Mensile Valori n. 97 2012

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Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 97. Marzo 2012. € 4,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento Contiene I.R.

OLIVER BOLCH / ANZENBERGER / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Super bolla cinese Dopo anni di crescita incontrollata rischia un brutto atterraggio Finanza > Le armi (finanziarie) di distruzione di massa contro la Ttf Economia solidale > Il modello cooperativo contro la crisi del capitalismo | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Dopo le sette sorelle del petrolio, nuove società danno forma al mondo


| editoriale |

La Cina ai margini della Grande Recessione di Fabio Sdogati

L L’AUTORE Fabio Sdogati, è Ordinario di Economia internazionale presso il Politecnico di Milano. Ha conseguito il Master of Science (1983) e il Ph. D. (Economics, 1986) presso la University of Wisconsin-Madison. Ha insegnato negli Stati Uniti ed è stato Jean Monnet post-doctoral Fellow presso l’Istituto universitario europeo di Fiesole. È membro del Comitato di gestione del Mip, direttore dell’area Executive Education Open Programs e coordinatore dell’area tematica Global Business. Gli interessi di ricerca includono: le determinanti della competitività internazionale delle imprese, la frammentazione internazionale dei processi produttivi, le determinanti del ruolo di valuta di riserva per le principali valute. | 2 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

a crisi che i Paesi ad alto reddito stanno vivendo dal 2007, crisi inizialmente soltanto finanziaria e poi anche crisi dell’economia reale, non ha inciso fortemente sulla crescita dei Paesi a economia emergente. Tale e tanta era, fino al 2011 compreso, la differenza di impatto della crisi tra Paesi ad alto reddito pro capite e Paesi a reddito basso, che si parlò di decoupling, cioè del separarsi dei percorsi di crescita delle economie a diverso livello di reddito: a fronte della recessione in Europa e di una sostanziale stagnazione in America del nord, la Cina (e con lei tanti altri emergenti) viaggiava verso un radioso futuro di crescita e benessere. Le previsioni Ocse per il 2012 hanno sostanzialmente confermato questa ipotesi, ma l’hanno anche ridimensionata. Si prevede ora una crisi ancora più dura per i Paesi europei e tassi di crescita decisamente meno spettacolari per i Paesi emergenti. Cina inclusa. Il quesito importante è anche ovvio: siamo in vista della fine di un modo di funzionare dell’economia mondiale che ha garantito crescita per molti, ancorché a tassi diversi, nell’ultimo quarto di secolo, cioè della fine dell’interconnessione profonda, commerciale e produttiva, tra Cina e Stati Uniti in particolare? O non è il rallentamento che osserviamo piuttosto il risultato di situazioni di difficoltà che si sono venute creando come conseguenze del processo di crescita veramente rapido dell’economia cinese, in particolare dalla crisi del 1997? Perfino le riflessioni di Paul Krugman, analista eccellente, solitamente molto convinto delle proprie analisi, sono stranamente caute quando azzarda previsioni sulla “crisi cinese”. Il tema è importante e i lavori raccolti in questo numero di Valori offrono una documentazione e un ventaglio di ipotesi veramente ricchi sui suoi diversi aspetti. Occorre, forse, aggiungere alcune considerazioni sul modo in cui la Cina ha contribuito fino ad ora alla crescita e chiedersi poi se continuerà a farlo nello stesso modo. Da circa un quarto di secolo è in atto una trasformazione profonda del modo di produrre a livello mondiale, talmente profonda da essere definita “seconda rivoluzione industriale” dall’Organizzazione mondiale del commercio. Questo nuovo modo di produrre consiste nel frammentare i processi produttivi, originariamente concentrati in un solo Paese e spesso in un solo impianto, e allocare questi “frammenti” di processo in Paesi diversi a seconda della disponibilità di risorse da dedicare specificamente a quel frammento, del loro costo, delle loro competenze. Mentre, dunque, nel modello di commercio internazionale i Paesi si caratterizzavano per la loro capacità di produrre determinati prodotti finiti, e il concetto di made in aveva un significato forte, oggi questo concetto è venuto perdendo di significato mano a mano che i prodotti finiti diventano il risultato del contributo di diverse risorse in Paesi diversi. Esattamente questo è stato il modello sino-americano dell’ultimo quarto di secolo. Oggi il XII piano quinquennale cinese dichiara che più attenzione verrà prestata alla soddisfazione della domanda interna di beni e servizi e minore attenzione alle esportazioni verso Paesi ad alto reddito pro capite, rispetto a quanto avvenuto fino ad ora. Questa scelta implicherà un “ritirarsi” graduale della Cina dalle catene di produzione mondiali? Personalmente ho fortissimi dubbi che ciò possa avvenire, ma, in un caso come nell’altro, le scelte di politica economica di quel Paese e i suoi eventuali problemi interni peseranno molto sull’economia mondiale.  | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 3 |


per leggere tra le righe Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 97. Marzo 2012. € 4,00 Cooperativa Editoriale Etica Anno 12 numero 96. Febbraio 2012. € 4,00

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Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità OLIVER BOLCH / ANZENBERGER / CONTRASTO

Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Tracollo educativo Alla base della crisi: addio istruzione, fattore di crescita e uguaglianza Finanza > I debiti degli Stati e la grande truffa dei credit default swaps Economia solidale > In pensione dopo perché si vive di più. Ma in Italia cala la vita sana | ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 | Internazionale > Le banche che finanziano l’inquinamento globale. C’è anche Unicredit

valori AUGUSTO CASASOLI / A3 / CONTRASTO

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Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità

Anno 11 numero 95. Dicembre 2011 Gennaio 2012. € 4,00

Dossier > Un’occasione d’oro per mostrare un’economia diversa, ma rischia il flop

Expo sostenibile?

Super bolla cinese

Finanza > Inchiesta: le banche giocano con gli spread, cambiati all’ultimo minuto Economia solidale > Cemento assassino dietro i disastri da Genova a Messina Internazionale > Fukushima: situazione fuori controllo. Informazioni pilotate Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB Trento - Contiene I.R.

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marzo 2012 mensile www.valori.it anno 12 numero 97 Registro Stampa del Tribunale di Milano n. 304 del 15.04.2005 editore Società Cooperativa Editoriale Etica Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano promossa da Banca Etica soci Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Arci, FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale, Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza, Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa, Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara, Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava consiglio di amministrazione Paolo Bellentani, Antonio Cossu, Donato Dall’Ava, Giuseppe Di Francesco, Marco Piccolo, Fabio Silva (presidente@valori.it), Sergio Slavazza direzione generale Giancarlo Roncaglioni (roncaglioni@valori.it) collegio dei sindaci Giuseppe Chiacchio (presidente), Danilo Guberti, Mario Caizzone direttore editoriale Mariateresa Ruggiero (ruggiero.fondazione@bancaetica.org) direttore responsabile Andrea Di Stefano (distefano@valori.it) caporedattore Elisabetta Tramonto (tramonto@valori.it) redazione (redazione@valori.it) Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Paola Baiocchi, Andrea Baranes, Andrea Barolini, Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana, Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro, Andrea Montella, Valentina Neri grafica, impaginazione e stampa Publistampa Arti grafiche Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento) fotografie e illustrazioni Oliver Bolch, Horst Friedrichs, Jared Moossy, Pascal Sittler, Elliott D. Woods (Contrasto); Charles Platiau (Reuters); Tomaso Marcolla; Mirella Valentini abbonamento annuale ˜ 10 numeri Euro 35,00 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 45,00 ˜ enti pubblici, aziende Euro 60,00 ˜ sostenitore abbonamento biennale ˜ 20 numeri Euro 65,00 ˜ scuole, enti non profit, privati Euro 85,00 ˜ enti pubblici, aziende come abbonarsi  carta di credito sul sito www.valori.it sezione come abbonarsi Causale: abbonamento/Rinnovo Valori  bonifico bancario c/c n° 108836 - Abi 05018 - Cab 01600 - Cin Z Iban: IT29Z 05018 01600 000000108836 della Banca Popolare Etica Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori + Cognome Nome e indirizzo dell’abbonato  bollettino postale c/c n° 28027324 Intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano Causale: abbonamento/Rinnovo Valori È consentita la riproduzione totale o parziale dei soli articoli purché venga citata la fonte. Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite, non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto, l’Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempiere ai propri doveri.

OLIVER BOLCH / ANZENBERGER / CONTRASTO

| sommario |

Cina, Pechino. Un soldato di fronte al cancello della Porta della pace celeste con il ritratto di Mao

globalvision

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fotonotizie

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dossier Super bolla cinese

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Il grande balzo verso la bolla Le ombre cinesi sul sistema creditizio Immobiliare, verso lo scoppio controllato? Il risveglio dei diritti nella fabbrica del mondo Poyang, il lago prosciugato dalla crescita

finanzaetica Tassa sulle transazioni finanziarie. Il gelo sopra Berlino Per la tassa il Parlamento si mobilita. Con calma Speculazione e land grabbing. Le banche affamano il mondo Se per evitare una nuova crisi si affossa il credito

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consumiditerritorio + lavanderia

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inumeridellaterra economiasolidale

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Un anno per le cooperative. Modello anti-crisi Un passaggio epocale. Per disegnare nuovi modelli economici La forza della relazione, per resistere alla crisi Made in Italy a rischio/12. L’unico pericolo è la paura dell’unità Biodiversità a rischio. Un declino inevitabile? Buone pratiche/4 - Milano sceglie di cambiare. Con stile

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esempio il caso delle correzioni rre ez e zio ni di ni di b bilancio iU lan correzione per svincolarsi dalla trappola delle spirali to-interessi-deficit e ancora o r a debito. debito . Una troppo lenta fa accumulare biti; correzione rapida acorrezioni plizzando ida debito. rischia risch ad d diocorrezione mettere in ginocchio l'economia ritirando il nuove iamouna per esempio il casoopiù delle di bilancio per svincolarsi dalla trappola delle spirali domanda pubblica penalizzando n a alizzando la domanda privata con l'aumento delle tasse. Ci eficit-debito-interessi-deficit epiù ancora Una troppo lenta fane accumulare anzi e debiti; una correzione rapida rischia di mettere in ginocchio l'economia ritirando il vuole una soluzione o n e Goldilocks Goldilock Goldilocks: s : m misure di sostegno rto della domanda pubblica oipenalizzando la domanda privata con l'aumento delle tasse. Cimisure che, accompagnate dauna credibili di dib d b ili misure di dno c co correzione o nel lungo periodo; cioè vuole soluzione Goldilocks: misure di sostegno ne povertà nto dell'età pensionabile, le l e , non port p portano ortano ort tan r restrizioni e significative subito, sono lente a internazionale e periodo accompagnate da credibili misure di correzione nel lungo periodo; cioè misure che, me l'aumento dell'età pensionabile, non portano restrizioni significative subito, sono lente a effetti, ma detti effetti s si i cumulano cumulan no nel ne n l t tempo e riducono tangibilmente gli squilibri estare gli effetti, ma detti effetti si cumulano nel tempo e riducono tangibilmente gli squilibri odo.Questa crisi, insomma, m ma, non ha visto vis vist to all'opera i in normali meccanismi ciclo, Le nuove società che danno forma al Pianeta ungo periodo.Questa insomma, non ha visto all'opera i in normali meccanismi ciclo,la del armi ella caduta e il rimbalzo zzo ooluzioni della ripresa. p H Ha a chiamato causa non tanto politica ciampo dellalacaduta ecrisi, ilLe rimbalzo della ripresa. Ha chiamato causa non tanto la del politica mica quanto politica vera. Le soluzioni Goldilocks richiedono di mediare fra il "troppo caldo" nto la politica vera. s soluzioni o luzioni Goldiloc Goldilo Goldilocks c k richiedono di mediare fra il "troppo caldo"Il giro del mondo in 64 elezioni oppo freddo", di conciliare gli interessi, di affrontare i dissensi ideologici, di placare la contesa do", di conciliare gli interessi, e r ressi, essi, ess , di d affront a affrontare a i dissensi ideologici, di placare la contesa sociale: interessi, dissensi e contese che diventano più intensi in tempi di crisi. corporation Emirati Arabi Uniti. Il futuro abita nel deserto le: interessi, dissensi e contese contese che e dive di div diventano ve i ritmi più intensi in tempi di crisi. fronte a queste sfide la politica ha stentato a trovare e i passi adeguati. Li troverà? Fuori gli Ogm dentro i contadini rio è certamente E lah speranza èche soluzione trovata non sicostellazione riveli effimera quanto queste sfide la politica ha aranza stentato tro tr trovare ossoluzione vo extrasolare inon ritmi ené i troppo passi adeguati. Li troverà? 'altra speranza: il questo. pianeta "70 Virginis b" èche unala pianeta nella della amente questo. E la speranza e è la trovata non si riveli effimera quanto gine; scoperto nel 1996 fu battezzato Goldilocks, perché era caldo né troppo ranza: il Goldilocks pianeta "70 Virginis gainis b b" èleun pi p pianeta iun a perché extrasolare nella costellazione della o, e quindi potenzialmente abitabile. Ma osservazioni del satellite Hipparcos dimostrarono altrevoci guito che era troppo caldo. Ma forse giorno troveremo il giusto mezzo, sia su erto nel 1996 fu battezzato za z t o Go Goldilocks, oldilock oldiloc k s non era né troppo caldo né troppo questo che su qualche altro pianeta. iGoldilocks potenzialmente abitabile. le l e . Ma a le oss osservazioni s e r del satellite Hipparcos dimostrarono fondi era troppo ld ossu .uMa for fo forse giorno troveremo il giusto mezzo, sia su bancor questocaldo. che eo. q qualche ua a lcrshe un altro pianeta. action!

finanza

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chiusura in stampa: 21 febbraio 2012 in posta: 24 febbraio 2012

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ERRATA CORRIGE Massimo Angelo Zanetti, intervistato nel n. 96 di Valori, è docente di Sociologia del lavoro dell’università della Valle d’Aosta, e non dell’Università di Torino come riportato nell’articolo.


| globalvision |

Nuovi modelli

Austerità o crescita? di Alberto Berrini

lla fine di gennaio si è tenuta a Davos la quarantaduesima edizione del World economic forum dal significativo titolo: “La Grande trasformazione: immaginare nuovi modelli”. Tale titolo risulterà inaspettato solo a chi non ha seguito il recente dibattito sulla crisi del capitalismo, almeno nella sua “parte occidentale”, tuttora in corso su due dei più influenti media economico-finanziari a livello mondiale: il Financial Times e The Economist. In realtà le analisi e il dibattito del “forum mondiale” hanno riguardato temi congiunturali, in particolare la crisi dell’euro e i suoi possibili sviluppi. “Il dilemma di Davos” è, in effetti, il seguente: privilegiare le misure di austerità di natura inevitabilmente recessiva o quelle anticicliche indirizzate alla crescita economica? La paura non celata è che il mondo ricada come nel biennio 2008-2009 in recessione. Da qui la chiara e pressante richiesta, che a Davos le élites finanziarie mondiali hanno rivolto ai Governi, di una soluzione rapida della crisi dell’euro, poiché un suo eventuale collasso potrebbe metter fine, in senso negativo, all’attuale disaccoppiamento dell’economia mondiale: un’economia statunitense in ripresa e un’economia europea in stagnazione. Come già segnalato fin da ottobre 2011 dal superindice Ocse (indicatore il cui scopo è segnalare in anticipo i punti di svolta del ciclo economico o, quanto meno, cercare di prevedere la tendenza), le maggiori economie mostrano, con l’eccezione degli Stati Uniti, evidenti segni di rallentamento. Tale indice risultò infatti a ottobre in calo per l’ottava volta consecutiva.

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

A

L’Europa si prepara a una recessione. Urge una rapida soluzione della crisi dell’euro. E un nuovo modello Le nuove previsioni sulla crescita mondiale del Fondo Monetario Internazionale (del 24 gennaio scorso) si riducono al +3,3% dal +4% precedentemente stimato, con possibili ulteriori revisioni al ribasso. I problemi sono comunque in Europa: le previsioni vedono per il 2012 l’Eurozona in recessione, con un Pil che segna un -0,5%, un taglio di 1,6 punti rispetto alle previsioni di settembre. Nonostante l’evidenza dei dati appena riportati, la politica economica europea non sembra cambiare rotta. Quest’ultima continua ad accompa-

gnare politiche di austerità che, liberando risorse per il settore privato, dovrebbero garantire una crescita nel medio termine (ma il flop dell’“austerità espansiva” è evidente anche nella più solida Gran Bretagna del conservatore “con sterlina” Cameron) e salvataggi atti a garantire i debiti bancari e “sovrani” per salvaguardare gli interessi dei mercati finanziari. La Grecia (che oggi abbina recessione, tagli salariali e mancato risanamento) è l’esempio più evidente, o meglio il tragico risultato, di tali scelte di politica economica. Ancora oggi, a quasi cinque anni dallo scoppio della crisi subprime, i mercati vogliono, come Shylock ne Il mercante di Venezia, la loro libbra di carne. Ma il vero scandalo è che in questo sono assecondati dai governi dell’Ue, che, come sosteneva Keynes nel 1919 a proposito delle decisioni della Conferenza di pace di Versailles circa le riparazioni di guerra imposte alla Germania (oggi le parti sono invertite!), sono sordi «al fondamentale problema economico di un’Europa che langue di fame e si sgretola davanti ai loro occhi. (…) Chiedendo l’impossibile hanno sacrificato la sostanza all’apparenza e alla fine perderanno tutto». E stasera (12 febbraio), mentre scrivo questo pezzo, la Grecia brucia.  | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 7 |


| fotonotizie |

Diritto al tetto e diritto alla vita vanno di pari passo. Lo scrive a chiare lettere la Carta sociale europea, sottoscritta anche dall’Italia, che afferma che tutti devono vivere in un luogo dignitoso, sicuro e salubre. E che, nel comma 2 dell’articolo 31, specifica: «Per garantire l’effettivo esercizio del diritto all’abitazione, le parti s’impegnano a prendere misure destinate a prevenire e ridurre lo status di senza tetto in vista di eliminarlo gradualmente». Un comma che l’Italia non ha rispettato. Sia “passivamente”, per la mancanza di servizi adeguati per le persone senza fissa dimora, sia “attivamente”, con le azioni di sgombero dei Rom. Parola del Comitato europeo per i diritti sociali. Nella sua relazione annuale pubblicata alla fine di gennaio, il Comitato (dipendente dalla Commissione europea) non ha risparmiato dure critiche al nostro Paese: che, insieme a Francia, Lituania, Olanda, Portogallo e Slovenia, non ha mantenuto l’impegno di lavorare adeguatamente per garantire a tutti una casa. Nel caso italiano sono state inoltre riscontrate politiche di assistenza abitativa discriminatorie verso i cittadini di origine straniera. A dare il buon esempio finora sono solo Svezia e Finlandia. Per avere dati aggiornati sul numero di persone senza fissa dimora in Italia bisognerà aspettare la conclusione della rilevazione condotta in questi mesi da fio.psd (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora), Istat, Caritas e ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Secondo le dichiarazioni del presidente di fio.psd Paolo Pezzana, ci si potrebbe aggirare intorno alla cifra di 50 mila persone. Una condizione che nel mese di febbraio, con l’ondata di freddo che ha interessato la Penisola, si è manifestata in tutta la sua drammaticità: nel momento in cui scriviamo, undici homeless hanno perso la vita nel giro di un mese. [V.N.]

[6 febbraio 2012. Un vigile del fuoco parla con una senza tetto a Parigi, durante il freddo che ha colpito l’Europa].

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REUTERS / CHARLES PLATIAU

Diritto a un tetto Rom e homeless, l’Europa boccia l’Italia

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| fotonotizie |

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«Quando chiediamo più sicurezza, i militari ci dicono di essere qui per la ricostruzione. Quando chiediamo la ricostruzione, ci dicono di essere qui per la sicurezza. Alla fine, non garantiscono nessuna delle due». Questa risposta di Farid Ehsas, esponente della società civile di Farah, pare una buona sintesi del rapporto di sostanziale incomprensione che la popolazione dell’Afghanistan ha stabilito con la presenza degli eserciti occidentali sul proprio territorio. È ciò che emerge da un’indagine – Le truppe straniere agli occhi degli afghani: percezioni, opinioni e rumors a Herat, Farah e Badghis – promossa dalla Ong Intersos e realizzata dal ricercatore e giornalista freelance Giuliano Battiston attraverso decine di interviste raccolte nell’estate del 2011. Non dati, quindi, ma opinioni espresse da religiosi, funzionari governativi, commercianti e attivisti che delineano un giudizio estremamente negativo da parte dei “beneficiari dell’intervento”; un giudizio che non risparmia neanche le attività integrate civili-militari dei cosiddetti Prt (Provincial Reconstruction Teams), accusate di mettere in pericolo la popolazione, posta così vicino ai militari, pur impegnati in attività di ricostruzione. Interviste convergenti che inchiodano le grandi potenze impegnate sul terreno al fallimento più evidente, quello di uno scollamento tra le dichiarazioni delle cancellerie occidentali – le quali sostengono che le forze Isaf-Nato siano riuscite in buona parte a stabilizzare il Paese – e il “cuore degli afghani” tanto spesso chiamato in causa, che accusa invece la comunità internazionale di aver perso, pur manifestando apprensione sulle conseguenze del ritiro delle truppe. Nulla di cui stupirsi, considerato che «nel 2004 – afferma M. Akram Azimi, docente all’università Ghargistan – i Talebani erano circa 400. Nel 2009, 25 mila. Oggi possono contare su 30 mila combattenti». [C.F.] [Arghandab, nella provincia di Kandahar: una donna afgana parla con un soldato dell’esercito nazionale (Afghan National Army)].

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ELLIOTT D. WOODS / REDUX / CONTRASTO

Afghanistan nel caos Né ricostruzione né sicurezza

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| fotonotizie |

Il gas da scisto potrebbe ben presto deludere le aspettative di chi lo ha indicato come la base su cui costituire il futuro energetico degli Stati Uniti (e non solo), svincolando in parte la prima economia del mondo dalla dipendenza dal petrolio. Solo un anno fa, infatti, il Potential Gas Committee aveva stimato nella cifra astronomica di 687 mila miliardi di piedi cubi il totale di risorse raggiungibili nel sottosuolo americano. Un dato che secondo l’Energy Information Administration (Eia) arrivava addirittura a quota 827 mila miliardi. Ma la stessa Eia, nell’Annual Energy Outlook 2012, ha tagliato di netto le stime, scendendo a 482 mila miliardi. Un vero e proprio crollo, dettato in buona parte dal “declassamento” del giacimento di Marcellus, il più grande degli Usa, che si estende tra gli Stati di New York, Pennsylvania, West Virginia, Ohio, Kentucky e Tennessee. La sua capacità non è, infatti, più ipotizzata in 410 mila miliardi di piedi cubi ma in soli 141 mila miliardi. Si tratta di un duro colpo per l’amministrazione guidata da Barack Obama, dal momento che proprio il presidente si era esposto in prima persona nel suo discorso sullo stato dell’Unione, rallegrandosi per l’enorme potenziale di shale gas presente sul territorio statunitense: «Abbiamo riserve per 100 anni – ha dichiarato – e faremo di tutto per sviluppare questa fonte di energia. Ciò creerà posti di lavoro e alimenterà le nostre fabbriche a costi meno gravosi». Lo shale, invece, da boom potrebbe rivelarsi un boomerang. E anche altre esperienze internazionali sembrerebbero confermarlo: la Exxon Mobil ha recentemente annunciato che due esplorazioni in Polonia si sono rivelate un fiasco. La stessa compagnia ha poi rinunciato a proseguire le ricerche in un altro sito in Ungheria. Sul quale, solo tre anni fa, aveva investito 75 milioni di dollari. [A.B.]

[Barnett Shale del Wise County, uno dei campi di terra più significativi di gas naturale in Nord America e il più grande in Texas].

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JARED MOOSSY / REDUX / CONTRASTO

Shale gas americano Il previsto boom sarà un boomerang?

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XINHUA / EYEVINE / CONTRASTO

dossier

a cura di Andrea Barolini, Matteo Cavallito e Valentina Neri

Addetti alla sicurezza in una centrale elettrica nei pressi della Diga delle Tre Gole, Cina centrale, provincia di Hubei, 28 luglio 2010

La bolla cinese Dopo anni di crescita incontrollata la seconda economia mondiale rischia un brusco atterraggio Tra real estate drogato da “banche� parallele, ambiente deturpato e diritti sindacali calpestati

Cina, il grande balzo verso la bolla? > 16 Le ombre cinesi sul sistema creditizio > 18 Immobiliare: verso lo scoppio controllato? > 20 Il risveglio dei diritti nella fabbrica del mondo > 22 Poyang, il lago cinese prosciugato dalla crescita > 24


| super bolla cinese |

| dossier | super bolla cinese |

Quanto sono attendibili i dati ufficiali sull’economia cinese? Il dibattito tra gli analisti non si placa e i motivi di scetticismo non mancano. Nel 2007, durante una conversazione resa nota in seguito da un cable rilanciato da Wikileaks, il vice premier cinese Li Keqiang, all’epoca segretario del Partito nella provincia di Liaoning, confessò all’ambasciatore americano Clark Randt che i dati sul Pil regionale erano “soltanto cifre di riferimento”. Nel 1998, nel pieno della grande crisi asiatica, Pechino comunicò un tasso di crescita annuale del 7,8%, ma, analizzando alcuni indicatori chiave solitamente correlati al Pil (produzione di cemento, elettricità, importazioni e passeggeri delle linee aeree), alcuni economisti indipendenti stimarono un’espansione del Pil prossima allo zero. Nello scorso mese di dicembre Bloomberg News ha scoperto che il debito accumulato da soli 231 enti locali cinesi corrispondeva a circa 3/4 del totale ufficiale calcolato su tutte le 6.576 amministrazioni decentrate del Paese, sollevando impliciti dubbi sulla veridicità delle cifre comunicate dal governo.

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11,34% 2011

2007

2009

2003

2005

2001

1999

12,06% 10,93% 10,11% 8,02% 8,29% 9,91% 9,97% 10,15% 11,64% 12,33% 13,51% 15,73% 16,91% 11,46% 1997

11,62%

15,56% 15,20% 14,20%

1995

1987

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1981

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2008

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2002

2000

1998

1996

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2% 0%

1993

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6,42% 6,27%

10%

1989

14% 12%

9,49%

2.882

2.379

1.680

1.352

797

18% 16%

4% 1992

0

1990

1.000

704

2.000

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3.000

1.028

4.000

1.999

5.000

3.614

6.000

20%

4.747

7.000

17,98%

6.187

8.000

13,49% 13,95% 13,77%

9.000

15,29% 12,96% 13,33%

LA VELOCITÀ DI CRESCITA 7.544

LA CRESCITA DELL’ECONOMIA CINESE

550

dalla crescita dei prezzi delle case, che evidenzia tutti i classici sintomi della bolla. C’è stata una rapida espansione del credito, la maggior parte del quale all’interno di un sistema bancario ombra, non regolamentato né garantito dal Governo. Ora la bolla sta scoppiando e ci sono valide ragioni per temere una crisi finanziaria. Sto parlando del Giappone degli anni ’80? Dell’America del 2007? Potrebbe essere. Ma in realtà sto parlando della Cina». Affermazioni molto forti, che hanno permesso al premio Nobel per l’economia 2008 di andare a ingrossare le fila del sempre più popolare partito degli scettici. Scettici (ma nel

«Il settore immobiliare cinese? Come quello di Dubai, moltiplicato per mille». Così si esprimeva nel 2010 James Chanos, numero uno dell’hedge fund Kynikos Associates. Parole pesanti, capaci di lasciare decisamente il segno. Soprattutto se a pronunciarle è uno come lui, l’operatore che un decennio fa si dimostrò capace di prevedere in anticipo il collasso del gigante Enron guadagnando milioni di dollari mediante le scommesse “al ribasso”. L’ipotesi è relativamente semplice: gli eccessivi stimoli economici, sostiene Chanos, starebbero imponendo al Paese un ritmo di crescita insostenibile, caratterizzato da sovrapproduzione e conseguente eccesso di offerta (oltre che drogato dalla diffusione di dati macroeconomici falsi). Da tre anni circa, Chanos gioca al ribasso sulle azioni delle compagnie occidentali che esportano infrastrutture in Cina, nonché sui titoli delle imprese locali e del segmento immobiliare. Le scommesse ribassiste, ha sostenuto in un’intervista alla Cnbc nel maggio 2011, avrebbero già fruttato significativi profitti.

1986

Nell’ultimo decennio l’incredibile ascesa cinese ha rappresentato il fondamentale dogma dell’economia mondiale. Ma non tutti, oggi, sembrano più disposti ad accettare acriticamente questa linea

JAMES CHANOS, QUANDO UN HEDGE È PROFETA DI SVENTURA

436

Nell’ultimo decennio l’incredibile ascesa cinese ha rappresentato il fondamentale dogma dell’economia mondiale. Le imprese occidentali hanno potuto invadere un mercato dalle potenzialità apparentemente illimitate. La Cina, dal canto suo, ha potuto giovarsi del surplus commerciale, accumulando una spaventosa riserva di liquidità tuttora alla base dei suoi investimenti all’estero. È stata la domanda cinese a trainare le esportazioni tedesche. Ed è stata sempre la liquidità cinese a finanziare la crescita senza precedenti dell’Africa nonché l’abnorme spesa pubblica degli Stati Uniti, di cui Pechino resta oggi il principale creditore. Nel decennio “lungo” della bolla Dot-com, del tracollo del real estate, del crunch creditizio e della crisi dei debiti sovrani, l’Occidente ha potuto guardare alla Cina con grande ottimismo. Ma non tutti oggi sembrano più disposti ad accettare acriticamente questa linea. «La crescita – ha scritto di recente Paul Krugman sul New York Times – si è basata sul boom edilizio, alimentato a sua volta

Agli allarmi bolla fanno da contraltare valutazioni di segno opposto. Jim O’Neill,

1984

Dal dogma alla bolla

Fiducia e dubbi

251 324

N

suo caso si tratta di un eufemismo) come James Chanos, l’ex profeta del crack Enron che da anni scommette contro Pechino attraverso il suo collaudato fondo speculativo (vedi BOX ), oppure come Kenneth Rogoff, che dalla sua cattedra di Harvard tuona da un paio d’anni contro il rischio collasso del comparto immobiliare cinese.

