Dobbiamo riuscire a parlare a tutti. Sia con chi già condivide punti di vista critici sulla società e sull’economia sia con chi ha altre proposte».
Potete chiamarlo Festival dell’economia ecologica – per comprenderne immediatamente il significato – o potete citarlo con un nome di maggior impatto, cioè Quanto Basta: l’appuntamento, giunto alla terza edizione, è il medesimo e si svolge tra martedì 5 e sabato 9 giugno. “Dove” lo si evince dalla frase che ne sintetizza i temi del 2012 (Dall’ecologia alla democrazia: il futuro sostenibile passa da Piombino), per una cinque giorni di dibattiti, confronti e ospiti internazionali. Il bello di questo festival è però che, per una volta, della discussione su certe tematiche non si fanno portatori solo il mondo delle ong e dell’economia alternativa ma anche, convintamente, le istituzioni locali (Regione Toscana, Provincia di Livorno, Comune di Piombino e Camera di Commercio di Livorno), che promuovono la kermesse in prospettiva di un’amministrazione locale di senso. Protagonisti saranno quindi la tutela del paesaggio, lo sviluppo e la gestione responsabile del territorio, i processi di riconversione economica, il ruolo dei parchi come strumento di politiche per lo sviluppo, il piano paesaggistico regionale, le modalità di riconversioni delle città, l’introduzione di prodotti innovativi, il valore e la funzione delle colture biologiche e biodinamiche, l’economia ecologica come vettore di sviluppo e di lavoro. Una volta si diceva “glocal”.
[C.F.]
[EM.IS.]
[C.F.] www.quantobastafestival.com
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| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it
DA TRIESTE I COLORI DELL’INSERIMENTO SOCIALE “Da vicino nessuno è normale”. Chi ha partecipato alla nona edizione di “Fa’ la cosa giusta!” avrà di sicuro notato questa citazione di Franco Basaglia campeggiare sulle magliette e sulle felpe dai colori sgargianti nello stand di L180.it. Una frase ancora più significativa perché chi ha lavorato a quelle maglie deve confrontarsi tutti i giorni col difficile tema della “normalità”. L180.it, infatti, è un progetto della cooperativa sociale di tipo B “Confini impresa sociale”, che, tra le altre sue attività, ha aperto una serigrafia all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste. Un progetto avviato ormai da cinque anni, che – testimoniano i soci della cooperativa – «funziona», grazie anche alla collaborazione col circuito del commercio equo e con alcuni negozi della zona. Il risultato? Capi d’abbigliamento artigianali in cotone organico bio, certificati fair trade e stampati con colori a base acqua, senza utilizzo di solventi. Ma, soprattutto, concrete opportunità lavorative per persone svantaggiate, con un’attenzione particolare per una condizione delicata come il disagio psichico. www.l180.it
UN AIUTO AGLI ARTIGIANI DEL VINO NATURALE I produttori che ottengono vini di qualità, tramite metodi biologici e biodinamici, sono tanti. Ma spesso non hanno la forza – in termini commerciali – per farsi spazio. IL CAFFÈ DEL CARCERE Circa 150 di loro hanno trovato un appoggio in Giovanni DAL CHICCO ALLA TAZZINA Camocardi, fondatore di Officina Enoica, un’associazione con sede a Milano che fa da intermediaria per portare Le “lazzarelle”, in napoletano, sono ragazzine un po’ vivaci. alla ribalta i piccoli viticoltori. Per associarsi bisogna dare E Lazzarelle è il nome della prima cooperativa campana che ha scelto di operare in carcere, fondando un laboratorio prova di lavorare da “artigiani”, presentando un campione di torrefazione all’interno della casa circondariale femminile del proprio vino corredato di analisi chimiche. Camocardi di Pozzuoli. Tre detenute, assunte con un regolare contratto, è chiaro: «Noi non diamo soldi e non riceviamo soldi: infatti non vendiamo vino né chiediamo una quota associativa. si occupano di tutto il processo: dalla composizione della Il nostro obiettivo è la relazione