1982

el 1989, l’anno dei moti di piazza Tienanmen, il controvalore dell’economia cinese ammontava alla miseria di 342 miliardi di dollari, cifra che collocava Pechino all’11° posto della classifica mondiale. Il Prodotto interno lordo della Spagna, per intenderci, superava quello della Cina di circa 60 miliardi. Il controvalore della ricchezza prodotta negli Usa, invece, valeva 16 volte tanto. All’inizio del 2012, l’anno degli scontri all’Apple Store di Pechino, dove una folla inferocita ha scatenato la propria rabbia dopo l’esaurimento delle scorte dell’avveniristico iPhone 4S, il Pil del Paese ha raggiunto i 6,9 trilioni (mila miliardi) di dollari (che diventano 11,3 nel calcolo a parità di potere d’acquisto), secondo risultato del Pianeta. Il valore delle esportazioni, 1.581 miliardi, è il più elevato del mondo. Oltre mezzo miliardo è il numero degli utenti internet. Una cifra enorme in un Paese in cui la rete resta ancora ampiamente censurata dalle autorità di governo.

MIRELLA VALENTINI

di Matteo Cavallito

1991

Cina, il grande balzo verso la bolla?

presidente di Goldman Sachs Asset Management ed esperto di mercati emergenti (ha inventato l’acronimo Bric, Brazil, Russia, India, China), contesta l’ipotesi di una crisi immobiliare (si vedano gli articoli nelle pagine seguenti) preferendo concentrarsi sui dati complessivi. «Nel corso del decennio – ha dichiarato a gennaio in un’intervista a Bloomberg – ritengo che la Cina crescerà mediamente del 7,5% (all’anno, ndr). Tradotto in dollari, la Cina contribuirà alla crescita globale più di Usa ed Europa messi insieme». Di recente, due alfieri del libero mercato come il Wall Street Journal e l’Economist hanno addirittura reso omaggio al modello “centralista” cinese. Ma alle infatuazioni pro Cina si accompagnano le crescenti perplessità degli analisti. Negli ultimi mesi almeno tre rapporti finanziari di Nomura, JP Morgan e Pivot Capital hanno affrontato il problema della crescita senza controllo di un settore bancario cinese “informale”. Tradotto: flussi di credito non regolamentato che alimentano una crescita dei debiti di imprese, cittadini, banche ed enti pubblici. Da tempo, d’altra parte, non mancano i dubbi sull’attendibilità dei dati ufficiali comunicati dalle autorità cinesi (vedi BOX ). Questioni aperte come la sostenibilità ambientale, la povertà, i diritti sociali e la mancanza di democrazia complicano ulteriormente il contesto generale. In una valutazione complessiva delle prospettive economiche, nessuno di questi elementi può essere oggi ignorato. 

CINA, LE STATISTICHE UFFICIALI NON CONVINCONO

1980

dossier

FONTE: IMF, WORLD ECONOMIC OUTLOOK (IN INDEX MUNDI, WWW.INDEXMUNDI.COM), ECCETTO DATI 2011, FONTE: CIA (WWW.CIA.GOV), CIA WORLD FACTBOOK, GENNAIO 2012, STIME. CIFRE IN DOLLARI USA, A PARITÀ DI POTERE D’ACQUISTO. (LE CIFRE SUL PIL PRO CAPITE SONO APPROSSIMATE ALL’UNITÀ)

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 17 |


| super bolla cinese |

| dossier | super bolla cinese |

FONTE: FREAKINGNEWS.COM

dossier

Shadow banking

Le ombre cinesi sul sistema creditizio

di Andrea Barolini

di Matteo Cavallito

Società private, prestiti informali, trust e altro ancora. Sono il lato oscuro del comparto finanziario nazionale, un vero e proprio “sistema-ombra” difficile da rilevare e da definire. Un “buco nero” che le autorità faticano ad arginare elle statistiche ufficiali ha un peso marginale, minimo, tutto sommato poco indicativo. Ma il sospetto è che il fenomeno sia piuttosto vasto, anche se nessuno è stato in grado di stabilire quanto. Gli osservatori stranieri lo definiscono shadow banking, il comparto più oscuro, misterioso, e soprattutto meno regolamentato, della sempre più massiccia industria finanziaria cinese. Prestiti di società private, trust, prestiti peer-to-peer, microcredito, attività off balance sheets e molto altro ancora. Insomma un vistoso conglomerato cresciuto di pari passo con un settore immobiliare a dir poco esplosivo. Ovvero, secondo l’interpretazione più pessimistica, il sintomo stesso di una bolla del credito.

N

L’origine del problema Fino alla metà degli anni ’80 tutte le banche e le società finanziarie del Paese erano incorporate in un’unica istituzione, la People’s Bank of China (Pbc), responsabile di volta in volta di erogare il credito necessario per l’implementazione dei progetti approvati dalle autorità centrali. Nel 1984 la Pbc si è trasformata de facto nella banca centrale del Paese e altre istituzioni sono state create per finanziare le attività commerciali. È stato così che hanno iniziato a proliferare le banche di investimento, le compagnie assicurative e di leasing e, ovviamente, le filiali delle banche straniere. Ma questo sistema, ha notato un recente rapporto di JP Morgan, si sarebbe rivelato profon| 18 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

considerate più sicure. Tagliando così fuori le attività imprenditoriali di piccola e media dimensione.

damente iniquo. «Il sistema bancario ombra, in Cina, si è sviluppato per necessità di fronte alla repressione finanziaria», hanno scritto lo scorso ottobre gli analisti della banca Usa. La storia è relativamente semplice: la banca centrale fissa tassi di interesse volutamente bassi, ovvero inferiori al giusto prezzo di mercato ponderato per il rischio, con l’obiettivo di favorire la crescita e l’ingresso di operatori stranieri. Solo che, per non rischiare, finisce per imporre alle principali banche statali di concedere preferibilmente il credito alle imprese

Il lato oscuro del credito Ed è proprio per rifornire di credito queste ultime che si è sviluppato negli anni l’oscuro e indefinito comparto del sistema ombra. Un segmento composto da molti attori diversi e sostanzialmente fuori controllo, che, hanno osservato alcuni analisti, può arrivare a praticare tassi di interesse a doppia cifra, fino al 60-70%. Ancora nel 2008, ha notato il quotidiano finanziario Hindu Business Line, il governo cinese assecondava, anzi favoriva apertamente lo sviluppo di canali di credito “informale” per finanziare soprattutto il settore immobiliare. Una politica che ha conosciuto di recente una brusca frenata.

Il sistema parallelo è nato per la mancanza di prestiti concessi alle piccole e medie imprese, che non potevano contare sulle banche statali QUANTO VALE LO SHADOW BANKING CINESE? China UnionPay Dragonomics Société Générale Roubini Global Economics UBS Barclays Capital* ANZ Bank Financial Times Nomura Securities Credit Suisse Barclays Capital* Bernstein Research State Information Center 0

17,7 17,0 14,5 12,7 12,0 11,6 10,0 10,0 8,5 4,0 3,1 2,7 2,0 2

4

6

8

10

12

Cic, dollari e ambizioni da superpotenza finanziaria

14

16

18

20

FONTE: THE PETERSON INSTITUTE FOR INTERNATIONAL ECONOMICS, WWW.PIIE.COM/BLOGS/CHINA/?P=587. DATI IN TRILIONI DI YUAN (1 TRILIONE DI YUAN CORRISPONDE A 158,7 MILIARDI DI DOLLARI). IL PETERSON INSTITUTE RIPORTA DUE VALUTAZIONI DISTINTE AD OPERA DI BARCLAYS.

La stretta sul credito informale imposta dall’alto e la successiva scelta di abbassare i limiti delle riserve di capitale presso le banche (per favorire l’erogazione di credito dai circuiti tradizionali) hanno provocato un’inversione di tendenza nel settore. Nel gennaio 2012, le autorità cinesi hanno reso noto l’ammontare complessivo del credito erogato nel Paese nell’anno appena concluso: il totale, 12,83 trilioni di yuan (circa duemila miliardi di dollari), evidenzia una contrazione del settore pari a 1.100 miliardi (174 miliardi di dollari) su base annuale. Ma la cifra non è facile da interpretare. A complicare il tutto, hanno rilevato i ricercatori del Peterson Institute for International Economics di Washington, c’è il fatto che buona parte dei comparti del cosiddetto sistema “ombra” – dai prestiti diretti, alle attività off balance, passando per il peer-to-peer, i trust e altro ancora – non rientra nel conteggio complessivo. Non stupirebbe, dunque, se la valutazione ufficiale fatta da Pechino in merito al “sistema ombra” – 2 trilioni di yuan (317 miliardi di dollari) – risultasse inferiore al dato reale. Così come non sorprende, di fronte alla carenza dei dati ufficiali, che le stime condotte dagli osservatori esterni siano molto diverse tra loro: dai 2,7 trilioni di yuan di Bernstein Research, ai 17,7 di China Union Pay, l’associazione bancaria delle carte di credito cinesi. Qualunque sia il suo valore complessivo, è certo che anche il sistema bancario parallelo ha contribuito, al pari degli altri circuiti, alla crescita del debito degli enti locali cinesi, un altro fenomeno che suscita preoccupazione. Nel giugno 2011, il debito delle pubbliche amministrazioni in Cina ammontava a 10,72 mila miliardi di yuan (1.700 miliardi di dollari). Di questi, ha sostenuto Standard Chartered, 9 mila miliardi di yuan sarebbero a serio rischio default. 

Da Morgan Stanley alla Volvo, fino ad arrivare all’acqua di Londra. Le manovre espansionistiche del fondo sovrano cinese sembrano inarrestabili La Cina è diventata, di fatto, uno dei pochi soggetti capaci di muovere quasi a piacimento le proprie pedine sullo scacchiere finanziario globale. Partiamo da un punto fondamentale, le riserve in valuta estera. La scelta di spingere al massimo le esportazioni, anche giocando sul valore di mercato dello yuan, ha consentito a Pechino di aumentare esponenzialmente il flusso di capitali in ingresso e, di conseguenza, le proprie riserve in valuta estera. Si è passati dai 149 miliardi di dollari del 1998 ai 3.181 del 2011 (vedi GRAFICI in basso e a pag. 21). Così, grazie anche al calo del valore degli asset sui mercati , il governo cinese ha effettuato un vero e proprio “shopping”. Quasi sempre attraverso il suo fondo sovrano, il China Investment Corporation (Cic), il più ricco del mondo, con 410 miliardi di dollari. SHOPPING IN SALSA CINESE La pianificazione “espansionista” cinese ha toccato, solo nel 2010, 3.125 aziende non finanziarie in 129 Paesi in tutto il mondo, nelle quali il Cic ha acquisito partecipazioni più o meno importanti. Per un investimento complessivo da 59 miliardi di dollari (il 36,3% in più rispetto al 2009). Secondo il Wall Street Journal entro il 2020 gli investimenti all’estero potrebbero toccare i 2 mila miliardi di dollari. Con un’attenzione particolare verso i Paesi ricchi di materie prime, come l’Australia, che ha visto arrivare dalla Cina 3 miliardi solo nel 2010 (spicca l’operazione che ha coinvolto il colosso minerario Rio Tinto). Ma il Cic conta partecipazioni anche tra i “big” della finanza Usa: dal 12% di Blackstone al 10% di Morgan Stanley. Gli investimenti negli States, poi, spaziano dall’informatica all’energia, alle catene alberghiere. In Europa, inoltre, la Cina ha “conquistato” 118 aziende, tra cui ad esempio il colosso dell’auto Volvo (sottratto alla Ford attraverso la Geely, per 1,8 miliardi di dollari). Solo poche settimane fa, poi, è trapelata la notizia di un imminente investimento nella holding inglese che possiede Thames Water, la rete di distribuzione idrica di Londra. Da sottolineare, ancora, il ruolo assunto nei confronti del debito americano. Dalla primavera del 2009 Pechino ha di fatto prestato a Washington 1 miliardo di dollari al giorno: oggi possiede bond americani per 800 miliardi. Va detto, però, che in tal modo la Cina lega inevitabilmente LE RISERVE IN VALUTA ESTERA DELLA CINA il proprio destino a quello degli 1998 Usa, dal momento che il 65% 149 1999 146 delle sue riserve in valuta 2000 166 estera è costituito proprio 2001 212 2002 da dollari. È chiaro, quindi, 286 2003 403 che la Cina ha assunto una 2004 610 posizione sempre più “forte” 2005 819 2006 nei confronti degli Usa. Ma è 1.066 2007 1.528 chiaro anche che il biglietto 2008 1.946 da 100 dollari con l’effige 2009 2.399 2010 di Mao, provocatoriamente 2.847 2011 3.181 evocato dal settimanale 0 800 1600 2400 3200 francese l’Express, non sarà FONTE: STATE ADMINISTRATION OF FOREIGN EXCHANGE, PEOPLE’S REPUBLIC OF CHINA AND THE PEOPLE’S BANK OF CHINA mai stampato. | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 19 |


| dossier | super bolla cinese |

I

prima volta la percentuale dei residenti nelle campagne. Un risultato atteso, trainato dall’aumento dei “lavoratori migranti” che nell’anno passato hanno raggiunto la cifra di 252 milioni (+4,4% rispetto al 2010).

Ascesa e declino La correlazione tra urbanizzazione e sviluppo economico appare ovviamente logica. Così come altrettanto logici sembrano i suoi effetti collaterali. Secondo un recente studio di Barclays, citato dalla rivista Forbes, dal 2000 a oggi l’indice dei prezzi delle abitazioni cinesi è aumentato del 70%. Un fenomeno che, ovviamente, è

CINA-USA. IL SETTORE IMMOBILIARE A CONFRONTO Cina

USA

Prezzo medio al mq

$ 6.932

$ 13.428

Affitto medio annuale

$ 1.841

$ 6.304

133,7 volte

27,9 volte

+2,0%

-3,73%

+59,12%

-18,56%

n.d.

19,53%

Prezzo medio /Pil pro capite Andamento prezzi 1 anno Andamento prezzi 5 anni Andamento prezzi 10 anni

Povertà, il governo “quintuplica” gli indigenti di Andrea Barolini Il governo di Pechino ha deciso di modificare la soglia che definisce i cittadini “poveri”, elevandola a quasi un dollaro al giorno. Al di sotto di tale limite nel Paese ci sono 128 milioni di persone Il numero di cinesi considerati poveri è quintuplicato. Non si tratta della conseguenza di una crisi (parola quantomai sconosciuta nella galoppante economia del Paese asiatico), bensì della diversa definizione di povertà che il governo ha deciso di adottare a partire dallo scorso mese di dicembre. Ora la soglia al di sotto della quale si è considerati indigenti è fissata a un reddito annuo di 2.300 yuan (contro i 1.196 precedenti). Ovvero 361 dollari all’anno, poco meno

| 20 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

di un dollaro al giorno. Meno anche della soglia fissata dalla Banca Mondiale (1,25 dollari). Va detto, tuttavia, che quest’ultima è calcolata in base al potere d’acquisto, in dollari, del 2005. Tradotto, si considera povero chi ha meno dell’equivalente di ciò che si poteva acquistare sette anni fa negli Stati Uniti. In Cina il mercato è evidentemente diverso e, per questo, una recente analisi dell’Economist conclude che il dollaro scarso indicato dai cinesi è di fatto assimilabile alla soglia scelta dalla World Bank. Resta il fatto che, stanti i nuovi limiti, oggi in Cina ci sono 128 milioni di persone considerate “ufficialmente” povere, poco meno del 9,6% della popolazione totale, contro i 27 milioni registrati alla fine del 2010. Meglio dell’Italia, che secondo i dati Caritas registra il 13,8% di indigenti, peggio della Francia e della Germania, che non superano rispettivamente il 7,2 e l’8,9% (dati Ocse).

si spreca, soprattutto di fronte ai sintomi di un suo possibile scoppio. I primi segnali della contrazione, ha notato Business Insider, si sono evidenziati nell’agosto del 2011 quando le prime 10 società di costruzione hanno riportato un ammontare totale di invenduto pari a 318 miliardi di yuan (circa 50 miliardi di dollari), con un aumento del 46% rispetto all’anno precedente. Secondo il China Real Estate Index, elaborato da Soufun.com, i prezzi delle case starebbero ormai calando in oltre la metà delle 100 principali città della Cina. Nei primi 11 mesi del 2011, ha riportato il quotidiano Caijing, i volumi di vendita delle abitazioni di Pechino hanno registrato un meno 27% su base annuale, centrando il record negativo del decennio.

Altro

317,2

2,2 1,9 6,1 13 0,9 1,2 4,1 15,7 1,5 0,2 5,8 2,8 1,5 43,9 23,2 17,3 7,8 2,6 4,9 8,6 7,9 Asia Hong Kong Macao Myanmar Singapore Africa Algeria Nigeria Sudafrica Europa Germania Italia Lussemburgo Russia Svezia America Latina British Virgin Islands Isole Cayman America del Nord Canada Stati Uniti Oceania Australia Totale

1%

3%

50 0

Utilità

Servizi di telecomunicazione 4%

5% Beni immobili

6% Salute

Beni di prima necessità

Beni di consumo discrezionali

Industriali

Tecnologia dell'informazione

Materiali

5

0

100

9%

10%

10%

10%

150

12%

13%

10

228,1 199,1

200

17%

15

Scenari incerti Sul ridimensionamento generale pesano anche gli interventi delle autorità. Un anno fa circa, il governo ha alzato al 60% la quota minima del versamento in contanti per l’acquisto della seconda casa invitando le amministrazioni locali a incrementare l’offerta di alloggi pubblici a prezzi ridotti. Di recente, inoltre, sono stati di fatto bloccati gli acquisti dall’estero. L’impressione, insomma, è che la Cina stia cercando di gestire una sorta di “scoppio controllato” riducendo l’impatto sulla crescita complessiva dell’economia nazionale. Ma le prospettive restano incerte. Il solito O’Neill (Goldman Sachs, vedi ARTICOLO a pag. 16) ha ricordato che nelle economie consolidate il tasso di urba-

Dietro il boom economico cinese c’è dunque la realtà di un Paese nel quale, nonostante il reddito medio sia in netta ascesa, un’imponente fascia di popolazione vive in condizioni del tutto precarie. L’economia dei poveri Per spiegare tale dinamica occorre ricordare come l’economia, sebbene continui a essere trainata in larga parte dalle esportazioni, abbia ormai creato una domanda domestica sufficientemente strutturata. I consumi sono cresciuti fortemente nell’ultimo decennio e l’inflazione – complici le politiche monetarie espansive imposte da governo e banca centrale – si è attestata nel 2011 al 5,4%. Una miscela che non poteva che colpire soprattutto i più svantaggiati, spesso costretti a spostarsi dalle campagne alle città, nella speranza di migliorare le proprie condizioni di vita. Aver quasi raddoppiato la soglia di povertà in soli due anni, inoltre, costituisce per Pechino un’implicita ammissione: il problema dell’indigenza non era, in effetti, così marginale come sostenuto a lungo dal governo. Una minimizzazione necessaria soprattutto per mettere a tacere

nizzazione oscilla attorno al 70%, il che significa che allo stato attuale la Cina può ragionevolmente ipotizzare per il futuro ulteriori spostamenti in città per circa 200 milioni di persone, con conseguente sostegno a una domanda capace di assorbire eventuali eccessi di offerta. D’altra parte, le prospettive di breve termine non sono convincenti. L’australiano Money Morning prevede che gli investimenti nel settore immobiliare cinese (“il settore più importante del mondo”) cresceranno nel 2012 del 12-14%, circa la metà dell’anno precedente. Di conseguenza la crescita del Pil non potrebbe superare l’8% evidenziando quindi un significativo rallentamento rispetto all’anno passato. 

DOVE SONO I POVERI CINESI? Regione

Popolazione (%)

Aree costiere Nordest Centro Sudovest Nordovest

34,6 8,4 28,3 19,6 9,1

Cittadini poveri (%) 2,3 5,6 5,8 11,8 18,9

La distribuzione geografica degli indigenti in Cina è piuttosto diseguale. La maggior parte è concentrata nelle regioni occidentali, mentre le aree costiere sono le meno colpite dal fenomeno. I dati si riferiscono a chi risultava al di sotto della linea di povertà fissata in termini di reddito dalla Banca Mondiale nel 2003, quando la percentuale totale di poveri era stimata al 6,9% dallo stesso organismo internazionale.

le ripetute critiche giunte a livello internazionale sul rispetto dei diritti umani: il primo diritto, sostengono le autorità cinesi, è infatti quello al cibo e all’acqua. Ora che però i cittadini considerati poveri sono quintuplicati, lo stesso presidente Hu Jintao si è affrettato a dichiarare all’agenzia ufficiale Xinhua che «l’attuale trend che vede aumentare il gap tra i ricchi e i poveri deve essere invertito».

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 21 |

FONTE: CHINA - FROM POOR AREAS TO POOR PEOPLE, WORLD BANK, MARZO 2009

n principio era “il contadino cinese”. Come l’operaio russo, l’impiegato Usa o il dipendente statale italiano. Figura chiave, insomma, di un modello economico di riferimento che nel 1949, anno della vittoria della rivoluzione maoista, interessava 9 cinesi su 10. Trent’anni più tardi, quando furono avviate le prime riforme economiche, meno del 20% dei cinesi risiedeva stabilmente in città. Oggi l’urbanizzazione rappresenta la condizione più diffusa. Alla fine del 2011, ha ricordato il National Bureau of Statistics di Pechino, la popolazione cinese concentrata nelle città ha toccato quota 51,27% superando per la

stato reso possibile tanto dagli investimenti nel comparto quanto dall’accesso al credito che, come si è visto, ha interessato un settore finanziario ombra dalle dimensioni tuttora indefinite. Inevitabile, per gli osservatori esterni, parlare apertamente di bolla immobiliare. La preoccupazione FONTE: GLOBAL PROPERTY GUIDE (WWW.GLOBALPROPERTYGUIDE.COM), FEBBRAIO 2012

Nel 1949 il 90% dei cinesi viveva nelle campagne. Oggi più di metà della popolazione risiede in città. La bolla immobiliare potrebbe essere già scoppiata. Ma la portata dei potenziali danni è ancora incerta

250

Energia

di Matteo Cavallito

VALORE DEGLI INVESTIMENTI DIRETTI CINESI ALL’ESTERO (STOCK, ANNO 2010)

20

Finanza

Bolla immobiliare, verso lo scoppio controllato?

CIC, DISTRIBUZIONE DELLE PARTECIPAZIONI PER SETTORE

FONTE: 2010 STATISTICAL BULLETIN OF CHINA’S OUTWARD FOREIGN DIRECT INVESTMENT, MINISTERO DEL COMMERCIO DELLA CINA

| super bolla cinese |

FONTE: CHINA INVESTMENT CORPORATION ANNUAL REPORT 2010

dossier


dossier

| super bolla cinese |

| dossier | super bolla cinese |

di Valentina Neri

Traguardi tra gli ostacoli

Gli scioperi alla Honda e le conquiste alla Foxconn hanno incoraggiato molti lavoratori. Ma la strada delle lotte sindacali è ancora in salita. Soprattutto per i migranti ogliamo una spiegazione! Vogliamo la verità! Dov’è la credibilità del governo?». Queste parole campeggiavano sull’enorme striscione appeso ai cancelli della Hi-P International, a Shanghai. Un nome che a noi europei non dice molto. Ci sono più familiari le grandi marche che da questa impresa acquistano i componenti: Apple, Hewlett-Packard, Rim (che produce i Blackberry), Motorola. Il 30 novembre, su quattromila dipendenti, diverse centinaia sono entrate in sciopero. Il motivo? Per risparmiare, l’azienda sarebbe stata spostata in periferia, a Nanhui. Per gli operai, un ultimatum: trasferirsi o perdere il lavoro da un giorno all’altro. Poco importava il fatto che, dopo venti ore in fabbrica, un viaggio di un’ora e mezza avrebbe tolto loro anche il tempo di dormire. Dopo un mese è arrivato il compromesso: indennità di trasloco, navette aziendali e posti di lavoro in altre filiali. L’eco delle proteste ha valicato i confini del gigante asiatico dopo alcuni episodi storici: lo sciopero nel 2010 di 1.900 dipendenti della Honda, per protesta contro gli stipendi troppo bassi, e la tragica catena di suicidi alla Foxconn, che fornisce alla Apple le componenti per iPhone e iPad. Proprio nei giorni scorsi l’azienda di Cuperino ha annunciato che la Fair Labor Association condurrà una serie di controlli sulle condizioni dei lavoratori in numerose fabbriche, incluse quelle di Foxconn a Shenzhen e Chengdu.

«V

Dalla campagna alla città Se qualcosa sta cambiando, però, non si può dare il merito ai sindacati, anzi al sindacato: l’Acftu. Una realtà dipendente dal governo nella quale i lavoratori non nutrono fiducia. D’altronde alla Honda sono state le sezioni locali del sindacato a spedire gli “ufficiali” che hanno aggredito gli scioperanti per costringerli a tornare al lavoro. Il cambiamento, piuttosto, ha il volto dei 200 milioni di persone che si spostano dalle campagne alle città. Nel 2010 il salario medio mensile per un migrante era di 1.600 yuan (191 euro), a fronte dei 2.687 (321 euro) per un lavoratore urbano. Come se non bastasse, il sistema di registrazione della residen| 22 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

SALARI MINIMI MENSILI IN ALCUNE CITTÀ CINESI 2009

2011

Variazione % 2011-2009

yuan

euro

yuan

euro

yuan

Pechino

800

96

1160

140

45%

Shanghai

960

115

1280

154

33%

Guangzhou

860

103

1300

157

51%

Shenzhen

1000

120

1320

159

32%

Chongqing

680

81

870

105

28%

za (hukou) li relega a una vita civile “a metà”. La spesa pubblica per il welfare, infatti, viene ponderata a livello locale sulla base dei residenti “ufficiali”. Chi ha uno status “rurale” non lo può cambiare. E, per studiare o curarsi in città, si trova a sborsare cifre aggiuntive. Le riforme per ora sono a macchia di leopardo. A Guangzhou ad esempio è stato elaborato una sorta di “permesso di soggiorno”, concesso però solo a 3 mila migranti su 7 milioni. Ma se i migranti di prima generazione erano disposti a tutto o quasi, i loro figli sono diversi. Hanno trascorso la maggior

I salari obbligati a crescere di Valentina Neri Schiere di operai-schiavi pagati con un pugno di riso per turni massacranti, senza tutela né diritti. Lo stereotipo è tragicamente fondato. Anche questo sta cambiando La middle class cinese è ormai intorno al mezzo miliardo di persone. Entro il 2030, secondo un’analisi di Forbes, crescerà fino a 1,4 miliardi. Su quest’enorme bacino di clientela già puntano le multinazionali di tutto il mondo. Ma anche le autorità e le aziende cinesi si trovano costrette a scommettere sui consumi dei connazionali.

FONTE: CHINA LABOUR BULLETIN

Il risveglio dei diritti nella fabbrica del mondo

parte della vita (se non tutta) in città, sono più istruiti, hanno meno di 30 anni e, soprattutto, iniziano a essere in maggioranza. Secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica (riportati dal China Labour Bulletin in un rapporto dal nome eloquente: L’unione fa la forza), nel 2010 il 61,6% dei migranti era nato dopo il 1980.

È anche grazie a loro se le proteste aumentano esponenzialmente. Nel 2006 – riporta l’agenzia Reuters – la Chinese Academy of Social Sciences segnala circa 60 mila “conflitti di massa sul lavoro”. Nel 2007 erano già 80 mila, 90 mila nel 2009. Mancano dati ufficiali perché il diritto di sciopero è relegato a una “area grigia” della legislazione: la Costituzione del 1982 non lo prevede né lo vieta espressamente. Sono le autorità a decidere di volta in volta se tollerare il dissenso. Il governo, intanto, cerca di mantenere la stabilità sociale e politica. Social sciences in China stima che nel 2009-2010 a tale scopo abbia speso 514 miliardi di yuan: una somma pari alle spese militari. A livello legislativo, poi, ha adottato un regolamento per la mediazione delle dispute lavorative. Le questioni da risolvere restano tante. I lavoratori non hanno libertà di parola e associazione; spesso le proteste sono represse sul nascere; i loro leader rischiano il licenziamento. Ma, dall’altra parte, management e operai hanno capito che gli scioperi costano (quello alla Honda ha fatto perdere 28,7 milioni di euro al giorno). E che, contrariamente all’opinione comune, i margini SITI INTERNET per incrementare i salari ci sono: lo diwww.chinalaborwatch.org, mostra la Foxconn che li ha raddopChina Labor Watch piati in meno di un anno. Conquiste www.clb.org.hk, che hanno dato sempre più coraggio ai China Labour Bulletin lavoratori. 

Perché l’economia della “fabbrica del mondo” non sarà – e non potrà più essere – basata solo sull’export. Circa la metà del made in China che viene esportato, infatti, finisce negli Usa o in Europa, dove la crisi sta frenando la domanda. Di conseguenza, afferma il China economic outlook pubblicato dal Fmi, le imprese rischiano di trovarsi in difficoltà. E di mettere in crisi le banche, in caso non riescano a rimborsare i finanziamenti. È per tutto ciò che occorre dividere in modo più equo i frutti del boom degli ultimi anni. In futuro, la disponibilità di un enorme bacino di lavoratori a basso costo potrebbe inoltre non essere più scontata. A partire dal 1979, la politica del figlio unico ha portato a una “piramide demografica” in cui il segmento più consistente della popolazione non era troppo giovane né troppo anziano per lavorare. Col tempo si sta scivolando verso una piramide “invertita”, dominata dagli anziani. Si prevede così che la forza lavoro inizi a diminuire in termini assoluti nel 2015. Bisognerà inoltre predisporre sistemi previdenziali e sanitari adeguati

E L’AMERICA ASPETTA IL CONTROESODO In America si parla di reshoring per definire il caso in cui le imprese, dopo aver delocalizzato la produzione in Cina, decidono di “tornare indietro”. Riportando macchinari, produttività e soprattutto posti di lavoro dentro i confini degli Stati Uniti. Il Boston Consulting Group (Bcg) ha dedicato al fenomeno uno studio intitolato Made in America, again: why manufacturing will return to the US (vedi Valori di dicembre 2011). Se i salari concessi agli operai della seconda economia del mondo crescono ed emergono le rivendicazioni, entro il 2015 produrre negli Usa costerà “solo” il 40% in più rispetto alla Cina. E con le spese e i tempi di trasporto, la delocalizzazione per molti non sarà più conveniente: si tornerà a casa. Creando – stima il Bcg – un aumento dell’output pari a 100 miliardi di dollari e 2-3 milioni di nuovi posti di lavoro. Ma siamo sicuri che il controesodo prenderà la strada degli States? C’è chi ritiene che – così come accaduto col tessile britannico che dal Giappone è migrato a Hong Kong, in Corea e nella stessa Cina – le destinazioni più probabili per gli stabilimenti cinesi siano piuttosto India, Vietnam o Bangladesh. Dove però bisognerebbe risolvere il nodo delle infrastrutture, ancora carenti. Secondo Tim Leunig (economista della London School of Economics), inoltre, la diversa organizzazione del lavoro delle aziende occidentali richiede molto meno personale. A suo parere, se il 10% dell’output del comparto elettronico (che in Cina impiega circa 3 milioni di persone) tornasse negli Usa, verrebbero persi 300 mila posti. Ma dall’altra parte del Pacifico se ne guadagnerebbero solo 40 mila.

e garantire un livello minimo di benessere perché la popolazione riesca a mantenersi a fronte di un’aspettativa di vita in aumento. Tutti segnali che vanno nella stessa direzione: aumentare i salari è un obbligo. E sta già avvenendo: a fine settembre i dati ufficiali del governo, che coprono 21 regioni su 31, riportavano un aumento medio dei salari minimi del 21,7% rispetto al 2010 (vedi TABELLA ). Spesso, tuttavia, tali retribuzioni non sono sufficienti per assicurare la sussistenza (anche per via dell’inflazione): e gli operai sono costretti agli straordinari, superando anche i limiti di legge. Il China Labour Bulletin ricorda che in teoria i salari minimi dovrebbero essere il 40-60% di quelli medi mensili della regione di pertinenza: ma, nel 2010, a Pechino e Shanghai si arrivava solo al 20%. Senza contare il fatto che molti datori di lavoro vi detraggono le spese (ad esempio quelle per i pasti) o li legano a condizioni insostenibili, come il divieto di prendersi giornate libere. L’esecutivo sembra aver preso coscienza del problema, e ha lanciato un piano per il lavoro che promette fino al 2015 un +13% annuo per i salari minimi.

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Poyang, il lago cinese prosciugato dalla crescita di Andrea Barolini

Il lago Poyang era il più grande del Paese. Ora è una spianata arida. Colpa delle mancate piogge, secondo il governo. Ma ambientalisti ed esperti puntano il dito contro la gigantesca diga delle Tre Gole l più grande lago d’acqua dolce della Cina, con il suo specchio di 3.500 chilometri quadrati, qualcosa come tre volte l’estensione territoriale di una città come Roma, doveva essere uno spettacolo della natura incredibile. Doveva, perché ora il suo bacino è ridotto a soli 200 km quadrati, contro un livello minimo “normale” di mille km quadrati nella stagione meno piovosa. Siamo nella regione del Sud Yangzi, provincia di Jiangxi, dove il lago Poyang è ormai quasi una desolata rada secca. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua la ragione è tutta da attribuire «alla mancanza di precipitazioni che ha

I

colpito la regione del lago e le aree dove si snodano gli affluenti». Ma per molti esperti – e per le associazioni ambientaliste – il motivo del prosciugamento è molto più inquietante. E pone direttamente in causa il modello di sviluppo cinese.

La diga che distrugge l’ambiente Cinquecento chilometri a monte del lago, infatti, sorge la colossale diga delle Tre Gole. E, sebbene la relazione di causa-effetto non sia dimostrata ufficialmente, lo stesso governo di Pechino ha ammesso, nel maggio del 2011, che il gigantesco sbarramento ha generato «problemi da risol-

vere urgentemente». Per gli accademici ciò che è accaduto sembra chiaro: «Ogni anno, mentre la diga immagazzina acqua per funzionare durante la stagione secca invernale, il flusso dello Yangzi cala. E accelera la decrescita del lago», ha spiegato al quotidiano Le Monde Ye Xunchun, ricercatore e coautore, insieme agli scienziati del Laboratorio di studi sull’Ambiente di Nankin, di un’analisi sui livelli idrici modificati dallo sbarramento artificiale delle Tre Gole. «L’equilibrio ecologico è, per questo, pesantemente compromesso», gli fa eco Dai Nianhua, del Centro di ricerca sul lago Poyang con sede a Nan-

L’AMBIENTE CHIEDERÀ IL “CONTO” ALLA CINA Parola dello stesso governo di Pechino: il cambiamento climatico minaccia la prosperità della Cina. A causa delle limitazioni che possono subire i raccolti, della riduzione della quantità di acqua trasportata dai fiumi e dell’aumento delle fasi “estreme” di siccità e inondazioni. Nelle 710 pagine del secondo Rapporto nazionale di valutazione dei rischi provocati dai cambiamenti climatici, tecnici e scienziati, incaricati dal governo di fotografare la situazione, hanno spiegato che «la Cina fronteggia una situazione ecologica e ambientale estremamente cupa». E, stante l’attuale livello di crescita, le emissioni di biossido di carbonio cominceranno a diminuire solo a partire dal 2030. Il rapporto considera differenti scenari: si sono ipotizzati aumenti delle temperature medie nel Paese asiatico, entro la fine del secolo, tra i 2,5 e i 4,6 gradi, rispetto alla media del periodo 1961-1990.

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In ogni caso, ammoniscono gli scienziati, «siamo di fronte a una minaccia per la nostra sicurezza alimentare». A essere colpito sarà, infatti, principalmente il settore agricolo. La produzione di cereali, ad esempio, potrebbe subire una contrazione tra il 5 e il 20% di qui al 2050. Il problema principale sarà la mancanza di acqua: «Dal 1950, oltre l’82% dei ghiacciai risulta in regressione e il ritmo è aumentato dopo il 1990». Proprio da questi dipende il flusso dei principali fiumi. Mentre il livello del mare sul litorale di Shanghai, dal 1979 al 2009, è salito di 11,5 centimetri, incrementando l’esposizione ai rischi legati a tifoni e inondazioni. Per proteggersi, dunque, saranno necessari enormi investimenti. E ingenti capitali andranno accantonati anche per fronteggiare le possibili emergenze. È il prezzo che la Cina – e come lei numerosi altri Paesi – dovranno pagare per una crescita ambientalmente insostenibile. A.B.

CINA/USA, LA GUERRA DEGLI PNEUMATICI E DEI POLLI Per l’intero biennio 2010-2011 Cina e Stati Uniti si sono misurati in un lungo braccio di ferro. Al centro della contesa la politica monetaria di Pechino, che, secondo Washington, consente alla nazione asiatica di tenere artatamente svalutata la moneta locale, lo yuan, al fine di irrobustire le esportazioni. Il segretario al Tesoro Timothy Geithner ha più volte rimarcato quella che non ha esitato a definire «una forma di concorrenza sleale», che secondo la Casa Bianca è corresponsabile delle difficoltà economiche americane. Ma la “guerra” commerciale tra i due Paesi va ben al di là della mera questione monetaria. All’inizio di settembre il presidente Barack Obama ha brandito la clausola di salvaguardia autorizzata dall’Omc (Organizzazione mondiale del commercio) per aumentare del 35% i dazi doganali sulle importazioni di pneumatici cinesi. Queste ultime, infatti, sono cresciute del 300% in cinque anni, tanto che oggi il 40% dell’export di tali prodotti da parte cinese finisce proprio nel mercato Usa. Le autorità cinesi hanno lamentato la perdita di 1 miliardo di dollari e 100 mila posti di lavoro, a causa della decisione della Casa Bianca. Ma non basta: il contrattacco è stato concretizzato sul mercato dei polli. Pechino ha, infatti, lanciato un’inchiesta antidumping sulle importazioni di volatili provenienti dagli Stati Uniti, così come di ricambi auto. Allo stesso modo, sono stati

chiang, il capoluogo della provincia. Si pensi che l’area è abitata da circa mezzo milione di uccelli migratori. Una pianta cresciuta sul fondo del lago Poyang, in una porzione di territorio normalmente ricoperta d’acqua. Lo scatto è del 4 maggio scorso. REUTERS / CHINA DAILY INFORMATION CORP - CDIC

dossier

aumentati del 35% i diritti sulle importazioni di un acido necessario per la fabbricazione del nylon. E si preannunciano ulteriori giri di vite in senso protezionistico. Il presidente della camera di commercio europea in Cina ha denunciato in un rapporto i “cambiamenti incessanti delle regole del gioco” imposti dal governo asiatico. E ha spiegato che, qualora quest’ultimo fosse più aperto, le esportazioni del Vecchio Continente potrebbero aumentare di 20 miliardi di euro all’anno. La Cina lo sa e tenta la via del nazionalismo economico: per questo alcuni esperti ritengono oggi impossibile un’operazione effettuata soli cinque anni fa, quando la svedese Seb acquistò il numero uno cinese dei prodotti culinari, Supor. Non a caso pochi mesi fa la Coca Cola ha dovuto rinunciare all’acquisto della Huiyuan, leader del settore dei succhi di frutta. Una tregua, forse, ce la si può aspettare sul fronte del petrolio: se gli Usa dovessero riuscire ad andare avanti massicciamente con la produzione di gas da scisto (il che però è tutto da verificare), del quale la Cina è estremamente povera, Pechino potrà trovare meno intralci nel negoziare gli enormi quantitativi di petrolio necessari per alimentare la propria crescita. In ogni caso, la guerra commerciale tra le due superpotenze, c’è da scommetterci, sarà il leitmotiv dei prossimi anni. A.B.

In nome della massimizzazione della produzione di energia elettrica, insomma, un’immensa regione sta vedendo la propria natura modificata. Non solo da un punto di vista ambientale. A patirne le conseguenze, ad esempio, ci sono i pescatori che abitano i numerosi villaggi che sorgono sulle sponde del Poyang. Gente che di quell’attività vive anche da mezzo secolo e che oggi si trova a guadagnare 5 mila yuan all’anno (600 euro), contro una media nazionale compresa tra i 10 ed i 20 mila yuan (1.200-2.400 euro). Scendendo così il breve gradino che li separava dalla povertà.

Non un caso isolato Ciò che più preoccupa è il fatto che il caso del lago Poyang non è isolato in Cina. Almeno altri quattro importanti laghi – Dongtin, Tai, Chao e Hongze – richiedono sforzi “estremamente urgenti” per garantirne la protezione. Non si tratta solamente di questioni legate all’approvvigionamento idrico, bensì di numerosi problemi di conservazione dei bacini e dei loro ecosistemi. A confermarlo è stato un gruppo di una ventina di ricercatori dell’Accademia delle Scienze cinese, in un rapporto

pubblicato nel dicembre del 2011. Gli esperti esortano a «investire in modo massiccio nel controllo degli inquinanti industriali», spesso riversati senza riguardi nei fiumi che sfociano nei laghi e nel mare. Allo stesso modo, proseguono i ricercatori, «occorre affrontare il problema dei rifiuti idrici provenienti dalle città, che risultano in continuo aumento». Tutto ciò, però, presume un forte impegno da parte del governo di Wen Jiabao. Impegno che, negli ultimi decenni, sembra essersi perso nella rincorsa alla crescita economica. Così la Cina ha superato gli Usa e si è imposta come la potenza industriale più inquinante al mondo. Ufficialmente, l’esecutivo ha promesso di ridurre le emissioni di CO2 del 17% entro il 2015. E ha lanciato alcuni progetti-pilota nelle città di Pechino, Tientsin, Shanghai, Chongqing e Shenzhen e nelle province di Hubei e Guangdong. Tuttavia, secondo uno studio del 2008 della stessa Accademia delle Scienze se non si interverrà le emissioni raddoppieranno nel 2030. Solo nel 2010, riferiscono le statistiche ufficiali cinesi, il biossido di carbonio liberato nell’aria è stato pari a 8,3 miliardi di tonnellate.  | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 25 |


| finanzaetica | tassa sulle transazioni |

finanzaetica

Londra, 19 gennaio 2009. Artisti di strada celebrano l’apertura della filiale della Barclays Bank a Piccadilly Circus nel West End di Londra.

Ttf

Il Regno Unito si oppone alla Tassa sulle transazioni finanziarie. La Germania ne ha ipotizzato in passato l’applicazione alla sola Eurolandia. Ma oggi, al contrario, sembra cercare il compromesso. Mentre il fronte della finanza fa sentire la sua voce

Il gelo sopra Berlino di Matteo Cavallito el 1980 il professor Tobin mi disse che la Tobin Tax è come il mostro di Lochness: «appare e scompare continuamente». Berlino, 11 gennaio 2012. Spetta a Mario Monti la citazione più bella degli ultimi tempi. L’ipotesi di una Tassa sulle transazioni finanziarie non è stata accantonata definitivamente, eppure, guarda caso, rischia nuovamente di uscire dall’agenda europea. Molti la difendono, molti la propongono. Ma per ora non se ne fa niente e in futuro, chissà. Perché in fondo è un po’ il suo destino, dentro e fuori dai programmi di riforma nello spazio di qualche mese. Lo aveva intuito già a suo tempo il premio Nobel per l’Economia del 1981, James Tobin; lo ha ricordato, a margine dell’ennesimo vertice bilaterale promosso dalla Germania, il suo allievo di Yale e attuale premier italiano. E se ne sono accorti, infine, i sostenitori della tassa. Investiti, negli ultimi mesi, da un vento contrario di rara intensità, favorito di fatto da almeno un paio di evidenti strappi politici. Ma andiamo con ordine.

HORST FRIEDRICHS / ANZENBERGER / CONTRASTO

N

Più stabilità e crescita > 29 Il parlamento si mobilita. Con calma > 30 Banche, speculazioni e land grabbing > 31 Se contro la crisi si affossa il credito > 33 | 26 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

Una proposta “ponte” 9 dicembre 2011, Consiglio europeo. L’Ue vara il nuovo Patto di Stabilità, ma Londra risponde con un secco “no”. «Vogliamo la nostra sovranità», dichiara a gran voce il premier David Cameron. Il solito euroscetticismo britannico, pensano in molti. | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 27 |


| finanzaetica |

Quanto gettito può generare una tassa sulle transazioni finanziarie? I numeri variano notevolmente, a seconda dei diversi progetti. Nello studio di fattibilità della Commissione europea,

l’imposta dovrebbe applicarsi a partire dal 2014 con un’aliquota dello 0,01% sui derivati e dello 0,1% su azioni, bond e scambi valutari: gettito previsto 53 miliardi di euro che si riducono a 41 escludendo questi ultimi. Un anno Aliquota su Aliquota sui Aliquota su Ricavi prima la Commissione aveva ipotizzato Ricavi Ue azioni % derivati % currencies % nel mondo di imporre l’aliquota dello 0,1 anche sui Commissione Ue 2010 0,1 0,1 0,1 nd 400 derivati ipotizzando, quindi, un ricavo Commissione Ue 2011 0,1 0,01 0,1 nd 53 complessivo di 400 miliardi. Nel 2008, l’economista austriaco Stephan Commissione Ue 2011 0,1 0,01 0,0 nd 41 Schulmeister calcolò che un’imposta Schulmeister 2008* 0,05 0,05 0,05 493 nd dello 0,05% su scala globale avrebbe Schulmeister 2010* 0,05 0,05 0,05 592** 263 generato ricavi per 655 miliardi FONTI: COMMISSIONE UE, STEPHAN SCHULMEISTER (AUSTRIAN INSTITUTE OF ECONOMIC RESEARCH, ÖSTERREICHISCHES INSTITUT FÜR WIRTSCHAFTSFORSCHUNG WWW.WIFO.AC.AT. DATI IN MILIARDI DI EURO. di dollari. Due anni dopo ipotizzò * DATI IN EURO AL CAMBIO ATTUALE, LE CIFRE ERANO ORIGINARIAMENTE IN DOLLARI. ** CALCOLO EFFETTUATO DA VALORI SUI DATI FORNITI DA SCHULMEISTER IN UN’INTERVISTA. L’ECONOMISTA IPOTIZZÒ UN AUMENTO DEL 20% SULLA CIFRA un incremento del 20% sul totale. DEL 2008 (VEDI VALORI N. 84, NOVEMBRE 2010, PAG. 32).

FONTE: ERNST&YOUNG ITEM CLUB OUTLOOK FOR FINANCIAL SERVICES, WINTER 2011/12 FORECAST, FEBBRAIO 2012. DATI IN MILIARDI DI EURO. *ELABORAZIONE VALORI SU DATI E&Y E COMMISSIONE UE

Totale

QUANTO RENDE LA TTF?

Currencies

BOURSE LEVY: la Bourse levy si applica alle sole operazioni sul mercato azionario e non coinvolge valute, obbligazioni o derivati. Dovrebbe essere un’imposta ridotta (si parla dello 0,1%) che, per sua natura, non riguarderebbe, tra le altre cose, le operazioni sui contratti futures degli indici, utilizzati dagli speculatori per aggirare i blocchi alle vendite allo scoperto. Paradossalmente la tassa penalizzerebbe gli investitori di lungo (che acquistano azioni in Borsa), ma non farebbe perdere un centesimo, ad esempio, agli speculatori ribassisti.

Una Ttf applicata alla sola Eurolandia costerebbe comunque alla Gran Bretagna fino a 22 miliardi di euro, senza contare le ricadute sull’occupazione. Lo ha reso noto un rapporto di Ernst&Young, una delle maggiori società di revisione del mondo. Se ad essere tassate fossero tutte le operazioni di titoli denominati in euro (concentrate prevalentemente a Londra), sostiene il rapporto, allora «la Tassa sulle transazioni potrebbe effettivamente essere imposta sul Regno Unito utilizzando una porta di servizio». Da qui il calcolo definitivo: una tassa che si applicasse anche alle transazioni valutarie, imporrebbe a Londra il pagamento di 22 miliardi di euro, il 64% dei ricavi complessivi generati dalla tassa in Europa (35 miliardi). In questo caso, inoltre, la prevista contrazione delle transazioni in euro condotte nel Regno Unito, brucerebbe circa 4.500 posti di lavoro nell’industria finanziaria. Escludendo gli scambi di valute, il Regno Unito dovrebbe comunque versare 13 miliardi, ovvero il 58% dei ricavi totali (a quel punto 22 miliardi).

Totale

GLOSSARIO

UNA TTF DI EUROLANDIA? LA GRAN BRETAGNA PAGHEREBBE COMUNQUE

Derivati Otc sui tassi di interesse

Chi non ha mancato di far sentire la sua voce, come ha denunciato il commissario europeo per la Fiscalità, Algirdas Šemeta, è invece il fronte della grande finanza. La Global Financial Markets Association (Gfma) ha sostenuto che una Ttf farebbe aumentare da 9 a 18 volte i costi sul Forex market per i fondi pensione. In uno studio commissionato da alcune associazioni di categoria, tra cui l’italiana Assosim (Associazione italiana degli intermediari mobiliari), la società di consulenza britannica

Derivati currencies*

Campagna anti Ttf

Oxera ha spiegato che la tassa avrebbe addirittura un impatto negativo sull’economia reale (-0,53%), riducendo di 26 miliardi il gettito fiscale del Continente. L’indagine, però, non convince in più punti. Soprattutto quando si focalizza sulle perdite patite dalle imprese che utilizzano i derivati come copertura (hedging), ovvero per proteggersi dai rischi del mercato. «In realtà è evidente che una parte importante dell’attività sui derivati non riguarda affatto l’hedging ma soltanto il tentativo di realizzare guadagni di breve, comprando e rivendendo derivati senza possedere il sottostante – replica Leonardo Becchetti, docente di Economia dell’università di Roma Tor Vergata – ed è proprio quest’ultimo approccio, e non quello di “copertura” che la tassa finirebbe per scoraggiare». Ne sono convinti anche Avinash Persaud e Stephan Griffith-Jones, autori di uno studio di segno opposto. Secondo i due economisti la tassa non danneggerebbe sensibilmente né i fondi pensione né gli investitori “di lungo”, colpendo al contrario gli speculatori di breve. Riducendo l’instabilità finanziaria, sostiene la ricerca, la tassa farebbe addirittura aumentare la crescita del Pil nell’ordine di uno 0,25% all’anno. 

Derivati

E così mentre la Francia approva l’introduzione della tassa entro i suoi confini dal prossimo mese di agosto (gettito previsto 1,1 miliardi all’anno), la posizione tedesca resta formalmente la stessa con Berlino, che continua a sostenere le istanze della tassa. Ma adesso, a differenza di quanto accadeva prima, c’è l’apertura al compromesso. Insomma, se non proprio frantumato, il fronte della Ttf si è per lo meno incrinato. La Gran Bretagna si oppone da sempre alla Ttf. E non potrebbe essere altrimenti. Da un lato il timore di una fuga degli operatori verso lidi fiscali più favorevoli (scongiurata per altro da una tassa capace di “colpire” la nazionalità dell’operatore e non il luogo in cui viene materialmente effettuata l’operazione), dall’altro la prospettiva di veder crescere esponenzialmente i costi delle speculazioni (che si basano sull’impiego di una moltitudine di operazioni in brevi frazioni di tempo, il cosiddetto High frequency trading). In passato Angela Merkel aveva ipotizzato un progetto di tassazione alla sola Eurozona, promuovendo uno studio di fattibilità presso la Commissione europea. Di recen-

te un rapporto della società di revisione Ernst&Young ha implicitamente sostenuto che la strada di una Ttf su scala ridotta non solo funzionerebbe, ma costringerebbe Londra, suo malgrado, a versare fino a 22 miliardi di euro nelle casse dell’Europa (vedi BOX ). Ma, come detto, Berlino tace. Almeno per ora.

Obbligazioni

A chiedere una “linea dura” è ormai solo la Francia, che ha deciso di introdurre una Ttf a livello nazionale, in vigore a partire dal prossimo agosto

Titoli

Ma col passare del tempo sembra emergere un’altra verità. Perché la difesa della sovranità della Bank of England conta, eccome, ma a spingere Londra lontano dal Continente, forse, c’è ben altro. Il sospetto si evidenzia con forza poche settimane più tardi quando il ministro dell’Economia di Berlino, Philipp Roesler, lancia la sua idea: la Tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf, spesso erroneamente definita Tobin Tax anche se si dovrebbe applicare su tutte le operazioni finanziarie e non ai soli scambi valutari come ipotizzò a suo tempo il docente di Yale) può attendere, meglio cercare un sostegno unanime per la Bourse levy, l’imposta sugli scambi di Borsa (vedi GLOSSARIO ). Roesler la definisce “un ponte” tra il Regno Unito e l’Europa. Ed ecco che il quadro inizia a delinearsi. A creare tensione tra Londra e il Continente c’è soprattutto il progetto francotedesco di una riforma delle regole finanziarie. Un progetto mai delineato del tutto, che prende di mira, almeno nelle intenzioni, le attività dei fondi hedge (che negli ultimi dieci anni, ha rivelato il Financial Times, hanno versato nelle casse del partito conservatore britannico circa 14,3 milioni di sterline) e la leva finanziaria. E che, ovviamente, promuove l’introduzione di una Ttf. Di fronte al conflitto con Londra viene quindi da pensare che Angela Merkel abbia scelto la strada del compromesso, abbandonando quella linea dura che interessa ormai il solo Nicolas Sarkozy.

| finanzaetica |

Euro Ttf Ricavi UK

1,4

7,4 10,1

3,1

5,8

27,8 12,9 40,7

Ricavi tot UE

4,7

8,8 11,3

4,5

7,8

37,1 16,0 53,1

Ricavi UK

0,1

2,2

5,5

2,2

3,1

13,1

Ricavi tot UE

3,4

3,6

6,7

3,6

5,1

22,4 12,1 34,5

Eurozone Ttf 9,1 22,2

Più stabilità e crescita di Matteo Cavallito

L’opinione di Leonardo Becchetti, ordinario di Economia politica presso la facoltà di Economia dell’università di Roma Tor Vergata li studi anti-Ttf? Piuttosto discutibili, soprattutto se commissionati da soggetti troppo “coinvolti” per essere davvero credibili. Ne è convinto Leonardo Becchetti, ordinario di Economia politica presso la facoltà di Economia dell’università di Roma Tor Vergata. Gli studi commissionati dalle società del settore non possono essere più attendibili delle valutazioni della ComLeonardo Becchetti, missione europea. Come a dire che la Tasordinario di Economia sa sulle transazioni finanziarie è fattibipolitica le. Funzionerebbe nell’intero Continente, oppure nell’Eurozona o addirittura in un solo Paese, come dimostra la svolta della Francia. E, anche se la Germania ha frenato, è comunque lecito essere ottimisti.

G

Prima Oxera, poi anche Gfma. Contro la Ttf ha iniziato a scatenarsi una discreta campagna di perplessità. Che impressione le ha fatto? Diciamo che prima di valutare i contenuti di un rapporto occorre guardare anche all’indipendenza dei suoi autori. Se chi redige un rapporto risulta troppo coinvolto è difficile fidarsi di ciò che scrive. Direi che è più opportuno prendere in maggiore considerazione analisi più autonome, come quella della Commissione europea. La Commissione Ue aveva ipotizzato a suo tempo un’aliquota dello 0,01% sui derivati e dello 0,1% su tutto il resto. In questo modo si raccoglierebbero 53 miliardi all’anno. Un’ipotesi convincente? Penso che la Commissione intenda portare avanti il progetto seriamente. Poi chiariamo subito che l’analisi è solo un punto di partenza, anche perché quando si fanno analisi di impatto è difficile essere precisi. A proposito di impatto, Oxera parla di una possibile contrazione del Pil pari allo 0,5% all’anno… Certo, ma, ammettendo pure che abbia ragione, è opportuno ricordare lo studio di Persaud e di Griffith-Jones, secondo cui continua a pagina 30

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l’Ue avrebbe sottostimato vari elementi tra cui il fatto che, di fronte a minori opportunità di speculazione, aumenterebbe la quota di talenti che si dedicano all’economia reale invece che alla finanza. Consideriamo inoltre quanto si guadagnerebbe in fatto di stabilità finanziaria. Si calcola che finora la crisi abbia bruciato in Europa 9 punti percentuali di Pil. Basterebbe questa considerazione per cambiare completamente la previsione. Il “no” del Regno Unito non sembra negoziabile. C’è però l’ipotesi di un’imposta sulla sola Eurolandia e sulle transazioni in euro. Sì e funzionerebbe comunque. D’altra parte sappiamo che la tassa è applicabile anche in un solo Paese, come av-

| finanzaetica | mercato alimentare |

verrà in Francia dal prossimo agosto, o come avviene già nel Regno Unito dove sono tassati gli scambi azionari. D’altra parte il principio è chiaro: se invece della nazionalità tassi l’attività, diventa difficile evadere l’imposta.

Se la speculazione offrirà meno opportunità, crescerà il numero di talenti che si dedicano all’economia reale anziché alla finanza

A proposito di tassa sulle azioni, la Germania ha lanciato proprio questa ipotesi parlando di “proposta ponte” nei confronti di Londra. L’impressione, insomma, è che Berlino abbia frenato lasciando sola Parigi. Perché? Anch’io ho avuto questa impressione. Certo, è difficile fare una valutazione approfondita però credo che, da un lato, ci sia l’intenzione di Sarkozy di contrastare “a sinistra” il suo sfidante alle prossime elezioni. In Germania c’è, invece, un con-

testo diverso. Il Paese non è sotto attacco speculativo, il che forse rende la sua opinione pubblica meno sensibile al tema. Insomma, si farà mai questa Ttf? Il passo in avanti compiuto dalla Francia è importante e credo che a questo punto ci sia in Europa un interesse specifico per trovare una nuova fonte di finanziamento nei mercati. Certo è molto difficile prevedere cosa accadrà. Però sono moderatamente ottimista. 

Per la Tassa il Parlamento si mobilita. Con calma di Andrea Barolini Alla Camera sono stati presentati tre ddl, ma la discussione, prevista per l’inizio di febbraio, è stata rinviata Se a livello europeo la Tassa sulle transazioni finanziarie continua a dividere i governi, in Italia sembra essersi creato un consenso particolarmente vasto. Non solo nell’opinione pubblica (già nell’autunno del 2010 un rapporto di Eurobarometro sottolineava come il 72% degli italiani fosse favorevole all’introduzione dell’imposta, contro un 61% a livello europeo), ma anche in Parlamento. Lo testimonia la mozione unitaria presentata a gennaio da Pdl, Pd e Terzo Polo nella quale si forniva al governo una vasta serie di indicazioni per la sua politica comunitaria, compresa la richiesta di spingere per l’adozione del prelievo all’interno dell’Ue. Tre ddl per la Ttf Coerentemente, i deputati hanno presentato alla Camera tre disegni di legge in merito. Proposte che avrebbero dovuto essere esaminate il 2 febbraio, ma la cui discussione è stata rinviata (mentre questo numero di Valori va in stampa, non sappiamo quando verrà riproposto il tema all’ordine del giorno). Tutti i ddl vedono come primo firmatario un esponente del Pd: si tratta del segretario Pier Luigi Bersani, di Andrea Sarubbi (da tempo impegnato a favore della tassa) e di Ivano Miglioli (il primo a presentare un disegno di legge, nel 2010).

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Le principali differenze tra i testi riguardano le aliquote previste e le condizioni di applicazione. Il ddl Miglioli prevede l’introduzione di un’imposta di bollo pari allo 0,1% della transazione, suscettibile di essere aumentata in caso si verifichino particolari turbolenze speculative sui mercati. La proposta firmata da Sarubbi, invece, suggerisce una tassa dello 0,05% calcolata sul controvalore della stessa transazione. Entrambe, però, impongono una condizione che non può essere sottovalutata: affinché la tassa sia introdotta, occorre che almeno sei Paesi europei facciano altrettanto. Diverso il caso del ddl Bersani, che ipotizza un’aliquota identica a quella proposta da Sarubbi, ma non subordinata alle scelte di altri governi dell’Ue. Nel testo presentato dal segretario del Pd, inoltre, si indica che una parte del gettito debba andare ad abbattere il debito pubblico, per lo meno fino all’istituzione di un’agenzia europea sui debiti sovrani.

Speculazioni e land grabbing Le banche affamano il mondo di Andrea Barolini

Attraverso le compravendite massicce di titoli futures, i grandi attori della finanza internazionale contribuiscono a “drogare” il mercato dei beni alimentari. Contribuendo a spingere milioni di persone verso la povertà e la fame e banche europee, i fondi pensione e le grandi compagnie di assicurazione stanno contribuendo a incrementare la fame e la povertà nel Pianeta, speculando sul prezzo del cibo e finanziando il land grabbing nel terzo mondo. A lanciare l’accusa è un rapporto pubblicato a gennaio dalla rete di Ong Friends of the Earth Europe, della quale fanno parte, tra gli altri, BankTrack, Campagna per la riforma della Banca mondiale e Les Amis de la Terre.