diretta fra produttori miscela alla tostatura, dalla macinazione e consumatori». Una relazione che si stabilisce al confezionamento in buste. Una fase, quest’ultima, in cui partecipando insieme alle fiere, organizzando giornate è stata eliminata la pellicola d’alluminio, alla ricerca di soluzioni ecocompatibili proprio in una città tristemente nelle aziende agricole e istituendo un sistema di vendita e scambio che salti i passaggi intermedi, in modo da offrire famosa per il problema dello smaltimento dei rifiuti. «All’interno del carcere – spiega con un sorriso la presidente vini pregiati a prezzi contenuti e garantire in ogni caso un guadagno onesto al viticoltore. «Non è vero che Paola Maisto – abbiamo trovato donne forti: non volevamo relegarle ai soliti ruoli stereotipici. Ci piaceva l’idea di donne la produzione biologica è più costosa», afferma. «In campagna se non si usano trattamenti chimici torrefattrici». L’attività va avanti, guardando in faccia si spende meno: piuttosto si ha una quantità di prodotto le difficoltà: «La crisi ci sta colpendo tantissimo, col calo limitata, perché si sfrutta meno il terreno. Le parole dei consumi e l’aumento di tutte le spese, dal trasporto d’ordine, in sintesi, sono sempre tracciabilità, alla distribuzione. Senza contare la speculazione enorme autocertificazione, filiera corta. Possono sembrare slogan, sul prodotto iniziale, il cui prezzo è triplicato». Ma ne vale ma sono proprio gli elementi che fanno la differenza». la pena e «siamo abbastanza testarde da andare avanti». www.officinaenoica.org www.caffelazzarelle.jimdo.com
IN TOSCANA L’AMBIENTE SI INSEGNA A SCUOLA Acariss: un acronimo che significa “accrescere le conoscenze sull’ambiente e i rischi connessi all’inquinamento coinvolgendo le scuole con la sperimentazione”. Il progetto vuole diffondere un nuovo approccio allo studio delle materie scientifiche, con un occhio di riguardo per temi come il cambiamento climatico e l’inquinamento. L’idea è dei ricercatori dell’Istituto di biometeorologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e del dipartimento di Psicologia dell’Università di Firenze. Tecnicamente il metodo scelto si chiama Inquiry Based Science Education: un processo “dal basso” in cui gli studenti sono messi di fronte a un tema e sono invitati a indagare, fare domande e ideare in prima persona un esperimento che consenta loro di arrivare “per gradi” alla comprensione. Le classi di una quindicina fra istituti comprensivi, licei e istituti tecnici toscani si sono già messe alla prova. Le loro esperienze (dalla costruzione di un robot ecologico alle misure della respirazione del suolo) sono raccontate quotidianamente tramite un blog: ma saranno presentate anche in occasione di Terra Futura, a Firenze dal 25 al 27 maggio. www.acariss.it | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 | valori | 69 |
| ECONOMIAEFINANZA | a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it
NOVE SU DIECI SONO PIÙ POVERI Mario Pianta Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa Laterza, 2012
In Italia negli ultimi dieci anni la forbice tra ricchi e poveri si è allargata sempre di più. Ogni ricco ha il reddito di cento poveri; i redditi e la ricchezza si sono concentrati nelle mani di una persona su dieci. Il declino del Paese non ha risparmiato nessuno: vecchi e giovani, uomini e donne, da Nord e Sud. In Italia e in Europa i Robin Hood funzionano al contrario, perché hanno tolto ai poveri per dare ai ricchi, rendendo il lavoro più debole e il capitale più forte, impoverendo il sistema manifatturiero per aprire a una finanza di rapina che ha portato al tracollo economico del 2008. Cambiare rotta per costruire un benessere sostenibile e avere un’economia più giusta si può, attraverso politiche adeguate che cambino la struttura dell’imposizione fiscale, per colpire la ricchezza, riducendo l’evasione e per evitare gli eccessi nel divario tra le remunerazioni.