L

All’origine di tale corsa ci sono, dunque, le speculazioni sui titoli legati al cibo. E anche il land grabbing, ovvero l’accaparramento di terreni fertili che vengono convertiti a coltivazioni per biocarburanti o fiori da recidere, diminuendo così la produzione e contribuendo ancora a spingere in alto i prezzi. Basti ricordare che in Africa, solamente nel 2009, 60 milioni di ettari di terreno (ossia la stessa estensione di un Paese come la Francia) sono passati sotto il controllo di soggetti stranieri.

La giostra dei prezzi del cibo Con i mercati finanziari da anni in subbuglio, i titoli futures sui beni alimentari sono diventati sempre più interessanti per gli investitori. E, soprattutto, per gli speculatori. Così miliardi di dollari e di euro si stanno concentrando su tali prodotti, causando improvvisi picchi nei prezzi sui mercati, che inevitabilmente provocano un’inflazione insostenibile, soprattutto per le popolazioni più vulnerabili. Non è un caso se, proprio dal 2008 in poi, quando per la prima volta il costo del cibo è schizzato alle stelle (in particolare per quanto riguarda beni fondamentali come riso, mais e grano), si sono contate almeno 25 sollevazioni popolari: «100 milioni di persone sono state ufficialmente classificate come denutrite», sottolinea il rapporto. E la rivolta è stata inevitabile. Successivamente, dopo una leggera correzione nel 2009, i prezzi alimentari hanno toccato un nuovo picco record nel giugno del 2011.

Il ruolo della finanza Ma qual è, concretamente, il ruolo di banche, fondi e altri istituti finanziari? Molte di esse sono coinvolte, continua il report

dello Ong, in investimenti legati agli agricultural commodity futures. Come funzionano questi prodotti finanziari è sintetizzato in modo efficace da un’analisi di John Vidal, pubblicata dall’Observer: «L’attività di speculazione sui generi alimentari è sempre esistita. Spesso, infatti, gli agricoltori, per tutelarsi, ad esempio contro i rischi atmosferici, vendono i prodotti al commerciante prima del raccolto». Si tratta di un meccanismo che, però, può funzionare solo in presenza di regole che garantiscano il rispetto di un prezzo dettato dall’equilibrio tra domanda e offerta. Oggi, invece, la speculazione si effettua con un massiccio utilizzo dei titoli futures. «Il cibo in questo modo – continua Vidal – è diventato una merce, al pari di petrolio,

GLI INVESTIMENTI DI GENERALI E UNICREDIT Tra i gruppi italiani che figurano nel rapporto di Friends of the Earth Europe ci sono il colosso delle assicurazioni, Generali, e i gruppi bancari Unicredit e Intesa Sanpaolo. Nel 2003 Generali, attraverso la sua controllata Geneagricola Spa, pianificò l’acquisto di 5.500 ettari di terreni nella provincia di Timisoara, in Romania. Secondo quanto riportato da alcuni giornali citati dal report, l’arrivo della società nel Paese dell’Est europeo ha coinciso con un rapido incremento dei prezzi dei terreni stessi. Da parte sua, la compagnia ha pubblicato un libro e un dvd per dimostrare che le acquisizioni sono state effettuate «per valorizzare il territorio e non per fini speculativi». Intesa Sanpaolo, invece, controlla fondi di investimento che sono fortemente coinvolti nel mercato delle food commodities. È il caso di Eurizon Focus Profilo Dinamico e di Eurizon Focus Profilo Moderato. Discorso analogo per Fonditalia, di proprietà di Banca Fideuram, a sua volta compresa nel gruppo Intesa. E non è da meno la divisione di investment banking Imi, che nel solo giugno del 2011 ha emesso 6,15 milioni di certificati sulle food commodities, per un prezzo di mercato complessivo pari a 123,64 milioni. A.B.

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 31 |


| finanzaetica | regole europee |

L’indice dei prezzi della FAO è una misura del cambiamento che ogni mese si determina a livello globale in un paniere di beni alimentari. Quest’ultimo è costotuito da una media di cinque gruppi di commodities, ponderato sulla base delle quote di export.

INDICE DEI PREZZI DEL CIBO 1990-2011 250

210

170

Se per evitare una nuova crisi si affossa il credito di Elisabetta Tramonto

130

90

ness con attività che includono l’acquisto e il leasing di terre (Abp, Hsbc, Lloyds, Unicredit, Axa, Credit Agricole). E in alcuni casi con «espliciti collegamenti al land grabbing o a violazioni dei diritti umani»: è il caso dei comportamenti di Abp in Mozambico, di Axa in India e di Hsbc in Uganda. Altro che “lezioni” dalla crisi: dopo aver messo in ginocchio l’Occidente, la finanza non si ferma neppure di fronte al cibo, di fronte cioè alla vita stessa di milioni di persone. 

e banche hanno chiuso i rubinetti. Ottenere un prestito per una famiglia o un’impresa è diventata un’utopia. Tanto che lo scorso 18 febbraio è arrivato il richiamo rivolto alle banche da parte del Governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, perché «non facciano mancare risorse a famiglie e imprese». Un allarme lanciato dopo l’uscita dei dati del mese di dicembre: «I prestiti da parte del sistema bancario italiano si sono contratti di circa 20 miliardi», ha dichiarato il Governatore di Bankitalia. Un’indagine comunitaria intitolata Access to finance ha analizzato l’accessibilità ai mercati finanziari, su un campione di imprese, tra il 2007 e il 2010, quindi prima e dopo la crisi del 2008. Risultato: le piccole e medie imprese chiedono più finanziamenti (dal 36,5% nel 2007 al 52,2% nel 2010), ma ne ottengono molti meno (i successi passano dall’87,5% nel 2007 al 79,8% nel 2010). Per le famiglie è la stessa storia: a gennaio le domande di mutui per acquistare una casa hanno registrato una flessione del 41% rispetto allo stesso mese dello scorso anno (secondo l’ultima analisi di Crif), una contrazione che continua da mesi (vedi GRAFICO in questa pag.). Ma ci sono anche banche che continuano a concedere prestiti, anzi che aumentano la loro erogazione di anno in anno. Almeno fino ad ora. Parliamo di Banca Etica, che l’anno scorso ha erogato il 19% di prestiti in più a famiglie e imprese del terzo settore (vedi GRAFICO alla pag. seguente). Peccato che, con le nuove regole di Basilea 3 insieme a quelle dell’Eba (l’autorità ban-

L

MUTUI IN PICCHIATA, NEL 2011... E NON SOLO 5% 0% -5% -10% -15% -20% -25% -30% -35% -40% -45% -50%

gen

feb

mar

apr

mag

giu

caria europea), anche per Banca Etica potrebbe diventare sempre più difficile concedere prestiti. Regole, pensate per le grandi banche, per renderle più solide, che rischiano di penalizzare gli istituti più piccoli, che non hanno nessuna responsabilità dello scoppio della crisi: cioè Banca Etica, ma anche le piccole banche popolari in generale e le Banche di credito cooperativo (Bcc). Istituti che hanno sempre fatto il loro mestiere di banca: cioè raccogliere denaro e prestarlo a famiglie e imprese. E che oggi sono tra i pochi a finanziare l’economia reale. Per questo motivo poche settimane fa sia Banca Etica (il 16 febbraio) che Federcasse, in rappresentanza delle Bcc (il 19 gennaio) si sono recate alla Camera dei deputati e, durante un’audizione alla Commissione Finanze, hanno chiesto l’applicazione di regole diverse. Che riconoscano la loro specificità. Il video dell’intervento di Ugo Biggeri alla Camera è disponibile sul sito www.valori.it

lug

ago

set

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dic

gen ’12

Banche più solide, ma meno prestiti «Le regole di Basilea 3 e quelle dell’Eba, l’istituzione europea di vigilanza bancaria, hanno lo stesso obiettivo: rafforzare il patrimonio degli istituti di credito per renderli più solidi e, quindi, meno esposti nei momenti di burrasca dei mercati finanziari», spiega Giulio Tagliavini, professore di Economia degli intermediari finanziari all’università di Parma. «Un obiettivo condiviso da tutti, in teoria. Ma, in pratica, difficile e “doloroso” da realizzare». Quello che viene chiesto alle banche è, in parole povere, di avere le spalle più coperte. Cioè che la proporzione tra il patrimonio dell’istituto e i prestiti concessi sia più alta. Naturalmente questo si riflette sulla possibilità di erogare crediti. «Le regole per aumentare la patrimonializzazione delle banche – spiega il professor Tagliavini – impongono aumenti di capitale o, in caso contrario, una riduzione degli impieghi. E, a dire il vero, la riduzione della possibilità di | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 33 |

FONTE: ELABORAZIONE VALORI SU DAI EURISC (SISTEMA INFORMAZIONI CREDITIZIE DEL CRIF)

2012

-41%

dit. Tutti sono giudicati coinvolti in speculazioni o nella pratica del land grabbing: i loro business «ci stanno portando a una catastrofica instabilità nei prezzi globali del cibo, condannando milioni di persone alla povertà». Nel mirino ci sono, ad esempio, gli investimenti di Allianz nei terreni agricoli in Bulgaria; Deutsche Bank possiede invece un fondo che pratica investimenti simili in Brasile. Numerosi istituti sono poi largamente coinvolti nell’agro-busi-

2011

-44%

oro e altri metalli preziosi». Così, aggiunge Mike Masters, manager di Masters Capital Management, «ormai il 70-80% dei movimenti di capitale legati al mercato alimentare è pura speculazione». Un business che vede protagoniste le principali realtà dell’alta finanza globale: il rapporto punta il dito contro Deutsche Bank, Barclays, il fondo pensione olandese Abp, il colosso tedesco Allianz e ancora Bnp Paribas, Rbs, Axa, Hsbc, Credit Agricole e le italiane Generali e Unicre-

1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010

-46%

1998

-33%

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-23%

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-18%

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-14%

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-14%

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+2%

50

Il 16 febbraio una delegazione di Banca Etica si è recata alla Camera per chiedere regole diverse da Basilea 3. Hanno fatto lo stesso le Bcc. Con i nuovi requisiti patrimoniali viene penalizzata l’economia reale e il Terzo settore

-6%

FONTE: “FARMING MONEY”, FRIENDS OF THE EARTH EUROPE, 2012

| finanzaetica |


| finanzaetica |

| finanzaetica |

BANCA ETICA CONTROCORRENTE SEMPRE PIÙ PRESTITI (2001/2011 )

2005

2006

2007

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2010

DATI RELATIVI AL 2008. LA PROPORZIONE È RIMASTA SOSTANZIALMENTE INVARIATA NEGLI ANNI

0

+6,34%

+12,11% dic. ’06

dic. ’07

voca anche effetti negativi, perché se, mentre l’economia soffre, si riduce la possibilità di concedere prestiti, si aggrava la situazione e le prospettive del Pil sono più negative. E si danneggiano

Altro 10%

Persone fisiche 15%

Qualità della vita 34% Tutela ambientale 3%

set. ’11

25.000

BANCA ETICA FINANZIA L’ECONOMIA REALE (ANZI, L’ECONOMIA SOCIALE) I SETTORI FINANZIATI (IN %)

Servizi socio-sanitari 29%

dic. ’10

50.000

2011

I finanziamenti erogati da Banca Etica a favore dell’economia sociale in Italia sono cresciuti costantemente fino a sestuplicarsi. I fidi sono andati a sostegno di migliaia di progetti nei quattro principali ambiti di intervento: cooperazione sociale, cooperazione internazionale, ambiente, cultura e società civile. Oggi Banca Etica sta finanziando oltre cinquemila progetti in queste aree.

concedere prestiti è una conseguenza voluta dal legislatore europeo. Perché una delle cause della crisi finanziaria è proprio l’aumento eccessivo del credito rispetto al Pil. Certo, questo vincolo pro-

+11,81%

+18,91% 761 mln €

+18,74%

+27,73%

+14,05%

+14,76%

+19,41%

+29,19%

+39,33% 2004

75.000

+2,39%

2003

100.000

138,6 mld €

2002

125.000

+7,69%

2001

+71,62%

150.000

+26,67%

1000 900 800 700 600 500 400 300 200 100 0

BCC: PRESTITI IN AUMENTO, MA SEMPRE MENO

Cooperazione sviluppo commercio equo 9%

dic. ’08

dic. ’09

soprattutto le banche orientate all’economia reale e al sociale». Banca Etica, per esempio, caso raro negli ultimi mesi di crescita nell’erogazione di prestiti, quest’anno potrà concederne meno di quanto avrebbe voluto. «Per il 2012 abbiamo previsto una crescita del 15% nei prestiti erogati – racconta il presidente Ugo Biggeri – se non ci fosse il vincolo di Basilea 3 avremmo potuto aumentarli anche del 25%». Sergio Gatti, Direttore generale di Federcasse, l’associazione che raggruppa 400 Bcc e Casse rurali italiane, aggiunge: «Oggi con un euro di patrimonio una Bcc potrebbe erogare fino a 33 euro di credito. Per rispettare i requisiti di Basilea 3 con un euro di patrimonio erogheremo al massimo 22 euro».

Le banche non sono tutte uguali «Le regole di Basilea 3 e dell’Eba – continua il professor Tagliavini – non inten-

LE BANCHE ETICHE EUROPEE PRETENDONO DI ESSERE CONSIDERATE DIVERSE Mentre in Italia Banca Etica e le Bcc chiedono alla Camera un trattamento diverso rispetto ai grandi istituti di credito, lo stesso fa in Europa la Federazione della banche etiche e alternative europee (Febea). «Entro la fine di marzo presenteremo al commissario al Mercato interno e ai servizi, Michel Barnier, un documento che definisca il concetto di “banca etica”», spiega Fabio Salviato, presidente di Febea. «Chiediamo alla Commissione europea di riconoscere la specificità di queste realtà e di applicare regole diverse dalle grandi banche sistemiche, soprattutto per quanto riguarda le richieste di capitalizzazione di Basilea 3 e dell’Eba». “Che cosa distingue una banca etica da una banca ordinaria?”, si domanda Febea. Ecco un estratto di alcune delle risposte che la Federazione delle banche etiche europee dà a Bruxelles. «Una banca etica non accetta denaro sporco, ovvero proveniente da attività illecite, da organizzazioni per delinquere o di stampo mafioso, da industrie armate o altamente

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inquinanti, o denaro non dichiarato». «Il denaro raccolto viene destinato in: attività socio-economiche finalizzate all’utile sociale, ambientale e culturale, sostenendo – in particolare mediante le organizzazioni non profit – attività di promozione umana, sociale ed economica delle fasce più deboli della popolazione e delle aree più svantaggiate, favorendo l’integrazione sociale e l’occupazione». «Per una banca etica i valori di impatto sociale e ambientale sono fondamentali e non scindibili dal valore di impatto economico (…) per questo l’istruttoria economica dei progetti viene accompagnata da un’istruttoria socio-ambientale». «Gli impieghi sono gestiti in modo trasparente: al risparmiatore viene data la possibilità di conoscere la destinazione dei finanziamenti». «Una banca etica è costituita preferibilmente in forma cooperativa, e in questo caso ogni azionista ha diritto ad un solo voto in assemblea secondo il principio una testa un voto».

dono penalizzare deliberatamente realtà come Banca Etica e le Bcc, ma indirettamente è quello che accade. Il problema principale è che i requisiti vengono applicati a tutti allo stesso modo, senza deroghe e senza distinzione in base alla tipologia di istituto erogatore». «Il modello della “taglia unica” proposto da Basilea 3 è inappropriato per le banche etiche e per gli istituti di dimensioni medio-piccole che operano a livello locale – ha dichiarato Ugo Biggeri all’audizione alla commissione Finanze della Camera – e finisce per penalizzare proprio le banche che, come la nostra, praticano un tradizionale modello economico orientato agli impieghi a famiglie e imprese, sociali nel nostro caso». «È un approccio culturale totalmente sbagliato – aggiunge Sergio Gatti a nome delle Bcc – non possono essere applicate regole pensate per istituti di grandi dimensioni, quotati sulle Borse transnazionali, a banche piccole, non quotate in Borsa, che non hanno come obiettivo la massimizzazione dei profitti e che non hanno avuto alcun ruolo nella crisi».

Penalizzato il terzo settore «Un secondo problema legato ai requisiti di patrimonializzazione di Basilea 3 – aggiunge il professor Tagliavini – è che non considerano la tipologia di attività finanziate. Differenziano esclusivamente in base a quello che viene considerato il livello di rischiosità dell’operazione. Tanto maggiore è il rischio quanto più patrimonio viene “assorbito”». E questo finisce per penalizzare i finanziamenti al Terzo settore perché sono considerati più rischiosi. Di conseguenza a parità di patrimonio, una banca potrà concedere meno prestiti a imprese non profit rispetto alle imprese for profit. All’audizione alla Camera Banca Etica ha chiesto che per i prestiti al Terzo settore venga considerato un livello di rischio inferiore. «Uno studio recente della Banca d’Italia – ha dichiarato Ugo Biggeri – ha evidenziato come i soggetti del Terzo Settore (cooperative, fondazioni, associazioni e altre realtà senza scopo di lucro) rappresentino sempre più un comparto cruciale dell’economia ita-

BASILEA 3 E LE BANCHE Rafforzare la liquidità in deposito. È questo, in sostanza, il programma di adeguamento dei requisiti patrimoniali imposto dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria. Approvato nel settembre 2010 per entrare a pieno regime nel 2019, il programma (terza versione delle linee guida dopo quelle del 1988 e del 2001) prevede il progressivo innalzamento del patrimonio base (azioni ordinarie e riserve) fino ad un ammontare pari al 4,5% di quello delle attività totali della banca (prestiti, investimenti etc.) ponderate per il rischio. Il valore del Tier-1 (ovvero la somma del patrimonio di base e degli altri strumenti finanziari giudicati di qualità primaria come le cosiddette azioni privilegiate) salirà dal 4 al 6% mentre il peso del patrimonio complessivo (il capitale totale) resterà invariato all’8%. I REQUISITI DI CAPITALE (IN %) SECONDO BASILEA 3 Viene inoltre introdotto un “buffer”, ovvero Patrimonio Capitale Tier 1 Capital un capitale liquido di base totale aggiuntivo, pari al 2,5% Minimo 4,5 6,0 8,0 delle attività cui potrebbe Buffer 2,5 2,5 2,5 aggiungersi una riserva Minimo + Buffer 7,0 8,5 10,5 aggiuntiva variabile (fino al 2,5%) nelle situazioni Buffer anticiclico da 0 a 2,5 FONTE: BANCA DEI REGOLAMENTI INTERNAZIONALI (BANK OF INTERNATIONAL SETTLEMENTS - BIS) 2010 di eccesso di credito.

IL RUOLO DELL’EBA Creata su iniziativa della Commissione Ue e attiva dal 2011, l’Autorità bancaria europea (European Banking Authority, Eba) ha il compito di vigilare sulla stabilità finanziaria delle principali banche del Vecchio Continente. Nelle situazioni di rischio l’Eba può raccomandare agli istituti un aumento di capitale. A dicembre l’authority ha individuato la necessità di ricapitalizzazioni totali per 114,7 miliardi di euro di cui 15,4 per i soli istituti italiani (contro i 7,3 dei francesi, i 13,1 dei tedeschi e i 26,2 degli spagnoli). Unicredit, invitata a un aumento di quasi 8 miliardi, ha incrementato il proprio capitale di 7.500 milioni di euro, andando incontro, per altro, a una clamorosa volatilità del titolo scambiato a Piazza Affari. Gli altri istituti segnalati dall’Eba (Ubi Banca, Monte dei Paschi e Banco Popolare) hanno rinunciato a intervenire.

Le regole di Basilea 3 trattano allo stesso modo grandi e piccole banche. La riduzione dei prestiti sarà più forte per il Terzo settore liana. Comparto che vale tra il 3 e il 5% del Pil e che dà lavoro oltre a 600 mila addetti, oltre a impiegare 3 milioni di volontari. L’esperienza di Banca Etica e i dati dell’Abi confermano che le imprese sociali e il terzo settore sono dei buoni clienti per le banche e mostrano un tasso di sofferenze (cioè di prestiti non rimborsati) nettamente inferiore a quello delle imprese tradizionali». «Ci sono attività che meriterebbero delle deroghe da parte di Basilea 3 – aggiunge il professor Tagliavini – per esempio le operazioni di anticipo crediti concessi a realtà del Terzo settore a cui la pubblica amministrazione paga in ritardo per un servizio ricevuto. Banca Etica

ne finanzia molti. In base alle regole di Basilea 3 questi finanziamenti sarebbero altamente penalizzanti per l’istituto che li concede». Basterebbe dire che i regolatori europei dovrebbero considerare la differenza tra le banche che finanziano l’economia reale e quelle che investono solo o prevalentemente sui mercati finanziari. 

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| consumiditerritorio |

Csi: il fascino criminale della borghesia

Mercati Otc

di Paola Baiocchi

di Andrea Di Stefano

è una grande assenza nella rappresentazione televisiva: manca da anni il mondo del lavoro e i valori della parte più numerosa della popolazione. L’assenza si nota, nonostante per trent’anni la maggior parte delle scienze sociali – da Negri ad Appadurai – si siano date da fare per spiegare che nella produzione post-industriale non esiste più la “classe”, che il lavoro è fatto di un “flusso” “immateriale” di servizi, marchi, informazione, idee e cultura. Sono, invece, molto più presenti i serial killer, le devianze sessuali, gli adolescenti criminali presentati come una normalità con la quale condividere la digestione serale. È il caso dei telefilm di produzione statunitense, trasmessi in chiaro in prima serata: Csi Scena del crimine e dei loro spin off: Csi Miami (la serie più vista in oltre venti Paesi al mondo nel 2006) e Csi New York. Più molti cloni di varie nazionalità che fanno parlare di un “effetto Csi”, arrivato anche nelle aule dei tribunali e nella spettacolarizzazione portata avanti da sempre più trasmissioni, da Vespa a Quarto grado, che affondano le telecamere nei retroscena più macabri e squallidi di casi veri. In Crime Scene Investigation, il delitto è visto attraverso le indagini svolte dalla polizia scientifica sulla scena del crimine. Nei telefilm si trattano, in modo solo apparentemente asettico, omicidi efferati di crudeli stupratori, casi di maniaci sequenziali, ma anche di adolescenti che risolvono la gelosia nei confronti del fratello più piccolo con la sua eliminazione violenta. Nulla è sublimato, ogni storia è un campionario di disumanità, dove nessun particolare viene risparmiato agli spettatori, dalla visione delle tecniche utilizzate dagli assassini, al corpo morto fotografato sul tavolo anatomico. Una totale mancanza di pietas tra esseri, che viene “normalizzata” attraverso la risoluzione routinaria di ogni caso, grazie a un capello o a una goccia di sangue. La cosa curiosa è che tutte queste efferatezze si svolgono in ambienti borghesi, ma non scatta mai il collegamento che siano un effetto degli “stili” di vita della borghesia. Mentre è preoccupante che una simile “educazione al supplizio”, che ricorda gli scopi degli spettacoli nei circhi dell’antica Roma, venga proposta quotidianamente e in massicce dosi, senza porsi il problema delle conseguenze sulla popolazione più giovane, che non ha i filtri per non assorbirne gli effetti emulativi. 

dubbi, già ridotti al lumicino, possono essere fugati del tutto leggendo un’opera appena pubblicata dalla Princeton University Press – Dark Market, Asset Pricing and Information Transmission in Over-the-Counter Markets – di Darrell Duffie, Distinguished Professor di Finanza alla Stanford University, che analizza con grande dovizia di particolari la struttura e le caratteristiche dei mercati non regolamentati di derivati e opzioni, che incombe, con i suoi 700 mila miliardi di dollari di valore nozionale, sull’economia mondiale. Duffie, che studia i mercati finanziari da anni e ha anche supportato l’elaborazione delle nuove regole contenute nel Frank-Dodd Bill (il nuovo monumentale provvedimento di riforma fortemente voluto dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama), non usa mezzi termini nell’esplicitare uno dei rischi sistemici contenuti nei mercati Otc: “Un mercato Over-thecounter non fa uso di un meccanismo centralizzato di negoziazione, come un’asta, e ha specialisti o portafogli ordini limitati. Acquirenti e venditori negoziano i termini del contratto privatamente, spesso ignorando i prezzi disponibili presso altre potenziali controparti e con una conoscenza limitata dei contratti recentemente negoziati altrove sul mercato. I mercati Otc sono quindi opachi, gli investitori sono all’oscuro circa le condizioni più interessanti disponibili e su chi contattare per ottenerne di più vantaggiose. I prezzi e gli stanziamenti nei mercati Otc sono in varia misura influenzati dall’opacità di questi ultimi e dal ruolo di intermediari e trader ”. Duffie è uno dei principali sostenitori della clearing house prevista dalla Frank-Dodd: una misura tampone per evitare nuovi rischi sistemici, ma assolutamente insufficiente a mettere una volta per tutte la parola fine a un sistema fuori controllo. 

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| lavanderia |

Il pericolo è l’opacità

I

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 37 |


Debito privato/Pil

1

Debito estero 4

2

Debito estero/Pil Debito totale5 Debito totale/Pil

426%

16.746

396,50%

28.936 494,20%

281%

11.762

2.481 1.972 79,50%

9.836

10.569

286%

12.190

208,20%

2.719 46,40%

SUD COREA

DEBITO PUBBLICO/PIL 5.855

397 34,10% 3.538

1.164 267 22,90% 3.271

636 9,10%

1.139 16,30%

152%

168,30%

10.623

INDIA

CINA

RUSSIA

Debito privato 3

DEBITO PRIVATO (3)

937

DEBITO PRIVATO /PIL

256%

286,30%

DEBITO TOTALE (5)

1.377

88,70% 4.315

DEBITO ESTERO /PIL

AUSTRALIA

Valore nominale (official exchange rate). Debito dei governi. 3 Somma del debito di famiglie, corporation, società finanziarie (Fonte McKinsey 2012 e McKinsey 2010 (ultimi dati disponibili per India, Brasile, Russia e Cina). 4 Somma del debito pubblico e privato dovuto a creditori esteri. 5 Somma del debito pubblico e privato (escludendo il debito esterno).

DEBITO ESTERO (4)

UK

GIAPPONE

1.507 457 30,30% 3.858

1.843 951 51,60% 1.032 56% 267 14,50% 1.983 107,60%

583

421

312 516

1.843 951 51,60% 1.032 56% 267 14,50% 1.983 107,60%

INDIA

Debito pubblico 2 Debito pubblico/Pil

6.989

300,40% 186,80%

135%

165,40%

323,10% 168,30%

636 9,10%

1.139 16,30%

152%

6.989

10.623

2.570

164 8,70% 1.263 67% 519 27,50% 1.427 75,70%

ITALIA

303,90%

1.885 164 8,70% 1.263 67% 519 27,50% 1.427 75,70%

10.035 276,50% 7.077 195% 5.624 154,90%

3.629 2.958 81,50%

2.246 2.684 120,10% 4.559 203% 11.762 2.684 119,50% 7.243

360,20% 167,20% 5.536

292% 1.537 1.048 68,20% 4.488

548

920 1.885

SPAGNA

DEBITO PUBBLICO (2)

CINA

GRECIA

PIL (1)

DEBITO TOTALE/PIL

[Dati in percentuale e in miliardi di dollari Usa]

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 39 |

12.541

341,50% 201,70% 9.589

256% 5.633

7.188 2.808 2.401 85,50% 380,30% 226,40%

277%

BRASILE

BRASILE

RUSSIA

FONTE: ELABORAZIONE VALORI DA: MCKINSEY GLOBAL INSTITUTE (WWW.MCKINSEY.COM) “DEBT AND DELEVERAGING: UNEVEN PROGRESS ON THE PATH TO GROWTH” (GENNAIO 2012) E “DEBT AND DELEVERAGING: THE DEBT CREDIT BUBBLE AND ITS ECONOMIC CONSEQUENCES” (GENNAIO 2010). CIA (WWW.CIA.GOV) CIA WORLD FACTBOOK 2011 - ILLUSTRAZIONE: DAVIDE VIGANÒ

505,50%

396,50% 12.541

ALTRI PAESI

GERMANIA

103,30% 670

242 250

1.525

2.357

1.283

109,20% 937

583

421

PORTOGALLO

Pil 1

GRECIA

312 516

920

IRLANDA

2.518 1.370 54,40% 2.065 82% 410 16,20% 3.435 136,40%

300,40% 186,80%

135%

165,40%

69,40%

97,60%

199%

222 242

268,40%

14.710

15.060 380,30% 10.452

226,40%

277%

PORTOGALLO

548

103,30%

670

242 250

1.525

IRLANDA

2.357

109,20%

1.283

222 242

| 38 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

USA

PAESI A RISCHIO

FRANCIA

687,20% 578%

L

ITALIA

GRAN BRETAGNA

CANADA

a crisi europea ha enfatizzato il peso del debito pubblico nella valutazione della sostenibilità economica di un sistema Paese. Ma quella “pubblica” non è l’unica componente rilevante nel calcolo del debito e, quindi, nell’indagine sui rischi potenziali di un’economia nazionale. Elaborando i dati disponibili, è possibile delineare un quadro più completo che tenga conto anche dei debiti esteri e di quelli contratti dai privati. Nella mappa prendiamo in considerazione le dieci principali economie del Pianeta, le nazioni più soggette alla crisi debitoria europea e le quattro grandi economie emergenti. Alcuni risultati appaiono particolarmente rilevanti. La Gran Bretagna, una nazione da tripla A secondo le maggiori agenzie di rating, ha il quarto debito privato del mondo, il secondo in termini relativi (in rapporto al Pil). La Russia vanta un debito complessivo di poco superiore al 75% del Pil. L’Irlanda è la più indebitata del gruppo: con un’esposizione complessiva quasi sette volte la misura della sua economia. 

GRAN BRETAGNA

9.836

2.481 1.972 79,50%

578%

1.181 67,10% 5.110

29.969

1.759 1.469 83,50% 3.641

207%

1061,70%

687,20%

40.421

290,50%

10.569

426%

Non solo debito pubblico di Matteo Cavallito

| un pianeta indebitato |

1061,70%

| inumeridellaterra |


Dal sito internet stories.coop, creato da Ica ed Euricse in occasione dell’Anno internazionale, alcune storie di cooperative nel mondo. Ne viene raccontata una al giorno.

HTTP://STORIES.COOP

economiasolidale

| economiasolidale | crisi e cooperazione |

Per le Nazioni Unite il 2012 è l’Anno internazionale delle cooperative. Un modo per far conoscere e per riconoscere i meriti di questo diverso modello economico. Di fronte alla crisi ha saputo resistere meglio delle imprese capitalistiche

Un anno per le cooperative Modello anti-crisi

La forza della relazione per resistere alla crisi > 44 Mele, l’unico nemico è la paura dell’unità > 46 Biodiversità a rischio. Un declino inevitabile? > 49 Milano sceglie di cambiare. Con stile > 51 | 40 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

di Corrado Fontana ed Elisabetta Tramonto i sono i volti delle donne palestinesi che la cooperativa londinese Zaytoun aiuta nella coltivazione biologica dei campi. Ci sono i coltivatori di cacao della cooperativa Kuapa Kokoo in Ghana; quelli di zafferano della marocchina Taliouine; gli agricoltori cubani del Organopónico Vivero Alamar; i produttori etiopi di miele di Shallalà. Ma ci sono anche i sorrisi degli anziani assistiti dalla cooperativa sociale Circle of Life Caregiver, nello Stato di Washington; gli abitanti di un paesino in Austria che, per salvare i piccoli negozi del villaggio, hanno creato la cooperativa di distribuzione Kirchstetten o, ancora, dall’Italia l’ostello per ecoturismo Le Mat, in Umbria, o la cooperativa sociale Alpi, a Trento, che si occupa di inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati (malati mentali ed ex-tossicodipendenti). Sono alcuni dei volti della cooperazione. Così Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises) e Ica (International Cooperatives Alliance) hanno voluto celebrare l’anno internazionale della cooperazione: sul sito stories.coop, racconteranno, ogni giorno e per tutto il 2012, la storia di una diversa realtà (vedi BOX a pag. 43).

C

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 41 |


| economiasolidale |

«Le cooperative ricordano alla comunità internazionale che è possibile conciliare la produttività economica con la responsabilità sociale» Ban Ki-moon Segretario Generale delle Nazioni Unite

La cooperazione in Italia 1° rapporto Euricse Novembre 2011

UN ANNO DI VALORI PER L’ANNO DELLA COOPERAZIONE Nell’Anno internazionale delle cooperative Valori ha deciso di approfondire questa realtà economica (a cui, del resto, ha sempre dedicato grande attenzione). Su ogni numero del 2012 affronteremo un aspetto diverso del mondo delle cooperative, in Italia e negli altri Paesi: dai problemi di accesso al credito all’interesse europeo per le imprese sociali; dai mille volti che una cooperativa può avere alle innovazioni che questo modello può portare; dalle diverse declinazioni che hanno assunto nel mondo al ruolo nel definire un nuovo capitalismo; dalla gestione dei beni comuni al ruolo delle donne, dei giovani e, in generale, del lavoro per questa forma di impresa. Dando voce a chi di (e nella) cooperazione vive.

| 42 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

5

APPUNTAMENTI 9-10 MARZO Riva del Garda (Trento) “LA COOPERAZIONE PER UN MONDO MIGLIORE”

0

Convegno organizzato dalla Federazione Trentina della Cooperazione www.ftcoop.it

-5

-20

-25

Ordini

Fatturato totale

Sistema industriale nazionale (2009-2008)

-11,0

-17,5 -16,5

-15

-9,8

-10

-21,6

la produzione delle imprese private (dati al 31 dicembre 2008 dal rapporto Euricse “La cooperazione in Italia”, pubblicato nel novembre 2011). Cifre importanti ma spesso ignorate. E – cosa più sorprendente – in questo momento di crisi, con le enormi difficoltà che da quattro anni le imprese stanno affrontando, questo modello sembra garantire una migliore capacità di resistenza. Anzi resilienza.

CONFRONTO FRA INDICATORI CONGIUNTURALI: SISTEMA INDUSTRIALE ITALIANO E COOPERATIVE DI PRODUZIONE E LAVORO [Variazioni tendenziali, 2009-2008, val. %]

-18,7

Come si sono comportate le cooperative di fronte alla crisi? «Difficile dirlo – spiega Flaviano Zandonai, segretario di Iris Network (la Rete nazionale degli istituti di ricerca sull’impresa sociale) – a causa dei numerosi ambiti d’attività in cui operano le cooperative e per le differenze dei loro sistemi di governo. Ma, soprattutto, perché ci sono pochi dati». Tanto che uno dei rapporti più completi, quello dell’Euricse, riporta cifre del 2008. Un problema non solo italiano. Si possono, però, fare delle analisi qualitative, basate sull’osservazione diretta: la percezione diffusa è che le cooperative abbiano dimostrato un’elevata “resilienza”. Cioè, non solo hanno saputo resistere alla crisi, ma hanno anche messo in atto comportamenti per far ripartire il ciclo economico, usando una serie di strumenti insiti nella stessa natura di queste realtà economiche». La percezione descritta da Zandonai è confermata da una recente indagine (Le cooperative alla prova della crisi), promossa dalla Lega nazionale cooperative ed elaborata dalla Fondazione Nord Est. Un’indagine, basata su informazioni qualitative e non quantitative, da cui è emerso che «il composito mondo del sistema cooperativo ha offerto performance economiche e sociali meno problematiche (se non migliori) rispetto alle imprese private». In particolare la Fondazione ha analizzato i dati della fase critica 2008-09 (vedi GRAFICO ), confrontando gli esiti del sistema industriale con quelli delle cooperative di produzione e lavoro aderenti a Legacoop. Risultato: per queste ultime «gli effetti della crisi sono stati assorbiti con un minore livello di sofferenza». Un risultato interessante, seppure i ricercatori stessi avvisino che «il confronto va valutato con le dovute cautele, perché non estendibile a tutto il mondo delle coop». Guardando poi al presente e al futuro, dall’indagine emergono altre buone notizie: «oltre l’80% delle cooperative prevede una sostanziale tenuta dei propri occupati, il 10% ne stima l’aumento e appena il 6% si aspetta la diminuzione. Per converso, tutti i dati congiunturali del sistema produttivo nazionale confermano, ormai da vari trimestri, che la ripresa economi-

-6,0

Più resistenti alla crisi

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2012 Anno Internazionale delle Cooperative per «mettere in risalto il contributo che danno allo sviluppo socio-economico», in particolare riconoscendo il loro «impatto sulla riduzione della povertà, l’occupazione e l’integrazione sociale». Si leggono queste parole nella risoluzione 64/136 dell’Onu, secondo cui l’Anno internazionale dovrebbe servire per «sensibilizzare l’opinione pubblica in merito al ruolo delle cooperative e al loro contributo allo sviluppo socio-economico e al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio», a «promuovere la formazione e l’espansione delle cooperative» e «incoraggiare i governi ad adottare politiche, provvedimenti normativi e regolamenti che favoriscano la formazione, la crescita e la stabilità delle cooperative». «Per far fare un passo in avanti e promuovere la crescita delle cooperative a livello internazionale – ha dichiarato Pauline Green, presidente dell’Ica (l’Alleanza internazionale delle cooperative) – c’è bisogno di migliorare la conoscenza e aumentare la visibilità di questo modello di business sottolineando la sua importanza per lo sviluppo». Una realtà poco conosciuta, dunque. E dire che nel mondo oltre 800 milioni di persone sono membri di cooperative e più di 100 milioni hanno un posto di lavoro grazie ad esse (statistiche Ica). In Italia se ne contano circa 71.600, il 7,5% del totale delle imprese tenute a pubblicare il bilancio. Danno lavoro a oltre 1,1 milioni di persone, con un fatturato (senza contare le Banche di credito cooperativo e includendo i Consorzi) di oltre 108 miliardi di euro, il 3,5% del valore del-

-22,4

Il 2012 delle cooperative

FONTE: ISMEA RAPPORTO ECONOMICO FINANZIARIO 2012

| economiasolidale |

Fatturato estero

15-16 MARZO Venezia (San Servolo) “PROMOTING THE UNDERSTANDING OF COOPERATIVES FOR A BETTER WORLD”

Produzione

Cooperative produzione lavoro Ancpl (2009-2008)

Conferenza internazionale organizzata da Euricse, Ica e l’Alleanza delle Cooperative Italiane, con il patrocinio della Fondazione Ivano Barberini. www.conference2012.euricse.eu

ca non sarà accompagnata da un adeguato aumento dell’occupazione».

Quali anticorpi? Dalla ricerca emergono anche i metodi usati dalle cooperative per salvaguardarsi, anticorpi fondamentali che le caratterizzano: dalla maggiore flessibilizzazione degli orari alla redistribuzione dei carichi di lavoro; dalle “isole di lavoro a orario sociale” all’impiego del lavoro part-time; dall’utilizzo delle ferie alla limitazione degli straordinari; dalla diversa modulazione dei turni al ricorso agli ammortizzatori sociali. Tutti metodi per limitare al massimo l’impatto della crisi sull’occupazione. Armi efficaci solo grazie al “coinvolgimento diretto dei lavoratori”, pratica insita nella storia cooperativa, che, di fronte a questa situazione di difficoltà, è stata applicata anche di più: con più informazione, più riunioni, talvolta una riorganizzazione autonoma degli stessi lavoratori, che in molti casi si sono ridotti i compensi, fino a rinunciare alle “tredicesime” pur di mantenere i livelli occupazionali. Ma quanto a lungo sarà possibile tirare la cinghia? Se lo chiede Flaviano Zandonai. «Nel breve termine questa capacità di resilienza è certamente un valore aggiunto che ha permesso di mantenere livelli occupazionali stabili, ma alla lunga potrebbe essere un problema, togliendo le risorse per ripartire, proprio nel momento in cui l’economia ricomincerà a girare. Potrebbe già accadere nel 2013».

Quali armi, dunque, dovrebbero mettere in campo le cooperative per ripartire? «Bisognerebbe ripensare la questione dimensionale: piccolo è bello non è un concetto valido oggi. Dovrebbero aumentare le fusioni. E bisognerebbe fare rete, creare gruppi cooperativi e ripensare strutture consortili». Spunti interessanti, da approfondire sui prossimi numeri di Valori. 

LINK UTILI www.2012.coop www.ica.coop/al-ica, Ica (International co-operatives alliance) www.euricse.eu, Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises)

DO YOU CO-OPERATE? La domanda “Tu co-operi?” campeggia sulla testata di Stories.coop, il sito internet lanciato il primo gennaio scorso da Euricse (European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises) e Ica (International Co-operatives Alliance). Ogni giorno una storia nuova in copertina, persone ed esperienze di cooperazione all’insegna della varietà geografica e di settore. La registrazione al sito è aperta a qualsiasi cooperativa che voglia inviare la propria storia, rigorosamente in inglese per raggiungere tutti gli angoli del Pianeta, e diventare uno dei 366 esempi selezionati per far conoscere la cultura cooperativa nel mondo.

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 43 |


| economiasolidale |

| economiasolidale |

Un passaggio epocale Per disegnare nuovi modelli economici di Corrado Fontana

Due grandi sfide per un passaggio epocale che coinvolge la stessa idea di economia di mercato. Il professor Zamagni chiama il movimento cooperativo a uno sforzo strategico, in vista della fine della crisi l movimento cooperativo italiano sta attraversando un passaggio epocale: si tratta di definire il modello di economia di mercato, se deve continuare ad essere identificato con la sola impresa capitalistica o assumere una caratteristica plurale, con una molteplicità di forme di impresa che si muovono nel rispetto delle regole sulla concorrenza». Descrive così questo momento storico per le cooperative Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’università di Bologna e presidente della Commissione Scientifica di Aiccon (Associazione italiana per

«I

la promozione della cultura della cooperazione e del non profit).

Il movimento cooperativo è in grado di affrontare la sfida di ridefinire il modello economico? Sì, perché ha ormai raggiunto dimensioni di grande portata. Pensiamo alle banche di credito cooperativo, le Bcc, che in Italia, tutte insieme, sono il quarto gruppo bancario; o alla cooperazione di consumo (i supermercati e simili, ndr) che costituisce il primo o il secondo gruppo del settore; si pensi a

La forza della relazione per resistere alla crisi di Elisabetta Tramonto

Diego Schelfi, presidente della Federazione trentina della cooperazione

Un calendario fitto di eventi in tutto il mondo per celebrare l’Anno internazionale della cooperazione. Ma che cosa significa questa scelta delle Nazioni Unite di dedicare un anno, il 2012, a una realtà economica particolare come le cooperative? Lo abbiamo chiesto a Diego Schelfi, presidente della Federazione trentina della cooperazione. Un’organizzazione che, in un territorio dove le cooperative sono una realtà molto

| 44 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’università di Bologna e presidente della Commissione scientifica di Aiccon

Unipol che, dopo l’acquisizione di Fonsai, è diventata la seconda impresa assicuratrice italiana dietro Generali; o alle cooperative sociali che gestiscono gran parte del sistema di welfare state, di as-

diffusa e antica, rappresenta 539 società (512 cooperative più altri 27 enti) e 270 mila soci. Che significato ha e che scopo può avere questo Anno internazionale della cooperazione? In primo luogo dovrebbe essere l’occasione per richiamare il singolo cooperatore, il singolo cittadino, a un senso di responsabilità, di presa di coscienza del dovere di cittadinanza, all’interno del quale si colloca la cooperazione. Se riusciremo a fare questo avremo dato alla cooperazione un contributo straordinario. In secondo luogo dovrebbe servire a far conoscere la cooperazione, una realtà di cui non si parla a sufficienza o di cui si parla a sproposito. Le sue enormi potenzialità non sono conosciute dalle istituzioni, dalle categorie, dall’economia. Siamo nel mezzo di una profonda crisi economica. Anche le cooperative ne hanno risentito? O hanno degli anticorpi che le hanno preservate? Porto un esempio dal mio territorio. Per le cooperative

AVANGUARDIA SUDISTA Non è nata a Milano, Padova o Torino, e nemmeno a Roma. Si è invece costituita il 18 luglio scorso a Melpignano, in provincia di Lecce, la prima “cooperativa di comunità”: società cooperativa a responsabilità limitata scaturita dal progetto Fotovoltaico diffuso sui tetti che l’amministrazione sta realizzando in collaborazione con la cooperativa Officina Creativa e il Dipartimento di Ingegneria dell’innovazione dell’università del Salento. Un esperimento innovativo per l’Italia visto che, alla cooperativa avviata dal Comune (socio sovventore), aderiscono innanzitutto i cittadini, diventando così, in qualità di soci utenti, anche proprietari collettivi degli impianti e dotando case e aziende di energia da fonte rinnovabile. La speranza della comunità è che l’iniziativa possa fungere da volano economico territoriale, poiché tutte le attività necessarie a realizzare il progetto (studi di fattibilità dei tetti, pratiche amministrative, autorizzative e finanziarie, montaggio e attivazione degli impianti) saranno affidate a soci lavoratori o a società costituite ad hoc o esistenti nel comune. La base di partenza sono i 25 euro versati da ciascun socio (poco meno di 300) e i centottanta edifici censiti come adatti ad alloggiare pannelli fotovoltaici per una potenza complessiva di circa un megawatt.

sistenza alla persona. Cose inimmaginabili fino a 10-15 anni fa. Non stiamo più parlando di una realtà residuale, insom-

Le Bcc tra le banche, le coop di consumo nella grande distribuzione, le cooperative sociali nel welfare state dimostrano che questo è un settore di grande rilievo ma, ma di una realtà economica di grande rilievo.

Come hanno reagito alla crisi le cooperative? Hanno patito più o meno delle altre realtà imprenditoriali? In una prospettiva di breve termine anche le cooperative patiscono sul fronte occupazionale, patrimoniale etc. Ma stanno meno male delle imprese capitalistiche. Il vero problema riguarda il lungo termine. Dobbiamo chiederci quando questa crisi passerà e qual è il livello strategico su cui le cooperative devono ragionare? In America, da alcuni anni è partito un grande progetto, finanziato dal National Bureau of Economic Research di Washington, che si chiama Shared Capitalism, ovvero capitalismo condiviso: hanno capito che bisogna andare verso un nuovo modello di capitalismo nel quale i lavoratori diventano soci delle imprese e partecipano al processo decisio-

è fondamentale il lavoro. In questi anni di crisi, dal 2007 ad oggi, in Trentino la cooperazione non solo ha garantito il turnover, ma ha anche creato un migliaio di nuovi posti di lavoro. Spesso è accaduto a scapito del reddito e degli utili. Certamente abbiamo risentito dei momenti difficili, ma credo che questa crisi in qualche modo abbia addirittura aiutato: a dare senso alla relazione. Faccio un altro esempio: in Trentino abbiamo 400 punti vendita cooperativi di distribuzione sul territorio, le famiglie cooperative. Sono piccoli, sui 100 metri quadrati. Un economista direbbe che non hanno significato economico. Ma per i piccoli paesi costituiscono la salvezza, sia per i bisogni materiali, sia come luoghi di incontro dove la gente sta riscoprendo il senso della relazione. Questi negozi non solo hanno resistito, ma hanno anche aumentato il valore della produzione e la fiducia dei propri soci. La crisi ha permesso di mettere in risalto le peculiarità della presenza cooperativa sul territorio. Se siamo in grado di sfruttare questi punti di forza, trasmettendo l’importanza della relazione, la crisi può diventare un elemento

nale, al consiglio di amministrazione, condividendo gli utili a fine anno. In tale contesto quale sarà il posizionamento delle cooperative? Avranno ancora senso? Io credo di sì. Ma va sollevato il dibattito, soprattutto in Europa. La seconda grande sfida nasce da un altro interrogativo: quali spazi nuovi d’intervento si aprono per la forma cooperativa di impresa? Vanno conquistati territori inediti, innanzitutto candidandosi a governare i beni comuni (conoscenza e beni culturali, acqua e territorio) attraverso modelli di gestione comunitaria adeguati, a fronte di una gestione pubblicistica e privatistica che si è rivelata inefficace. E poi dedicandosi all’organizzazione del lavoro, fornendo politiche concrete di conciliazione coi tempi familiari. Perché la tendenza in atto di separazione tra vita e lavoro sta producendo disastri enormi, a partire dalla denatalità e dall’infelicità pubblica. Bisogna creare cooperative di comunità, come la prima costituitasi a Melpignano (vedi BOX ), in provincia di Lecce, per realizzare una rete diffusa d’impianti fotovoltaici sugli edifici pubblici e privati del territorio comunale. Ieri la sfida era vendere le scatolette a un prezzo più basso o garantire condizioni di lavoro meno disumane, oggi è trovare nuovi ambiti di intervento. 

di successo per le cooperative. Lo stesso vale per le casse rurali. In Trentino abbiamo circa 380 sportelli aperti in piccole comunità. In questo momento di crisi della liquidità e della finanza, in questi luoghi la gente si fida. Alcuni economisti sostengono che avere tirato la cinghia, per esempio riducendo gli utili pur di non licenziare, potrà danneggiare le cooperative, che al momento della ripresa si ritroveranno indebolite… Questo può valere nel breve periodo: un’azienda che ha licenziato 30 persone può risultare avvantaggiata rispetto a una cooperativa che ha continuato a farle lavorare. Ma nel lungo periodo è il contrario: la relazione di fiducia che si è instaurata con quelle 30 persone è solida. Sta poi alla classe dirigente cogliere le opportunità per uscire dalla crisi. Bisogna scegliere aree di investimento innovative, sapendo che alle spalle ci sono persone che hanno affrontato con te delle sfide. Non abbiamo armi spuntate rispetto alle imprese. Anzi sono più affilate.

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 45 |


| economiasolidale | made in italy a rischio/puntata 12 |

| economiasolidale |

di Emanuele Isonio

Migliaia di piccoli agricoltori riuniti in pochi grandi consorzi. Filiera corta ed efficiente. Profitti equamente distribuiti. Per costruire un modello vincente ci sono voluti cinquant’anni. Ma ora è un esempio nel mondo

«Se la globalizzazione prosegue con questo ritmo credo che dovremo arrivare a una comunità di commercializzazione ancora più grande». La previsione per il futuro della melicoltura italiana fatta da Josef Wielander, direttore del consorzio Südtirol-Val Venosta, ha i piedi ben piantati nel presente. I quattro consorzi trentini e altoatesini (Melinda, La Trentina, Marlene e Südtirol) hanno, infatti, avviato due progetti per aumentare le esportazioni e ridurre i costi di produzione. Le due iniziative incidono solo per il 4% del fatturato dei consorzi, ma sono un segnale importante verso una maggiore unità. La prima idea si cela dietro al marchio From Italian Alps. In pratica un consorzio di consorzi creato per rendere possibile la penetrazione in due mercati molto promettenti come Russia e India. «Fare export verso simili colossi da soli era antieconomico», spiega Luca Granata, direttore generale

MELICOLTURA TUTTE LE CURVE CHE FOTOGRAFANO IL SETTORE

Leader in Europa Export alle stelle Un bagno di verità e di onestà intellettuale in un ambito che, è bene sottolinearlo, è già oggi uno dei più floridi del panorama ortofrutticolo italiano. Talmente organizzato da diventare un punto di riferimento per altre filiere agricole. Il segreto del successo? Forse sta in questa analisi: «A produrre e vendere | 46 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

I segreti di un successo Per capire i buoni risultati, ottenuti nonostante una congiuntura economica tutt’altro che favorevole, vanno tenuti a mente tre punti di forza: una qualità oggettivamente elevata del prodotto, la scelta di aver puntato su un numero tutto sommato adeguato di varietà di mele che conciliasse produttività e ampiezza dell’offerta (vedi ARTICOLO a pag. 49), la capacità di aver costruito una filiera molto corta. Una peculiarità, quest’ulti-

20%

19,4%

20,6%

20,689%

19,2%

17,1%

1.500.000

20,7%

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23,8%

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T

mele di certo nessuno si arricchisce esageratamente, ma, al tempo stesso, quasi nessuno diventa povero». I dati, in effetti, confermano questa analisi (vedi GRAFICO ): tranne un paio d’anni sotto la media, la produzione fluttua da un decennio attorno a quota 2,2 milioni di tonnellate ed è concentrata in tre regioni (l’88% delle mele è coltivato in Trentino Alto Adige, Piemonte e Veneto). Sesta nel mondo, leader senza rivali in Europa per le mele da tavola e seconda assoluta, dopo la Polonia. Segno di un settore italiano ormai maturo, nonostante, nello stesso periodo, il consumo pro capite annuo sia sceso da quasi 25 chili a poco più di 19 (-24%). La tenuta economica è stata assicurata dal consistente aumento delle esportazioni: con l’import fermo attorno a 40 mila tonnellate annue, l’export è cresciuto dalle 583 mila tonnellate del 2000 alle 857 mila del 2010 (+47%).

25%

24,7%

2.500.000

2.000.000

re parole: «Trovo disonesto lamentarmi». In quelle tre parole, la fotografia di un settore – quello delle mele – con centinaia di anni di storia alle spalle. Diviso tra la soddisfazione per aver costruito un modello invidiabile e la volontà di fare ancora un passo avanti. Nel Paese in cui non si sa se sia più difficile dimettersi o più facile piangersi addosso, sono le tre parole che ci sono rimaste più impresse nelle svariate ore di chiacchierate e interviste con esperti e produttori. Sono quelle di Luca Granata, direttore generale di Melinda, il più grande dei consorzi di melicoltori italiani. «Trovo disonesto lamentarmi e puntare il dito contro i consumatori, le banche, la grande distribuzione, il clima che cambia. Non è giusto dire che cosa gli altri dovrebbero fare. Dobbiamo solo chiederci come possiamo fare meglio la nostra parte. Nel nostro caso, abbiamo a portata di mano tutte le soluzioni per assicurarci un futuro prospero. Se non le cogliamo, la colpa sarà solo nostra».

di Melinda. «Con questo progetto abbiamo evitato di ripetere gli errori fatti in ambito nazionale». I numeri sono interessanti: nel primo anno, solo a Mosca sono state commercializzate ventimila tonnellate di mele italiane. L’altra iniziativa punta invece a sfruttare al meglio gli impianti di trasformazione delle mele. I frutti non adatti a essere consumati freschi (magari perché ammaccati o di pezzatura inadeguata) vengono usati per farne succo di frutta, che deve avere una percentuale minima di frutta pari al 30%. Nella provincia di Trento però gli impianti non esistevano. A Bolzano invece ce n’erano due, di proprietà dei consorzi altoatesini. I loro omologhi trentini dovevano scegliere: o costruirsi un impianto tutto loro ex novo, oppure condividere quelli già esistenti, sfruttandoli meglio e rilevando quote della società che li possedeva. È stata scelta la seconda ipotesi. Piccoli passi nella direzione giusta. Em.Is. ARCHIVIO SLOW FOOD

Mele, l’unico nemico è la paura dell’unità

RUSSIA E INDIA: PROVE TECNICHE DI SUPERCONSORZIO

15%

1.000.000

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2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010

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Consumo apparente pro capite

0%

FONTE: ISMEA RAPPORTO ECONOMICO FINANZIARIO 2012

Golden Delicious, creata negli Stati Uniti nel 1891, è una delle varietà di mela più coltivate in Italia

ma, spesso invidiata dagli altri frutticoltori: i produttori coltivano e raccolgono i frutti; le cooperative intervengono nella fase di lavaggio, stoccaggio, confezionamento e spedizione; i consorzi si occupano infine di programmare la produzione, adeguarla alla domanda, concentrare l’offerta, controllare la qualità dei prodotti, ridurre i costi. Ma, soprattutto, assicurano ai coltivatori maggiore potere quando trattano il prezzo d’acquisto con i colossi della grande distribuzione organizzata. E così, nonostante il 90% delle

mele siano coltivate in aziende piccole o piccolissime (in Trentino Alto Adige, dove si concentra il 70% delle produzioni, la superficie media è inferiore ai due ettari), i melicoltori ottengono un ricavo migliore di molti altri agricoltori. «Quando si pensa a una mela vengono in mente, al massimo, due o tre marchi dietro ai quali ci sono centinaia, anzi migliaia di produttori. Imitare quel modello per noi sarebbe un sogno», osservava con una buona dose di invidia un coltivatore di agrumi nel Catanese.

Ma una filiera efficiente significa anche un risparmio per i consumatori finali. «Coltivare un chilo di mele costa 0,45 euro» spiega Luca Granata. «Il processo di conservazione, selezione, confezionamento, spedizione, promozione e commercializzazione incide per 40 centesimi. Altri 20 servono per coprire i costi e i margini dei grossisti e infine 0,35 euro sono necessari per i costi e i margini della distribuzione al dettaglio. E, infatti, il prezzo medio al consumo si aggira attorno a 1,4 euro al chilo. Tre volte i costi iniziali di produzione: un aumento fisiologico di una filiera efficiente, in cui i margini netti di tutti gli attori sono inferiori al 5%».

Un percorso lungo mezzo secolo Per costruire questo modello efficiente e invidiato non sono bastati pochi mesi. Unire quattromila famiglie di produtto-

Mele rosa dei Monti Sibillini

ri è stato un percorso lungo e difficile. In Trentino, ad esempio, è iniziato oltre mezzo secolo fa: negli anni ’60 si è partiti creando quaranta depositi nella Val di Non. Poi vennero realizzati impianti comuni per conservare le mele e negli anni ’70 sorsero sedici cooperative per avere una massa critica maggiore. Da lì ci vollero altri dieci anni prima che potesse nascere un solo consorzio che riunisse tutti i produttori della provincia. «Quel percorso – osserva Granata – è stato una violenza psicologica fatta al Dna individualista tipico dei piccoli imprenditori italiani, che considerano gli altri produttori come mortali nemici e non come potenziali alleati». Una violenza evidentemente utile perché ha permesso la sopravvivenza (e lo sviluppo) del settore: «Il professore che ci ha insegnato questa lezione si chiama mercato», ammette Granata. | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 47 |


LE REGIONI DI PRODUZIONE [Dati in percentuali]

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ARCHIVIO SLOW FOOD - TERRAMADRE 2010

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TRENTINO ALTO ADIGE 70%

LOMBARDIA 1,7%

VENETO 8,9% PIEMONTE 9,2%

EMILIA ROMAGNA 6,7%

Biodiversità a rischio Un declino inevitabile? di Emanuele Isonio

Sono 900 i tipi di mele italiane, ma l’80% della produzione si concentra su appena cinque varietà. Per molte altre l’estinzione è probabile. Ma in alcuni casi il recupero è possibile ed economicamente vantaggioso FONTE: ELABORAZIONE BMTI PER CAMERA DI COMMERCIO CUNEO

LE TRE “TOP” TRA LE ITALIANE…

… E TRE VARIETÀ DA (RI)SCOPRIRE

Ma per crescere ancora, serve altro Eppure non sembra che i risultati raggiunti facciano dormire sonni totalmente tranquilli ai melicoltori italiani. Anzi, l’esigenza di migliorarsi ulteriormente è piuttosto diffusa. E parte da una constatazione: «Siamo ancora troppo piccoli rispetto ai gruppi della Gdo italiana. Difficile avere una posizione di forza rispetto ai nostri interlocutori», spiega Granata. Tanto per capire: il consorzio Melinda (il maggiore nel mondo delle mele tricolori) fattura 250 milioni. Coop Italia ha un fatturato da 13 miliardi. Ma nel mondo non è nemmeno nei primi 50 posti. Quando ci si confronta con i colossi multinazionali, il potere contrattuale scende a zero. «Inoltre i 3-4 consorzi oggi esistenti si beccano tra loro come i polli di Renzo». Un inutile spreco di energie: «Per fortuna il nostro livello di organizzazione è il migliore al mondo. Siamo in pole position per entrare in nuovi mercati. L’unico nemico dal quale guardarci è la paura di lavorare uniti». 

MA I VERTICI DI CATEGORIA TACCIONO «Sono pochi cinque giorni di preavviso per riuscire a rintracciare i dati e per farla parlare con qualcuno»: ci hanno risposto così gli uffici di Assomela quando abbiamo chiesto spiegazioni sul ritardo nel fornirci i numeri necessari per dare ai lettori un quadro il più possibile chiaro della filiera-mele italiana. Questo servizio è andato quindi in stampa senza poter avere il punto di vista dell’associazione che riunisce la stragrande maggioranza dei produttori. È la prima volta che accade in tante puntate delle nostre inchieste. Forse il titolo di apertura del nostro servizio non è del tutto corretto: la paura di marciare uniti non è l’unico “nemico” da battere, si possono ottenere i risultati migliori del mondo. Ma non riuscire a comunicarli resta una grossa pecca.