L’ECONOMIA GIUSTA HA BISOGNO DI INTELLIGENZA
LA CRISI RENDE TUTTO INTERESSANTE
RELAZIONI PERICOLOSE TRA BANCHE E FONDAZIONI
La ricerca di un’economia giusta è il tema di questo tempo “maledetto”, segnato da una crisi che non se ne va e che scava dentro le divisioni sociali. Edmondo Berselli lo affronta con un saggio veloce, denso e pungente, proprio com’era nelle sue corde. Per capire dove siamo occorre capire da dove siamo partiti. E così Berselli ripercorre le politiche che hanno segnato l’Italia e l’Europa dall’Ottocento fino a oggi con un approccio e un linguaggio efficace che tiene insieme tutto: l’economia, la storia, la politica e la sociologia. Il game over è già arrivato: finita l’era del “pensiero unico monetarista” non ci sono più risposte e nemmeno alternative, quelle che c’erano hanno fallito. Così dovremo abituarci ad avere meno risorse, meno soldi in tasca. In una parola, dovremo fare i conti con la povertà. «Se il mondo occidentale andrà più piano, anche tutti noi dovremo rallentare. Proviamoci, con un po’ di storia alle spalle, con un po’ d’intelligenza e di umanità davanti».
Ci sono maledizioni che si nascondono dietro frasi benauguranti. Una di queste è cinese e dice: «Che tu possa vivere in tempi interessanti». L’autore la rivolge ai filosofi radicali novecenteschi e agli accademici di sinistra di oggi, che guardano con nostalgia a rivoluzioni lontane, mentre possono continuare a godere dei declinanti comfort del nostro sistema democratico. Abbiamo ottenuto ciò che volevamo, perché la catastrofe è in atto e ci siamo trovati proiettati in “tempi interessanti”: la crisi del capitalismo è ormai diventata crisi permanente. Con un originale misto di filosofia e cronaca, Žižek ci mette di fronte l’incapacità dell’Occidente di uscire dall’inazione e, per farlo, utilizza gli argomenti più vari: dallo sviluppo del cloud computing alle ambiguità di WikiLeaks, dal disastro petrolifero del Golfo del Messico alla crisi del vulcano islandese, dalle riforme universitarie alle vere e false versioni del fondamentalismo religioso, dalle ragioni del fallimento del comunismo novecentesco al perché la Cina sia uno dei pochi Paesi in grado di reagire prontamente alle crisi del capitalismo.
Se c’è un aspetto che ha segnato negli ultimi anni il sistema creditizio italiano è il rapporto tra le fondazioni bancarie e le banche di cui sono azioniste. Per capire come funziona non c’è niente di meglio che partire da un caso pratico, come quello tra la Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, la Banca Regionale Europea e il gruppo Ubi Banca. I soggetti sono di primaria importanza: la fondazione è tra le prime dieci in Italia, la banca è la prima tra le aziende di credito con sede legale in Piemonte; Ubi Banca è tra i primi cinque gruppi bancari nazionali. La Banca Regionale Europea è tra le banche più solide a livello di sistema. Bilanci a posto, ottima redditività, sofferenze al minimo. Ma nel marzo 2010 la fondazione delibera la sfiducia nei confronti del presidente della banca, di cui controlla una partecipazione, e nomina al suo posto, nel consiglio di gestione del gruppo, di cui è tra i primi azionisti, il presidente del collegio sindacale. Perché? Nessuno sa spiegarlo: la business community cuneese è compatta nel deplorare la decisione. Poi si scopre che il presidente della fondazione, titolare di un’azienda in difficoltà, se l’è fatta ricapitalizzare da una società che fa capo al presidente del collegio sindacale, con cui è socio in affari, il quale viene catapultato al ruolo di banchiere nazionale. Ha senso, dunque, che le fondazioni esercitino influenza nella governance delle banche?