GOLDEN DELICIOUS Ogni dieci mele prodotte in Italia, quattro sono Golden. È la mela più nota, caratterizzata dalla tipica buccia gialla e dalla polpa croccante, succosa e gradevolmente aromatica. Si è diffusa, a partire dagli inizi del XX secolo, quando i grandi vivai Stark della Louisiana hanno compreso la grande capacità produttiva di questa varietà e la sua facile conservazione dei suoi frutti.

GRIGIA DI TORRIANA Tondeggiante, leggermente schiacciata, gialla, ruvida e rugginosa, la Grigia prende il nome dalla sua buccia ed è la più nota tra le sette varietà di mele antiche piemontesi, oggetto di un Presidio Slow Food e simbolo della storica melicoltura regionale. È la mela con il maggior numero di antiossidanti, richiede pochi trattamenti fito-sanitari e, grazie alla sua polpa consistente, è molto adatta alla cottura in forno.

GALA Seconde in classifica tra le mele italiane (quasi 300 mila tonnellate annue), sono piccole, prevalentemente rosse con qualche striscia verticale verde o giallognola. Dolci, leggermente granulose, ma morbide, come il loro sapore poco deciso. Sono nate nel 1920 in Nuova Zelanda da un incrocio tra Golden e Kidd’s Orange Red. La varietà Royal, raccolta a febbraio, è invece nata negli anni ’70.

MELA ROSA DEI MONTI SIBILLINI Le mele rosa crescono soprattutto nelle valli appenniniche e nelle aree pedecollinari. Hanno una grande peculiarità: si raccolgono a ottobre e si conservano senza problemi fino ad aprile. Polpa acidula e zuccherina, profumo intenso e aromatico. Secondo molti cuochi, sono ideali per torte e dolci. Nei monti marchigiani i produttori hanno creato un presidio Slow Food per incentivarne l’uso.

RED DELICIOUS Croccante, succosa, dal sapore dolce e dall’aroma inconfondibile. Biancaneve per poco non ci rimetteva la pelle per il morso dato a questa mela (avvelenata però dalla strega cattiva). Celebre per la sua pezzatura medio-grande e il suo colore rosso intenso, è al terzo posto per produzione (233 mila tonnellate nel 2008).

ANNURCA Al Sud è considerata la “Regina delle Mele”. Al Nord è praticamente sconosciuta. Oggi è una delle uniche due varietà ad aver ricevuto il marchio Igp (indicazione geografica protetta), a indicare la zona di produzione localizzata tra Napoli e Benevento. Nella Naturalis Historia, Plinio il Vecchio (23 d.C.) la designava come mala orcula perché cresceva attorno a Pozzuoli. Rosso intenso, di piccola taglia, raccolta a metà settembre e fatta riposare per due settimane in appositi melai, protetti con aghi di pino, canapa e trucioli, ha una polpa croccante, compatta ed estremamente aromatica con punte di acidulo. Ricchissima di vitamine B, C, PP e minerali.

scorrere con lo sguardo il lungo tavolo bianco che era stato allestito in uno degli stand più visitati all’ultima edizione di Terra Madre a Torino (2010), è legittima la sensazione di essere di fronte a una pulizia etnica applicata al mondo vegetale. Su quel tavolo (nella foto a sinistra), erano esposte gran parte delle varietà di mele coltivate fino a qualche tempo fa in Italia. «Sono oltre 900 quelle censite nel nostro Paese», rivela Cristiana Peano, docente di Arboricoltura all’università di Torino. Al contrario, per esporre le varietà “campionesse d’incassi”, sarebbe sufficiente un comodino.

A

La produttività sacrifica la varietà Oltre l’80% della produzione totale è monopolizzata da appena cinque tipi: Golden Delicious (le classiche mele gialle), Gala, Red Delicious (la famosissima mela rossa), Fuji (d’origine giapponese) e Imperatore. «Non si può parlare di varietà nuove, perché sono state create, tra gli anni ’40 e ’60, da varietà più tradizionali», spiega la Peano. «Sono mele coltivate a livello mondiale, che hanno scalzato le tipicità locali». Alla base del successo la loro straordinaria adattabilità ed elevata produttività. Requisiti essenziali per le produzioni su vasta scala, in cui avere poche varietà semplifica il lavoro e riduce i costi per unità. E le mele “antiche”? «Una frutticoltura fortemente specializzata le condanna a morte – ammette la Peano – perché sono meno produttive, più costose e, dal punto di vista del gusto, molto più particolari». Sono almeno due i rischi di questa tendenza: una perdita della biodiversità e delle peculiarità tradizionali, con l’omologazione dei gusti. Detto questo, un po’ di pragmatismo non guasta: «Le varietà con una qualche valenza continua a pagina 50

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LE VARIETÀ PRODOTTE [Dati in tonnellate/percentuale]

Altre varietà 152.000 / 7,7%

Braeburn 75.000 / 4,7% Granny Smith 95.000 / 4,7% Imperatore 96.000 / 4,8%

Golden Delicious 883.000 / 44,3%

Fuji 129.000 / 6,5%

Red Delicious 233.000 / 11,7%

Gala 273.000 / 13,7%

Attorno alle mele antiche sta fiorendo una nicchia di consumatori. E chi le produce ha spesso margini di guadagno più elevati i produttori che l’hanno intrapresa, ma una scelta commerciale interessante. Riscoprire varietà poco note permette di conquistare gruppi di clienti appassionati e garantisce plusvalori economici interessanti, soprattutto se abbinate alle coltivazioni biologiche: «Chi le coltiva – calcola Peano – può contare su un 50% in più di margini rispetto alle varietà più diffuse». 

LA CORSA È A OSTACOLI, MA IL BIOLOGICO CORRE Il connubio tra mele e metodo di coltivazione biologico sembra destinato a rinforzarsi nel tempo, ma qualche ostacolo lungo il percorso indubbiamente esiste. Fanno ben sperare nella riuscita del matrimonio i dati del settore, in netta crescita: nel 2008 gli ettari coltivati in regime di agricoltura biologica erano circa tremila. L’anno scorso – rivela l’Aiab (Associazione italiana agricoltura biologica) – avevano superato quota quattromila: +33% in quattro anni. Con oltre trenta varietà coltivate (Royal Gala, Braeburn, Golden e Pink Lady le più diffuse), a livello comunitario, rappresenta circa il 2% della melicoltura europea. A frenare la crescita ci sono soprattutto i problemi legati al costo di produzione, maggiore rispetto ai metodi convenzionali: «Coltivare mele biologiche non è complicato – spiega Cristiana Peano, docente di Coltivazioni arboree all’università di Torino – ma non c’è dubbio che nel bio il costo

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della manodopera, voce che incide per il 50% dei costi totali di produzione, cresce di circa il 30%». Inevitabile, visto che alcune fasi di coltivazione, agevolate nel convenzionale dall’uso di prodotti chimici, vanno eseguite a mano. «È il caso – prosegue Peano – del diradamento (l’eliminazione delle mele in surplus per consentire a quelle che rimangono di crescere meglio, ndr) e degli interventi necessari a combattere la ticchiolatura, una delle malattie più frequenti, che, nel bio, può essere risolta solo passando più volte sulle piante il verderame». Ma non basta: i costi aumentano anche perché, per entrare in piena produzione, un meleto biologico impiega circa quattro/cinque anni, contro i tre del convenzionale. Le mele prodotte sono poi inferiori per quantità e pezzatura. Certo: i risultati, soprattutto in termini di gusto, sono innegabili. Em.Is.

FONTE: ELABORAZIONE BMTI PER CAMERA DI COMMERCIO CUNEO

Cripps Pink 54.000 / 2,8%

© CARLA CAMPANELLA

commerciale sono alcune decine», osserva Luca Granata, direttore generale del consorzio Melinda. «Ognuna ha una sua vocazione territoriale, influenzata dall’altimetria, dall’esposizione, dalla disponibilità d’acqua e dal tipo di terreno. Quelle che scompaiono lasciano il posto a nuove varietà, migliori delle precedenti: fioriscono di più, producono di più, piacciono di più e si conservano meglio». Concorda Peano: «La perdita di biodiversità si tutela creando campi collezione, essenziali, nonostante gli alti costi, per non perdere un patrimonio genetico fondamentale. Detto questo, dal punto di vista commerciale non tutte le varietà meritano invece di essere rivalorizzate». La corsa alla riscoperta si sta comunque costruendo una propria nicchia di mercato: «la richiesta di varietà antiche sta aumentando» conferma Fabrizio De Giacomi, responsabile tecnico del Consorzio Infomercati. «Sono ovviamente numeri marginali. Ma il fenomeno è importante perché fa venire voglia di provare nuovi gusti e riscoprire sapori dimenticati». Decine le varietà ritrovate, come le mele Gelato Cola dell’Etna, o la Limoncella campana, la mela del castagno e la Conventina, coltivata nelle campagne attorno a Gubbio. Alcune sono poi entrate a far parte del circuito dei presìdi Slow Food: come le mele rosa dell’Appennino e le sette varietà piemontesi, diffuse soprattutto attraverso farmer market, mercati del biologico e Gruppi d’acquisto solidale. Non una strada antistorica, per

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Milano sceglie di cambiare Con stile di Valentina Neri

Una campagna per promuovere uno stile di vita sostenibile e green, attraverso i comportamenti quotidiani. Perché siamo tutti “attori del cambiamento” ivere con stile può avere tanti significati. Vuol dire anche avere il coraggio di adottare tanti piccoli cambiamenti per ricostituire il proprio rapporto con la città in modo più sostenibile, sano e partecipato. È questo lo spirito della campagna “Con stile, cambio vita a Milano”, promossa da Acli, Arci, Legambiente, Terre di Mezzo e Avanzi, con il patrocinio del Comune di Milano.

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A piccoli passi verso il cambiamento L’iniziativa ha preso il via ufficialmente il 26 gennaio a Palazzo Marino, alla presenza di tutti i promotori e di una nutrita rappresentanza istituzionale. Ciascuno può diventare in prima persona un “attore del cambiamento”, registrandosi al portale www.constile.milano.it e sottoscrivendo i comportamenti concreti che si impegna a intraprendere: abbonarsi ai mezzi pubblici, bere acqua del rubinetto e molti altri (vedi BOX ). Il vicedirettore di Legambiente, Andrea Poggio, ci tiene a fare una precisazione: «Non è una campagna solo virtuale. Il sito internet è usato come metodo per rendere pubbliche le proprie scelte, ma l’idea è quella di accompagnare quest’adesione con un vero e proprio coinvolgimento di duemila attori che vorremmo incontrare sul territorio», con una logica di rete per cui ciascuno si fa promotore delle proprie scelte di sostenibilità. Un’idea che segue le orme di esperienze come “Cambieresti”, che nel 2006 a Venezia ha coin-

volto 1.200 famiglie e ha contribuito a rilanciare su scala nazionale il movimento dei Gruppi di acquisto solidale o del progetto francese Paris durable, che ha raccolto in pochi mesi oltre seicento adesioni. La peculiarità, stavolta, è che gli attori non sono solo cittadini, ma anche cooperative, associazioni, scuole, circoli Arci, parrocchie, aziende, che ovviamente si porranno obiettivi diversi e più ambiziosi, da elaborare e collaudare nel tempo.

Siamo tutti “attori” Non si può dire che il sindaco del capoluogo lombardo, Giuliano Pisapia, all’evento di apertura non abbia dato importanza al progetto: che, auspica, che possa diventare uno dei biglietti da visi-

ta con cui Milano si presenta con una veste nuova all’appuntamento di Expo 2015. Anche tramite scelte che inizialmente si possono rivelare impopolari (come l’Area C: vedi Valori di febbraio 2012, ndr), ma che possono e devono essere portate avanti sulla base di una fiducia e di un sostegno diffuso da parte dei cittadini. Andrea Poggio, da parte sua, avverte: «Bisogna stracciare il velo che separa il cittadino dall’istituzione, che sia locale o statale. Non possiamo aspettarci che le politiche di sostenibilità vengano decise da delibere comunali, perché i pannelli solari li dovremo mettere anche sui nostri tetti, non solo sui tetti delle scuole; perché siamo noi a dover andare in giro in bicicletta, non è solo il Comune a dover istituire l’Area C e aumentare le corse della metropolitana». Siamo tutti “attori”, insomma: persone, realtà collettive, istituzioni.

UN DECALOGO GREEN PER COMBATTERE LA CRISI Ma qual è, in concreto, la ricetta per vivere “con stile sostenibile”? Gli ingredienti sono tanti e, oltre a rendere le città più ecologiche e sostenibili, forniscono anche una risposta alla crisi economica. Una sorta di “Manovra della famiglia” (è il titolo di un libro che Andrea Poggio pubblicherà per Terre di Mezzo Editore in occasione della fiera “Fa’ la cosa giusta!”): si risparmia senza contrarre debiti né sottrarre nulla alle generazioni future. Riportiamo alcuni esempi (la lista, sempre aperta a integrazioni, è disponibile al sito www.constile.milano.it): 1) Bere acqua di rubinetto e chiederla in bar e ristoranti. 2) Portare la borsa riutilizzabile per la spesa. 3) Non superare i 20°C di riscaldamento. 4) Spegnere gli elettrodomestici in standby. 5) Usare la bici per gli spostamenti brevi. 6) Ristrutturare la propria casa per renderla più efficiente a livello energetico. 7) Riscoprire i mercatini dell’usato per vendere o scambiare gli oggetti che non si usano più, anziché buttarli. 8) Coltivare un piccolo orto nel giardino di casa, ma anche sul terrazzo o sul balcone. 9) Differenziare più della metà dei rifiuti. 10) Abbonarsi ai mezzi pubblici, al car sharing e al bike sharing.

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| economiasolidale |

La green economy è già qui «Non è facile – continua Poggio – perché non siamo stati abituati a fare le cose insieme. Ma dobbiamo condividere le decisioni prese dalle istituzioni e sentirci coinvolti attivamente. Pensare in termini nuovi a politiche di sostenibilità è la chiave per il futuro». A dimostrarlo non sono solo le normative comunitarie, che al massimo nel 2020 imporranno di costruire case a consumo energetico quasi zero; ma soprattutto le tante città, devastate da terremoti e alluvioni, che ora vanno ricostruite in modo sostenibile. «Sembra banale, ma la green economy è proprio questo e la si può già vedere in azione. Tre anni fa, andando oltre le previsioni del governo, contavamo di arrivare a 15 mila megawatt fotovoltaici installati in Italia entro il 2020. Invece ci arriveremo a cavallo tra 2012 e 2013. La trasformazione è già dentro di noi: e non sarà facile né indolore, perché per le nuove fabbriche che apriranno ce ne saranno altre che chiuderanno o si dovranno riconvertire. È per questo che vogliamo fare queste scelte insieme agli altri. Così magari la via d’uscita sarà meno onerosa e vedremo delle soluzioni che, altrimenti, da soli, non sapremmo trovare». 

LA PIATTAFORMA PER RIPENSARE A COME MUOVERSI IN CITTÀ Una piattaforma open source studiata per mappare tutte le offerte di mobilità, pubbliche e private, presenti in città e che ciascun utente – tramite internet, cellulare o tablet – potrà interrogare per sapere in tempo reale come percorrere nel modo più rapido un determinato tragitto, a seconda delle condizioni del traffico e delle proprie preferenze personali: è il progetto Superhub, finanziato dall’Unione europea, che già coinvolge venti partner fra università, aziende e associazioni in diversi Paesi. L’attività di ricerca, che durerà tre anni, è partita lo scorso mese di ottobre e prevede tre progetti pilota: insieme a Barcellona ed Helsinki, ci sarà Milano, dov’è stato presentato a Palazzo Marino insieme alla campagna “Con stile”. I lavori procedono a tappe serrate. A febbraio sono partiti dieci focus group che hanno coinvolto ottanta utenti; durante Fa’ la cosa giusta! la partecipazione si amplierà ancora, contattando almeno mille persone. Nei mesi successivi inizierà il primo test pilota: seicento volontari, trasformati in “sensori mobili” tramite un sistema di monitoraggio fornito da Vodafone, comunicheranno le condizioni reali dei propri spostamenti. Marco Menichetti, responsabile del progetto per Fondazione Legambiente Innovazione, spiega: «Non vogliamo coinvolgere solo chi è già a favore della mobilità sostenibile. Ci interessa anche il cittadino che si muove sempre in auto e può percepire Superhub come uno strumento che gli fornisce nuove informazioni sul traffico. L’obiettivo sarà di convincerlo che a volte è più utile e intelligente coprire parte del tragitto con un altro mezzo». Proprio Legambiente è fra i partner del progetto, insieme ad Atm, Autoguidovie (le reti di trasporti rispettivamente dell’area urbana e dell’hinterland) e al centro di ricerca Create-net, legato all’università di Trento. Un coinvolgimento così forte delle istituzioni locali e dei gestori dei mezzi pubblici ha un significato ben preciso: «Questa piattaforma – afferma Menichetti – non sarà solo uno strumento per i cittadini, ma anche una fonte di informazioni per chi deve programmare la città, e che si trova di fronte a un quadro reale delle esigenze e delle preferenze degli utenti».

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| internazionale | scenari |

PASCAL SITTLER / REA / CONTRASTO

internazionale

Facebook presto verrà quotata in Borsa. Con i suoi 800 milioni di utenti rappresenta la più grande e completa banca dati mai messa insieme.

Le nuove società

È ancora il petrolio il propellente del capitalismo, ma non ci sono più solo le storiche “sette sorelle” degli anni Cinquanta. Oltre ai competitori dei Paesi emergenti, nuove società globali entrano a far parte della nostra vita sempre più indissolubilmente

che danno forma al Pianeta L di Paola Baiocchi

Il giro del mondo in 64 elezioni > 58 Emirati Arabi: il futuro abita nel deserto > 60 Fuori gli Ogm, dentro i contadini > 62 | 54 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

o scorso agosto è avvenuto uno storico sorpasso: la Apple per un’ora, con 338 miliardi di dollari, è stata la prima società al mondo per capitalizzazione di mercato, superando la compagnia petrolifera Exxon, che si era attestata a 337,7 miliardi di dollari dopo una flessione dell’1% nelle quotazioni. Il sorpasso si è ripetuto a gennaio: dopo la pubblicazione dei risultati conseguiti nell’ultimo trimestre del 2011, il gruppo informatico di Cupertino valeva 418,89 miliardi di dollari, quattro in più di Exxon, la più importante tra le storiche “sette sorelle”. Le aveva chiamate così nel 1953 Enrico Mattei, presidente dell’appena nata Eni, quando si era trovato l’accesso al petrolio iraniano sbarrato dall’Iranian Consortium. Un consorzio formato dalle sette società petrolifere più ricche dell’epoca, statunitensi, inglesi e anglo-olandesi, a capo del quale c’era “l’antenata” della Exxon, la Standard Oil of New Jersey. Allora “sette sorelle” era sinonimo di strapotere e la loro ombra si allungava, assieme a quella dei servizi segreti Usa e inglesi, dietro il golpe che aveva deposto Mohammad Mossadeq, il primo ministro iraniano, che nel 1951 aveva nazionalizzato l’industria petrolifera, allora controllata dagli inglesi della anglo-ira| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 55 |


Il multirugoso sorriso dei media Sicuramente no, il petrolio è ancora il propellente del capitalismo e l’Iran è ancora l’oggetto del contendere con le sue riserve energetiche e la sua posizione di valico tra Nord e Sud, oltre che tra Est e Ovest. Anche se alle compagnie anglosassoni si sono affiancati molti altri competitori. Nel 2007 The Financial Times ha stilato la classifica di una “nuova sorellanza” composta, in base al fatturato, solo da compagnie nazionalizzate di Paesi non Ocse. Per leggerla bisogna girare la carta geografica sottosopra e proiettarsi negli scenari futuri determinati dall’entrata di questi nuovi Paesi: Arabia Saudita, Russia, Cina, Iran, Venezuela, Brasile, Malesia (vedi TABELLA ). Ma, come il “multirugoso sorriso” del Buddha descritto nel Siddharta di Herman Hesse, nel quale rifluisce “la ruota delle apparenze”, il potere ha bisogno di essere cangiante o appunto sorridentemente friendly come un prodotto della Apple. Assemblato, però, dice un’inchiesta del New York Times, imponendo ritmi e condizioni di lavoro massacranti ai fornitori cinesi: la realtà del capitalismo che

Negli ultimi 100 anni le sette sorelle sono state uno dei martelli che hanno dato la forma al mondo, con l’energia del petrolio e con il loro potere di condizionamento contrasta con il nitore del famoso slogan think different. L’immagine della Apple e “i costi umani di un iPad” hanno parecchio a che vedere con altre “sorelle” che si contendono settori di mercato ricchi e molto influenti nelle nostre vite. Primo tra tutti quello dell’informazione/comunicazione.

Dal Cda dei paperi a quello dei contractors Un settore dominato da gruppi per la maggior parte statunitensi, ma presenti in tutto il mondo, con interessi non solo nei giornali, nelle televisioni o nelle radio, ma anche nelle piattaforme internet, nella telefonia cellulare, nei social network, nella pubblicità, nella produzione/distribuzione di film e nella proprietà di squadre sportive, di finanziarie e di assicurazioni. Per la possibilità di veicolare i messaggi attraverso diversi media, il sociologo spagnolo Manuel Castells parla di “convergenza”, specificando che non è tanto tecnologica o organizzativa, quanto culturale. Castells sottolinea come la comunicazione e l’informazione siano fondamentali nel mantenimento del potere, e nell’attuale società in rete contribuiscano a plasmare le menti attraverso

LE SETTE SORELLE DEL GREGGIO NEGLI ANNI ’50 Standard Oil of New Jersey, successivamente trasformatasi in Esso e poi in Exxon (che comunque conserva il marchio internazionale Esso), in seguito fusa con Mobil per diventare ExxonMobil (Stati Uniti); Royal Dutch Shell, anglo-olandese; Anglo-Persian Oil Company, successivamente trasformatasi in British Petroleum e ora nota come BP (Gran Bretagna); Standard Oil of New York, successivamente trasformatasi in Mobil e in seguito fusa con la Exxon per diventare ExxonMobil (Stati Uniti); Texaco, successivamente fusa con la Chevron per diventare ChevronTexaco (Stati Uniti); Standard Oil of California (Socal), successivamente trasformatasi in Chevron, ora ChevronTexaco (Stati Uniti); Gulf Oil, in buona parte confluita nella Chevron (Stati Uniti).

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il framing, la formazione di immagini condivise. Mettendo in ordine le sette major dei media, con fatturati da molti miliardi di dollari l’anno, sono: Time Warner, Disney, News Corporation, Bertelsmann, Nbc Universal, Viacom, Cbs. Chi siede nei consigli di amministrazione di queste conglomerate ricopre contemporaneamente cariche dirigenziali in altri consigli, passando dalle sedute della Boeing o della Halliburton a quelle della Disney. O dalla Goldman Sachs a News Corporation, il gruppo controllato da Rupert Murdoch, attualmente barcollante sotto le inchieste per il complesso sistema di raccolta di informazioni riservate, basato su intercettazioni illegali e corruzione. Proprio Murdoch e la sua Fox rappresentano un convitato di pietra nelle primarie repubblicane: sono sotto contratto Fox News, anche se attualmente sospesi, Newt Gingrich e Rick Santorum. Più Sarah Palin, Mike Huckabee e John Bolton, l’ex ambasciatore all’Onu di George W. Bush che sono stati a lungo tra i probabili candidati.

Dossier e Facebook La raccolta e anche la costruzione di informazioni da usare contro gli avversari politici è un’attività ormai talmente diffusa da aver dato vita a mestieri come “lo scavatore nel fango”. Così la quotazione di Facebook in Borsa, annunciata per maggio, si delinea come la realizzazione del sogno di tutti i pubblicitari e gli spioni del mondo: poter disporre della più grande banca dati che si sia mai vista, gusti sessuali e alimentari compresi,

THE NEW SEVEN SISTER DEL PETROLIO (THE FINANCIAL TIMES, 2007) • Saudi Aramco (Arabia Saudita)

LE CINQUE BANCHE DOMINANTI NEL SETTORE DEI DERIVATI (SECONDO TRIMESTRE 2011) Jp Morgan Chase Bank, Citibank National, Bank of America, Goldman Sachs Bank, HSBC Futures & forwards

35,79

3,99

Swaps

150,50

Opzioni

35,15 1,21

Derivati 15,5 0,14 Totale

236,97 0

Le 5 banche dominanti

50

100

Tutte le altre banche

volontariamente fornita da 800 milioni di utenti. Una quantità di informazioni «quale neppure la Cia o il vecchio Kgb avrebbero mai osato sognare» commenta Vittorio Zucconi su La Repubblica. Un ingresso che rende così evidente «la rotta di collisione fra privacy e interessi commerciali (o politici) – continua Zucconi – che persino Microsoft, che pure aveva tentato invano di battere la stessa strada e da sempre arranca all’inseguimento di altri nel mondo del Web, si è sentita in dovere di denunciare con pagine di pubblicità sui giornali i rischi dell’invadenza (altrui)». Google, che pure ha una sua specializzazione nella raccolta dati, segue l’esempio di Facebook: la società di Mountain View, che dal punto di vista della diversificazione delle proprietà (da Youtube alla Motorola) rientra a pieno titolo nei giganti della “convergenza mediatica”, ha proposto il 28 giugno 2011 un suo social network, Google+, che ha aggregato 60 milioni di utenti. Per Facebook si prevede una raccolta record da cinque miliardi di dollari, e il governatore della California, Jerry Brown, si aspetta un miglioramento delle entrate fiscali dello Stato dovute ai mille nuovi milionari che ne deriveranno.

• JSC Gazprom (Russia)

Le tre sorelle del rating

• China National Petroleum Corporation (Cina)

Messa da parte l’enfasi propagandistica, la quotazione in Borsa di Facebook verrà considerata una perdita dell’innocenza e farà recedere qualcuno dei suoi utenti dal pubblicare le proprie intime preferenze sulla piazza più grande del mondo? Non si sa, e non si sa nemmeno se il dirit-

• National Iranian Oil Company (Iran) • Petróleos de Venezuela, S.A. (Venezuela) • Petrobras (Brasile) • Petronas (Malesia)

5,63

150

200

10,97 250

300

[Dati in migliaia di miliardi di $]

to si prepari a nuove cause, magari per “tradito affidamento di dati”; ma sappiamo che sono state promosse class action nei confronti delle agenzie di rating da parte di associazioni di consumatori europee e italiane. Le cause collettive e le indagini avviate, come quella della procura di Trani, sono un segno, ma servirà un impegno più importante per contrastare lo strapotere che queste tre società – le statunitensi Standard&Poor’s e Moody’s, più la franco-statunitense Fitch – stanno esercitando. Un potere basato su “opinioni”, che genera conseguenze sociali devastanti sui Paesi declassati, equivalenti a dichiarazioni di guerra. Un potere sulle nostre vite che viene attributo ad alcune società private controllate da giganti della comunicazione (ancora loro), da fondi e società finanziarie. In un intreccio di società che scomposto e ricomposto porta a poche persone e pochi nuclei familiari.

Troppo grandi per fallire? Poteva terminare questo (incompleto) elenco delle società che condizionano la nostra vita, in modo spesso incompreso da noi, senza considerare le banche? Anche qui gli analisti e i giornalisti specializzati hanno voluto trovare delle sorelle, forse in virtù del fatto che nella lingua italiana molte delle peggiori sciagure (guerra, fame, morte, ecc.) sono al femminile. Tra le classifiche possibili per le banche abbiamo scelto quella in base alla quantità di derivati posseduti, perché ricordiamo bene le conseguenze che questi prodotti finanziari, spesso certi-

ficati “tripla A” dalle agenzie di rating, hanno avuto nel propagare la crisi a partire dal 2007, dagli Usa fino al circolo polare artico. Il volume dei contratti derivati è cresciuto a fine giugno 2011 del 18% rispetto a fine dicembre 2010, surclassando il record toccato nel giugno 2008 prima del fallimento Lehman, e sta gonfiando una nuova bolla. Secondo l’Office of the Comptroller of the Currency (Occ) “cinque sorelle” detengono il 95% dei derivati statunitensi e sono: Jp Morgan Chase Bank, Citibank National, Bank of America, Goldman Sachs Bank, HSBC. Qualche tempo fa si diceva che se gli Stati Uniti starnutiscono l’Europa ha l’influenza. Guardando questi dati speriamo che non gli scappi da ridere. 

PIÙ STREGHE CHE SORELLE

STANDARD&POOR’S È controllata dal gigante dell’informazione americano McGraw-Hill, quotato in Borsa e fondato nel 1884. Il presidente Harold III McGraw, della famiglia dei fondatori, è anche azionista con una quota dell’1,17%. Fra i principali azionisti, secondo la Bloomberg, vi sono il gestore di fondi Capital World (10,2%) e altre società finanziarie quali Vanguard (4,6%), State Street (4,2%) e BlackRock (2,46%) oltre a Morgan Stanley Investment (2,17%) e Pioneer (1,28%).

MOODY’S Il primo azionista è la Berkshire Hathaway che fa capo a Warren Buffet, il terzo uomo più ricco del mondo, ascoltato “guru” della finanza. Anche qui compaiono numerosi gestori finanziari e fondi: di nuovo Capital World (12,6%) e Vanguard (5,02%) e molti altri, tra i quali Blackrock (2,18%) e State Street (3,24%).

FITCH Con sede a New York, fa capo al gruppo francese Fimalac che la controlla insieme al colosso dell’editoria americana Hearst. Presidente e direttore generale è l’imprenditore francese Marc Ladreit de Lacharriere, già a capo di numerosi colossi d’Oltralpe come Air France e France Telecom.

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FONTE: ANSA

nian Oil Company, poi diventata British Petroleum (vedi TABELLA ). Si può dire che negli ultimi cento anni le sette sorelle siano state uno dei martelli che hanno dato la forma al mondo: attraverso l’utilizzo dell’energia estratta dal petrolio, ma soprattutto con il loro potere di condizionamento sulle scelte industriali, sulle politiche economiche e sul destino degli Stati. Sono da archiviare come un repertorio del passato?

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FONTE: OCC, 2011

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| internazionale | cambi al vertice |

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Il giro del mondo in 64 elezioni di Paola Baiocchi

Il 2012 si preannuncia come un anno particolarmente ricco di rinnovi elettorali. Nel grande show della democrazia aumentano i candidati che vengono dal mondo dello spettacolo, dallo sport e dall’imprenditoria nche se l’anno ha debuttato con un gelo straordinario e continuerà con tempeste solari particolarmente intense, il 2012 non sarà la fine del mondo come profetizzato dai Maya. Ma sarà un anno denso di appuntamenti elettorali come non si verificava da parecchio: 64 Paesi su 199 andranno al voto e tra questi anche molti big come Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Impossibile tracciare i ritratti di tutti i candidati e anche di quanto sia disinteressato il loro impegno, ma qualche costante si può delineare: in tutto il globo si moltiplica l’adozione delle primarie per la scelta dei candidati. Crescono anche gli aspiranti politici che arrivano dal mondo dello spettacolo e dello sport. Pullulano gli imprenditori che dopo i successi imprenditoriali puntano a dare il proprio contributo alla cosa pubblica.

A

C’è chi canta... E se la figura di Youssou N’Dour, bocciato come candidato presidente dal Consiglio costituzionale del Senegal, è emblematica, perché unisce quella dell’imprenditore a quella dell’uomo di spettacolo, che dire del fatto che ormai i candidati cantano tutti? Fa un figurone Obama, che all’Apollo Theather di Harlem, accenna a mezza bocca, come farebbe sotto la doccia, la più famosa canzone di Al Green e fa quasi crollare dagli applausi il soffitto del “tempio” di James Brown. Non sappiamo ancora se verrà riconfermato, ma al momento può guardare canticchiando un nutrito gruppo di repubblicani che si dissanguano nelle primarie. Uno più improbabile dell’altro. Canta da anni, invece, Hugo Chávez nella sua trasmissione domenicale “Aló Presidente”. E probabilmente continuerà, nonostante il tumore che gli è stato diagnosticato, a cantare da presidente anche dopo le elezioni che, per la prima volta dal 1958, in Venezuela si svolgeranno a ottobre piuttosto che a dicembre. | 58 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

… c’è chi balla... “Balla” invece Sarkozy, minacciato sicuramente più dalla crescita del socialista François Hollande, che dall’irrompere sulla scena politica francese di Éric Cantona, il sanguigno ex calciatore del Manchester United che prima abbiamo visto recitare nel film di Loach, Il mio amico Éric. Poi abbiamo sentito incitare allo sciopero contro le banche e ora sta facendo impazzire gli scommettitori britannici di Ladbrokes, una società di cui Cantona è stato per un breve periodo testimonial dopo aver appeso le scarpette al chiodo. Lo seguiremo passo passo, così come seguiremo le vicende dell’Islanda, dove a giugno verrà votata la nuova Costituzione scritta in modo partecipativo, che prevede l’impossibilità di alienare permanentemente ai privati i beni naturali dell’isola.

Non sappiamo se in contemporanea si svolgeranno anche le presidenziali, perché l’attuale presidente Olafur R. Grímsson ha appena annunciato di non volersi ricandidare per la quinta volta. Ma, visto che nessuna legge lo vieta, è già nato un sito di fan che lo esorta a restare: Grímsson forse cambierà idea se verranno raccolte quarantamila firme e se non si presenterà nessun contendente non ci saranno nemmeno le elezioni. Nel 2008 non c’era stato nessun altro candidato e quindi, come prevede il diritto islandese, le elezioni non si erano svolte.

... e c’è chi si blinda È molto meno tranquilla la situazione in Messico, dove l’articolo più adottato dai candidati sembra sia la giacca “blindata”.

Lo scorso anno sono morti dieci politici di diversi partiti: otto assassinati e due rimasti vittima di “incidenti”. Il presidente in carica, Felipe Calderón, non potrà ripresentarsi, ma prudentemente si è già rifornito nella boutique di quello che viene definito “l’Armani della sicurezza”, in grado di produrre capi che non obbligano a cambiare il proprio look, anche se sono a prova di proiettili di AK-47. Nonostante la guerra ai narcos abbia prodotto cinquantamila vittime negli ultimi cinque anni, il prossimo 23 marzo Joseph Ratzinger atterrerà in Messico, giusto il giorno dopo la chiusura del registro dei candidati e poche ore prima dell’avvio della campagna elettorale. Sicuramente anche lui munito di una “tunica blindata”, un modello che la nota casa messicana produce per il Medio Oriente.  | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 59 |


Il futuro abita nel deserto di Paola Baiocchi

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FONTE: HTTP://ARQUITECTURAMEXICO.WORDPRESS.COM

| internazionale | osservatorio medio oriente/Emirati Arabi Uniti |

Una panoramica di Masdar, “la fonte”, la prima città al mondo a emissioni zero

Ordinamento politico: Federazione di monarchie assolute Capitale: Abu Dhabi Superficie: 82.880 kmq Popolazione: 2.602.713 abitanti (19% residenti, 23% arabi e iraniani, 8% occidentali, 50% asiatici) Lingue: arabo (lingua ufficiale), farsi, inglese, indi, urdu Religione: musulmani 96% (dei quali il 16% di confessione sciita), il restante 4% indù e cristiani Alfabetizzazione: 78% della popolazione Mortalità infantile: 4,4 morti/1000 nati Speranza di vita: 75,44 anni (72,92 per gli uomini e 78.08 per le donne) Popolazione sotto la soglia di povertà: dato non disponibile Prodotti esportati: petrolio greggio, gas naturale, pesce essiccato Pil: 184.984 milioni di $ Pil pro capite: 38.893 $ (2010) al sesto posto nella classifica mondiale Debito estero: 30 miliardi di euro Spese militari: 3% del Pil

Nei sette regni confederati del Golfo Persico il tribalismo si è fuso con il capitalismo, generando un lusso dorato e onirico che è stato definito «una Disneyland autoritaria con le moschee» na città con zero rifiuti, zero emissioni di anidride carbonica e zero idrocarburi. Il sogno degli ecologisti di un insediamento completamente alimentato da idrogeno, sole e vento, è più vicino: al momento è in costruzione negli Emirati Arabi Uniti (Eau), la federazione di sette emirati che con 949 milioni di barili all’anno rappresenta l’ottavo produttore mondiale di greggio (il 3,3% della produzione mondiale). A 17 km dal centro di Abu Dhabi, Masdar City costerà 22 miliardi di dollari e sarà ultimata entro il 2016, ma ha già ottenuto numerosi premi internazionali per l’eccezionalità del progetto, che unisce l’urbanistica tradizionale araba – strade strette dove le case si ombreggiano, con mura spesse e giardini irrigati per mitigare il caldo limitando l’uso dell’aria condizionata – alle forme più moderne dello studio di architettura Norman Foster. A Masdar, in arabo “la fonte”, la mobilità sarà affidata ai pods, piccole auto elettriche senza pilota, che arriveranno silenziose fino alle piazzole dove le abbiamo richieste. La città nel deserto ospiterà 50 mila abitanti e 40 mila pendolari; sarà unita alla capitale da un avveniristico treno superveloce completamente automatizzato e sarà il fantascientifico contorno di una zona franca. Tra la trentina di zone speciali, che valgono agli Emirati Arabi Uniti l’inserimento nella black list dei paradisi fiscali, Masdar sarà quella green.

U

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La bolla edilizia del due per uno Nelle free zone non c’è nessuna restrizione al trasferimento dei profitti o al rimpatrio dei capitali; le aziende costituite possono essere detenute interamente da investitori stranieri e beneficiare di un’esenzione fiscale per 50 anni. La concessione può essere rinnovata dalle autorità fiscali e non è esposta ad alcuna pressione fiscale sui dividendi distribuiti ai soci, persone fisiche o giuridiche. Insomma un bengodi del fisco che ha attirato negli Emirati capitali asiatici, occidentali e mediorientali e ha dato vita a una cementificazione speculativa di lusso, con prodotti spettacolari che uno scrittore ha descritto come frutto di un “Donald Trump sotto Lsd”: dalla pista per sciare del Mall of Emirates (-8 gradi mentre all’esterno ce ne sono +40); al grattacielo più alto del mondo, il “Burj Dubaj” di 828 metri. E poi il Ferrari Theme Park, un parco divertimenti interamente dedicato al marchio del cavallino, esteso su 86 mila metri quadrati e coperto da una “carenatura”, naturalmente rossa. Il giornalista Ian Buruma a proposito degli Emirati ha osservato che «il capitalismo non porta automaticamente alla democrazia», definendoli «una Disneyland autoritaria con le moschee». L’elenco delle sfrenate bizzarrie realizzate negli Emirati non si ferma: la gigantesca isola a forma di palma, che ospita più di cento alberghi, è diventata una delle più riconoscibili icone delle sette petro-

GLI EMIRATI IN CIFRE

monarchie. Ma già un’altra di queste isole, create nel mare con materiale di riporto grazie a tecnologie e tecnici olandesi, è in costruzione. E ne sarebbe prevista una terza, stretta creditizia e bolla speculativa permettendo: già ora a chi acquista un appartamento da seicentomila dollari viene dato un monolocale in omaggio. Un due per uno del lusso che ha il suo controvalore nel 50% della popolazione composta da immigrati. Lavoratori occupati nell’edilizia, provenienti dall’Estremo Oriente e dal Sud Est asiatico, per i quali le organizzazioni internazionali chiedono l’introduzione di regolamentazioni, norme di sicurezza e orari di lavoro umani. Dopo la crisi del credito del 2009 e gli sconvolgimenti della “primavera araba” che hanno visto scioperi e manifestazioni anche nei sette regni confederati, lo scorso anno, nel quarantesimo anniversario della loro fondazione, gli Eau hanno deciso di stanziare 2,7 miliardi di dollari ai cittadini con i salari più bassi per aiutarli a pagare i loro debiti. La manovra è stata compiuta assieme all’allargamento del diritto di voto e all’innalzamento degli stipendi dei dipendenti pubblici nel-

la sanità, nell’istruzione e nel settore giudiziario.

Armi e media Nella crescente importanza che i Paesi arabi stanno assumendo, i media giocano il loro ruolo fondamentale di orientamento ideologico. Nel marzo 2003, durante la seconda guerra del Golfo, a Dubai è stato fondato al-Arabiya, network satellitare in lingua araba finanziato per la maggior parte da capitali sauditi e nato in concorrenza con al-Jazeera. Uno dei manager di al-Arabiya, Abdel-Rahman alRashes, ha chiarito i termini della con-

trapposizione, dichiarando di rappresentare una copertura “più bilanciata” rispetto alla qatariana al-Jazeera. L’emittente con sede nel Qatar esorta apertamente i Paesi arabi a prendere posizioni filo-arabe più schierate, per esempio a fianco dei palestinesi. Il “bilanciamento” del network è stato apprezzato dal presidente Bush, che nel 2004 ha scelto alArabiya per rispondere ai media arabi delle accuse per le torture del carcere di Abu Ghraib. Buoni alleati dei Paesi occidentali, anche se, al contrario del Qatar, non hanno mai concesso l’utilizzo del territorio per

istallazioni militari straniere, gli Emirati non attirano solo un pubblico alla ricerca del lusso a sette stelle. Grazie ai suoi sei aeroporti internazionali, al sistema portuale e ai pochissimi vincoli fiscali imposti, gli Eau sono anche il crocevia mondiale delle reti criminali dei traffici della droga, del danaro sporco e delle armi. Che a volte si intersecano con il volto rispettabile del commercio delle armi: in occasione di Idex, The International Defence Exhibition, la fiera più importante del Medio Oriente per il settore degli armamenti, che ogni anno si svolge a febbraio ad Abu Dhabi. 

LA COSTA DEI PIRATI L’unione politica chiamata Emirati Arabi Uniti nasce il 2 dicembre 1971. Aderiscono inizialmente i sei emirati di Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Fujaira, Sharja e Umm al-Qaywayn e, dall’inizio del 1972, anche Ras al-Khaima. Durante il periodo ottomano l’area era conosciuta come Costa dei pirati per via delle incursioni compiute da quelle popolazioni. Nel 1820 fu firmato un primo trattato tra gli sceicchi e il Regno Unito, che non mise fine alle scorrerie. Fu necessario un altro trattato, nel 1853, in cui il territorio divenne un protettorato del Regno Unito. La massima autorità federale è il consiglio supremo dei sovrani, formato dai sette emiri, tradizionalmente sotto la presidenza dell’emiro di Abu Dhabi. Per ovviare alla mancanza di acqua gli Emirati hanno avviato imponenti opere

di desalinizzazione dell’acqua di mare. Le attività della raccolta delle perle, della pesca e della coltivazione della palma da dattero sono diventate minoritarie, fino quasi a scomparire con la scoperta del petrolio, avvenuta nel 1958 ad Abu Dhabi e a Dubai nel 1966. L’87% del territorio è rappresentato dall’emirato di Abu Dhabi, il più piccolo dei sette regni è Ajman con soli 259 km². Sono in corso controversie tra gli Eau e l’Oman per il controllo di alcune isole del Golfo Persico e con l’Iran per le isole di Tunb e di Abu Musa, controllate da Teheran e strategiche per il controllo dello stretto di Hormuz. La penisola di Musandem, invece, è un’enclave dell’Oman all’interno degli Emirati. Pa. Bai.

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| internazionale | agricoltura |

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TUTTI I SEMI DEL MONDO

Fuori gli Ogm, dentro i contadini di Corrado Fontana

A sinistra, la produzione di orzo in Tigray, Etiopia. In alto, la coltivazione di semi in Afghanistan. A destra, ad Adikey, in Eritrea, Salvatore Ceccarelli discute con il professor Woldeamlack, dell’università di Asmara e con alcuni agricoltori.

Miglioramento genetico partecipativo dei semi: così la biodiversità praticata “dal basso” si oppone all’invadenza delle multinazionali nella ricerca in agricoltura e al controllo del cibo attuato con le biotecnologie. La battaglia comincia sul campo e finisce in tavola

«Q

uesti istituti erano l’ultimo baluardo della ricerca pubblica e, perciò, nel momento in cui Monsanto e Syngenta ci mettono dei soldi, non so quanto si possano ancora considerare “pubblici”»: così Salvatore Ceccarelli, agronomo da anni impegnato in numerosi progetti internazionali per il miglioramento genetico dei semi, paventa che alcune multinazionali del settore biotech stiano “mettendo il cappello” sui centri di ricerca appartenenti al Cgiar (Consortium of International Agricultural Research Centers - vedi BOX ), il consorzio scientifico per cui lavorava. Gli istituti “incriminati” sarebbero innanzitutto quello messicano, che si occupa di frumento, e quello nelle Filippine, che tratta di riso, in uno scenario favorito dalla riduzione dei finanziamenti istituzionali e al quale il professor Ceccarelli oppone resistenza promuovendo forme di ricerca partecipative. | 62 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

Biodiversità culturale Dall’Iran all’Etiopia, dallo Yemen all’Egitto, la ricerca alternativa a quella sviluppata nei laboratori ipertecnologici si fa, infatti, in mezzo ai campi, e mette in moto innanzitutto processi culturali di emancipazione e di adattamento degli individui, oltre che delle piante. Donne e uomini dei villaggi, fianco a fianco con i tecnici agronomi e i funzionari delle amministrazioni locali e degli organismi internazionali, acquisiscono, trasformano e condividono le loro competenze in agricoltura, attivando decisioni partecipate sulla selezione continua delle varietà da coltivare, per migliorare la resa dei terreni in modo naturale. «Il nostro scopo – racconta Ceccarelli – è convincere le istituzioni, se interessate, a fare un tipo di ricerca alternativa che coinvolga direttamente i contadini. Laddove però le istituzioni non ci seguono, attuiamo il modello del miglioramen-

to genetico “evolutivo”, dando agli agricoltori delle “popolazioni” di semi molto variabili, dei grossi miscugli di una certa varietà (mais, pomodoro, ecc), da seminare e da lasciare evolvere liberamente, favorendo la selezione delle piante che, via via, attraverso incroci e affinamenti, si sono maggiormente adattate all’ambiente, ai cambiamenti climatici, alle diverse tecniche agronomiche». In Iran, Siria, Giordania, Eritrea e Algeria la variante “evolutiva” del miglioramento genetico si pratica come passo ulteriore del processo di ricerca partecipativa, poiché non necessita del coinvolgimento delle istituzioni e, abbassando ulteriormente la componente “di laboratorio”, favorisce l’autonomia dei coltivatori: quelli che hanno già condotto sperimentazioni del primo tipo hanno assorbito competenze utili a proseguire nella selezione continua, applicando il metodo a partire da una nuova popolazione di semi e ma-

neggiando le proporzioni delle varietà secondo le proprie esigenze. E il risultato va oltre il semplice miglioramento genetico perché «queste pratiche riportano al coltivatore il controllo sul seme e sul cibo. E, finendo per adattare le piante all’ambiente e al modo in cui sono coltivate, determinano un’esplosione di diversità».

Chi ha bisogno degli Ogm? Il professor Ceccarelli con i suoi collaboratori ha avviato molti progetti simili nel mondo. Dal 1980 all’interno del Cgiar, come responsabile del rinnovamento genetico dell’orzo presso l’istituto Icarda (International Center for Agricoltural Research in Dry Areas) di Aleppo, in Siria; dal 2005 come consulente esterno, sempre più distante dal consorzio allorché «le priorità del

SITI INTERNET www.cgiar.org, Consortium of International Agricultural Research Centers (CGIAR) www.croptrust.org, The Global Crop Diversity Trust www.ifad.org, International Fund for Agricultural Development (IFAD) www.fao.org/cfs/en, Committee on World Food Security (CFS) della FAO (Food and Agriculture Organization)

centro hanno cominciato a spostarsi verso ricerche ad alto contenuto tecnologico, staccandosi dalla realtà dei contadini e, soprattutto, dei piccoli agricoltori e dell’agricoltura marginale». Una differenza di visione che fa il paio con la sua valutazione negativa dell’efficacia finora dimostrata dalla ricerca sugli organismi geneticamente modificati: «Spesso – spiega il professor Ceccarelli – si accusano gli Ogm per il rischio che possano “contaminare” le coltivazioni circostanti, trasportati dal vento. Io non credo sia questo il problema principale connesso alla loro diffusione. Gli Ogm, innanzitutto, non sono necessari, perché c’è ancora tanta diversità non utilizzata nelle nostre culture. Inoltre richiedono una tecnologia raffinatissima e costosissima, che sarà sempre nella disponibilità di pochi. Il vantaggio degli Ogm è perciò esclusivamente per chi li commercia, e si esprime attraverso i brevetti. Quasi il 50% del mercato mondiale del seme è già nelle mani di quattro multinazionali (DuPont, Monsanto, Bayer e Syngenta), che controllano anche il 63% del mercato dei pesticidi: se due più due fa quattro, queste società non hanno alcun interesse a met-

CONSORZIO D’INTERESSI Il Cgiar è un network planetario della ricerca in agricoltura che oggi conta una quindicina di istituti in diversi Paesi (Colombia, Nigeria, India, Italia, Indonesia). Nacque nel 1970 dalla convinzione che, invece di fare ricerca nei Paesi sviluppati per poi trasferirne i risultati in quelli in via di sviluppo, sarebbe stato più utile istituire centri d’eccellenza direttamente in questi ultimi, con lo scopo sia di produrre nuovi studi che di attuare addestramento. Il Cgiar e gli istituti che ne fanno parte sono realtà sostanzialmente non profit. Vive delle donazioni di organismi internazionali (tra cui World Bank) e fondazioni (tra cui Bill and Melinda Gates Foundation), di alcuni Stati avanzati (tra cui, fino a un paio d’anni fa, l’Italia) e di organizzazioni locali e Paesi in via di sviluppo. C.F.

Le sperimentazioni di miglioramento genetico partecipativo dei semi del Cgiar cominciarono in Eritrea nel 1994, tre anni dopo il riconoscimento internazionale dell’indipendenza del Paese, con uno studio attuato contemporaneamente su cinque colture differenti. Il professor Ceccarelli guidava quella spedizione, che, finanziata inizialmente dalla Danimarca, è proseguita dal 2001 fino al 2009, dopo una pausa dovuta ad alcuni scontri militari. Ma di progetti simili in Africa ce ne sono anche in Egitto e in Algeria. In Etiopia sono due quelli attivi: il primo negli altopiani centrali, sostenuto con 35 mila euro dalla regione Friuli Venezia Giulia per un anno e mezzo di lavoro, poi esteso per altri sei mesi. Il secondo è un progetto europeo diretto dalla Francia che si svolge nel Tigray, a Nord del Paese, zona ad alto rischio di siccità, nell’ambito di una sperimentazione innovativa di miglioramento partecipativo sull’agricoltura organica. Nello Yemen, Paese che ha assorbito bene queste metodologie di ricerca e che vive in una tumultuosa situazione politica, esiste un progetto in esaurimento su cui non ci sono informazioni per un possibile prosieguo. Infine ci sono attività del genere in Siria, in Iran e in Giordania, con una forte partecipazione delle istituzioni locali in questi ultimi due Paesi. Il lavoro in Iran è iniziato nel 2006 e principalmente si sostiene grazie a un progetto da 200 mila dollari messo a disposizione dall’International Fund for Agricultural Development (Ifad), ma la ricerca si è estesa anche altrove: la provincia di Shiraz ha richiesto esplicitamente – e sta finanziando – un progetto analogo sul proprio territorio. È in avvio infine una sperimentazione in Italia, nella zona di Cesena, dove, grazie a un finanziamento della Regione e in collaborazione con una piccola società sementiera locale, si svolgerà un percorso di miglioramento genetico partecipativo della cipolla. C.F.

tere in circolazione varietà resistenti alle malattie e agli insetti». Qualora la diffusione degli Ogm passasse in maniera significativa, ciò si tradurrebbe in un perfezionamento quasi assoluto del monopolio dei semi, per cui l’agricoltore che volesse acquistarne avrebbe scelte limitatissime a disposizione. E se da quei semi si produrrà del cibo, le quattro multinazionali avranno anche, in pratica, il controllo di gran parte di ciò che finisce sulla nostra tavola.  | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 63 |


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altrevoci JUNK FOOD LA CROCIATA FA BRECCIA IN ITALIA

I FONDI ONU FINISCONO NELLE CASSE DI GLENCORE È un’inchiesta del quotidiano Guardian a svelare un vero e proprio paradosso: nel giro di otto mesi, oltre 60 milioni di euro di fondi delle Nazioni Unite sono finiti nelle casse di Glencore International. Vale a dire del maggiore trader di materie prime al mondo. Il colosso svizzero risulta, infatti, il principale fornitore di grano del World Food Programme (Wfp), che l’anno scorso ha sostenuto oltre 90 milioni di persone in 73 Paesi. L’incarico delle Nazioni Unite era stato quello di acquistare le riserve alimentari, per quanto possibile, dai piccoli agricoltori tagliati fuori dalle rotte del commercio internazionale. Ma, a quanto pare, è stato preferito il colosso elvetico che controlla l’8% del mercato mondiale di frumento. E che – proprio grazie all’impennata dei prezzi – ha visto raddoppiare nel giro di un anno i profitti da prodotti agricoli, raggiungendo gli 8,8 miliardi di dollari. I portavoce del Wfp hanno affermato di essere costretti a cercare il prezzo più competitivo sul mercato. E i piccoli coltivatori difficilmente possono fornire le quantità richieste. Ma la polemica è inevitabile: Glencore è da tempo nell’occhio del ciclone, accusata di speculazione e poco rispetto per l’ambiente e i diritti dei lavoratori. [V.N.]

Vuoi mangiare la merendina intrisa di grassi? Oppure a una salutare spremuta d’arancia preferisci una gasatissima bibita piena di dolcificanti? E allora paga! Non tanto per dire alla gente che cosa mangiare (o forse sì, ma che male ci sarebbe?), quanto per combattere l’obesità infantile colpendo nel portafoglio chi ha abitudini alimentari malate. La strategia può apparire illiberale, ma in fondo è quello che avviene con le sigarette: si tassano per ridurne l’uso e finanziare la sanità. Sui junk-food apripista in Europa è stata la Francia, che ha aumentano l’Iva dal 5,5 al 19% sugli snack troppo grassi o troppo dolci e l’ha al tempo stesso ridotta su frutta e verdura. Oltreoceano il sindaco della Grande Mela ha tassato le bibite gassate (nonostante l’irritazione della potente Coca Cola). A leggere le statistiche in effetti c’è da rabbrividire: secondo l’Ocse oltre il 13% dei bambini europei tra 11 e 15 anni è in sovrappeso e il trend è in crescita. E in Italia? La proposta più interessante è stata finora quella dell’Assemblea regionale siciliana che ha deciso di eliminare bibite gassate e merendine dai distributori nelle scuole. Gli agricoltori (e agrumicoltori) isolani hanno esultato. Ma il Commissario del governo in Regione ha impugnato la norma. Secondo lui sarebbe in contrasto con la normativa europea. Sigh. [EM. IS.]

MA CRESCIAMO DAVVERO CON IL LAND GRABBING?

ENERGIE GREEN? GIOVANO AL LAVORO E AL PORTAFOGLI

IL BIOLOGICO NON SENTE CRISI

A livello internazionale è noto come land grabbing, il fenomeno che sta concentrando in poche, ricchissime mani il possesso dei terreni agricoli, soprattutto nel Sud del mondo. Contro di esso, da decenni si battono le popolazioni locali e le associazioni di difesa della sovranità alimentare. In Italia, quel fenomeno potrebbe ricevere dignità di legge grazie a un articolo – il 66 – del decreto che, nelle intenzioni del governo Monti, dovrebbe stimolare la crescita economica. Quell’articolo, presente anche nel disegno di legge di conversione, prevede la vendita del patrimonio agricolo pubblico. Contro questa ipotesi si sono scagliate decine di associazioni: «Nell’ultimo decennio abbiamo perso 300 mila ettari agricoli e le aziende sono diminuite del 33%. L’alienazione contenuta nel decreto sarebbe un regalo a chi dispone di enorme liquidità, a partire dalle mafie, che potrebbero appropriarsi di grandi proprietà terriere». L’appello delle associazioni è stato trasformato in un emendamento da due senatori ecodem del Pd, Francesco Ferrante e Roberto Della Seta: «Diamo i terreni in affitto», la loro controproposta. Duplice il vantaggio: «Promuovere l’accesso alla terra e sviluppare nuove imprese agricole. Creeremmo così nuovi posti di lavoro e lo Stato avrebbe una rendita costante nel tempo».

Le energie pulite possono avere l’effetto di un vero e proprio volano per l’economia. Parola del commissario Ue per il clima, Connie Hedegaard. «Puntare sull’efficienza energetica potrebbe generare 500 mila nuovi posti di lavoro da qui al 2020», ha dichiarato al World Economic Forum. «Posti che sfiorerebbero i due milioni, se si considerasse l’intero comparto riguardante il clima». Anche per questo Bruxelles si appresta a varare una direttiva che richiederà agli enti locali di riqualificare a livello energetico il 3% degli edifici pubblici ogni anno, generando una produttiva spinta occupazionale. E la fiducia è arrivata anche in Italia. Lo dimostra una ricerca di Nextplora per Ener20 (la prima società su scala nazionale per numero di impianti fotovoltaici). Ne emerge che quasi 8 italiani su 10 sono disposti a pagare 2,5 euro al mese per sviluppare le energie rinnovabili. Un dato significativo, soprattutto in un periodo di congiuntura economica che mette in crisi la facoltà di spesa. È segno di una consapevolezza: a fronte dell’investimento iniziale, riconvertire la propria casa non solo aiuta l’ambiente, ma permette un risparmio maggiore in futuro.

E la crisi dov’è? La domanda sembra paradossale, ma, a guardare i dati di Euromonitor International sul mercato globale del biologico, neanche tanto. Con un aumento di 27 miliardi di dollari in valore nel 2010 e una crescita del 5% rispetto al 2006, ossia prima dell’avvento delle crisi alimentare, economica e finanziaria, il settore tiene bene nonostante la crescita a due cifre registrata tra il 2006 e il 2008 sia rallentata nel biennio successivo per colpa delle difficoltà di Usa ed Europa, ovvero il 90% del mercato di riferimento. I mercati dell’Estremo Oriente e dell’America Latina presentano forti aumenti di vendite e l’Italia stessa mostra un mercato del biologico in crescita che si stima attorno ai 3,5 miliardi di euro (dati Organic Services). A fotografare la nostra situazione in dettaglio è appena uscito Tutto Bio - Annuario del Biologico 2011, con i censimenti svolti da Bio Bank su quasi 8.500 operatori bio in Italia e sedici storie dedicate a chi ha trasformato un desiderio, un’intuizione, in una vera e propria attività: dall’agricoltura bio al biocatering, dalla biocosmesi all’ecomoda, dall’architettura sostenibile alle energie rinnovabili, fino al riciclo. www.biobank.it

[EM. IS.]

[V.N.]

[C.F.]

NUOVA INDAGINE FRANCESE SUI MASSACRI IN RUANDA

FALKLAND, SBARCA IL PRINCIPE A TRENT’ANNI DALLA GUERRA

USA, MUTUI: PATTEGGIAMENTO DA 26 MILIARDI DI DOLLARI

Ribaltati gli esiti della precedente indagine svolta dai francesi che indicavano i Tutsi come istigatori del loro stesso massacro, per aver abbattuto con due missili l’aereo con equipaggio francese, che trasportava il presidente del Ruanda e quello del Burundi di ritorno da una riunione d’emergenza dei capi di Stato africani. Durante la riunione era stato deciso l’insediamento di un governo di transizione a Kigali. Dal 1990 il Paese era insanguinato dalla guerra tra i sostenitori del governo Hutu di Kigali, appoggiato dai francesi, e i ribelli del Front Patriotique Rwandais (Fpr) guidati da Paul Kagame. Venuti dall’Uganda, anglofoni e supportati dagli americani e dagli inglesi, i Tutsi per la Francia di Mitterand sono una minaccia alla tutela degli interessi nazionali nella regione. Quel 6 aprile 1994 il governo Hutu attribuisce immediatamente la colpa dell’attentato al Fpr, dando il via al genocidio che in circa 100 giorni ha ucciso 800 mila Tutsi e Hutu moderati. La prima inchiesta, svolta dal giudice Jean-Louis Brugière in modo molto controverso e senza mai recarsi prima della sentenza in Ruanda, sostiene la tesi che i missili sarebbero stati lanciati dai ribelli Tutsi del Fpr dalla collina di Massaka. Il rapporto ora consegnato ai partiti dal giudice Trevidic afferma, invece, che i missili di fabbricazione russa sono stati lanciati dal campo militare Kanombe, avamposto delle forze governative Hutu.