Edmondo Berselli L’economia giusta Einaudi, 2012
Slavoj Žižek Benvenuti in tempi interessanti Ponte alle Grazie, 2012
Carlo Benigni Le mani sulla banca Donzelli Editore, 2012 | 70 | valori | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 |
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Lavoro
Diritti negati per giusta causa
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D
dal cuore della City Luca Martino
eventi degli ultimi due decenni sui fronti socio-economico e geo-politico, l’idea di un mercato globale delle merci, degli scambi e delle rendite nel quale le equazioni economiche dominanti non siano di tipo liberista non viene contestata praticamente in nessun Paese del mondo. E, se appare pleonastico chiedersi perché spinte al cambiamento non vengano oggi dai quei Paesi che fino a ieri rappresentavano il Sud del mondo, non ci si capacita del perché, in Europa come negli Stati Uniti, le ragioni della stragrande maggioranza della comunità non riescano a influenzare le politiche economiche dei nostri governi. Anzi, nel compromesso globale per il controllo su materie prime e manodopera dei Paesi emergenti, l’Occidente è pronto a barattare alcuni punti cardine del nostro Stato di diritto. In Italia, con la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, si vuole dare il messaggio che, se non in caso di “ragioni” discriminatorie (ovviamente), non può esservi licenziamento che neghi alcun diritto di un qualsiasi lavoratore: la pratica verrà o archiviata per giusta causa o risolta con un indennizzo, vere o presunte che siano le motivazioni dietro a episodi di tipo disciplinare o economico. Peraltro, fosse anche riconsiderato il diritto al reinte-
Costituzione italiana, sancendo che la Repubblica si fonda non già sul lavoro, ma sul capitale o meglio sul saggio di profitto delle imprese. Sarebbe altrettanto onesto intellettualmente rimuovere l’effige, non di Brodolini ma di Abramo Lincoln, dalle banconote da 5 dollari: all’elettorato del Wisconsin, ben prima che Marx elaborasse la teoria sulla lotta del capitale contro il lavoro, il presidente cui tutti i presidenti degli Stati Uniti dicono di ispirarsi, ebbe a dire che «il capitale è solo il frutto del lavoro e non potrebbe esistere se non esistesse il lavoro: il lavoro è superiore al capitale, lo anticipa e ne è indipendente». Ma perché, in attesa di riformare il sistema economico mondiale all’insegna di qualcosa che, scomparso il comunismo, superi anche il capitalismo come l’abbiamo pensato e sperimentato fino ad oggi, non si procede a quella tassa dello 0,05% sulle transazioni finanziarie che, secondo l’ultimo Rapporto sullo Sviluppo Umano dell’Onu, garantirebbe un gettito annuo di circa 700 miliardi di dollari? In un decennio si abbatterebbe la povertà in molte aree del Pianeta e in Occidente si sosterrebbe quello stato di diritto che rischia di venir sacrificato sull’altare della giusta causa del capitalismo globale.
TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT
opo la caduta del muro di Berlino anche quei Paesi che avevano sperimentato, pur grossolanamente, modelli economico-sociali diversi dal nostro – Russia, Europa dell’Est, Cina, ma anche Brasile e India – hanno abbracciato, spesso altrettanto grossolanamente, i più classici tra i principi dell’economia liberista. Ad oggi, quindi, nonostante i catastrofici
Oggi quasi nessuno discute i dogmi del liberismo. E anche l’articolo 18 ne fa le spese gro per i licenziamenti “senza giusta causa”, quale corte potrà mai negare la “giusta causa” legata alla funzione di utilità del profitto implicita nel sistema economico liberista? Come contestare la logica secondo la quale, essendo il profitto pari alla differenza tra ricavi e spese, una riduzione del personale (in caso di crisi, ma anche di frode o di mala gestio aziendale non apparenti di per sé) risulta naturalmente inevitabile? In realtà questo tipo di flessibilità avrebbe una sua logica solo nel caso in cui i lavoratori compartecipino alla gestione di tutte le variabili dell’equazione (come avviene in Germania) oppure si garantiscano politiche di welfare degne di questo nome (come nei Paesi Scandinavi). Altrimenti, sarebbe opportuno riformare anche l’articolo primo della
todebate@gmail.com | ANNO 12 N. 99 | MAGGIO 2012 | valori | 73 |
| action! |
L’AZIONE IN VETRINA COAL INDIA LIMITED 10 apr 2012:
COALINGIA.NS 333,00
Il rendimento in Borsa di Coal India Limited negli ultimi dodici mesi (in marrone), confrontato con l’indice S&P 500 (in arancio)
^GSPC 1403,28
15% 10% 5%
0%
-10%
-15% 2011
Giu
Lug
Ago
Set
Ott
Nov
Dic
azionariato attivo sbarca sulle coste dell’India, nella Regione del Bengala occidentale. La spedizione è guidata da Chris Hohn, che, con il suo fondo speculativo The Children’s Investment Fund (Tci) è conosciuto per il suo passato di azionista aggressivo. Il fondo di Hohn ha preso di mira il primo produttore di carbone in India, il più grande al mondo: Coal India Limited (Cil). Tci, con quasi il 2% di azioni, è il più importante investitore estero. Agli inizi di aprile Tci ha accusato la compagnia indiana di manipolare, su ordine del Governo, il prezzo di vendita del carbone, sottostimandolo di circa il 70% rispetto al prezzo di mercato e danneggiando la compagnia, gli azionisti e i cittadini indiani, perché il Governo rinuncerebbe a enormi ricavi. Hohn è deciso a tutelare gli azionisti di minoranza con tutti i mezzi, anche seguendo vie legali. L’obiettivo finale è l’aumento del valore per gli azionisti. L’azionariato attivo, come lo intendono Valori e Banca Etica, è una cosa un po’ diversa: mira anche a obiettivi sociali e ambientali. Ma intanto Hohn ha aperto la strada. Un azionista attivo in India non si era ancora visto.