Nel trentesimo anniversario della guerra per le isole Malvinas-Falkland si riaccendono i contrasti tra Gran Bretagna e Argentina, che ne rivendica la sovranità perché a 500 km dalle sue coste e per una sorta di “diritto” di successione, perché già occupate dagli spagnoli. L’arrivo ai primi di febbraio del principe William, in missione per sei settimane con la Royal Air Force (Raf), aggiunge tensioni dopo l’inizio delle esplorazioni petrolifere nell’oceano e l’invio del cacciatorpediniere Hms Dauntless, un gigante costato un miliardo e mezzo di dollari, fiore all’occhiello della Royal Navy. Il piccolo arcipelago è strategico per la posizione tra Atlantico e Pacifico, importante sia dal punto di vista militare, che per la pesca, sia per la prossimità con l’Antartide che potrebbe servire per rivendicarne dei territori. Nelle acque delle Malvinas-Falkland operano tre società petrolifere: l’inglese Desire Petroleum, la Argos Resources, basata alle Falkland, e la Bhp Billiton, potente società mineraria australiana e inglese. L’invasione, iniziata il 2 aprile 1982, si concluse il 14 giugno con la sconfitta dell’Argentina e con le dimissioni del generale Leopoldo Galtieri. Già sull’orlo del tracollo economico, la guerra accelerò la fine della dittatura militare, che si concluse l’anno seguente. Per la Thatcher la vittoria segnò la conferma del suo secondo mandato e l’avvio delle sfrenate privatizzazioni. Nel conflitto morirono 258 soldati britannici e 649 argentini.

26 miliardi di dollari. A tanto dovrebbe ammontare la somma in gioco nel patteggiamento raggiunto dalle autorità Usa con Bank of America, JPMorgan Chase, Wells Fargo, Citigroup e Ally Financial, per risolvere le controversie legate alle pratiche di pignoramento degli immobili portate avanti in modo scorretto per anni. In questa cifra, stando alle indiscrezioni riportate dal New York Times, sono incluse le sanzioni, gli aiuti per le famiglie a cui è stata espropriata la casa, i rifinanziamenti e i tagli all’importo dei mutui ancora in essere, i condoni per i prestiti a rischio insolvenza. Ma non mancano i punti critici. Pare, infatti, che l’accordo non copra i mutui erogati dalle agenzie governative Fannie Mae e Freddie Mac: ciò significa escludere circa la metà dei mutuatari statunitensi. Per giunta tale somma, secondo diversi analisti, non dà ancora una misura della crisi dell’immobiliare a stelle e strisce. Si stima che, in circa un quarto dei casi, i clienti debbano ancora pagare un debito superiore rispetto al valore attuale della loro casa. Secondo alcuni calcoli, il patrimonio netto negativo ammonta in tutto a 700 miliardi di dollari.

[PA. BAI.]

[V.N.]

[PA. BAI.] | 64 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 65 |


| ECONOMIAEFINANZA |

| NARRATIVA |

a cura di Emanuele Isonio, Michele Mancino e Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

a cura di Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

IL VECCHIO NORD EST NON C’È PIÙ

L’ISPETTORE JACOBI COMBATTE IL MALE

Daniele Marini Innovatori di confine. I percorsi del nuovo Nord Est Marsilio, 2012

Massimo Gardella Il male quotidiano Guanda, 2012

Il Nord Est è sempre stato un simbolo dell’imprenditorialità diffusa, del secondo miracolo italiano. Ma il termometro della salute del sistema economico italiano, posizionato in quell’area, da tempo segnala una febbre che non dà cenni di miglioramento. Le ragioni della malattia sono legate alla globalizzazione e alla crisi e, dunque, alla necessità del cambiamento. Occorre perciò una cura che riesca a trasformare il vecchio paradigma, mettendo insieme le varie anime del territorio, che non si identifica più solo con il florido sistema manifatturiero, ma anche con ambiente, cultura e turismo. È in atto un processo di cambiamento che sfugge alla politica e alla classe dirigente, che non riesce a dare risposte e tantomeno quegli slogan, così utilizzati in passato, per ritrovare l’identità perduta. Il vecchio Nord Est non c’è più. C’è una nuova fase che va letta, analizzata e capita utilizzando categorie nuove.

Il noir italiano è in buona salute e continua a produrre buoni romanzi. Anche l’ispettore Remo Jacobi vanta una discreta forma, nonostante i suoi 50 anni, un passato tormentato e un mondo difficile che gli gira intorno. Ma deve fare i conti con il grande fiume che insieme alle barche porta pesci mostruosi. Come quel siluro da cui spunta la mano di una bambina. È l’inizio di una nuova indagine nell’orrore che non smette d’interrogare l’uomo, prima che il detective. Che colpa aveva quella povera bambina? Perché tanta crudeltà su un essere innocente? Jacobi non vuole accettare la vittoria del male e su quelle rive apparentemente placide, tra pescatori abusivi e personaggi ambigui, inizia a cercare la verità che lo porterà sulle tracce di un traffico clandestino di bambini. È una storia scomoda che parte da lontano e fa riaffiorare ex soldati italiani ed ex mercenari slavi, disposti a tutto pur di affermare il proprio potere.

CIÒ CHE NON SI CONOSCE DI GIULIO TREMONTI

ECONOMIA A VOLO D’UCCELLO PER TROVARE LA FELICITÀ

UNO SGUARDO SULL’AFRICA ALLA RICERCA DEL CAMBIAMENTO

LA CULTURA AIUTA A VIVERE MEGLIO

LA MEMORIA COLLETTIVA NON È UN PARCO GIOCHI

QUANDO CI SI SPOSAVA CON UNA FOTOGRAFIA

Conoscere la figura di Giulio Tremonti significa andare ben oltre le vicende che hanno legato il superministro dell’Economia al leader del Pdl Berlusconi. Prima di sbocciare definitivamente con il signore di Arcore e l’alleanza di ferro con Bossi e la Lega Nord, la storia politica di Tremonti aveva già messo le prime radici negli anni ’80, in piena era craxiana, per poi fiorire con il patto di Mariuccio Segni. L’ex ministro si divide tra i palazzi del potere e il suo studio professionale di tributarista, con sedi a Milano e a Roma, frequentato da grandi industriali, banchieri, politici e finanzieri. Tremonti non ha avuto rapporti semplici con i compagni di partito, in particolare con Gianfranco Fini, e tantomeno frequentazioni prive di ombre, vedi quella con Marco Milanese. Discutibili sono state anche alcune operazioni da lui benedette, una su tutte la cordata per acquistare Alitalia. Ma ciò che ha lasciato un segno, pieno di contraddizioni e discussioni, sono stati i suoi provvedimenti in materia di politica economica, i suoi rimedi estremi nell’accertamento fiscale e il ruolo di Equitalia. Infine, ci sono i suoi scritti, come “La paura e la speranza” dove si predica bene, dopo aver razzolato in tutt’altra direzione.

Se amate classificare rigidamente un libro, quello scritto dall’economista Luciano Canova rappresenterà una bella sfida. A partire dal titolo: si tratta di un aforisma di Franz Kafka, che l’autore interpreta liberamente lungo due dimensioni. Una prima riguarda proprio l’oggetto libro, refrattario alle classificazioni classiche: a volo d’uccello e con uno stile ironico, Canova, con l’obiettivo di riportare la felicità al centro dell’analisi economica, ripercorre secoli di storia del pensiero, filosofico ed economico, con incursioni molto libere nel mondo della letteratura. La seconda gabbia, invece, concerne proprio l’ortodossia economica, prigioniera spesso della misura a tutti i costi, il numero che quantifichi ogni bene, attribuendogli un valore. Che finisce per ingabbiare in una cifra limitante ciò che, di per sé, non è definibile: la bellezza di un paesaggio o la felicità che nasce dalla relazione tra persone. D’altro canto questa fase storica (ed economica) è la migliore per domandarsi: Pil e reddito sono le uniche dimensioni che spiegano perché una persona (o una nazione) è felice?

Cinque reportage: Etiopia, Congo, Kenya, Nigeria e Mali. Anni di giornalismo praticato sul campo che restituiscono, tramite queste pagine, uno sguardo inedito e disincantato sui volti e sulle prospettive del continente africano. Un continente che ha sempre finanziato l’equilibrio geostrategico del Pianeta e che continua a farlo, fornendo risorse (umane e materiali) a basso costo alle imprese cinesi, che si vanno ad aggiungere a quelle europee e statunitensi. La domanda è d’obbligo: questo ruolo verrà mai riconosciuto? C’è una via d’uscita che permetta all’Africa di diventare un attore a pieno titolo del mercato globale? Raffaele Masto va alla ricerca del risveglio africano nelle baraccopoli, ignorate dallo sguardo e dalle statistiche degli occidentali, ma che rappresentano veri e propri circuiti economici e sociali alternativi. E, da parte dei Paesi ricchi, prospetta una soluzione non facile: rinunciare al proprio modello di sviluppo basato sullo sfruttamento intensivo e progressivo di risorse e su un benessere che, ora come ora, sussiste a scapito di quello altrui.

Un adolescente nella Milano degli anni ’70. Una periferia, un condominio in via Icaro 15, dove la quotidianità stenta a rompere la gretta monotonia, mentre fuori l’Italia e il mondo stanno cambiando alla velocità della luce. Elvira, la portinaia, e il figlio Chino vivono nella loro routine fatta di piccole aspirazioni, fino a quando al quinto piano prende casa Amelia Lynd. Lei non è come gli altri, non coltiva il pettegolezzo, non si perde in discussioni da pianerottolo. Altera e dalle maniere impeccabili, ha un carisma inusuale. E poi è di madrelingua inglese. Chino ne rimane rapito e Amelia lo ripaga con la sua attenzione, fatta di parole nuove e sconosciute. C’è una magia che lei conosce perché ci sono parole che raccontano e parole che semplicemente dicono. Una lezione che continuerà con l’entrata in scena del figlio Ippolito. Chino impara così a conoscere la vita e il profondo valore della diversità che esprimono due culture diverse, quella inglese, appunto, e quella italiana.

Partite dal Giappone all’inizio del ’900 per andare in sposa agli immigrati giapponesi in America. Giovani, ignare e piene di speranza, su una nave affollata si scambiano le fotografie dei mariti sconosciuti, immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. A quei giorni pieni di trepidazione, seguirà l’arrivo a San Francisco, la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l’esperienza del parto e della maternità, il devastante arrivo della guerra, con l’attacco di Pearl Harbour e la decisione di Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici. Otto capitoli che danno una miriade di informazioni sull’immigrazione. Una storia simile, e non meno dolorosa, a quella di tante donne italiane maritate per procura.

Raffaele Masto Buongiorno Africa. Tra capitali cinesi e nuova società civile Bruno Mondadori, 2011

Nicola Gardini Le parole perdute di Amelia Lynd Feltrinelli, 2012

Il pericolo di trasformare la memoria collettiva in un gigantesco business è sempre in agguato. Così come il rischio di degradare la verità storica a un barocco esercizio commemorativo. È questo il messaggio che Topol trasmette ai lettori del suo nuovo romanzo. Il protagonista è tra i fondatori di una comunità hippy che si propone di custodire, sfruttandola a fini commerciali, la memoria del campo di concentramento di Terezín, e accogliere turisti occidentali, perlopiù giovani globetrotter sulle tracce dei propri nonni passati per il camino. In seguito allo smantellamento del centro autogestito, egli si trasferisce in Bielorussia, dove in gran segreto un gruppo di oppositori al governo sta realizzando un progetto simile. Ad accoglierlo, tra i resti di un villaggio dove nazisti e sovietici compirono eccidi, un trip orrorifico che si snoda tra bunker, camere di tortura e fosse comuni, un agghiacciante spettacolo di vittime mummificate e morti parlanti, e la consapevolezza che alla curiosità morbosa, consumistica e superficiale degli occidentali fa da controcanto, a Est, una vera e propria congiura del silenzio.

Giampiero Castellotti, Fabio Scacciavillani Tremonti. Il timoniere del Titanic Editori Riuniti, 2011 | 66 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

Luciano Canova Una gabbia andò a cercare un uccello Libri Scheiwiller, 2011

Julie Otsuka Venivamo tutte per mare Bollati e Boringhieri, 2012

Jáchym Topol L’officina del diavolo Zandonai, 2012

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 67 |


| FUTURE | a cura di Francesco Carcano | per segnalazioni scrivete a redazione@valori.it

a scuola con

VERIFICARE LE FONTI AL TEMPO DI TWITTER Frettolosamente archiviato il 2011 come l’anno della Primavera araba, rimbalzano sui media ad ogni nuovo sussulto le voci degli attivisti dei Paesi limitrofi registrate sui social network. Si sono così delineate vere e proprie figure di giornalisti che analizzano e seguono i principali attori della blogosfera e dell’attivismo telematico e che contribuiscono così a discernere la notizia dalla propaganda. Marina Petrillo è una giovane redattrice di Radio Popolare che, sul blog della trasmissione “Alaska” (http://mir.it/servizi/radiopopolare/blogs/alaska/), ha raccontato le rivoluzioni attraverso l’analisi critica di quanto viene pubblicato sui social network. Scopriamo così storie come quella di Salma Said, «giovane attivista che ha nel corpo 107 pallini metallici sparati dalla polizia, ricoverata nello stesso ospedale di Ahmed Maher, ferito gravemente alla testa mentre trattava la tregua fra polizia e manifestanti durante gli scontri seguiti alla strage dello stadio di Port Said». Storie, nomi, persone: giornalismo senza “si dice”, ma con riscontri che parte dalla Rete e racconta in presa quasi diretta le tensioni del mondo lette attraverso i social network.

Un nuovo corso organizzato da Valori sulla

CRISI ECONOMICO FINANZIARIA E SULLE RISPOSTE ETICHE E SOLIDALI

quando dal 3 marzo al 1° aprile dove a PADOVA

un fine settimana presso l’azienda biologica “La Costigliola”

ISCRIZIONI ENTRO IL 2 MARZO 2012

passa un week end con

quando 28-29 aprile | 18-19 maggio dove a MILANO due fine settimana presso la “Cascina Cuccagna”

ISCRIZIONI ENTRO IL 26 APRILE 2012

GEOMAPPARE I LUOGHI SENZA RETE

CENSURE DIGITALI E DIRITTO ALL’OBLIO

PASSWORD E BATTITO AL CUOR NON SI COMANDA

Geotag, mapping emozionale, guide interattive: il mondo del mobile scopre le sue funzionalità più avanzate e incrocia dati, mappe, ricordi, appunti su una immaginaria mappa virtuale del Pianeta costruita dagli utenti. Potrebbe essere un’edizione contemporanea di Mnemosyne, l’Atlante di Aby Warburg, ma più semplicemente sono le nuove App per telefonia mobile che coniugano le funzionalità Gps e Bluethoot con l’utilizzo del wi-fi o del segnale di Rete. Lo scopo è posizionarsi su una mappa e trovare un percorso. Le ricadute sociali e commerciali sono enormi. Gli ambiti di utilizzo pressoché infiniti. Del resto la storia dell’uomo è storia di viaggi e nell’era tecnologica tutti o quasi abbiamo in tasca un cellulare. L’ultimo grido tra gli sviluppatori si chiama “ips” e permette di incrociare i dati all’interno di grandi aree edificate in cui il segnale Gps non trova copertura. Per non perdersi in un grande museo o centro commerciale e condividere virtualmente le proprie emozioni con gli altri utenti.

La Rete ospita contenuti pubblicati da milioni di persone ogni giorno e i nativi digitali, ex ragazzini cresciuti con il wi-fi in perenne funzione, si sono spesso scontrati con il problema di diari digitali a volte imbarazzanti. Il video pubblicato per leggerezza o goliardia o il post su Facebook in un momento di gioco o malinconia possono diventare successivamente motivo di discussione familiare, separazione sentimentale o causare problemi di lavoro e relazionali. Esiste un diritto dei singoli alla gestione dei propri contenuti già pubblicati in Rete? È la Rete una grande tavolozza di cui ognuno è autore o un contenitore da cui non si debbono ripescare e modificare i contenuti? L’arte precorre la politica e mentre l’Ue vara la direttiva sul “diritto all’oblio” l’artista Dominic Gagnon realizza per il Centre Pompidou l’opera Weightless dimostrando come la “memoria” della Rete sia quasi inalterabile. Se pubblicate una traccia resta quasi sempre.

La chiamano “crittografia biometrica” e, secondo diversi istituti di ricerca e il colosso Ibm, è tra le novità che ci riserverà il futuro. In sostanza, si tratta di collegare l’organismo umano alle Reti, in questo caso per consentire un accesso personalizzato e sicuro ai propri dati e device. Il battito cardiaco come generatore di una password unica e irripetibile, perché il battito, come le impronte digitali, sarebbe, secondo gli studi condotti dai ricercatori dell’università Chung Hsing di Taichung, diverso da persona e persona. Basterebbe il tocco di un dito su una tavoletta (che prevedibilmente avrà anche funzioni di mouse) per “leggere” una frequenza caratteristica del battito, univoca, e consentire l’accesso. Il tutto nella massima riservatezza e sicurezza. L’internet delle cose, scenario di un futuro ormai presente, passa anche attraverso il cuore.

INFORMAZIONI SUL SITO www.corsivalori.it | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 69 |


| TERRAFUTURA | a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a neri@valori.it

DAL TURISMO ALLA COSMESI NATURALE: RIPARTE FA’ LA COSA GIUSTA! Il turismo sarà al centro della nona edizione di Fa’ la cosa giusta!, la fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili. Ma, come si conviene all’occasione, si tratta di un turismo rigorosamente slow, consapevole e rispettoso delle realtà locali. Dal 30 marzo all’1 aprile, nei padiglioni di fieramilanocity, si potranno quindi progettare vacanze a base di percorsi a piedi o in bicicletta, fra parchi e riserve naturali. Tra le novità di quest’anno è da segnalare RI STORE, uno show room interamente dedicato ai prodotti rigenerati (computer, cellulari, giocattoli, biciclette e altro ancora). Venti espositori e artigiani, inoltre, saranno a disposizione dei visitatori per riparare oggetti e piccoli elettrodomestici: una risposta concreta alla cultura dell’usa e getta. Quest’anno la fiera è stata radicalmente ridisegnata, con quattro nuove sezioni tematiche: cosmesi naturale, abitare green (vale a dire ecodesign, pannelli solari, detersivi naturali, sementi bio), servizi per la sostenibilità (dai progetti open source alle assicurazioni solidali) e, per finire, uno spazio dedicato a bambini e famiglie. Non può mancare Valori, che si è riconfermato come media partner dell’evento. www.falacosagiusta.org

EVASIONI GOLOSE CON LA BANDA BISCOTTI Il fumettista disneyano Carl Barks probabilmente sarebbe felice di sapere che i personaggi scaturiti dalla sua fantasia hanno dato nome, molto tempo dopo, a una realtà che offre una seconda chance a persone che hanno avuto problemi con la giustizia. Si chiama “Banda biscotti”, infatti, uno dei progetti della cooperativa sociale “Divieto di sosta”, che opera fra Verbania e Saluzzo. In entrambe le città, gli operatori della cooperativa gestiscono due laboratori dolciari: uno all’interno del carcere e uno all’esterno, dedicato – spiega Nicola, uno dei coordinatori – a chi ha bisogno di un’opportunità lavorativa durante la delicata fase del reinserimento in società. Il risultato, inutile dirlo, sono tante varietà di biscotti prodotti artigianalmente (in ogni laboratorio lavorano due persone) con ingredienti principalmente a “km zero”. Fra i clienti fissi, diversi Gruppi di acquisto solidale soprattutto del nord Italia, i negozi del circuito di commercio equo, Eataly e altre realtà del territorio. Ma i biscotti si trovano anche sugli scaffali del Banco di Garabombo (ogni anno a Milano durante le feste di natale) e a Fa’ la cosa giusta!. www.bandabiscotti.it

ANCHE L’ITALIA SCOPRE IL TERRAZZO GREEN

CIBO, PARTE IL CONCORSO “TUTTI NELLO STESSO PIATTO”

Per chi abita in città non capita spesso di avere a disposizione spazi verdi da curare. Allora perché non sfruttare anche solo il terrazzo di casa per ricreare un piccolo orto? Dopo il successo riscontrato in Gran Bretagna, anche in Italia si moltiplicano le realtà che propongono gli “orti da terrazzo”. Ortodamare.com ad esempio nasce a metà di gennaio, quasi per gioco, da un gruppo di amici: si tratta di uno store on line che offre alcuni kit per coltivare l’orto, ma anche mini-serre da terrazzo e calendari della semina. Il tutto con una costante attenzione al bello: lo dimostrano la gallery e il blog, che danno visibilità a opere artistiche e di design a tema green. L’istituto Oikos, invece, in collaborazione con l’università degli Studi di Milano e col finanziamento di Fondazione Cariplo e provincia di Varese, ha lanciato una sperimentazione nella provincia di Varese e nella Zona 3 del comune di Milano. Il progetto, che prende il nome di Semi di sostenibilità, coinvolgerà alcune scuole e famiglie che – dopo aver partecipato a incontri di formazione sui temi dell’alimentazione e dell’agricoltura sostenibile – avranno a disposizione un kit con dieci varietà di semi, oltre alle consulenze da parte di esperti. www.ortodamare.com www.istituto-oikos.org/it/comunicazione/semi-disostenibilita/il-progetto.asp

I registi, professionisti o aspiranti, hanno più di tre mesi di tempo per presentare documentari, fiction e cartoni animati per la quarta edizione di “Tutti nello stesso piatto”, il Festival Internazionale di Cinema Cibo & VideoDiversità organizzato dalla cooperativa di commercio equo e solidale del Trentino Mandacarù Onlus e dal consorzio Ctm altromercato, che vede Valori come media partner. Il lancio del concorso è fissato per il primo marzo, la scadenza per la presentazione dei lavori è il 15 giugno. L’appuntamento con il festival è a Trento, dal 7 novembre al 1° dicembre e prevede tredici serate di proiezioni, incontri con registi, scrittori e scienziati ed eventi gastronomici, oltre a “Schermi e lavagne”, la matinée per le scuole che durerà per tutto il mese. L’edizione dell’anno scorso ha visto oltre 3.700 spettatori adulti e 2.000 tra bambini e ragazzi. L’impegno di Mandacarù è quello di ricostruire e documentare, tramite lo schermo cinematografico, il percorso del cibo, dai Paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina fino alle nostre tavole. E diffondere una maggior consapevolezza sulle tante questioni civili, politiche, ambientali e culturali che ruotano attorno al grande tema del cibo. www.tuttinellostessopiatto.it

| ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 71 |


| bancor |

Lontani dalla Danimarca

La stabilità fiscale ai danni del fisco dal cuore della City Luca Martino

iceva Adam Smith che «non vi è arte che un governo impari più presto da un altro che quella di cavare denaro dalle tasche della gente». A dire il vero, le politiche di austerity varate in questi mesi da tutti i Paesi europei tendono più a contrarre le spese che ad aumentare le entrate, destinate, anzi, a calare fortemente in caso di salari e pensioni ridotte.

Ed è singolare che, pur alle prese con la crisi economico-finanziaria peggiore degli ultimi cento anni, nessun governo abbia ancora pensato a un significativo aumento del carico fiscale, almeno per i ceti più abbienti, una raccomandazione che, invece, pochi mesi fa il premio Nobel dell’economia Peter Diamond suggeriva in una ricerca condotta insieme al professor Emmanuel Saez dell’università di Berkeley (cosa che evidentemente gli è costata la bocciatura del Senato americano alla candidatura di Obama a uno dei posti vacanti nel consiglio della Federal Reserve). Oltre a un rafforzamento del sistema di sussidi per i lavoratori a basso reddito e a un progressivo adeguamento della tassazione sul capitale rispetto a quella sul lavoro, Diamond propone l’introduzione di un’aliquota marginale per i super-ricchi: oggi, coloro che guadagnano più di 400 mila dollari l’anno – l’1% della popolazione, nei cui conti correnti confluisce quasi un quarto del reddito totale del Paese, il triplo di quanto accadeva negli anni ’70 – pagano un’aliquota marginale nulla rispetto a chi guadagna molto meno. Introducendo solo per questi contribuenti, senza verosimilmente intaccarne più di tanto lo stile di vita, un’ali| 72 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

TOMASO MARCOLLA / WWW.MARCOLLA.IT

D

quota marginale del 15-20% limitata peraltro alle sole tasse federali, si raccoglierebbero circa 3 punti percentuali di Prodotto interno lordo. Diamond si spinge anche oltre e stima nel 73% l’aliquota massima ottimale sopra la soglia della super-ricchezza sulla base di alcune assunzioni, oggettivamente plausibili, sulla distribuzione del reddito e sull’elasticità fiscale, ovvero l’implicito scoraggiamento allo sviluppo di attività produttive determinato da un innalzamento della pressione fiscale generale. L’elasticità fiscale di un regime tributario dipende da molte variabili: dall’offerta di lavoro alla capacità d’impresa, dall’attitudine al risparmio all’evasione e all’elusione fiscale. Maggiori le opportunità di evasione del fisco, tipicamente più comu-

ni per le classi di reddito alto, maggiore è la dipendenza della base imponibile ai cambi di aliquota. A tal proposito, secondo i calcoli di Diamond, l’attuale aliquota massima del 42,5% risulta ottimale solo in caso di elasticità quasi unitaria, ovvero in presenza di notevoli opportunità di frodi fiscali. Viceversa, per valori “normali” di distribuzione del reddito e appunto di elasticità fiscale, il livello ottimale risulta proprio del 73%. Un valore che, se considerato come somma di una serie di progressive aliquote marginali e al lordo di alcune forme di imposizione indiretta, non si allontana molto da quello attualmente in vigore in Danimarca, Paese ai primi posti della classifica Ocse sulla qualità della vita e dove le tasse garantiscono la quasi piena occupazione, un’assistenza efficiente e un solido sistema pensionistico “misto” per i lavoratori dipendenti. Ascoltando la parziale smentita del presidente Monti all’infelice frase sul posto fisso, «Il modello è la Danimarca, anche se non dobbiamo diventare tutti Danesi» viene da chiedersi se avremo mai in Italia un regime fiscale e previdenziale simile a quello danese o ci toccherà di rinunciare esclusivamente al tanto vituperato articolo 18.  todebate@gmail.com | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 | valori | 73 |


| action! |

L’AZIONE IN VETRINA ALTRIA GROUP 10 feb 2012:

MO 29,21

Il rendimento in borsa di Altria Group negli ultimi dodici mesi, confrontato con l’indice S&P 500

^GSPC 1342,64

25% 20% 15% 10% 5% 0

-10% -15% 2011

Apr

Mag

Giu

Lug

Ago

Set

Ott

Nov

uovo nome, nuova immagine. Nel 2003 Philip Morris è diventata Altria Group, anche per togliersi di dosso un’eredità pesante di cause legali contro i danni del fumo, proteste e attacchi da parte di gruppi di cittadini e azionisti, che ora tornano sul piede di guerra. Secondo lo studio Corporate Governance of Political Expenditures, pubblicato a novembre da Si2 e Irrc, due istituti di ricerca americani, le compagnie presenti nell’indice S&P 500, che misura l’andamento in Borsa delle prime 500 imprese americane, avrebbero speso circa 1,1 miliardi di dollari per gruppi politici e attività di lobbying. Ai primi posti tra i grandi lobbisti c’è Altria Group, che dovrà vedersela con gli azionisti critici nella prossima assemblea. Un gruppo di investitori istituzionali coordinato dall’Afscme Employees Pension Plan (un fondo pensione pubblico) presenterà una mozione per spingere la compagnia a rivelare le spese sostenute per lobbying diretta o tramite associazioni di categoria. La stessa mozione sarà presentata anche davanti al board e agli azionisti di 39 corporations tra cui Bank of America, Chevron, Coca-Cola e Kraft Foods. 

N

| 74 | valori | ANNO 12 N. 97 | MARZO 2012 |

L’AZIONISTA DEL MESE

Gli azionisti attivi a caccia di lobbisti

UN’IMPRESA AL MESE

FONTE: YAHOOFINANCE

-5%

Afscme Employees Pension Plan

Dic

2012

Feb

a cura di Mauro Meggiolaro e Francesco Zoppeddu

www.afscme.org

Sede Washington, DC - Stati Uniti Tipo di società Fondo Pensione del sindacato degli impiegati pubblici statunitensi. Il sindacato ha oltre 1,6 milioni di membri tra soggetti attivi e pensionati. Asset gestiti Circa 850 milioni di dollari. L’azione su Altria Group Afscme Employees Pension Plan, insieme ad altri investitori istituzionali presenterà una mozione all’assemblea degli azionisti di Altria Group. La mozione solleciterà l’impresa a riferire in merito alle spese sostenute per le attività di pressione, ivi compreso il finanziamento indiretto di attività di lobbying esercitate tramite associazioni di categoria. Altre iniziative Afscme Employees Pension Plan insieme a Walden Asset Management sono a capo del network di investitori istituzionali che presenteranno la stessa mozione alle assemblee degli azionisti di altre 39 compagnie, tra cui Bank of America, Chevron, Coca-Cola, Goldman Sachs e Kraft Foods.

Altria Group

www.altria.com

Sede Henrico County, Virginia - Stati Uniti Borsa Nyse - New York Stock Exchange Rendimento negli ultimi 12 mesi +19,27% Attività Altria Group Inc. (precedentemente Philip Morris Companies Inc.), è una delle più grandi corporations del mondo operanti nel settore del tabacco. Azionisti Azionariato diffuso. Azionisti principali: Capital Research Global Investors (6,56%); State Street Corp (4,16%); Vanguard Group, Inc. (3,98%); American Funds Capital Inc. (3,30%). Perché interessa agli azionisti responsabili? L’industria del tabacco da sempre ha esercitato la sua influenza al fine di indirizzare le scelte politiche e l’opinione pubblica. Diverse iniziative ne hanno messo a nudo le capillari attività di lobbying volte ad aumentare le vendite e migliorare l’immagine del settore. Numeri 2009-2010 2009 2010 2009 2010 Ricavi [Miliardi di dollari] 23,5 24,3 Utile [Miliardi di dollari] 3,2 3,9 Numero dipendenti circa 10.000 (2009) in tutto il gruppo

I valori, quando si fondano sulla fiducia e sulla credibilità di chi li possiede e li coltiva, si possono riassumere in una parola, in un segno, in un colore. Dire è comunicazione d’intenti e di progettualità, trasmissione di idee, di conoscenza, d’esperienza. Fare è la sintesi dell’attività, energia verso nuove imprese, capacità di ascolto e di offrire risposte. Ai nostri clienti e a quelli che lo diventeranno è dedicato il nostro lavoro quotidiano: un lavoro dove il dire e il fare sono tutt’uno e sintesi di una filosofia dell’operare.



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