L’
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L’AZIONISTA DEL MESE
L’azionariato attivo arriva in India
UN’IMPRESA AL MESE
FONTE: YAHOOFINANCE
-5%
2012
Feb
Mar
Apr
a cura di Mauro Meggiolaro e Francesco Zoppeddu
The Children’s Investment Fund (TCI)
www.ciff.org
Sede Londra - Regno Unito Tipo di società Tci è un fondo speculativo (hedge fund) creato nel 2003 da Chris Hohn. Fa investimenti a lungo termine in società che operano a livello globale. Parte dei profitti è destinata a una fondazione per opere di carità nei confronti dei bambini che vivono in povertà nei Paesi in via di sviluppo, in Asia e Africa. La fondazione è gestita dalla moglie di Hohn. Asset gestiti circa 6,8 miliardi di dollari. L’azione su Coal India Tci, con quasi il 2% di quote azionarie, è il più importante investitore estero di Coal India. Si lamenta del fatto che le tariffe di vendita del carbone sono sottostimate del 70% rispetto al valore di mercato. Chiede alla compagnia di rivederle al rialzo per evitare danni agli azionisti di minoranza e alla compagnia stessa. Altre iniziative Tci è considerato un azionista attivo molto aggressivo. Si ricordano i casi più eclatanti come la scalata alla Borsa Tedesca nel 2005 per evitare l’acquisizione della Borsa di Londra, considerata troppo costosa. La richiesta di vendita o frazionamento avanzata nei confronti alla banca tedesca Abn Amro al fine di aumentare il valore per gli azionisti. Senza dimenticare le campagne contro le major giapponesi, tra cui J-Power e Japan Tobacco finalizzate ad aumentare la visibilità degli azionisti di minoranza.
Coal India Limited
www.coalindia.in
Sede Calcutta, West Bengal - India Borsa NYSE - New York Stock Exchange Rendimento negli ultimi 12 mesi - 6,72%. Attività Coal India Limited è la prima compagnia al mondo in termini di produzione di carbone. Contribuisce all’85% del fabbisogno indiano e impiega quasi 400 mila persone. Opera in 81 aree minerarie attraverso le sue 7 società controllate. Azionisti Il Governo Indiano è il principale azionista della compagnia, detiene il 90% delle azioni. Con l’offerta pubblica del 2010, la compagnia ha ceduto il 10% delle quote azionarie a investitori istituzionali e privati. Perché interessa agli azionisti responsabili? L’iniziativa del Fondo è il primo caso in cui gli azionisti di minoranza di una compagnia indiana cercano di far valere le proprie ragioni. Il Children’s Investment Fund chiede la tutela degli interessi economici degli azionisti di minoranza. 2010
Ricavi [Miliardi di dollari] Numero dipendenti
2011
10,1 11,4 383.347 (2012) in tutto il gruppo
Utile [Miliardi di dollari]
2010
2011
1,8
2,1